(Sergio Briguglio 23/1/1999)

 

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE STRATEGIE

DI POLITICA DELL'IMMIGRAZIONE

 

Gli sbarchi di profughi e immigrati sulle coste pugliesi e siciliane e, soprattutto, la risonanza data al fenomeno dai mezzi di informazione hanno indotto una parte rilevante dell'opinione pubblica ad assegnare all'intera categoria degli immigrati clandestini la responsabilita' di problemi quali l'aumento della microcriminalita' e la mancanza di sicurezza nelle citta', e a richiedere un'accentuazione delle misure repressive, gia' significativamente inasprite dalla recente riforma legislativa sull'immigrazione. Questa reazione desta inquietudine nella coscienza di quella parte della societa' che da molti anni vede la prospettiva di una societa' multiculturale non come una minaccia, ma come la naturale evoluzione dei processi internazionali di progressiva unificazione politica ed economica intrapresi dopo la seconda guerra mondiale. L'atteggiamento piu' diffuso, nei movimenti e nelle associazioni che si occupano della tutela degli immigrati e, in generale, degli stranieri, e' quello di tenere desta l'attenzione, propria e della societa', sul rispetto dei diritti fondamentali della persona. Si cerca, percio', di denunciare ogni restrizione degli spazi di tutela giurisdizionale e ogni possibile violazione di diritti costituzionalmente garantiti, primo fra tutti il diritto di asilo. Un approccio del genere ha il vantaggio di non entrare in conflitto, formalmente, con gli orientamenti dominanti nell'ambito delle istituzioni europee, giacche' il rispetto dei diritti fondamentali della persona e' uno dei cardini dell'ordinamento dell'Unione, mentre, assodato che tra tali diritti non e' mai stato riconosciuto il diritto di immigrazione, nulla impedisce che si persegua una politica comunitaria di flusso zero dai paesi in via di sviluppo. Vi e' da dire che, stante la parziale sovrapposizione spesso esistente tra la figura dell'immigrato e quella del rifugiato, una strenua difesa dei diritti di quest'ultimo si risolve molte volte in un allargamento effettivo delle maglie a vantaggio del primo. Un ulteriore contributo all'allargamento delle maglie si ottiene poi col sostegno e lo stimolo dato all'adozione e, successivamente, all'allargamento di provvedimenti di sanatoria - quale quello attualmente in corso - che consentano ad immigrati clandestini di pervenire alla legalita' grazie alla loro condizione di radicamento sociale de facto.

Ciascuno di questi interventi, certamente di alto valore dal punto di vista dello straniero che ne beneficia, difficilmente puo' portare ad un'inversione delle tendenze europee in materia di immigrazione, giacche', in buona sostanza, le assume come postulati, limitandosi a temperarle alla luce della prevalente esigenza della tutela dei diritti fondamentali o a chiederne una temporanea e indulgente sospensione in nome, ancora, di un diritto conquistato sul campo. Detto in altri termini: si accetta l'affermazione secondo la quale l'immigrato non e' utile alla societa' (vuoi per l'esistenza di vasti bacini di disoccupazione nazionale, vuoi per i costi connessi con l'accoglimento di soggetti in condizione precaria); si accetta quindi la logica di una sostanziale chiusura delle frontiere. La si contrasta, nei fatti o nei princìpi, quando questa appare lesiva di diritti fondamentali. In tal modo si cerca di legittimare, sia pure sotto altro nome, una porzione, comunque ridotta, del flusso migratorio.

Ho l'impressione che questo approccio sia irrimediabilmente perdente. Nello stesso modo in cui sarebbe perdente il tentativo di fondare un patto sociale su una sostanziale diffidenza tra le parti e su un asfissiante controllo reciproco. Mi sembra, cioe', che tentare di tutelare la posizione degli stranieri nella nostra societa' vigilando sul rispetto formale dei diritti fondamentali equivalga a tentare di salvare dalla caduta una pila di scatolette che stia per rovinare al suolo, in un supermercato, parandone, qua e la', qualcuna. Credo, allo stesso tempo, che debba essere avviata una riflessione nuova sui benefici che l'immigrazione porta con se', a costo di far piazza pulita di alcuni luoghi comuni che, finora, nell'approccio fin qui descritto, si sono rivelati indispensabili, ma che ora costituirebbero un impedimento alla rivoluzione copernicana richiesta dai fatti. La difesa dei diritti fondamentali manterrebbe intatto il suo valore, ma dovrebbe, in questa prospettiva, essere richiesta e attivata in un novero di casi a carattere residuale, piuttosto che costituire lo strumento normale di gestione del problema.

