Caritas Ambrosiana e Agenzia di
Solidarietà per il Lavoro
23 dicembre 2002
Questo
documento contiene alcune riflessioni che abbiamo sviluppato, insieme ad amici
giuristi, in questo periodo in riferimento alla realtà carceraria, alle
problematiche connesse ai provvedimenti di riforma, di riduzione della pena.
Crediamo che una priorità vada data alla riflessione
culturale, in riferimento al sistema penale e alla giustizia. Assistiamo ad una
povertà di riflessione molto preoccupante. Dibattere attorno a un
provvedimento di clemenza, chiedere una diversa concezione della pena,
denunciare il sovraffollamento
nelle carceri, permettere e sostenere percorsi di umanizzazione e di
sostegno ad attività di recupero che abbiano al centro la dignità
della persona è una strategia da sostenere e qualificare. La riflessione
che abbiamo sviluppato produce e richiede un cambiamento culturale certamente
importante e che non trascura l'attenzione alle vittime dei reati e la legittima
esigenza di sicurezza.
Crediamo al contrario che far crescere questa
sensibilità sociale permetta prospettive di riconciliazione e di
prevenzione. Per quanto riguarda il compito che ci attende è certamente
un compito anche di carattere formativo, che valorizzi le esperienze positive,
e mantenga una sensibilità attorno a queste tematiche non impoverita da
atteggiamenti negativi e banalizzanti. La situazione nelle carceri mantiene un
dato di gravità eccezionale.
Sviluppare attività che favoriscano il lavoro all'interno e all'esterno del carcere, raccordarsi con tutte le realtà di volontariato e sociali per aumentare opportunità abitative e di accompagnamento al reinserimento, sostenere le famiglie, sperimentare azioni di risarcimento e di gestione della pena senza passare dal carcere (si pensi allo scarso utilizzo delle opportunità offerte in riferimento alla competenza penale dei giudici di pace ), puntare e sostenere azioni legislative per offrire una consistente riduzione della pena tenendo conto delle esigenze di sicurezza ma anche che il tempo passato in carcere ha una sua dimensione di afflittività superiore al tempo vissuto in un contesto di normalità sono obbiettivi di carattere formativo, culturale e politico che si impegniamo a portare avanti a partire da oggi. Le idee che si incontrano in questo documento sono una base crediamo utile per qualificare il nostro impegno anche sul piano civile per rilanciare le parole del papa " un segno di clemenza verso i detenuti mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità che non mancherebbe di stimolarne l'impegno di personale recupero in vista di un positivo reinserimento nella società ".
1. Non
è giustizia rispondere al male con il male
Il modello più diffuso
della giustizia è quello rappresentato significativamente
dall’immagine della bilancia: è giusto rispondere al male con il
male; è giusto che chi ha fatto del male “paghi”; è
giusto che chi ha offeso subisca una pena in termini di sofferenza. Ci si
attende del bene, ci si attende la giustizia dalla ritorsione del male. La
giustizia si gioca tutta, in questo modo di vedere, in una sterile
reciprocità “contabile” in cui l’agire secondo il bene
è riservato e doveroso solo verso coloro che se lo meritano. Il rapporto
con l’altro prescinde da una profonda e autentica relazionalità
personale e si costruisce su una sorta di pre-giudizio che escluda nell’altro
quelle componenti negative che legittimerebbero il compimento del male nei suoi
confronti. Come dire che la relazione umana, il rapporto interpersonale civile
trova posto solo nei confronti di chi è “per-bene”.
Questo
modello della giustizia permea non soltanto il sistema giuridico, ma
caratterizza ampiamente il modo di intendere le relazioni internazionali, i rapporti
economici, l’agire politico. Questo modello ha poi preteso
drammaticamente di fondarsi anche su motivazioni religiose.
L’idea
retributiva non pare però conforme alla vera giustizia intesa come la
virtù esercitata verso gli altri. La bilancia che pesa il male e retribuisce con il
male dimentica che all’uomo non è dato scorgere la
malvagità del suo simile; dimentica quindi che non esiste una pena
compensatoria che corrisponde al male commesso; dimentica che il male è
diffuso anche là dove non ci sono i criminali (si pensi alle condotte di
massa che portano alla distruzione ambientale, alle numerosi morti evitabili
per fame, malattie, guerre); dimentica che il sistema penale non riesce a farsi
carico di tutti i reati e che vi sono quindi sempre, necessariamente, processi
di selezione dei crimini con ampi margini di “dispersione
criminale”; dimentica infine il pericolo insinuarsi di una pretesa di
giustizia assoluta
nelle fragili mani umane con l’effetto di diffondere bisogni in gran
parte emotivi
di punizione.
Ma
vi è di più. L’idea retributiva, il modello tradizionale
della bilancia sono fondati sull’idea di ritorsione, sull’idea
secondo cui per segnalare la gravità di un certo fatto offensivo
è necessario infliggere una sofferenza, far patire una pena. Come se
l’ordinamento giuridico non avesse altri strumenti, altre modalità
dialogiche per
comunicare un messaggio importante.
2. La
repressione non è utile alla sicurezza dei cittadini
L’indispensabile, giusta, preoccupazione dello Stato
per la sicurezza e l’incolumità dei suoi cittadini spinge di
frequente a rispondere all’allarme sociale in termini di inasprimento
sanzionatorio. Si
tratta della più antica, simbolica modalità di risposta a un bisogno emotivo di punizione suscitato da episodi
allarmanti.
