13.12.2002
Rispediti in Siria verso la pena di morte grazie alla Bossi-Fini
di M. Gualco M. Iervasi
Li hanno fatti salire
sull’aereo per Damasco con la forza, dopo averli trattenuti per cinque
giorni a Malpensa, senza ascoltare o verificare in qualche modo il loro
disperato grido di dolore, la loro terribile storia di perseguitati politici
tale da essere costretti a fugggire dalla Siria ed andare in esilio in Iraq.
Ma
l’Italia di B. li ha rispediti in patria violando le più banali
convenzioni internazionali sui diritti umani. Parlava solo arabo la famiglia
Muhammad Sa’id Al-Sahri - padre, madre e quattro bambini piccoli di cui
uno bisognoso di cure -, la polizia di frontiera dello scalo milanese, pur non
capendo la loro lingua, le avrebbe negato anche il più basilare dei
diritti, quello di esprimersi attraverso un interprete. E li ha rimpatriati
immediatamente, in quanto clandestini. Come prevede la legge della destra, la
Bossi-Fini.
Quattro
giorni “prigionieri” in aeroporto nel silenzio più totale.
Senza che nessuno pensasse di allertare l’ufficio del Consiglio italiano
per i rifugiati (Cir) presente a Malpensa. E negando «per motivi di
sicurezza» anche l’”incontro” con Murhaf Labididi,
fratello della moglie del capofamiglia condannato a morte in Siria, che si era
precipitato in Italia da Londra in loro soccorso. «È uno scandalo,
un disonore per l’Italia - ha detto Giovanni Conso, presidente del Cir e
presidente emerito della Corte Costituzionale -.
La
vicenda della famiglia siriana bloccata per cinque giorni a Malpensa nel
silenzio generale è un reato. Un delitto gravissimo. Non sono stati
rispediti in Iraq, ma in Siria - sottolinea Conso -: i responsabili sono
complici di un’esecuzione e condannabili per concorso in omicidio».
Già.
Un esilio lungo vent’anni in Iraq per essere rimpatriati in Siria.
Amnesty International, il Cir e Medici senza frontiere hanno denunciato il caso
al Viminale e al ministro degli Esteri. Non una risposta è arrivata
finora dalle nostre istituzioni. Mentre Murhaf con la voce roca di pianto da
Londra dice: «Non so più niente di loro ma sono sicuro che sono in
prigione. Tutti, anche i bambini. Tutta la nostra famiglia, come anche quella
del marito di mia sorella - spiega -, è accusata di far parte
dell’opposizione al regime di Bashare el Assad. Da qui la sentenza di
morte».
Muhammad,
44 anni, ingegnere ed ex oppositore politico del governo di Damasco è
arrivato con la sua famiglia a Malpensa il 23 novembre scorso, proveniente da
Baghdad (via Amman), dove la coppia - con i loro quattro bimbi, un maschietto e
tre femminucce di età compresa tra i 2 e gli 11 anni - ha presentato
richiesta d’asilo, sottolinea Amnesty International, che denuncia:
«le autorità italiane hanno respinto la richiesta in modo del tutto
sommario» e il 28 novembre li hanno imbarcati con la forza
sull’aereo per Damasco. Ora si teme che si possano trovare in stato di
detenzione in uno dei centri d’interrogatorio dei servizi segreti, nella
capitale siriana, «dove la tortura è praticata regolarmente».
Diversa
la versione della polizia di frontiera dello scalo milanese, che si difende
così: la famiglia siriana non ci ha chiesto il diritto d’asilo.
Eppure Murhaf racconta che dopo il divieto di incontrare i familiari ha
contattato un avvocato: «Sono andato al Tribunale di Milano per cercare
un difensore. Era il mattino del 28 novembre scorso. Ho trovato un legale
d’ufficio, Antonella Bisgan, le ho esposto il caso e mi ha dato un
appuntamento per l’indomani alle 16, assicurandomi che avrebbe chiamato
l’aeroporto. Ma quando ha telefonato i miei nipotini, mia sorella e mio
cognato erano già stati rimpatriati».
Giovanni
Conso, con estrema indignazione, ieri ha aperto il convegno «Mai
più violazioni, mai più impunità» - organizzato dal
comitato per la promozione e la protezione dei diritti umani -, denunciando
l’inutile tentativo di Muhammad Sa’id Al-Sahri di spiegare la sua
posizione e quella della sua famiglia. E ha colpito duro, anche contro
l’inefficienza del difesore d’ufficio. «Sarebbe bastato
chiedere una sospensiva alla Corte di Strasburgo che, in queste circostanze,
interviene tempestivamente a bloccare il procedimento in atto».
Secondo
il presidente emerito della Corte Costituzionale, fa riflettere che un uomo che
aveva trovato tutela in Iraq, abbia visto lesi tutti i diritti umani, quelli
dei rifugiati, delle donne, dei bambini, proprio in Italia. «Il nostro
Paese - ha concluso - ha concesso a questa famiglia una scorta della nostra
polizia fino all’autorità locale siriana. Attualmente sappiamo solo
che l’uomo è finito in prigione, probabilmente è stato
torturato. Speriamo soltanto che non sia stato giustiziato. Della moglie e dei
bambini, nell’era della tecnologia, non riusciamo a sapere nulla».
L’ultima
volta che Murhaf ha sentito sua sorella erano circa le cinque del pomeriggio
del 28 novembre. Da allora, è calato il silenzio. «Ho chiesto
notizie ad una mia zia in Siria. Ma mia sorella e la sua famiglia è come
se fossero scomparsi. Nel nulla».