Quanto propongo in questa sede non costituisce niente di particolarmente originale, essendo mutuato dalla trattazione dei principali limiti di un qualsiasi atteggiamento protezionistico in economia. Tuttavia quello che, laddove si tratti di importazione di auto giapponesi, appare a tutti immediatamente digeribile, quando l'oggetto della riflessione sia la manodopera straniera, e, quindi, le persone disposte ad offrirla, puo' scardinare elementi comunemente considerati fuori discussione, ed apparire, ad alcuni, destabilizzante. A conferma di questo, mi propongo di mostrare come i tre princìpi di maggior rilievo per la questione immigrazione che possono essere desunti dal Trattato di Amsterdam (il trattato di riforma dell'Unione europea) siano in mutua contraddizione: volta per volta solo due dei tre possono essere fatti salvi; uno deve essere sacrificato. I tre princìpi di cui parlo possono essere cosi' schematizzati: l'Unione europea deve 1) favorire lo sviluppo economico; 2) combattere ogni forma di discriminazione; 3) tutelare i livelli di protezione sociale dei cittadini.

Consideriamo il mercato del lavoro europeo, immaginando di avere frontiere completamente chiuse, e rappresentiamolo in un grafico (vedi figura) in termini di due variabili: il salario (S) e la quantita' di lavoro (Q). In presenza di una certa domanda di lavoro (la curva d) e di una certa offerta da parte dei lavoratori nazionali (la curva o), si ottiene un equilibrio corrispondente a un salario S0 e una quantita' di lavoro Q0. Stiamo trascurando qui, per semplicita', la possibilita' che il mercato non sia un mercato libero, giacche' questa non apporterebbe sostanziali modifiche alle conclusioni che raggiungeremo. Con l'equilibrio raggiunto, la soddisfazione dei datori di lavoro e quella dei lavoratori nazionali sono proporzionali alle aree racchiuse dai triangoli ABC e BCO rispettivamente, dal momento che tali aree misurano il divario tra quanto lavoratori e datori di lavoro ricevono o spendono e quanto sarebbero disposti a ricevere o spendere, rispettivamente, per il lavoro venduto o acquistato. Nessuna soddisfazione va invece, ovviamente, ai lavoratori stranieri, che dal sistema sono esclusi.

 

Supponiamo ora che che si aprano le frontiere e faccia ingresso nel sistema una certa quantita' di lavoratori stranieri. L'effetto e' ovviamente quello di un aumento, per ciascun valore del salario, dell'offerta di lavoro, con uno spostamento della curva corrispondente verso destra (curva o'). In queste condizioni il salario di equilibrio si abbassa (S1) e la quantita' di lavoro effettuata aumenta (Q1). Rispetto al caso precedente, la soddisfazione delle parti in gioco cambia significativamente. Si vede dalla figura come la soddisfazione dei lavoratori nazionali diminuisca della quantita' rappresentata dall'area del trapezio BCED. Quella dei lavoratori stranieri aumenta in misura data dall'area del triangolo EOF. Quella dei datori di lavoro, infine, aumenta della quantita' corrispondente al trapezio BCFD. Una simile situazione e' evidentemente vantaggiosa dal punto di vista dello sviluppo economico (la quantita' di lavoro effettuato e, quindi, la produzione aumentano). Non presenta forme di discriminazione tra lavoratori stranieri e lavoratori nazionali (tutti sono trattati nello stesso modo). Il primo e il secondo dei princìpi "del Trattato di Amsterdam" sono cosi' salvi. E' pero' evidente come i livelli di protezione sociale dei lavoratori nazionali e delle loro famiglie siano messi in serio pericolo, in corrispondenza alla rilevante perdita di soddisfazione della categoria. Il tentativo di salvarli puo' muoversi per due distinte strade.

