IL FATTORE UMANO
Governance globale e migrazioni*
Ferruccio Pastore (CeSPI)
- Maggio 2001 -
1.
Globalizzazione
e migrazioni: cosa sta cambiando?
Il nesso comunemente percepito tra globalizzazione e migrazioni, per
quanto senza dubbio esistente, deve essere relativizzato e storicizzato.
Preliminarmente, tuttavia, va ribadito che la globalizzazione - di cui, nella
maggior parte dei casi, le migrazioni sono, al contempo, sintomo e conseguenza
- non è, come vorrebbero alcuni, un evento o un fenomeno inedito, che caratterizzerebbe la
contemporaneità a partire dall’ultimo decennio del XX° secolo;
si tratta, più propriamente, di una tendenza che si esprime, con andamento altalenante, lungo gli
ultimi secoli della storia umana[1].
Il sociologo statunitense Douglas Massey, per esempio, individua, nell'arco
degli ultimi due secoli, due successive "ondate" di globalizzazione
(dal 1870 allo scoppio della I Guerra Mondiale; dalla fine della Guerra Fredda
ad oggi) che si manifestano anche attraverso un'intensificazione dei movimenti
internazionali di popolazione. Dal punto di vista strettamente migratorio, la
"vecchia" e la "nuova" globalizzazione hanno numerosi punti
in comune:
"… i flussi internazionali di beni,
capitali e informazioni sono accompagnati da movimenti migratori crescenti e [in
entrambe le fasi] l'emigrazione ha le sue radici nelle trasformazioni
strutturali che conseguono all'incorporazione del paese di origine
nell'economia di mercato globale. Con il passare del tempo, si forma un
complesso sistema di reti relazionali e di istituzioni informali, che sostiene
i flussi migratori e facilita la mobilità internazionale"[2].
Ma, come sottolinea ancora Massey, tra le due macro-fasi esiste una
differenza decisiva:
"La differenza principale tra la fase
attuale di globalizzazione e quella precedente è che oggi gli Stati
economicamente più forti sono fortemente impegnati al fine di
controllare e limitare i movimenti internazionali di popolazione. Prima del
1914, invece, non esistevano praticamente controlli. Sebbene gli Stati Uniti,
il Canada, l'Unione europea e il Giappone si adoperino attivamente al fine di
assicurare una maggiore apertura dei mercati globali di beni, capitali, materie
prime, terreni, servizi e informazioni, sono riluttanti ad accettare un libero flusso
di lavoratori attraverso i confini nazionali"[3].
Se, dunque, un legame tra processi di globalizzazione e migrazioni
sembra esistere, non si tratta però di una correlazione stabile e
univoca, come troppo spesso si tende a pensare. Basti pensare alle migrazioni
abitualmente definite "forzate" (e, specialmente, a quelle provocate
da conflitti o da violazioni gravi e diffuse dei diritti umani fondamentali),
le quali tendono spesso a verificarsi proprio in fasi che potremmo definire di
"de-globalizzazione", ossia di chiusura nazionalistica (oppure
operata su base etnica, religiosa, o di altra natura) e riduzione delle
interazioni pacifiche tra società ed economie nazionali.
La questione da cui è utile partire, allora, non è se
esista un nesso tra globalizzazione e migrazioni, ma piuttosto come cambino i
processi migratori internazionali nella fase attuale di globalizzazione. Da questo punto di vista,
va innanzitutto rilevato che, nel corso degli ultimi decenni, gli stock di popolazione immigrata (o emigrata, se ci
poniamo nella prospettiva delle società di provenienza) sono aumentati
notevolmente in termini assoluti, ma molto poco in termini relativi (in quanto
% della popolazione mondiale):
Stock di popolazione immigrata nel mondo (1965-1990)[4]
|
Numeri assoluti (migliaia) |
% popolazione totale |
||||||
1965 |
1975 |
1985 |
1990 |
1965 |
1975 |
1985 |
1990 |
|
Mondo
|
75.214 |
84.494 |
105.194 |
119.761[5] |
2,3 |
2,1 |
2,2 |
2,3 |
Paesi industrializzati |
30.401 |
38.317 |
47.991 |
54.231 |
3,1 |
3,5 |
4,1 |
4,5 |
PVS |
44.813 |
46.177 |
57.203 |
65.530 |
1,9 |
1,6 |
1,6 |
1,6 |
La relativa stazionarietà della quota di immigrati sulla popolazione mondiale porta alcuni autori ad escludere del tutto che, in termini quantitativi, si possa parlare di globalizzazione delle migrazioni:
"L'approccio descrittivo […],
basato sulle statistiche disponibili, ha dimostrato che le affermazioni sulla
globalizzazione delle migrazioni internazionali sono infondate. Negli ultimi
tre decenni, le migrazioni non sono cresciute in misura paragonabile al
commercio di beni e servizi, e ai flussi di capitali"[6].
Ma da un punto di vista diverso, di tipo insieme strutturale e
qualitativo, l'influenza del processo di globalizzazione sui fenomeni migratori
appare difficilmente contestabile.
Sul piano che abbiamo definito strutturale, si osserva una crescente
complessità della geografia globale delle migrazioni: secondo
l'Organizzazione internazionale per il lavoro (OIL), tra il 1970 e il 1990, gli
Stati che si possono qualificare come “importanti paesi di
immigrazione” (major receivers) sono passati da 39 a 67, mentre quelli qualificabili
come “importanti paesi di emigrazione” (major senders) sono aumentati da 29 a 55; inoltre, è
particolarmente interessante sottolineare la forte crescita del peso relativo
di una terza categoria di paesi, quelli che sono nel contempo importanti paesi
di emigrazione e di immigrazione, i quali nel corso dei due decenni considerati
sono aumentati da 4 a 15[7].
Anche da un punto di vista sociologico qualitativo si riscontrano
novità di rilievo, in parte riconducibili all’intensificazione e alla
complessiva facilitazione degli scambi di ogni natura tra entità
nazionali, che caratterizza le fasi di intensa globalizzazione. Salvo alcune
categorie particolari (come, generalmente, i rifugiati) la migrazione non
è più un evento che si compie una volta per tutte con l'addio al
paese natìo, segnando una svolta radicale e definitiva nella biografia
del migrante[8]. Sempre
più spesso, la migrazione si presenta oggettivamente (ed è
percepita soggettivamente dal migrante) come un processo aperto e reversibile:
"La natura delle migrazioni internazionali è cambiata. I migranti odierni possono spostarsi avanti e indietro molto più facilmente e rapidamente, rimanendo in contatto regolare con i luoghi e le famiglie d'origine, anche se queste si trovano all'altro capo del mondo. Di conseguenza, i flussi sono molto più diversificati e complessi"[9].
In questo quadro in evoluzione, la dimensione transnazionale (cioè quella relativa allo spazio
geografico, culturale, economico posto a cavallo tra il paese d'origine e
quello di destinazione) acquista una rilevanza crescente, anche ai fini
dell'elaborazione delle politiche migratorie[10].
2.
La lotta alle
migrazioni irregolari: interesse occidentale o priorità globale?
A partire dagli anni Ottanta - in gran parte del mondo sviluppato, ma
specialmente in Europa – le migrazioni irregolari e clandestine si sono
venute configurando, nella cultura politica dominante, come una
"minaccia" all'ordine pubblico e alla sicurezza dei cittadini[11].
La lotta a tale fenomeno si è quindi progressivamente imposta come una
priorità politica centrale, dapprima a livello interno, poi - man mano
che si diffondeva la consapevolezza dell'insufficienza di un'azione di
prevenzione e di contrasto limitata all'ambito nazionale - a livello internazionale.
In Europa occidentale, l'obiettivo di combattere una sensibile crescita
dell'immigrazione clandestina[12]
ha avuto un ruolo trainante rispetto alla cooperazione europea sul terreno
denominato "Giustizia e affari interni" (GAI). Questo settore
è stato, nel corso degli anni Novanta, uno di quelli in cui il processo
di integrazione ha compiuto i passi avanti più significativi (dapprima
con la firma degli accordi di Schengen [1985 e 1990], poi con la istituzione
del "terzo pilastro" UE [1992], infine con la "comunitarizzazione"
delle politiche in materia di immigrazione e asilo, decisa ad Amsterdam nel
1997). Oggi, grazie all’impulso politico fornito dal Consiglio europeo
straordinario di Tampere (ottobre 1999) e all’attivismo della Commissione
europea in questo campo, il settore GAI appare come “l'ambito di
elaborazione politica che si sta sviluppando più rapidamente all'interno
dell'Unione europea”[13].
