QUESTIONI APERTE SULLA
“EMERSIONE” DEL LAVORATORE EXTRACOMUNITARIO IRREGOLARE.
Ed infine furono 696.759; in un
sol colpo, quasi quanto i 754.000 lavoratori regolarizzati, nell’arco
di 16 anni, con tutti i quattro
precedenti provvedimenti di sanatoria emanati nella storia del nostro
paese [1];
quanto basta a determinare un incremento di oltre il 50% degli extracomunitari “regolarmente
soggiornanti” sino al dicembre 2001 (che erano “solo”
1.362.630); e il tutto con
buona pace di chi agitava lo spettro della “invasione”
allorché il precedente Governo determinava in 87.000 la quota annua di
ingressi per il 2001 in attuazione della Turco-Napolitano. Segno evidente che
il problema c’era allora e c’è ancor oggi e che anche i
fautori del filo spinato alle frontiere hanno dovuto prenderne atto.
Dunque quasi settecentomila
lavoratori sono ora in attesa di una firma che dovrebbe cambiare il corso della
loro vita.
Sennonché il percorso da
qui alla stipulazione del fatidico “contratto di soggiorno”
è irto di tanti ostacoli
quanti sono i problemi lasciati irrisolti da un provvedimento a dir poco pasticciato; parte di questi
problemi andranno inevitabilmente risolti sul piano della normativa pubblicistica riguardante il
permesso di soggiorno, ma lo strettissimo legame imposto dal legislatore tra
quest’ultima e la disciplina del rapporto di lavoro finirà per
coinvolgere sempre più da vicino il diritto del lavoro: non a caso,
già ora, le prime pronunce
giudiziarie in materia di sanatoria vengono proprio dai Giudici del Lavoro.
Si vorrebbero pertanto qui
evidenziare, senza nessuna pretesa di completezza e di esauriente risposta, i
principali interrogativi posti al diritto del lavoro dalla particolarissima
condizione giuridica del lavoratore extracomunitario “in via di
regolarizzazione”.
Un interrogativo preliminare
attiene al piano della politica legislativa.
Come è noto, con la L.
9/12/02 n. 222 di conversione del DL 9/9/02 n.195 il legislatore ha scelto di
legare la concessione di un permesso di soggiorno “in sanatoria” ad un pur breve rapporto di lavoro pregresso e
ciò al fine tanto evidente quanto puramente simbolico di scansare
l’inevitabile qualificazione, appunto, di sanatoria, per rifugiarsi in quella (più
consolante per la politica governativa)
di “emersione”.
Era peraltro di immediata evidenza
che l’escamotage avrebbe avuto corto respiro: da un lato infatti
l’inevitabile brevità del periodo indicato (3 mesi), garantiva un livello di inserimento
dello straniero nel tessuto sociale non molto lontano da quello che qualunque
soggetto raggiunge per il solo fatto di essere entrato nel territorio
nazionale; dall’altro il
“mix” tra l’effetto di attrazione che qualsiasi provvedimento di
sanatoria/regolarizzazione esercita (non a caso gli ingressi clandestini sono
aumentati non appena si è avuto notizia del probabile provvedimento) e
la impossibilità di controlli “ex post” sullo svolgimento
del rapporto nei fatidici tre mesi,
ha determinato infine un afflusso di domande generalizzato, giocato in realtà (come tutte le
sanatorie sin qui emanate) sul requisito dell’impegno al lavoro futuro
assai più che
sull’evanescente ed incontrollabile requisito della esistenza di un
precedente rapporto di lavoro.
Sennonché, proprio il
meccanismo prescelto ha fatto sì che, a fronte di vantaggi assolutamente
inesistenti in termini di valorizzazione della “emersione” del
lavoro pregresso, il legislatore abbia dovuto pagare il prezzo altissimo di
porre integralmente nelle mani del datore di lavoro il “potere”
relativo alla pratica di regolarizzazione, con gli inevitabili arbitrii che ne
sono conseguiti e ai quali, come si dirà, il Governo ha dovuto tentare
di porre maldestramente rimedio.
Pochi dunque i vantaggi del
sistema prescelto, molti i rischi e i danni effettivi. Ne valeva la pena?