La prima e' quella attualmente sposata dalle istituzioni europee e, per quanto si e' detto prima, tollerata dalla grande maggioranza dei partiti politici e degli organismi che si muovono in difesa degli immigrati. Si tratta del ripristino della condizione di frontiere chiuse, analizzata in precedenza. Questo puo' essere ottenuto in modo diretto o con l'adozione di equivalenti misure protezionistiche: non vi e' molta differenza, come tutti ormai hanno capito, tra il dire "non entra nessun immigrato" e il dire "entrano quegli immigrati che siano stati chiamati nominativamente, risiedendo ancora all'estero, da un datore di lavoro europeo che non hanno mai incontrato in precedenza". L'impossibilita' di salvare, per questa strada, tutti e tre i princìpi e' pero' evidente: al recupero dei livelli di protezione corrisponde infatti la perdita di una buona fetta dello sviluppo economico possibile. Per di piu', e' evidente, anche se molto spesso trascurato, come la condizione di non discriminazione sia rispettata in modo assolutamente farisaico: non discrimino tra lavoratore nazionale e lavoratore straniero sul territorio nazionale semplicemente perche' - al limite - non ho alcuno straniero su tale territorio; questo pero' non significa - ovviamente - che il lavoratore straniero viva, nel proprio paese, nelle stesse condizioni in cui vive, qui, il lavoratore nazionale.

La soluzione alternativa muove dalla considerazione che, nel passaggio da frontiere chiuse a frontiere aperte, quanto perso dai lavoratori nazionali e' pienamente intercettato dai datori di lavoro, senza pero' esaurire l'ammontare del guadagno di questi ultimi: l'aumento di soddisfazione dei datori di lavoro puo' essere considerato infatti come la somma del'area del trapezio BCED (pari alla perdita dei lavoratori nazionali) e di quella del triangolo ECF. E' possibile allora, pur lasciando che le frontiere restino aperte, ricompensare i lavoratori nazionali, con opportuni trasferimenti (sotto forma di sussidi, servizi, etc.) a carico dei datori di lavoro, dell'intera soddisfazione persa con l'ingresso dei lavoratori stranieri. Questa scelta, che richiede misure di politica fiscale piuttosto che di classica politica di immigrazione, permette di dare positiva risposta all'esigenza di sviluppo economico e a quella di tutela dei livelli di protezione dei cittadini nazionali. A risultare violato e' pero', questa volta, il principio di non discriminazione: sono solo i lavoratori nazionali - e non quelli stranieri - a beneficiare dei sussidi e dei servizi.

A fronte del fastidio che puo' generare questa constatazione in chi si e' battuto per anni contro ogni forma di discriminazione, deve essere tenuto presente come, rispetto alla scelta precedente (frontiere chiuse), due categorie - i lavoratori stranieri e i datori di lavoro - ottengano un guadagno netto, l'altra - i lavoratori nazionali - non perda nulla. Una difesa del principio di non discriminazione che si traduca di fatto nella chiusura delle frontiere e che lasci fuori dalla porta coloro che pretende di non discriminare sul territorio nazionale difficilmente puo' difendersi dall'accusa di paternalismo. E si tratta di un paternalismo invadente e pericoloso, che pretende di sostituirsi ai lavoratori stranieri nel decidere che cosa sia bene e che cosa male per loro, negando agli stessi lavoratori ogni capacita' contrattuale.

Non e' da trascurare poi come, evidentemente, una soluzione fondata sulla liberta' di attraversamento delle frontiere spazzi via definitivamente il problema delle espulsioni e dei respingimenti e il carico di sofferenza ad esso associato. E' pero' certamente vero che il modello qui presentato e' sovrasemplificato e necessita, in ogni caso, di correzioni. In primo luogo, si e' assunto che il lavoratore straniero possa liberamente entrare e uscire, in base alla propria convenienza, dal sistema, dando cosi' luogo ad una autoregolazione dei flussi. Questo, pero', potrebbe non risultare vero con riferimento alla fase di uscita. Lo straniero che non trovi adeguata e conveniente collocazione nel mercato del lavoro potrebbe infatti trovarsi in condizioni di eccessiva debolezza economica per far ritorno nel proprio paese. Un intervento pubblico a sostegno del rimpatrio o - preferibilmente - un preventivo controllo, in fase di ingresso, sulla effettiva disponibilita' di mezzi necessari allo scopo potrebbero quindi costituire un opportuno correttivo a un quadro di completa liberalizzazione.