Questi sviluppi hanno innescato una profonda evoluzione nel settore
delle politiche di controllo migratorio, non solo in Europa, ma in tutto il
mondo sviluppato. In tutti i principali bacini di immigrazione, i sistemi di
controllo migratorio hanno subito trasformazioni strutturali, che si possono
ricondurre ad alcune linee di tendenza fondamentali[14]:
a) Espansione in termini di organico e crescita dei costi connessi
alle politiche di controllo delle frontiere. Nel caso europeo, è
estremamente difficile fornire stime aggregate, anche approssimative,
dell'onere che questo settore produce per le finanze pubbliche. Nel caso
statunitense, invece, la tendenza alla crescita è chiaramente
documentata; tra il 1993 e il 1999, il bilancio dell'Immigration and
Naturalization Service (INS)
è cresciuto da 1,5 a 4 miliardi di dollari.
b) Armonizzazione, a livello tecnico, dei sistemi di controllo
migratorio nazionali, con una rapida diffusione delle best practices e delle tecnologie più avanzate
utilizzate nella lotta all'immigrazione clandestina (radar;
"biosonde"; tecniche di individuazione del falso documentale; sistemi
informatici per la schedatura e il confronto delle impronte digitali; etc.).
c) Su scala regionale, l'armonizzazione delle tecniche si accompagna
spesso ad una armonizzazione degli indirizzi politici, delle norme e delle
prassi amministrative. Questa tendenza alla convergenza delle policies è particolarmente marcata in Europa
(non solo all'interno della UE, ma in un'area di influenza assai più
vasta, che comprende i PECO candidati all'adesione e gli altri paesi aderenti
al Patto di stabilità per l'Europa sud-orientale).
d) Alla intensificazione e alle trasformazioni qualitative dei
controlli alla frontiera, si accompagna una tendenza universale alla
"esternalizzazione" dei controlli sulle migrazioni irregolari,
mediante il coinvolgimento degli Stati di origine o di transito e di soggetti
privati (in particolare attraverso forme di responsabilità
pecuniaria delle compagnie aeree e marittime per il trasporto di undocumented
migrants).
e) Nel caso europeo, l'intensificazione e l'armonizzazione dei
controlli alle frontiere esterne dell'Unione si è accompagnata alla
graduale soppressione dei controlli alle frontiere interne (dapprima
all'interno dello "spazio Schengen", ora in ambito UE). Questo ha
comportato una profonda trasformazione delle tecniche di controllo
all'interno dello spazio comune. Abbiamo assistito all'abbandono
progressivo di un modello di controllo incentrato prevalentemente sul
territorio (controllo localizzato e statico) - e, in particolare, su specifiche linee
territoriali, quali sono le frontiere - a favore di un modello di controllo
incentrato sulle persone (controllo diffuso e dinamico) - e, in particolare, su categorie
particolari di persone (in primo luogo, gli stranieri appartenenti a paesi
extra-UE) suscettibili a priori di forme specifiche di segnalazione. In questo quadro, le banche-dati
internazionali di polizia (quali il Schengen Information System-SIS o la banca-dati Europol) si sono
moltiplicate e ampliate, ponendo problemi ancora insufficientemente studiati
sul terreno dei rapporti tra poteri pubblici e libertà individuali.
“Stati con dotazioni di personale e di tecnologie molto inferiori [rispetto all’Europa] – quali la Libia, il Ghana, il Kuwait, la Nigeria o la Tailandia – sono riusciti in diverse occasioni ad allontanare dal proprio paese centinaia di migliaia di stranieri nel giro di poche ore o ad interrompere radicalmente in pochi giorni sistemi migratori consolidati da decenni. L’applicazione dei metodi utilizzati da tali stati non è in Europa (per fortuna) né possibile né auspicata da nessuno”[16].
I sistemi di controllo migratorio europei, insomma, “non sono
né un colabrodo inefficace e permissivo né una fortezza
imprendibile e spietata: sono molto semplicemente sistemi di regolazione
complessi, che operano sotto una molteplicità di vincoli condizionali e
normativi”[17].
Per ovviare ai limiti sempre più evidenti di un approccio
unilaterale ed esclusivamente repressivo al fenomeno delle migrazioni
irregolari, negli ultimi anni numerosi stati di immigrazione hanno ricercato,
con crescente insistenza, la collaborazione delle autorità dei paesi di
origine e di transito. Al fine di attenuare le prevedibili resistenze di questi
ultimi, gli sforzi politici e diplomatici degli Stati di destinazione sono
stati accompagnati da uno spostamento di enfasi dalle misure di contrasto a
quelle di natura preventiva. Nell'ambito dell'Unione europea, in particolare,
ha incominciato a delinearsi un modello di governo delle migrazioni diverso da
quello prevalso nei due decenni precedenti. Le linee-guida di questo modello
emergente, spesso indicato con la locuzione "approccio integrato" (comprehensive
approach)[18],
sono sintetizzate efficacemente nelle Conclusioni del già citato vertice
di Tampere dell'ottobre 1999:
“L’Unione europea ha bisogno di un
approccio generale al fenomeno della migrazione che abbracci le questioni
connesse alla politica, ai diritti e allo sviluppo dei paesi e delle Regioni di
origine e di transito. Ciò significa che occorre combattere la
povertà, migliorare le condizioni di vita e le opportunità di
lavoro, prevenire i conflitti e stablizzare gli Stati democratici, garantendo
il rispetto dei diritti umani, in particolare quelli delle minoranze, delle
donne e dei bambini. A tal fine, l’Unione e gli Stati Membri sono
invitati a contribuire, nelle rispettive sfere di competenza ai sensi dei
trattati, a una maggiore coerenza delle politiche interne ed esterne
dell’Unione stessa. Un altro elemento fondamentale per il successo di
queste politiche sarà il partenariato con i paesi terzi interessati,
nella prospettiva di promuovere lo sviluppo comune”[19].
Tradurre un simile, suggestivo approccio programmatico in strategie
concrete è una sfida di enorme portata che si scontra, innanzitutto, con
la reticenza di molti importanti paesi emissari, da cui le migrazioni (anche
clandestine) sono percepite come una risorsa economica irrinunciabile o come
una preziosa "valvola di sfogo" per situazioni di tensione politica e
sociale. In alcuni casi estremi, si ritiene che il mercato delle migrazioni
illegali rappresenti addirittura una fonte di arrichimento diretto o indiretto
per le élites
governative:
"I Balcani sono diventati, negli ultimi
anni, una piattaforma di smistamento (hub) per il traffico di clandestini. Questi trafficanti
dovrebbero naturalmente essere puniti, ma in alcuni casi, come è stato
per il governo di Milosevic, gli Stati sono i veri favoreggiatori. Ci
può essere interesse a promuovere le migrazioni per incrementare il giro
d'affari delle compagnie aeree nazionali o per incrementare gli introiti delle
ambasciate che rilasciano i visti. Funzionari corrotti o gli stessi governi
possono essere direttamente coinvolti nel traffico"[20].
Ma, anche al di fuori di tali degenerazioni patologiche, intorno alle
migrazioni irregolari si delinea un conflitto strutturale di interessi tra
gruppi di paesi o persino tra intere aree del mondo. Tale contrasto - emerso
con particolare evidenza sia sua scala regionale[21]
sia a livello globale, in ambito ONU (per esempio, in occasione della
Conferenza del Cairo sulla popolazione, nel 1994, o durante la Conferenza di
Palermo sul crimine organizzato internazionale, nel dicembre 2000) -
rappresenterà, con ogni probabilità, un tema-chiave delle
relazioni internazionali nel XXI° secolo.
3.
La
mobilità necessaria: i migranti come bene scarso del futuro?
In una prospettiva di breve periodo e in sistemi sociali (e politici)
iper-mediatizzati come i nostri, la dimensione problematica delle migrazioni
internazionali tende ad essere sovrastimata. In una prospettiva più
distaccata e di lungo periodo, tuttavia, la valenza positiva delle migrazioni
appare predominante, da diversi punti di vista.