Probabilmente no. Se mai si potrà tenere un dibattito scevro da
pregiudizi, sarà
probabilmente agevole a tutti gli osservatori convenire che la strada
più lineare ed onesta (nonché la meno soggetta ai pur inevitabili
fenomeni di aggiramento) è
quella fondata sul requisito del mero
ingresso – ad una certa data - sul territorio nazionale, fermo
l’obbligo del datore di lavoro di sanare anche eventuali periodi
pregressi di lavoro irregolare e
fermo il diritto dell’Amministrazione di verificare (già all’atto della domanda o
meglio ancora, dopo un primo
rilascio di un breve permesso di soggiorno) la disponibilità di lavoro e
alloggio: la pretesa di tenere insieme il lavoro pregresso e quello futuro
(peraltro inusuale nel panorama europeo[2])
specie se affiancata al totale “esproprio” della posizione del
lavoratore è invece foriera
di macroscopici inconvenienti, ai limiti di quella “ragionevolezza”
che costituisce pur sempre un criterio
costituzionalmente rilevante.
Comunque, a prescindere da ogni considerazione
sulla preferibilità di meccanismi di sanatoria differenti, ciò che rileva è
che la consegna nelle mani del datore di lavoro della piena titolarità
del procedimento, ha reso necessario individuare, sul piano giuridico,
la posizione dell’extracomunitario che abbia effettivamente
lavorato nei tre mesi in questione (o come si dirà, nell’ambito
dei tre mesi) per qualificarla come mera aspettativa, ovvero come vero e
proprio diritto soggettivo, cui corrisponda l’obbligo del datore di
lavoro di attivare la relativa procedura.
Sul punto sono intervenute, come
noto, alcune pronunce giudiziarie[3].
Al di la dei complessi problemi
processuali che dette pronunce sono state costrette ad affrontare causa
l’incombere dei termini di legge (dovendosi necessariamente avventurare sul complesso terreno
dell’accertamento “cautelare” del rapporto di lavoro e su
quello ancor più insidioso della condanna ad un obbligo di fare) i principi generali ivi affermati appaiono difficilmente contestabili. Posto che l’assunzione
di personale privo di permesso di soggiorno costituisce comportamento penalmente rilevante (cfr. art.
22, comma 12) è del tutto impensabile che l’ordinamento, una volta
predisposto lo strumento per cessare il comportamento delittuoso nella salvaguardia
dei diritti del lavoratore, resti indifferente alla scelta del datore di
lavoro e la collochi sul terreno
della mera facoltà e non su quello dell’obbligo. Altrettanto
incontestabile, dunque, che il dipendente abbia diritto di ottenere, in via
giudiziale, l’adempimento di tale obbligo.
Semmai merita rilievo il
già rilevato intreccio, nella vicenda, tra la disciplina pubblicistica
del soggiorno e la disciplina del rapporto di lavoro, evidenziatosi in
particolare nei numerosissimi casi nei quali il datore di lavoro,
anziché avviare la procedura di regolarizzazione, preferiva mettere alla
porta il dipendente.
E infatti l’assunzione dell’extracomunitario “non regolarmente
soggiornante”, proprio perché illecita, non può che dar
luogo ad un rapporto di lavoro di mero fatto sicuramente oggetto della tutela
di cui all’art. 2126 c.c.: la quale tuttavia (al pari, ad esempio, di
quanto avviene per i rapporti di fatto costituiti in violazione del vincolo
concorsuale alle dipendenze della
Pubblica Amministrazione) non sembra potersi spingere sino alla tutela della
stabilità, non
potendo il giudice nè
ordinare di dar seguito ad un rapporto di lavoro contra legem
(quand’anche illegittimanente interrotto sotto il profilo della
disciplina lavoristica)
né – in caso di piccola azienda - di risarcire il danno
determinato da una interruzione del rapporto che, per assurdo,
“ripristina” la situazione di legalità.
Quando tuttavia
l’ordinamento interviene a
legittimare la presenza dell’extracomunitario sul territorio nazionale
e a riconoscere il suo diritto di accesso al lavoro (se pure ex post: e qui
l’ulteriore peculiarità giuridica della vicenda) cade ogni
impedimento alla piena applicabilità delle norme lavoristiche, sicchè il rapporto diventa
nuovamente lecito, se pure condizionatamente alla attivazione (come si è
visto, obbligatoria) delle procedure per legittimare il soggiorno
dell’interessato sul territorio nazionale: e a questo punto le due
discipline si saldano perfettamente e non vi è ostacolo a che il giudice
possa ordinare ad un tempo (e sussistendone gli ulteriori requisiti) sia la
reintegrazione o riammissione
nel posto di lavoro, sia l’adempimento degli obblighi rilevanti
sul piano pubblicistico.