Una seconda e piu' rilevante correzione, concerne il rischio che accanto agli aspetti salariali diventino oggetto di libera contrattazione anche i livelli di sicurezza fisica e di tutela della salute del lavoratore. E' necessario chiarire che questi aspetti afferiscono alla sfera dei beni indisponibili alla contrattazione tra le parti. Il salario puo' cioe' compensare il lavoratore della fatica compiuta - indicando con questo termine l'effetto negativo ma reversibile del lavoro -, e in questo senso non puo' che essere lasciata al lavoratore stesso la valutazione di quale sia un livello retributivo conveniente. Gli effetti irreversibili invece - quelli che mettono a repentaglio, cioe', la salute o la vita del lavoratore, lo sviluppo equilibrato dei minori, etc. - non possono essere oggetto di commercio da parte di alcuno..

Una terza correzione ha a che fare con la necessita' di temperare il quadro presentato in questa nota allo scopo di evitare che esso corrisponda alla formazione, nella societa', di una casta subalterna - quella dei lavoratori stranieri e dei loro familiari. E' quindi richiesto un meccanismo che tenda, per il singolo individuo, ad annullare il livello di discriminazione con il passare del tempo. Si tratta cioe' di limitare alla fase di inserimento nel mercato del lavoro l'applicazione del modello presentato, prevedendo, per il percorso successivo, una progressione di diritti che riporti il cittadino straniero al livello di tutela del cittadino nazionale. Questo, naturalmente, ha un costo che, ove non sia pienamente compensato dal beneficio economico che la presenza dell'immigrato reca al sistema, puo' - in linea di principio - motivare un parziale ridimensionamento della completa apertura delle frontiere.

Due considerazioni, infine, possono contribuire a mostrare come un modello liberista dei flussi migratori, corretto da trasferimenti compensativi interni alla popolazione nazionale, sia meno eretico di quanto possa sembrare a prima vista. La prima riguarda la somiglianza di tale modello con quello, che oggi molto piu' facilmente si riconosce come accettabile, relativo ad un ingresso meno protetto dei giovani nel mondo del lavoro. I giovani giocano infatti, rispetto ai lavoratori gia' collocati nel mercato, un ruolo analogo a quello giocato dagli immigrati.

La seconda considerazione concerne quello che di solito viene visto come un accettabile bilanciamento di una politica di frontiere chiuse: la politica di investimenti a sostegno dello sviluppo nei paesi d'origine dei flussi migratori. E' da osservare come l'investimento e, quindi, il trasferimento di attivita' produttive nei paesi in via di sviluppo possa facilmente essere visto come un ingresso di lavoratori stranieri nel mercato del lavoro; la principale differenza rispetto alla condizione di frontiere aperte risiedendo nel fatto che in un caso l'ingresso si ha per un movimento della produzione, nell'altro per un movimento dei lavoratori. Per il resto gli effetti sono sovrapponibili: aumento dei livelli di produzione; vantaggio per i datori di lavoro e per i lavoratori stranieri; svantaggio per i lavoratori nazionali, che, in qualche modo, devono essere compensati con una politica fiscale che sottragga parte dei maggiori proventi dei datori di lavoro e li restituisca agli stessi lavoratori nazionali. Rispetto alla politica di frontiere chiuse e investimenti, quella di libera immigrazione ha pero' il pregio di non limitarsi ad una pura dichiarazione di intenti (i processi produttivi hanno bisogno di qualcuno che li esporti, i lavoratori si muovono da soli) e di disfarsi di ogni aspetto, costoso e penoso, di politica repressiva; inoltre, essa consente - molto piu' dell'altra - di controllare effettivamente se i "beni indisponibili" (vita e salute del lavoratore, equilibrato sviluppo del minore, etc.) siano effettivamente tutelati nel mercato del lavoro. Paradossalmente, pero', la politica di frontiere chiuse sembra non scandalizzare nessuno - con la notevole eccezione del Papa-, tanto da costituire, di fatto, la strategia comunemente accettata, oggi, in tutta Europa; quella di frontiere aperte fa invece strappare le vesti alla stragrande maggioranza degli uomini politici.