Uno studio recente della Population Division delle Nazioni Unite[22]
e, ancor più, le reazioni che esso ha suscitato hanno dimostrato che gli
apporti migratori teoricamente necessari per rimediare agli squilibri
demografici a cui molti paesi sviluppati sembrano avviati sarebbero
ingentissimi e, di conseguenza, difficilmente sostenibili sul piano sociale e
politico. Le ricette con cui gli Stati coinvolti dovranno rispondere alla sfida
demografica saranno, quindi, necessariamente diverse e assai più
complesse[23]. Il controverso studio ONU ha avuto,
tuttavia, il merito di convincere diversi governi che, all'interno di tali
complesse strategie di "reazione all'invecchiamento", potrà
(secondo molti, dovrà) esserci posto anche per politiche di immigrazione
regolata. E’ questa la linea seguita dal governo italiano, in occasione
dell’adozione del “Documento programmatico relativo alla politica
dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato” per
il periodo 2001-2003, approvato dal Consiglio dei Ministri il 15 marzo 2001:
“L’Italia riceve un grande contributo dalla grande maggioranza degli stranieri presenti sul suo territorio e non sarebbe in grado di risolvere senza di essi una parte importante dei suoi problemi attuali. Le sfide che ci attendono richiederanno sempre di più il sostegno dei lavoratori stranieri. Già oggi la popolazione italiana si ridurrebbe senza il contributo degli immigrati […] Già oggi gli immigrati danno un contributo significativo al mantenimento del sistema di sicurezza sociale in Italia, versando più tasse e contributi di quanto non ricevano in termini di servizi pubblici. Naturalmente non tutti gli squilibri demografici possono essere scaricati sulle politiche migratorie, e tale non è l’obiettivo del governo, che comunque deve privilegiare le politiche di sostegno alle famiglie con bambini e le politiche tese ad incentivare una maggiore partecipazione degli italiani al mercato del lavoro” (p. 4).
Ma, prima e in maniera più pressante che sul piano demografico,
la valenza positiva delle migrazioni contemporanee appare evidente da un punto
di vista economico. Le vicende degli ultimi decenni dimostrano che il lavoro
migrante, con la sua estrema flessibilità - che, nel caso dei migranti
irregolari, risulta perversamente accentuata dalla precarietà
esistenziale e dalla mancanza di diritti - può risultare una risorsa
insostituibile per affrontare fasi di rapida crescita, come quelle attraversate
dagli Stati del Golfo negli anni Settanta e Ottanta, dalle "tigri"
asiatiche nei primi anni Novanta o dagli Stati Uniti nella seconda metà
del decennio appena concluso. In paesi con un mercato del lavoro più
statico e regolato, come il nostro, la manodopera straniera appare come un
"complemento strutturale" di cui sembra ormai impossibile fare a
meno.
Di fronte a simili evidenze, l'ortodossia liberista preme da tempo per
una maggiore libertà di circolazione del lavoro a livello globale:
"Non si possono aprire le
porte all'immigrazione da un giorno all'altro. Persino i paesi più
ricchi farebbero fatica a gestire gli afflussi improvvisi e massicci che ne
risulterebbero. Ma questi paesi dovrebbero annunciare quote più
generose, scaglionate su diversi anni. Ciò eviterebbe l'effetto
rincorsa, offrendo una speranza a chi vuole andarsene. Naturalmente, i governi
hanno anche la responsabilità di mettere a punto strumenti adeguati in
campo educativo e altre politiche di integrazione. Ma il punto fondamentale
è questo: non solo la libera circolazione di capitali, beni e profitti
è benefica per l'economia, ma anche quella dei lavoratori. Per il loro
stesso bene, i paesi ricchi dovrebbero essere molto meno rigidi nella politica
degli ingressi"[24].
Negli Stati Uniti - che peraltro non hanno mai cessato di importare
forza-lavoro straniera - queste idee stanno conquistando ulteriore terreno, in
particolare nel quadro di un acceso dibattito in corso al Congresso
sull’opportunità di lanciare un nuovo programma di reclutamento in
grande stile, sul modello dei bracero programs adottati al termine della Prima Guerra Mondiale e
nuovamente tra il 1942 e il 1964[25].
Ma anche nell'Europa di fine anni Novanta - dominata da governi di
centro-sinistra spesso tenuti in ostaggio da opinioni pubbliche impaurite - un
atteggiamento più aperto nei confronti dell'immigrazione economica si
sta facendo faticosamente strada. Il Consiglio di Tampere ha ufficialmente
sancito l'abbandono dell'opzione "immigrazione zero", che aveva
ispirato a lungo (almeno a livello di retorica) la politica francese, quella
britannica e, in forma meno netta, quella tedesca[26].
In questi stessi paesi, segnali concreti di cambiamento cominciano a
intravedersi nelle politiche attuate a livello nazionale: dal programma per
20.000 green card da
rilasciare a tecnici informatici extra-UE, lanciato dal governo Schröder
nell’aprile 2000[27],
al dibattito avviato in Gran Bretagna da un innovativo discorso pronunciato dal
sottosegretario con delega all'immigrazione l’11 settembre dello stesso
anno[28].
Nel revival delle
politiche migratorie attive a cui stiamo assistendo su scala globale, un ruolo
cruciale è svolto dalla migrazione qualificata (skilled migration), specialmente da quella che ha come
protagonisti i professionisti delle TLC (ingegneri, programmatori, tecnici). Da
anni, i grandi paesi di immigrazione che adottano sistemi di quote "a
punteggio" (USA, Canada, Australia) competono sul mercato globale dei cervelli
per attirare lavoratori qualificati e professionisti da paesi meno sviluppati[29].
Oggi, anche l'Europa - che si prefigge di "diventare l’economia
basata sulla conoscenza più competititiva e dinamica del mondo, in grado
di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di
lavoro e una maggiore coesione sociale"[30],
ma che prevede di soffrire, entro il 2003, di un gap di 1,7 milioni di lavoratori specializzati
nel campo delle telecomunicazioni[31]
- si trova impegnata nella stessa competizione.
Finora, a giudicare dai risultati deludenti della, pur circoscritta,
campagna di reclutamento selettivo promossa dalla Germania, la
competitività del Vecchio Continente su questo terreno è scarsa.
Anche per questo, la Commissione europea ha avviato, con una importante
comunicazione inviata al Consiglio e al Parlamento europeo nel novembre 2000[32],
una riflessione sull'armonizzazione delle politiche nazionali di ammissione in
ambito UE. E' evidente, infatti, che un'Europa che offrisse un quadro unico di
regole per l'ingresso, uno status di residente uniforme e vantaggioso (comprensivo di una piena
libertà di circolazione e di diritti politici a livello locale) e magari
anche regole certe e omogenee per l'accesso alla cittadinanza risulterebbe
più appetibile per il brillante ingegnere sudafricano o per
l'informatico indiano in cerca di fortuna.
Dopo anni di frontiere quasi chiuse (all'immigrazione economica,
s'intende), è comprensibile che la prospettiva della riapertura trovi
sostenitori entusiasti, sia negli ambiti economici sia in ampi settori della
società civile. Il ritorno massiccio a politiche di immigrazione attiva
comporta, tuttavia, dei rischi, di cui l'esperienza passata ci può
aiutare ad acquisire piena consapevolezza.
In primo luogo, gli Stati di destinazione, quelli europei in
particolare, si dovrebbero rendere conto che il reclutamento di manodopera
straniera su base non stagionale comporta delle responsabilità di lunga
durata. La storia migratoria europea, quella tedesca e svizzera in special modo,
ha dimostrato che il Gastarbeitermodell è illusorio e dannoso, perché induce a
ritardare gli sforzi per l'integrazione, rendendoli di conseguenza assai
più ardui e incerti. E' vero che la transnazionalità crescente
delle migrazioni contemporanee (vd. par. 1) potrebbe generare nuove
opportunità, almeno per alcune fasce di migranti; ma, per la maggioranza
di loro, la prospettiva di una solida integrazione nel paese di destinazione
rimane privilegiata. Per evitare ricadute di massa nell'irregolarità,
conviene dunque ai paesi di immigrazione offrire tale possibilità ai
migranti economici regolarmente ammessi, evitando di subordinarla rigidamente a
requisiti di natura strettamente economica.
Ma, una certa cautela nell'affrontare la fase di maggiore apertura alle
migrazioni che sembra aprirsi ci è imposta anche dalla considerazione
del possibile impatto nei paesi d'origine. Ci riferiamo, in particolare, ai
rischi di brain drain,
ossia di un grave impoverimento sotto il profilo delle risorse umane[33],
che potrebbe pregiudicare seriamente le prospettive di sviluppo di tali paesi.