In concreto la questione è
poi risultata stemperata dall’intervento del Ministero dell’Interno
che, preso atto degli inammissibili arbitrii ai quali il sistema prescelto
esponeva i lavoratori, ha emanato la circolare 31.10.02, con la quale –
in evidente deroga al meccanismo previsto dalla legge e peraltro con disposizione
sintetica e sibillina - ha ammesso i lavoratori che avessero promosso un contenzioso con il datore di lavoro
entro il 11/11/02 ad un permesso di soggiorno “per ricerca di
occupazione” analogo a quello previsto dall’art.22, comma 11 D.Lgs.
286 (ma l’analogia è evidentemente forzata posto che là si
tratta di beneficio attribuito all’extracomunitario già
regolarmente soggiornante): disposizione che lascia sicuramente
nell’ombra il quesito di fondo e cioè se l’esito del
contenzioso avviatosi prima del 11/11/02 mantenga un rilievo ai fini del
rilascio di un permesso ordinario mediante stipula del contratto di soggiorno
(ipotesi certo coerente con la legge, ma sulla cui irrazionalità non
è neppure il caso di soffermarsi) o se il lavoratore, una volta entrato
nel “circuito ordinario” dei permessi, possa provvedere ai
successivi rinnovi secondo le regole ordinarie, senza che nessun più si
curi di cosa sia davvero accaduto nei tre (o più) mesi oggetto di
contenzioso (unica soluzione ragionevole, per quanto in evidente contrasto con
la legge).
Benchè dunque
ridimensionato nella portata pratica resta comunque, sul punto,
un’ulteriore nodo problematico. Nella L. 222 il procedimento di
regolarizzazione è articolato, per quanto riguarda i rapporti datore di
lavoro/dipendente, in un duplice
atto: da un lato riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro
pregresso, dall’altro impegno a stipulare il “contratto di
soggiorno” secondo le norme generali previste per tale procedura dall’art.5bis del D.Lgs 286/98,
come modificato dall’art. 6 della L. 189/02[4].
La considerazione separata
dell’uno o dell’altro atto sembrerebbe, in prima battuta, non porre
problemi insormontabili.
Quanto all’atto
“ricognitivo”, la questione di maggior rilievo è certamente
se il rapporto di lavoro debba essere continuato in maniera ininterrotta per i
tre mesi in questione: nonostante il diverso avviso del Ministero (che evince
l’obbligo di continuità dall’importo contributivo forfetario posto a carico del datore di lavoro[5])
il tenore della disposizione appare di segno esattamente opposto, laddove
individua come destinatari della norma tutti i datori di lavoro che hanno
occupato dipendenti “nei tre mesi antecedenti la data di entrata in
vigore del presente decreto”,
senza alcun richiamo alla continuità; e a ciò si aggiunga
l’evidente assurdità di una pretesa di
“continuità” riferita ad un lavoro irregolare (al quale
spesso il datore di lavoro impone la “discontinuità” più
confacente agli interessi aziendali) e ad un periodo comprendente il mese
agosto, nel quale
molte attività sono
notoriamente sospese.
Quanto al secondo si tratta di un
vero e proprio contratto preliminare, o comunque della assunzione di un obbligo
a contrarre, posto che la dichiarazione, benchè rivolta alla Prefettura, è comunque
sottoscritta anche dal dipendente che ne è la parte sostanziale e che
comunque, con la sottoscrizione stessa, dichiara di volerne profittare. Detto
contratto preliminare contiene tutti gli elementi essenziali del rapporto, quali
inquadramento, retribuzione, mansioni e sede di lavoro ed è pertanto sicuramente suscettibile di
esecuzione giudiziale ex art. 2932 c.c. (senza con ciò sottovalutare
l’ulteriore difficoltà che potrebbe derivare dalla costituzione
giudiziale di un rapporto di lavoro senza contestuale rilascio del permesso di
soggiorno) ed è comunque
idoneo a fondare, in caso di inadempimento, una domanda di risarcimento.