Voci anche qualificate tendono a declinare qualsiasi responsabilità di
ordine politico e morale dell’Occidente per tali effetti collaterali
delle politiche migratorie:
“[…] bisogna scegliere. Se si è a favore dell’immigrazione, sia pur regolata e normata, allora la si deve accettare in tutte le sue conseguenze, non permettendo che le regole del mercato siano bloccate da veti legali e, tantomeno, morali. Se si guarda con favore all’immigrazione, cogliendone l’aspetto economicamente e socialmente promozionale, non la si può poi demonizzare come causa di povertà e di ulteriore impoverimento per i Paesi da cui gli immigrati fuggono”[34].
Simili ragionamenti appaiono eccessivamente angusti. Governare le
migrazioni significa proprio non prenderle come un dato di fatto, bensì
come un fenomeno complesso, di cui è possibile massimizzare
l’impatto positivo e ridurre quello negativo, tanto nei paesi di origine,
quanto in quelli di destinazione. E’ più produttivo, allora,
partire dall'affermazione secondo cui “non è […] dimostrata
l’esistenza di una correlazione assoluta quanto negativa tra immigrazione
[o, più correttamente, emigrazione, e specialmente emigrazione
qualificata] e decadenza
economica delle terre di partenza”[35].
Effettivamente, alcuni grandi PVS, stanno dimostrando nei fatti che
l’esportazione pianificata dei “cervelli” può essere,
nel medio-lungo periodo, un ottimo affare. L’esempio più citato
viene dallo Stato indiano del Karnataka (la cui capitale è Bangalore),
il cui efficiente sistema educativo rappresenta ormai da anni un bacino di
alimentazione importante per le imprese della new economy statunitense e di altri paesi sviluppati. In
questo caso, l’investimento pubblico si è rivelato redditizio,
perché gli investimenti dei tecnici emigrati, che spesso diventano
imprenditori a loro volta, hanno innescato lo sviluppo di un vitalissimo
distretto informatico nella regione di origine[36].
Non è un caso se Rajiv Gandhi, alcuni anni fa, paragonò gli indiani
all’estero a una banca “da cui ogni tanto si può fare un
prelievo”[37].
Ma non tutti i paesi poveri hanno le dimensioni e la cultura di governo
che rendono possibile una politica di brain export come quella indiana. In vaste aree del mondo,
nell'Africa sub-sahariana come nelle Repubbliche ex-sovietiche, la "fuga
dei cervelli" è una realtà preoccupante, per cui l'Occidente
ha l'interesse e la responsabilità di aiutare a trovare soluzioni. Le
peculiarità delle migrazioni contemporanee generano, da questo punto di
vista, nuove opportunità:
“Con gli attuali flussi migratori sempre più compositi, in cui si combinano motivi economici e di altro tipo, e con popolazioni la cui oscillazione tra due culture è parte di strategie di sopravvivenza, è possibile definire politiche in cui la migrazione vada a vantaggio sia del paese di origine che del paese ospitante. In tal modo si possono minimizzare gli effetti della fuga dei cervelli e massimizzare i benefici delle rimesse”[38].
Ma, come sottolinea ancora la Commissione europea, perché queste
opportunità possano essere colte, le politiche migratorie devono essere
ripensate a fondo:
“con il metodo del partenariato si dovrebbe ottenere un quadro per trattare con flessibilità i nuovi flussi migratori che si stanno sviluppando a livello mondiale, utilizzando un concetto di migrazione come schema di mobilità, che incoraggia gli immigrati a mantenere e sviluppare i rapporti con i paesi d’origine. In tale quadro occorre garantire che l’ordinamento giuridico non stacchi gli immigrati dal loro paese d’origine; ad esempio che sia loro garantita la possibilità di rientrare per una visita senza perdere lo status acquisito nel paese ospitante, nonché di ritornare al paese di origine o di spostarsi altrove con il mutare della situazione”[39].
4.
Migrazioni
forzate e asilo: ipocrisie e innovazioni
La crescita complessiva della mobilità umana a livello mondiale
riguarda anche quella particolare forma di mobilità che sono le
migrazioni forzate. La fine del bipolarismo e la dissoluzione del blocco
socialista - che era anche una formidabile struttura di contenimento delle
spinte migratorie - hanno dato origine a un'onda lunga di instabilità,
che ha avuto enormi ripercussioni sul piano migratorio.
La crescita della mobilità forzata si è manifestata con
particolare intensità in Europa, innescando un profonda revisione degli
strumenti pensati durante la Guerra fredda per affrontare tali fenomeni. Pur
mantenendo la centralità formale della Convenzione della Convenzione di
Ginevra[40],
gli Stati europei hanno innescato un'evoluzione complessa, che ha cambiato in
profondità le caratteristiche del sistema di protezione internazionale,
con ripercussioni che vanno ben al di là dei confini dell'Unione
europea. I principali obiettivi perseguiti dagli Stati membri in questa fase
sono stati i seguenti:
a) Evitare abusi dei sistemi nazionali d'asilo. A questo fine,
la maggior parte dei paesi europei ha riformato le procedure di esame delle
domande di asilo, introducendo filtri di varia natura e procedure accelerate
finalizzate a rigettare rapidamente le domande ritenute manifestamente
infondate o fraudolente[41].
Sempre al fine di evitare abusi, in particolare sotto forma di asylum
shopping, ossia di
ripresentazione della stessa domanda in diversi paesi dell'Unione, è
stata firmata, il 15 giugno del 1990 a Dublino, una Convenzione che definisce i
criteri per attribuire a un unico Stato membro la responsabilità
dell'esame di ciascuna domanda d'asilo (in caso di ingresso clandestino nel
territorio dell'Unione, si tratta dello Stato di accesso).
b) Ridurre il novero degli aventi diritto alla protezione.
Diversi Stati europei hanno introdotto nei rispettivi ordinamenti giuridici il
concetto di "paese d'origine sicuro" (safe country of origin), al fine di permettere un esame accelerato
delle domande di asilo di soggetti provenienti da tali paesi. Nei rapporti tra
Stati membri, per effetto del "Protocollo sull'asilo per i cittadini degli
Stati membri dell'Unione europea" (allegato al trattato di Amsterdam,
firmato il 2 ottobre 1997), la nozione di "paese d'origine sicuro”
ha assunto efficacia vincolante: il riconoscimento di un cittadino europeo come
rifugiato è limitato a casi eccezionali e subordinato a procedure
particolari.
Lo scopo di ridurre il novero degli aventi diritto a protezione viene
perseguito, da alcuni Stati, anche mediante l'interpretazione sistematicamente
restrittiva della Convenzione di Ginevra. Particolarmente controverso è
l'orientamento di alcuni importanti paesi europei, che tende a negare lo status di rifugiato quando "l'agente della
persecuzione" non sia un organo statale ma, per esempio, un gruppo
terroristico o un movimento insurrezionale.
c) Decentrare la protezione. Nel corso degli anni Novanta, gli
Stati europei hanno fatto largo uso del concetto di "paese terzo
sicuro" (safe third country), al fine di declinare le responsabilità in merito all'esame di
domande d'asilo provenienti da individui in fuga transitati attraverso paesi
terzi in cui l'asilo avrebbe potuto essere richiesto e concesso.
d) Attenuare gli obblighi derivanti dalla concessione della
protezione. A fronte del moltiplicarsi dei casi di migrazione forzata che
esulano da un'interpretazione restrittiva della Convenzione di Ginevra (in
particolare, profughi di guerra e vittime di violazioni gravi e diffuse dei
diritti umani), gli Stati europei, invece di adottare un'interpretazione
più ampia, hanno preferito prevedere status differenziati. Nella maggior parte degli ordinamenti
giuridici nazionali, tale forma di protezione (generalmente denominata
"protezione temporanea") è concessa su base collettiva, per un
tempo determinato, e ad essa è collegato un "paniere" di
diritti meno ricco di quello spettante al rifugiato pleno iure.
Sebbene si siano manifestate con particolare intensità e
chiarezza all'interno dell'Unione europea (e, di riflesso, nella cerchia dei
paesi candidati, impegnati a conformarsi all'acquis Ue anche in questo settore[42]),
tali tendenze affiorano in tutto il mondo sviluppato, sotto forma di
disordinata reazione a una complessa evoluzione, spesso descritta facendo
ricorso al paradigma della crisi globale[43].