I problemi insormontabili nascono
allorchè si tratta di saldare i due momenti. Che ne è infatti dei
rispettivi diritti ed obblighi nel periodo intermedio che sarà
presumibilmente lungo (si ipotizzano anni prima che le parti possano essere
convocate per stipulare il “contratto di soggiorno”)?
E’ certo ipotizzabile il
caso miracoloso di un rapporto risolto senza contestazioni subito dopo il 10
settembre 2002 e che rinasca senza contestazioni e con il medesimo datore di
lavoro alla data di stipula del “contratto di soggiorno”: ma
trattasi, appunto, di ipotesi di scuola.
Allorchè invece il rapporto
di lavoro prosegue nel periodo intermedio, la prestazione viene allora resa da cittadino che, pur non
avendo ancora acquisito la qualifica di “regolarmente soggiornante”
sul territorio nazionale non disponendo di un titolo legittimante la sua
presenza tra quelli tipici previsti dalla legge, è tuttavia abilitato a
lavorare e non è soggetto a provvedimenti di espulsione (cfr. il 1^
comma art. 2 L. 222 che vieta qualsiasi provvedimento di allontanamento nei
confronti dei lavoratori, nelle more della procedura di sanatoria): tra le parti
viene dunque in essere (rectius prosegue) un rapporto pienamente regolare e
lecito, se pure sottoposto
alla condizione risolutiva del mancato rilascio del permesso di soggiorno
(secondo un sistema peraltro noto all’ordinamento che già nelle
precedenti sanatorie aveva previsto la stipula di contratti condizionati); dunque il lavoratore che si vedesse
illegittimamente estromesso dal posto di lavoro nelle more della procedura di
regolarizzazione potrà agire per il ripristino del rapporto laddove
sussistano i requisiti della stabilità reale, ovvero potrà agire
congiuntamente sia per l’indennizzo
ex art. 8 L. 604/66, sia per il distinto adempimento dell’obbligo
a contrarre di cui si è appena detto.
Vi è comunque da sperare
che l’ipotesi “ordinaria” sia quella di un rapporto di lavoro
che prosegue regolarmente sino alla stipula del “contratto di
soggiorno”. In tal caso vi è allora da chiedersi quale significato
giuridico possa assumere, sotto il profilo privatistico, la stipula di un contratto
relativo ad un rapporto che è già in essere: di fatto nessuno, se
non quello di caducare definitivamente l’ipotesi di una condizione risolutiva del contratto.
Sembra infatti pacificamente da
escludere l’ipotesi di una sorta di novazione imposta per legge: lo
stesso Ministero del Lavoro, nella circolare 20/9/02 prevede espressamente che il rapporto di lavoro
formalizzato in sede di “contratto di soggiorno” “decorre
dalla data di entrata in vigore della legge, cioè dal 10/9/02”[6],
precisando altresì che “da tale data decorrono tutti gli obblighi
contrattuali e di legge previsti, tra cui quelli relativi agli obblighi
assicurativi e previdenziali, così come tutti gli altri obblighi legati
allo svolgimento del rapporto di lavoro” (restando comunque oscuro che ne
debba essere, secondo il Ministero, dei tre mesi di lavoro prestato, magari
senza soluzione di continuità, antecedentemente al 10/9/02). Ancor
più rilevante è peraltro che il legislatore della L. 222 non
faccia alcun cenno ad ipotesi di
novazione, con ciò discostandosi radicalmente (e la circostanza non
può essere di poco conto) dal meccanismo previsto dall’art.1 L.
18/10/01 n.383 in materia di emersione del lavoro sommerso[7]
Ne segue che risulteranno
inapplicabili - e, ove apposte,
saranno sicuramente nulle - tutte
quelle clausole che possono essere apposte solo all’atto di stipula del
contratto di assunzione quali la prova e il termine (e così diventa
ancora più surreale il dibattitto che tanto ha affaticato la maggioranza
parlamentare circa “l’apertura” della sanatoria ai casi di
contratti a termine);
così come risulterà agevolmente impugnabile l’eventuale stipula del contratto
di soggiorno sub specie di
contratto di formazione o di apprendistato.