Ma, nel corso degli anni Novanta, l'esigenza degli Stati (occidentali,
in particolare) di assumere un controllo più stretto sulle migrazioni di
natura forzata ha innescato mutamenti profondi nel campo delle relazioni
internazionali, che vanno ben al di là della "ondata" di
riforma dei sistemi di protezione internazionale di cui abbiamo appena
tracciato le linee essenziali. Considerazioni di politica migratoria (in senso
lato) hanno favorito la svolta "interventista" nel campo del crisis
management, dall'operazione
"Provide Comfort" nel nord dell'Iraq (1991) all'intervento
statunitense a Panama (1994), dalla creazione dei safe havens in Bosnia all'Operazione "Alba" nel
1997, fino alla gestione dell'emergenza profughi conseguita ai bombardamenti
NATO sulla Jugoslavia nel 1999. La volontà di prevenire esodi forzati e,
in caso di fallimento rispetto a questo obiettivo primario, quella di
assicurare protezione a displaced persons e profughi in loco o, comunque, all'interno della regione di origine
sono ormai, incontestabilmente, tra le determinanti fondamentali delle scelte
strategiche operate dai principali attori occidentali in materia di gestione
delle crisi.
Il problema è che, rispetto a questo, pur legittimo, obiettivo
politico e strategico, gli strumenti di carattere istituzionale, normativo e
operativo appaiono ancora insufficienti e inadeguati. Mancano regole condivise
in materia di ripartizione internazionale degli oneri derivanti
dall'accoglienza di flussi di rifugiati, specialmente se massicci e improvvisi;
le organizzazioni internazionali competenti non dispongono di mezzi e di
risorse sufficienti per svolgere i compiti di prima accoglienza, assistenza al resettlement e al rimpatrio, in maniera capillare,
sistematica e su scala globale; le opinioni pubbliche occidentali sono tuttora
impreparate a sostenere, politicamente e finanziariamente, tali costose
attività. Il risultato perverso di tali carenze è che - come
dimostrano alcuni studi recenti - una quota crescente dei rifugiati nel mondo,
per raggiungere un paese in grado di assicurare una protezione effettiva,
è costretta a ricorrere ai servizi di trafficanti professionisti[44].
E' importante, tuttavia, sottolineare che qualcosa si sta muovendo. La
proposta della Commissione per la creazione di una protezione temporanea
europea, sebbene il meccanismo di burden sharing che essa prevede sia blando e di portata economica
modesta, è un'occasione concreta di progresso. La capacità delle
istituzioni europee di superare, nei prossimi mesi, le resistenze manifestate
da alcuni Stati membri sarà un test decisivo della praticabilità di un sistema di governance, perlomeno regionale, in questo ambito
delicatissimo e cruciale.
Altrettanto importante, sebbene ancora assai lontana da una conclusione
operativa, è la riflessione avviata dalla Commissione sulla
realizzabilità, a livello europeo, di un modello di protezione in due
tempi (protezione temporanea nella regione di provenienza, seguita da resettlement), quale strumento per rompere il circolo
vizioso che troppo spesso porta le migrazioni forzate ad alimentare il traffico
di clandestini[45].
5. Mediare tra interessi, diritti e paure: quale governance globale delle migrazioni?
La politica migratoria - nell'accezione più ampia
dell'espressione, che si riferisce non solo alla gestione di movimenti
migratori in atto, ma anche alla loro prevenzione, non solo alle migrazioni
esclusivamente economiche, ma anche a quelle di natura forzata - è un policy
field di grande
complessità, che genera sfide estremamente ardue sia per gli Stati di
destinazione sia per quelli di origine. La posta in gioco è altissima e
composita: essa comprende la sicurezza (par. 2), il benessere (par. 3), i
diritti umani fondamentali (par. 4), non solo dei migranti ma delle
società coinvolte nel loro complesso.
Le migrazioni contemporanee, che la fase attuale di intensa
globalizzazione rende più rapide e meno prevedibili di quelle del
passato, creano una formidabile spinta all'internazionalizzazione della
politica. Politiche migratorie eque e sostenibili - che medino efficacemente
tra gli interessi, i diritti e le paure delle popolazioni coinvolte - sono
impraticabili senza una intensa cooperazione tra Stati di origine, di transito
e di destinazione. Nei paragrafi precedenti, abbiamo cercato di mettere in luce
alcuni dei nodi politici fondamentali che ostacolano, e rendono nel contempo
necessaria, tale cooperazione. E’ opportuno che ci soffermiamo ora su
alcuni problemi di natura istituzionale (la cui politicità non è,
peraltro, affatto esclusa), relativi ai contesti e alle procedure decisionali
in questo settore emergente delle relazioni internazionali.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito su scala mondiale a un notevole
sviluppo di forme di cooperazione internazionale strutturata in materia
migratoria. Questi ambiti di cooperazione sono prevalentemente riconducibili
alle seguenti tipologie:
a) fori multilaterali di cooperazione tra paesi di immigrazione.
E' il caso delle molteplici iniziative in materia migratoria fiorite in Europa
occidentale negli ultimi quindici-vent'anni: dagli accordi di Schengen al terzo
pilastro creato a Maastricht, fino alla politica migratoria comune attualmente
in gestazione. Nel caso europeo, il regime di cooperazione tra gli Stati membri
tende ad imporsi ai paesi circostanti con cui esistono relazioni più
strette, in particolare ai candidati dell'Europa centrale e orientale (ormai in
gran parte diventati, a loro volta, paesi di immigrazione, anche se spesso solo
a fini di transito);
b) assi privilegiati di cooperazione bilaterale tra paesi di origine
(ed eventualmente di transito) e paesi di destinazione. Gli esempi sono
innumerevoli: tra i più significativi su scala globale si può
citare la collaborazione tra Stati Uniti e Messico, quella tra Germania e
Polonia (che riguarda sia l'immigrazione stagionale dalla Polonia, sia il
controllo delle migrazioni irregolari da paesi terzi), nonché quella tra
Italia e Albania che, sebbene i numeri coinvolti siano limitati, presenta
caratteristiche originali (tra cui spiccano le particolari modalità dei
controlli marittimi e l'esistenza di quote privilegiate di ammissione su base
annuale);
c) fori multilaterali di dialogo e cooperazione tra paesi di
origine, di transito e di destinazione. Questo "gradino"
ulteriore di cooperazione si è venuto imponendo negli ultimi anni, per
fronteggiare la crescente complessità e dinamicità delle
migrazioni internazionali contemporanee. In presenza di flussi sostanziosi, eterogenei
e mutevoli, la collaborazione tra Stati di destinazione (vd. sopra, punto a)
è essenziale, ma non basta; d'altra parte, il dialogo con gli Stati
d'origine deve trascendere il livello bilaterale, per cogliere la dimensione
reale, regionale se non globale, dei circuiti migratori. Con iniziative come la
Regional Conference on Migration (RCM), a cui aderiscono undici Stati dell’America settentrionale
e centrale[46], il
"pilastro" sociale del partenariato euromediterraneo lanciato nel
1995 e il "Budapest Process", che copre lo spazio pan-europeo
includendo la Russia[47],
la dimensione regionale della governance migratoria ha assunto via via maggiore rilevanza. I
risultati di queste diverse iniziative politico-diplomatiche variano
notevolmente ed esistono certamente le premesse per un confronto più
aperto tra di esse, che favorisca la circolazione dei modelli e una maggiore
diffusione delle best practices[48].
Le forme di cooperazione internazionale in materia migratoria che abbiamo appena esaminato si collocano a livello locale o tutt'al più regionale. In questa materia, tuttavia, il livello globale non può essere trascurato, né sul piano dell'analisi né su quello della elaborazione delle politiche. Anche in questo caso, una discriminante fondamentale per orientarsi tra le numerose sigle esistenti è rappresentata dalla loro "portata" in termini politici e, in particolare, dal fatto che siano circoscritte ai paesi riceventi o che, invece, coinvolgano anche quelli di origine.
Per quanto riguarda la prima categoria, è utile distinguere tra
strutture dotate di finalità essenzialmente conoscitive (quali il
Sistema d'osservazione permanente sulle migrazioni-SOPEMI, operante in ambito
OCSE, e il poco noto IGC[49])
e altre aventi natura più spiccatamente politica; tra queste ultime si
distingue il G8, che sta dimostrando un’attenzione crescente per le
problematiche migratorie.
Ma è forse più interessante, in questa sede, soffermarsi
sul livello più autenticamente globale della governance migratoria, cioè su quelle istanze
internazionali in cui sono rappresentati non solo i paesi più
sviluppati, recettori di immigrazione, ma anche i paesi emissari. Da questo
punto di vista, osserviamo innanzitutto che il panorama politico-istituzionale
è frammentato e instabile, con le competenze più rilevanti
suddivise tra la Population Division e il Population Fund (UNFPA) delle Nazioni Unite, l’Organizzazione
Internazionale per il Lavoro (OIL), l’Alto Commissariato per i Rifugiati
(ACNUR) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).