Va peraltro rilevato, questa volta
sotto il profilo pubblicistico, che ad oggi è ancora irrisolta la questione dello status dei
lavoratori illegittimamente licenziati (o addirittura, il caso non è
raro, neppure ammessi al lavoro) dopo la presentazione della domanda di
regolarizzazione: mentre infatti, per assurdo, i lavoratori licenziati prima
dell’11/11/02 hanno già acquisito il diritto – secondo la
citata circolare 31/10/02 - ad un permesso di soggiorno per ricerca di
occupazione (e dunque, una volta trovato il nuovo datore di lavoro ai successivi
rinnovi) tale diritto è ad oggi
ancora in dubbio per i lavoratori estromessi dopo la presentazione della
domanda che si trovano “sul
mercato” con in mano la sola ricevuta di presentazione della domanda, di
per sé inidonea a consentire la normale mobilità nel mercato del
lavoro.
Allo stato l’orientamento
del Ministero – peraltro non ancora formalizzato - sembra quello di
riconoscere sia la possibilità di un nuovo datore di lavoro di stipulare
il contratto di soggiorno in luogo di quello che aveva dato avvio alla procedura,
sia la possibilità di rilasciare il permesso di soggiorno semestrale per
ricerca di occupazione a tutti coloro che si troveranno a cessare il rapporto
di lavoro nelle more della procedura.
Soluzione questa sicuramente
ragionevole che potrebbe superare, almeno sul piano pratico, le incongruità della legge ed
evitare l’ulteriore incrementarsi di quella schiera (purtroppo di antica
costituzione: si pensi al caso clamoroso e ormai risalente dei richiedenti
asilo nelle more della procedura) di lavoratori “non-irregolarmente-soggiornanti”,
ma cionondimeno impediti di accedere ad un rapporto di lavoro.
Resta da considerare un ulteriore
e ancor più confuso momento di intreccio tra normativa lavoristica e
normativa pubblicistica introdotto dalla L. 222 e riferibile questa volta a
tutti i lavoratori extracomunitari, siano essi “sanati” o
regolarmente entrati in Italia. L’art.2, comma 9, L.222/02 prevede infatti la facoltà del
datore di lavoro di trattenere mensilmente dalla retribuzione del dipendente,
nei limiti di un terzo, le spese
che lo stesso datore di lavoro abbia sostenuto “per fornire un alloggio
rispondente ai requisiti di legge”.
La norma è, come molte
altre contenute nella Bossi-Fini, o assolutamente irrilevante o assolutamente
discutibile.
Se il credito del datore di
lavoro, come presumibilmente avverrà nella maggior parte dei casi, non
è liquido ed anzi è soltanto ipotetico (perché ad esempio
il dipendente abita presso un parente del
datore di lavoro e questi intenda far valere il credito connesso all’impossibilità
di locare una stanza) non vi è dubbio che la norma non sia in alcun modo
applicabile, posto che la locuzione “..abbia sostenuto le spese..”
si riferisce indubitabilmente all’effettivo esborso e non a mancati
guadagni o a costi di tipo diverso, per i quali il datore di lavoro non
potrà che avvalersi degli strumenti ordinari messi a sua disposizione
dall’ordinamento.
Se invece il datore di lavoro ha
un credito liquido (perché ha stipulato un contratto di locazione con
l’extracomunitario o perché anticipa per suo conto, a terzi, somme a titolo di locazione) non vi
è dubbio che detto credito
possa essere portato in compensazione, ma - trattandosi qui di compensazione
propria, stante la diversità dei due titoli che fondano le rispettive
obbligazioni – essa avrebbe dovuto operare nei limiti di un quinto dello
stipendio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1246 n.3 c.c. e 545,
commi 3 e 4 c.p.c.[8]. In tale prospettiva, la norma introduce
quindi una facoltà di compensazione più elevata in danno del
lavoratore e per il solo fatto che questi sia cittadino extracomunitario: il
che costituisce una palese
violazione del principio di parità di trattamento pure solennemente
affermato, in esecuzione della Convenzione OIL 143 del 1975, dall’art.2 del
DLgs 286/98.
In realtà il discorso in
ordine alla violazione della convenzione OIL - resa esecutiva in Italia
già nel 1981 con legge n.158 -
va ben oltre il profilo appena accennato investendo una problematica
più generale (che può qui essere appena accennata) afferente non
tanto alla sanatoria quanto ad uno dei pilastri portanti della L. 189/02.
Si tratta di nuovo del
“contratto di soggiorno”. Si è visto che questo “monstrum” bicefalo avente
ad un tempo la natura pubblica di presupposto per l’atto autorizzativo
del soggiorno e la natura privatistica di contratto di lavoro, si arricchisce
nella sanatoria di un ulteriore contraddizione perché nasconde sotto le
mentite spoglie di un contratto di lavoro una dichiarazione ricognitiva di un rapporto
di lavoro già in essere.
Orbene tale anomalia, nel sistema
a regime, si ripete per l’extracomunitario ad ogni rinnovo del permesso
di soggiorno, giacchè - ai
sensi del nuovo art.5 D.Lgs 286/98 – detto rinnovo “è
sottoposto alla verifica delle condizioni previste per il rilascio”
(comma 4) e il permesso è
rilasciato “a seguito della stipula del contratto di soggiorno”
(comma 3-bis). Dunque ad ogni rinnovo l’extracomunitario dovrà ri-stipulare il contratto
di soggiorno; il che se da un lato
(allorchè il rapporto di lavoro sia lo stesso prima e dopo il
rinnovo) costituisce una
incomprensibile irrazionalità, dall’altro obbliga
l’extracomunitario – che dopo il primo rilascio deve considerarsi
ad ogni effetto regolarmente soggiornante - a sottoporsi ad una prassi di
accesso al lavoro diversa e più gravosa di quella del cittadino
italiano.
Si vuol dire cioè che i due
famosi obblighi aggiuntivi gravanti sul datore di lavoro (garanzia
dell’alloggio e accollo delle spese di rientro) collocano la forza-lavoro
extracomunitaria in una posizione palesemente deteriore, rendendo più
onerosa e dunque meno appetibile l’assunzione dello straniero rispetto
all’italiano. Ma una simile diversità di trattamento può
risultare ammissibile in sede di prima assunzione - laddove fa parte delle condizioni e dei limiti che lo Stato
può legittimamente apporre all’ingresso dello straniero - ma è certamente incompatibile
con il citato principio di parità laddove è imposta a stranieri
regolarmente soggiornanti i quali -
secondo pacifica giurisprudenza Costituzionale[9]
- hanno diritto di accedere
al lavoro mediante gli stessi canali e alle stesse condizioni previste per i
cittadini italiani: il che palesemente non avviene con la disciplina attuale.
La quantità di
interrogativi lasciati aperti, anche solo sul piano del rapporto di lavoro,
dalla affrettata normativa sin qui descritta consente infine di porre un
interrogativo più generale.
I numeri indicati all’inizio
indicano con tutta evidenza che la sanatoria è da tempo lo strumento
“ordinario” più
rilevante per l’accesso e la regolarizzazione degli extracomunitari
sul territorio nazionale: i dati
forniti dal Dossier Immigrazione della Caritas per il 2002 indicano che dei
1.340.655 extracomunitari presenti in Italia nel 2001, ben 565.596 sono quelli regolarizzati nel
corso degli anni con le quattro sanatorie di cui si è detto e tuttora
presenti: una percentuale del 40% che, all’esito delle procedure in corso
e del sostanziale blocco delle quote regolari per il 2002[10],
è destinata a salire a quasi il 70%. Ce ne sarebbe abbastanza per seppellire il
farraginoso meccanismo di ingresso (iscrizione dell’extracomunitario
nelle liste presso i consolati e “chiamata” dal datore di lavoro
italiano) che la Bossi-Fini ha reso ancor più burocratico introducendo
l’assurda pretesa di una inutile verifica preventiva in ordine alla
disponbilità di mano d’opera italiana: un meccanismo di
collocamento vecchio stampo ormai soppresso per qualsiasi lavoratore e tenuto in piedi - a viva forza e
senza alcuna utilità pratica - per i soli extracomunitari; ai quali pertanto, specie dopo la
soppressione dell’ingresso per “sponsorizzazione”, è preclusa (in astratto, salvo
poi dover correre ai ripari con le varie sanatorie) la possibilità di un
libero incontro tra domanda e offerta di lavoro.
E ce ne sarebbe dunque abbastanza
- se la logica avesse un peso nelle scelte politiche - per lasciare spazio a forme di ingresso più
flessibili, che consentano, quantomeno per un breve periodo, la
possibilità di permanere
sul territorio nazionale per
competere ad armi pari nella ricerca di un’occupazione. Ma questa è davvero un’altra storia.