Accanto a questi protagonisti, vi sono poi attori di secondo piano, come lo Special
Rapporteur on Human Rights of Migrants, nominato dall’Alto Commissario delle Nazioni
Unite per i diritti umani nel 1999[50].
Ma - al di là di una certa confusione nella mappa delle competenze, che alimenta la competizione (non sempre virtuosa) tra organizzazioni – ciò che è più importante sottolineare qui è la cronica crisi di legittimità delle istituzioni deputate alla governance globale delle migrazioni. I segnali sono numerosi e vanno dallo scarso successo, in fase di ratifica, di convenzioni importanti quali quelle dell’OIL (nn° 97 e 143) e quella delle Nazioni Unite sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie (1990), fino alla grave carenza di risorse di cui soffre permanentemente l’ACNUR[51].
Non è difficile identificare le radici politiche di tale cronica situazione di crisi: esse affondano nella strutturale contrapposizione tra paesi di destinazione e paesi di origine, che ha conformato, perlomeno negli ultimi tre decenni, il policy field migratorio a livello globale. Tale contrapposizione si è sostanziata a lungo in un diverso atteggiamento dei due blocchi di paesi nei confronti delle (potenziali) istanze di governance globale delle migrazioni. Mentre gli Stati recettori dei flussi le hanno tradizionalmente considerate con diffidenza, privilegiando l’approccio unilaterale o comunque livelli politico-istituzionali inferiori, gli Stati emissari ne sono stati generalmente dei fautori convinti. Uno degli esempi più significativi di questa divergenza di atteggiamenti è fornito dal progetto di una conferenza globale delle Nazioni Unite sulle migrazioni, discusso sin dai primi anni Novanta, che non ha potuto concretizzarsi a causa della netta ostilità di alcuni importanti paesi occidentali.
Oggi, questa rigida divisione in blocchi tra i paesi di origine e
quelli di destinazione sembra in via di attenuazione. Un segnale incoraggiante
è giunto, per esempio, dallo United Nations Technical Symposium on
International Migration and Development (L’Aia, giugno-luglio 1998), di cui è
stato autorevolmente scritto che “la cosa più significativa
è il fatto stesso che si sia svolto”[52].
Ma forse ancora più importante è stato l’esito della
Conferenza delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata
transnazionale (Palermo, 12-15 dicembre 2000), in occasione della quale sono
stati aperti alla firma anche due protocolli in materia di lotta alla tratta a
fini di sfruttamento e al traffico di clandestini[53].
Tali testi, che impegnano tra l’altro gli Stati a perseguire penalmente i
comportamenti in questione, sono stati firmati anche da un numero significativo
di importanti paesi di emigrazione (ma non da tutti: mancano per esempio la
Cina e il Marocco[54]).
In conclusione, si può dunque dire che l’obiettivo di un
sistema di governance
globale delle migrazioni, che consenta di proteggere e valorizzare al massimo
il “fattore umano” nelle relazioni internazionali, appare oggi, se
non più vicino, perlomeno meno utopistico di alcuni anni fa.
* Di prossima pubblicazione in: P. Annunziato-A. Calabrò-L. Caracciolo (a cura di), Governance della globalizzazione, 2001.
[1] Per una definizione del concetto di “globalizzazione”, vd. … in questo volume.
[2] D. S. Massey, Immigration and Globalization: Policies for a New Century, paper presentato al convegno internazionale "Migrazioni. Scenari per il XXI secolo", Agenzia Romana per la Preparazione del Giubileo, Roma, 12-14 luglio 2000, p. 3. Il paper è disponibile sul sito www.romagiubileo.migrazioni.it. In questo caso, come nel resto del testo, la traduzione dei testi stranieri non pubblicati in italiano è a cura dell'autore.
[3] Ibidem.
[4] Fonte: H. Zlotnik, The Dimensions of International Migration, paper presentato al “Technical Symposium on International Migration and Development”, United Nations ACC Task Force on Basic Social Services for All, L’Aia, 1998, cit. in P. Stalker, Workers Without Frontiers. The Impact of Globalization on International Migration, International Labour Organization, Lynne Rienner, Boulder (Colorado) - London, 2000, p. 7.
[5] Attualmente, il numero complessivo dei migranti internazionali nel mondo è stimato pari a 150 milioni. Cfr. Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) – Nazioni Unite, World Migration Report 2000, United Nations Publication, 2000, p. 5. Si tratta però di una stima estremamente approssimativa, basata su statistiche incomplete e spesso poco omogenee.
[6] G. Tapinos – D. Delaunay, Can one really talk of the globalisation of migration flows?, in Organisation for Economic Cooperation and Development (OECD), «Globalisation, migration and development», Parigi, 2000, p. 45. I dati su cui si basano Tapinos e Delaunay sono in parte diversi da quelli inclusi nella tabella riportata nel testo. Simili divergenze, che dipendono dalla estrema complessità dei problemi di rilevazione statistica dei fenomeni migratori su scala internazionale, sono probabilmente ineliminabili. In ogni caso, in questa sede, ciò che interessa è esclusivamente fornire alcuni ordini di grandezza e qualche spunto interpretativo per orientare la successiva riflessione incentrata sulle politiche e sui problemi di governance internazionale in materia migratoria.
[7] Ibidem, p. 7.
[8] Quelle che esponiamo nel testo sono considerazioni di carattere generale, basate su una valutazione d'insieme. Sarebbe sbagliato, tuttavia, enfatizzare la contrapposizione tra migrazioni “vecchie” (“lineari” e definitive) e “nuove” (“circolari” e temporanee). Anche nel caso delle migrazioni transoceaniche dall'Europa verso il "Nuovo Mondo", a cavallo tra il XIX° e il XX° secolo, alcuni vincoli con il paese d'origine sono sopravvissuti a lungo e si sono verificati numerosi ritorni in patria. Sui 25,8 milioni di italiani emigrati tra il 1876 e il 1976, ne sono tornati in patria 8,5 milioni (il dato riguarda solo i rimpatri successivi al 1905; per il periodo precedente mancano rilevazioni ufficiali). Cfr. G. Rosoli, a cura di, Un secolo di emigrazione italiana – 1876-1976, Centro Studi Emigrazione, Roma, 1978, pp. 11-12.
[9] P. Stalker, op. cit., p. 7.
[10] Quando la transnazionalità come categoria del discorso politico ha cominciato a precisarsi, all’inizio degli anni Novanta, essa era interpretata prevalentemente come una minaccia alla sovranità degli Stati nazionali:
"In un mondo in cui lo Stato ha la pretesa di essere attore esclusivo e sovrano sulla scena internazionale, il fenomeno migratorio è fonte di disturbo e di anomia. Esso, infatti, realizzandosi a prescindere dagli Stati, o addirittura aggirandoli, contribuisce a disgregare le appartenenze nazionali, a sfidare le politiche pubbliche, a creare degli spazi sottratti al controllo politico e, in fin dei conti, a trasformare l'individuo, o reti di individui, in micro-attori sovrani nel gioco internazionale" (B. Badie, Flux migratoires et relations transnationales, in B. Badie, C. Wihtol de Wenden, «Le défi migratoire. Questions de relations internationales», Presse de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, Parigi, 1994, p. 27). Oggi, la transnazionalità crescente dei processi migratori comincia ad essere interpretata dai decisori politici, almeno a livello programmatico, come fonte di opportunità; ci riferiamo, in particolare, alla funzione economica delle rimesse e al ruolo potenziale dei migranti nello sviluppo dei paesi d’origine.
[11] Questa tendenza costituisce ormai l’oggetto di una letteratura piuttosto ampia; si veda, per esempio: O. Weaver, B. Buzan, M. Keistrup, P. Lemaitre, Identity, Migration and the New Security Agenda in Europe, Pinter, Londra, 1993; J. Huysmans, Migrants as a Security Problem: Dangers of ‘Securitizing’ Societal Issues, in R. Miles, D. Tränhardt, a cura di, «Migration and European Integration: the Dynamics of Inclusion and Exclusion», Pinter, Londra, 1995; D. Bigo, L’immigration à la croisée des chemins sécuritaires, in «Revue Européenne des Migrations Internationales», 1998 (14) 1, p. 25 ss.; A. Ceyhan, Migrants as a Threat: a Comparative Analysis of Securitarian Discourse: France and the United States, in V. Gray, a cura di, «A European Dilemma. Immigration, Citizenship and Identity in Western Europe», Bergham Books, Oxford, 1999.