Alberto Guariso
[1] I provvedimenti precedenti sono la L. 943/86 che aveva portato alla regolarizzazione di 105.000 extracomunitari; la “legge Martelli” n.39/90 con 217.626 regolarizzazioni; il DL 489/95 con 244.492 regolarizzazioni; il D.P.C.M. 16/10/98 con 217.124 regolarizzazioni.
[2] Per una rassegna dei criteri adottati dai
paese europei in occasione dei
provvedimenti di sanatoria cfr. J.Agap, Procedure di regolarizzazione in Europa
e criteri di ammissione, in Diritto, Immigrazione e cittadinanza, 2001,25.
[3] Cfr. In particolare Trib.Milano 5/11/02, Trib. Milano
15/11/02; Trib.Milano 6/11/02 in questa Rivista, 000, 2002 tutte favorevoli
alla qualificazione della posizione del
datore di lavoro in termini di obbligo; ad esse va aggiunto, allo stato,
Trib.Pisa, est. Schiamone, in corso di pubblicazione sul n.1/03 di questa
Rivista, che si segnala per l’ampia motivazione e anche per la
particolarità di individuare un obbligo del datore di lavoro anche con
riferimento ad un rapporto di lavoro già esauritosi, nonché (a
quanto può evincersi dalla motivazione) un diritto del lavoratore di
avviare egli stesso la procedura di sanatoria.
[4] Per un commento alle
disposizioni della legge Bossi-Fini 189/02 sia consentito rinviare a L.Neri,
A.Guariso “La legge Bossi-Fini sull’immigrazione: le innovazioni in
materia di lavoro” in questa Rivista, 2002, 231; cfr. inoltre G.Ludovico,
“La disciplina del lavoro immigrato extracomunitario dopo le modifiche
previste dalla L. 189/02”, in Il lavoro nella giur., 2002, 1021,
nonché il numero monografico
della Rivista “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza”
interamente dedicato alla L. 189, attualmente in corso di stampa.
[5] Si veda la circolare
n.14 del 9/9/02 del Ministero dell’Interno, Dipartimento per le
libertà civili e l’immigrazione, nella quale peraltro si da atto
che il tenore letterale della norma è invece di segno del tutto opposto.
[6] Una analoga
dichiarazione in ordine alla decorrenza del rapporto è inserita
all’ultimo rigo del modello di “contratto di soggiorno”
allegato alla citata circolare 20/9/02 del Ministero del Lavoro; dichiarazione
palesemente stridente con l’altra apposta nel medesimo modello poche
righe sopra, secondo la quale le parti “stipulano” il contratto di
soggiorno, ma che ben evidenzia l’utilizzo del tutto atecnico di tale
espressione e la natura sostanzialmente ricognitiva delle dichiarazioni
negoziali contenute nel contratto.
[7] Ai sensi dell’art.
1, comma 4 bis L. 383/01, nel testo modifica recentemente dalla L. 210/02 ,
l’adesione del lavoratore al programma di emersione avviene tramite
sottoscrizione di specifico atto di conciliazione e ha “efficacia novativa
del rapporto di lavoro emerso con effetto dalla data di presentazione della
dichiarazione di emersione e produce, relativamente ai diritti di natura
retributiva e risarcitoria per il periodo pregresso, gli effetti conciliativi ai sensi degli artt. 410 e
411 c.p.c.”: come si vede un procedimento del tutto diverso da quello
previsto nella legge in esame.
[8] Cfr. in tal senso Cass. 21/6/91 n. 7002.
[9] Si veda Corte
Costituzionale 30/12/98 n.454, in questa Rivista, 1990, 277, con nota di
A.Guariso secondo la quale “una volta che i lavoratori extracomunitari
siano autorizzati al lavoro
subordinato stabile in Italia, godendo di un permesso di soggiorno rilasciato a
tale scopo…essi godono di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori
italiani”.
[10] Solo in extremis il
Governo, dopo aver bloccato per tutto il 2002 gli ingressi regolari omettendo
di emettere il “decreti flussi” previsto dall’art…. del
T.U. ha varato il decreto 15.10.02 ammettendo 10.000 lavoratori subordinati
(limitando tuttavia l’accesso a 7 nazionalità) oltre a 4000 per
lavoro stagionale, a 4.000 Argentini di origine italiana, 500 lavoratori
qualificati e 2.000 lavoratori autonomi.