[12] L’ultimo decennio del XX° secolo è stato definito, dal punto di vista della storia delle migrazioni verso l’Europa, come “il decennio delle migrazioni irregolari” (Eurostat, Patterns and Trends in International Migration in Western Europe, studio a cura di J. Salt, J. Clark, S. Schmidt, Office for Official Publications of the European Communities, Lussemburgo, 2000, p. 8). Secondo stime prodotte da EUROPOL, 500.000 immigrati illegali farebbero ingresso nel territorio della UE ogni anno (Commissione europea, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia di immigrazione, COM(2000) 757 def., Bruxelles, 22 novembre 2000, p. 12). Dalla definizione e dalle stime citate scaturisce, tuttavia, un’immagine parziale, che può generare percezioni distorte: da un lato, bisogna tenere presente che, in un contesto in cui pattern migratori circolari sono sempre più diffusi (vd. par. 1 nel testo), numerosi ingressi clandestini sono seguiti da “uscite” non registrate; in secondo luogo, occorre ricordare che, anche nelle fasi di maggior chiusura, l’Europa occidentale nel suo complesso ha continuato ad essere un importante bacino di immigrazione regolare a vario titolo (asilo e protezione temporanea; ricongiungimenti famigliari; immigrazione stagionale; regolarizzazioni; ingressi a scopo lavorativo su chiamata nominativa; immigrazione studentesca; canali privilegiati per discendenti di emigranti o per determinati gruppi etnici, quali Aussiedler tedeschi, greci del Ponto, etc.; queste diverse modalità di ammissione si sono combinate diversamente in ciascuno Stato membro).
[13] J. Monar, Enlargement-Related Diversity in EU Justice and Home Affairs: Challenges, Dimensions and Management Instruments, WRR (Scientific Council for Government Policy), Working Documents, W 112, L'Aia, Dicembre 2000, p. 7.
[14] Per una ampia panoramica comparativa, G. Brochmann, T. Hammar, a cura di, Mechanisms of Immigration Control, Berg, Oxford, 1999; per una trattazione sistematica e approfondita, che coniuga ricostruzione storica e analisi strutturale delle politiche, vd. ora G. Sciortino, L’ambizione della frontiera. Le politiche di controllo migratorio in Europa, Franco Angeli, Milano, 2000.
[15] Paradossalmente, una prova di questo incremento di efficacia è fornita dallo straordinario sviluppo, su scala globale, di un mercato criminale delle migrazioni clandestine; il ricorso ai servizi di smugglers professionali diventa infatti tanto più utile, quanto più il potenziamento degli apparati di controllo rende “rischiosa” la migrazione clandestina “autogestita”. Su questo tipo di escalation, vd. P. Andreas, Border Games. Policing the U.S.-Mexico Divide, Cornell University Press, Ithaca-Londra, 2000. Per una panoramica sull’evoluzione recente del fenomeno del traffico di migranti clandestini in Europa, vd. Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), Migrant Trafficking and Human Smuggling in Europe. A review of the evidence tith case studies from Hungary, Poland and Ukraine, Ginevra, 2000. Sulle particolarità della situazione italiana, vd. F. Pastore, P. Romani, G. Sciortino, L'Italia nel sistema internazionale del traffico di persone. Risultanze investigative, ipotesi interpretative, strategie di risposta, Working paper n° 5, Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Dipartimento per gli affari sociali, Roma, 2000; Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, Relazione sul traffico degli esseri umani (Relatore: sen. Tana De Zulueta), approvata in data 5 dicembre 2000, in Camera dei Deputati – Senato della Repubblica, Atti Parlamentari, XIII Legislatura, Doc. XXIII N. 49.
[16] G. Sciortino, op. cit., p. 9.
[17] Ibidem, p. 10.
[18] Su questa nozione, vd. F. Pastore, Le rivoluzioni incompiute della politica migratoria europea, in «EuropaEurope», 6/2000, p. 123 ss..
[19] Consiglio europeo di Tampere (15-16 ottobre 2001), Conclusioni della Presidenza, punto 11.
[20] Maj-Inger Klingvall, Start With a Strong Asylum System, in Internation Herald Tribune, 2 febbraio 2001, p. 7. L’autore è il ministro svedese per l’immigrazione e l’asilo; al momento in cui è stato scritto l’articolo la Svezia deteneva la Presidenza di turno dell’Unione europea.
[21] Nei rapporti euromediterranei, per esempio, la questione ha conosciuto sviluppi di particolare interesse; vd. in proposito, F. Pastore, Aeneas' route. Euro-Mediterranean relations and international migration, in S. Lavenex and E. Uçarer, a cura di, «Externalities of Integration: the Wider Impact of the Developing EU Migration Regime», Lexington Books, in corso di pubblicazione; una sintesi di questo saggio è comparsa sul n° 1/2001 della rivista EuropaEurope con il titolo La rotta di Enea. Relazioni euromediterranee e migrazioni.
[22] Population Division, Department of Economic and Social Affairs, United Nations Secretariat, Replacement Migration: Is it A Solution to Declining and Ageing Populations?, ESA/P/WP.160, 21 marzo 2000, Nazioni Unite, New York, disponibile anche on-line al seguente indirizzo: www.un.org/esa/population/unpop.htm.
[23] “Il numero di donne e uomini pensionati aumenterà rapidamente, mentre la percentuale di popolazione in età lavorativa inizierà a diminuire entro il 2010. Questo creerà pressioni considerevoli sui sistemi previdenziali, in particolare sulle pensioni e sui sistemi di assistenza sanitaria e assistenza agli anziani. […] Il prossimo decennio offre l’opportunità di affrontare la sfida demografica aumentando i tassi di disoccupazione, riducendo il debito pubblico e adeguando i sistemi di protezione sociale, inclusi i regimi pensionistici” (Consiglio europeo di Stoccolma, 23-24 marzo 2001, Conclusioni della Presidenza, punto 7).
[24] The Economist, Let the huddled masses in, Editoriale, 31 marzo 2001, p. 12. See also The Economist, Go for it. Europe needs more immigrants, Editoriale, 6 maggio 2000, p. 15.
[25] Cfr. Congress: Guest Workers, in «Migration News», Maggio 2001, Vol. 8, No. 5, http://migration.ucdavis.edu. Per una voce fortemente critica verso questa tendenza all’apertura, vd. J. Goldsborough, Out-of-Control Immigration, in «Foreign Affairs», settembre/ottobre 2000, Vol. 79, No. 5, pp. 89 ss..
[26] Nel caso tedesco, una importante “valvola” di apertura è rappresentata dagli ingressi per lavoro stagionale, che nel periodo 1995-1998 sono stati in media 210.000 all’anno (SOPEMI, Trends in International Migration, Continous Reporting System on Migration. Annual Report. 2000 Edition, OCSE, Parigi, 2001, p. 187), per la maggior parte dalla vicina Polonia. Per una messa in discussione del tradizionale approccio europeo, e in particolare francese, in questo campo, vd. C. Wihtol de Wenden, Faut-il ouvrir les frontières?, Presses de Sciences Po, Parigi, 1999.
[27] Il programma è gestito dal Ministero federale del lavoro in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM); informazioni sui servizi offerti dall’OIM agli imprenditori sono contenute in: www.iom.int/greencard/english/home.htm.
[28] B. Roche, UK migration in a global economy, discorso pronunciato in occasione di un convegno organizzato dall’Institute for Public Policy Research (IPPR), il testo è disponibile sul sito del Ministero dell’interno britannico: www.homeoffice.gov.uk/ipprspch.htm , consultato il 13 settembre 2000. Per un commento, vd. Let in more immigrants: we need them and they will enrich us all, editoriale non firmato, in The Indipendent, 12 settembre 2000.
[29] Cfr. D. G. Papademetriou, The Battle for High-Tech Workers, in «International Herald Tribune», 22 marzo 2000.
[30] Consiglio europeo di Lisbona, 23-24 marzo 2000, Conclusioni della Presidenza, punto 5.
[31] Citato in F. Bolkestein – A. Diamantopoulou, Workers without frontiers. Governments should promote a genuinely free market for labour across Europe, Financial Times, 29 gennaio 2001, p. 16. Gli autori sono commissari europei con delega, rispettivamente, per il Mercato Interno e per Lavoro e Affari Sociali.
[32] Commissione delle Comunità Europee, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia di immigrazione, COM(2000) 757, Bruxelles, 22 novembre 2000. In proposito, vd. C. Favilli, La comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia di immigrazione: prime riflessioni, in «Diritto Immigrazione e Cittadinanza», anno III, N. 1/2001, Franco Angeli, Milano, pp. 54 ss..
[33]È stato calcolato che i 90.000 lavoratori immigrati ad alta qualificazione ammessi negli Stati Uniti nel 1990 abbiano rappresentato, per i paesi d'origine, una perdita netta (in termini di costi educativi) pari a 642 milioni di dollari (K. Griffin - T. McKinley, A New Framework for Development Cooperation, Human Development Report Office, Occasional Papers, n° 11, UNDP, New York, 1994, p. 50, cit. in P. Stalker, op. cit., p. 78).
[34] G. Bolaffi, I confini del patto. Il governo dell’immigrazione in Italia, Einaudi, Torino, 2001, pp. 92-93.
[35] Ibidem, p. 93.
[36] Vi è, d’altra parte, una solida tradizione di emigrazione qualificata dall’India, che va ben al di là della regione di Bangalore e del settore della information technology, e affonda le sue radici nel periodo coloniale; vd., in proposito, V. Robinson – M. Carey, Peopling Skilled International Migration: Indian Doctors in the UK, in «International Migration», vol. 38( 1) 2000, pp. 89 ss..
[37] Citato in M. Weiner, Nations Without Borders. The Gifts of Folk Gone Abroad, in «Foreign Affairs», vol. 75 (2), March-April 1996, p. 133.
[38] Commissione europea, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia di immigrazione, doc. cit., p. 4.
[39] Ibidem, p. 8.
[40] Non sono mancate, peraltro, le prese di posizione ufficiali di governi europei a favore di una revisione della Convenzione del 1951, che dilati il margine di discrezionalità politica degli Stati nella gestione dei flussi di rifugiati. Vd., in particolare, la prima versione dello “Strategy Paper on Immigration and Asylum Policy”, presentato dalla Presidenza austriaca della UE nel luglio 1998, poi modificata nella parte relativa all’asilo in seguito alle vivaci polemiche suscitate.
[41] Questa tendenza è stata rafforzata dall'adozione, da parte dei ministri degli Stati membri responsabili in materia di immigrazione e di asilo, di una "Risoluzione sulle domande d'asilo chiaramente infondate" (Londra, 30 novembre-1° dicembre 1992).
[42] In proposito, cfr. S. Lavenex, Safe Third Countries. Extending the EU Asylum and Immigration Policies to Central and Eastern Europe, Central European University Press, Budapest, 1999.
[43] M. Weiner, The Global Migration Crisis: Challenge to States and to Human Rights, Harper Collins, New York, 1995; A. Zolberg, A. Surhke, S. Aguayo, Escape from Violence. Conflict and the Refugee Crisis in the Developing World, Oxford University Press, New York, 1989.
[44] J. Morrison, The Trafficking and Smuggling of Refugees. The End Game in European Asylum Policy?, rapporto per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR), Ginevra, gennaio 2000. Vd. anche Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), Migrant Trafficking and Human Smuggling in Europe …, op. cit., in part. parte I, cap. 12.
[45]“Espletare la richiesta di protezione nei paesi d’origine e facilitare l’ingresso dei rifugiati nel territorio degli Stati membri attraverso un programma di reinsediamento sono due modalità per offrire un accesso rapido alla protezione evitando che i rifugiati rischino di cadere vittime delle reti d’immigrazione illegale e della tratta di esseri umani o che debbano attendere a volte anni prima che il loro status sia riconosciuto […] Questa […] opzione, secondo il parere della Commissione, deve avere carattere complementare e non può pregiudicare un adeguato espletamento delle domande individuali presentate a seguito di arrivi spontanei” (Commissione delle Comunità europee, Verso una procedura comune in materia di asilo e uno status uniforme e valido in tutta l’Unione per le persone alle quali è stato riconosciuto il diritto d’asilo, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo, COM(2000) 755, 22 novembre 2000, p. 10). Nello stesso documento, che abbiamo riportato nella (pessimamente tradotta) versione ufficiale italiana, la Commissione annuncia l’intenzione di effettuare studi di fattibilità in proposito.
[46] Per maggior dettagli sulla RCM, nota come “Puebla Process” dal nome della città messicana dove essa venne istituita nel 1996, si consulti il sito ufficiale http://168.243.12.3.
[47] Il Budapest Process (noto fino al 1993 come “Berlin Process”) è stato creato su iniziativa tedesca nel 1991. Dal 1994 le funzioni di segretariato sono svolte dall’International Centre for Migration Policy Development (ICMPD) di Vienna (www.icmpd.org).
[48] Per un’analisi dei principali fori regionali di dialogo e cooperazione in materia migratoria, vd. A. Klekowski von Koppenfels, The Role of Regional Consultative Processes in Managing International Migration, in «Migration Research Series», International Organization for Migration (IOM), Ginevra, 2001, prossimamente disponibile sul sito www.iom.int. Per alcune considerazioni comparative su Puebla Process e Partenariato euromediterraneo, F. Pastore, Aeneas' route …, op. cit..
[49] L’acronimo riassume il lungo appellativo ufficiale dell’organismo: Inter-Governmental Consultations on Asylum, Refugee and Migration Policies in Europe, North America and Australia. Le attività di questo circolo intergovernativo informale non sono publiche; il sito ufficiale (www.igc.ch) non fornisce informazioni dettagliate.
[50] E’ opportuno menzionare qui una corrente di opinione che si va diffondendo e che vorrebbe fare della Organizzazione mondiale per il commercio (OMC) la sede in cui promuovere e governare una fase di progressiva (e selettiva) liberalizzazione dei movimenti di persone su scala globale. Si può citare, a titolo di esempio, la proposta, avanzata recentemente dall'economista Thomas Straubhaar, di creare un General Agreement on Movements of People (GAMP), equivalente per il mercato del lavoro globale a ciò che il GATT e il GATS rappresentano rispettivamente per beni e servizi (Why Do We Need a General Agreement on Movements of People [GAMP], Hamburgisches Welt-Wirtschafts-Archiv [HWWA], Discussion Paper n° 94, 2000; ora in B. Ghosh, a cura di, Managing Migration. Time for a New International Regime?, Oxford University Press, 2000). L'economista svizzero parte dalla considerazione che "la libera circolazione delle persone è economicamente efficiente nella maggior parte dei casi, ma non in tutti" (ibidem, p. 28) e si sofferma, in particolare, sull'immigrazione indesiderata (solitamente irregolare) di lavoratori non qualificati e sul brain drain come effetti collaterali negativi di un regime globale di libera circolazione. Per ridurre tali conseguenze anti-economiche di un mondo senza frontiere, il GAMP proposto da Straubhaar si dovrebbe articolare in due sezioni, separate ma strettamente collegate: una "political section", la cui missione sarebbe di "prevenire le migrazioni forzate (politically induced)", e una "economic section", mirante a internalizzare gli effetti collaterali negativi delle migrazioni e ad “ottimizzare l’allocazione internazionale dei beni pubblici (public goods)". Entrambi gli obiettivi della sezione economica dovrebbero essere raggiunti mediante uno strumento di natura fiscale, denominato "migration tax", composta di una "tassa di uscita (exit tax) […] il cui obiettivo sarebbe di compensare i danni derivanti dal brain drain" e di un "‘biglietto di ingresso’ (entry fee) […] che dovrebbe compensare i non migranti nelle aree di destinazione per le ‘perdite da sovraffollamento’ (congestion or crowding out losses) di cui potrebbero soffrire" (ibidem, pp. 29-30). Per quanto appena abbozzata e, per certi aspetti, assai poco realistica, la proposta rappresenta comunque un contributo stimolante a un dibattito destinato a esplodere nei prossimi anni.
[51] Il bilancio dell’Organizzazione è calato da 1 miliardo $ nel 2000 a 870 milioni $ nel 2001.
[52] S. Castles, International Migration and the Global Agenda: Reflections on the 1998 UN Technical Symposium, in «International Migration», vol. 37 (1) 1999, p. 6.
[53] Si vedano i testi sul sito ufficiale della Conferenza: http://www.odccp.org/palermo/schedule99Ita.html .
[54] La lista completa, aggiornata al termine della Conferenza, è consultabile in: www.odccp.org/palermo/firmatariIta.html.