Si osservi però che i
“pacchetti-sicurezza” e le politiche di “tolleranza
zero” non garantiscono efficienza e efficacia al sistema penale. Tale è, sul
piano giuridico e politico-criminale, il punto più importante:
già Beccaria metteva in guardia dall’inutilità delle
recrudescenze sanzionatorie. Il maggiore rigorismo repressivo, lungi
dall’assicurare un minor livello di criminalità, è nel
migliore dei casi inutile, nel peggiore addirittura criminogeno. Simili
strumenti finiscono con il diventare l’ennesimo, consueto, non più
credibile, modo di dare una parvenza di garanzia di sicurezza, lasciando
invece tragicamente le cose come stanno fino al successivo atto delittuoso che
determina ulteriori inasprimenti in un circolo vizioso fallimentare,
inefficiente, inefficace e ultimamente in contrasto con i principi democratici.
Non è qui possibile riprendere gli argomenti
penalistici – tuttora validi - sui limiti della deterrenza e della
neutralizzazione, strumenti da sempre incapaci proprio di prevenire i comportamenti
criminali. Merita però riflettere sul fatto che da tempo la più
accreditata dottrina penalistica e criminologica internazionale segnala come la
sicurezza non si ottiene attraverso le pene, tanto meno pene più severe,
ma agendo dapprima sui fattori criminogenetici attraverso adeguate politiche
sociali, educative, occupazionali, migratorie, e in seguito attraverso
significativi percorsi motivazionali
(prima e dopo la commissione del reato) di rispetto spontaneo delle
norme dell’ordinamento: si tratta delle cosiddette teorie della prevenzione
generale e speciale positiva
fondate su dimensioni consensuali, responsabilizzanti, educative,
risocializzanti di risposta al reato.
Pare infatti difficilmente contestabile il principio secondo
cui, a maggior ragione in uno Stato democratico, convincere sia meglio che costingere; educare sia meglio che punire. Gli studiosi più attenti
fanno notare come ciò non si ispiri tanto e solo a un ideale umanitario,
ma al dato concretissimo che unicamente così sarà possibile
ridurre davvero
i rischi connessi alla criminalità: i cittadini sono più sicuri,
non quando qualcuno è trattenuto dal commettere reati solo dalla minaccia di una pena severa
o dai dispositivi di una prigione, bensì quando costui deliberatamente sceglie di non delinquere.
Una “giustizia penale per la sicurezza” non è repressiva,
è, invece, ingegnosa nel progettare e mettere in campo misure che
prevengano alla radice gli illeciti, chiudano “posti di lavoro
criminale” e reintegrino dignitosamente l’autore del reato.
3. Le
vittime non hanno bisogno di una giustizia repressiva
Uno
dei punti di forza apparenti delle politiche penali recenti riguarda
l’esigenza di tener conto delle vittime e della collettività.
Il
tema della tutela e dell’assistenza alle vittime dei reati merita una
attenta riflessione. Da un lato, infatti, un sistema penale ancora di fatto
retributivo e repressivo è un sistema nel quale la pena assume il ruolo
di unico strumento di
risposta alla commissione dell’illecito, con l’effetto che ogni
qualvolta la pena non viene inflitta (o non viene inflitta nel massimo) manca qualsiasi reazione al fatto-reato
o pare venire meno la segnalazione del disvalore dell’evento dannoso. La
collettività o la vittima offese dall’illecito, in un sistema di
tal fatta, non hanno dunque altra strada se non la domanda di pena per ottenere
un barlume di giustizia.
E’,
questo, uno degli equivoci più pericolosi in cui si possa cadere.
Intanto lo Stato democratico non ha la funzione di dare corpo alle istanze retributive
della collettività. In merito si osservi che l’ordinamento
giuridico nasce storicamente con il compito di razionalizzare tali istanze e non di accondiscendervi. Si osservi
anche, però, che tali istanze nascondono importanti domande di giustizia che proprio la
retribuzione lascia insoddisfatte.
Studi
statunitensi autorevoli (su campioni di migliaia di persone) hanno dimostrato
come la collettività preferisca all’inflizione di una pena un
impegno significativo e autonomo di responsabilizzazione e riparazione. La
domanda della vittima non riguarda la punizione del colpevole, ma
l’affermazione che l’atto offensivo subito non avrebbe mai dovuto
accadere e non dovrà mai più accadere.
I
paradigmi vendicativi soffocano le reali domande di giustizia delle vittime e
della società civile; l’unico intervento progettato dallo Stato per la collettività
si esaurisce nella vuotezza e sterilità della condanna
e della separazione del reo dal vivere sociale. I cittadini disposti a questo scambio (giustizia / pena) potrebbero
essere molti di meno di quel che ci si aspetta.
La giustizia riparativa
e le esperienze di mediazione sono oggi, nel nostro ordinamento, gli unici
interventi giuridici definibili come victim-support. I primi monitoraggi e le indagini di valutazione sui
programmi di mediazione, riparazione e lavori di pubblica utilità
mostrano alti livelli di gradimento e soddisfazione da parte delle persone
offese.
4. Non ci sono “Caino” e “Abele”
Troppo spesso la
giustizia penale assume le forme di una semplicistica e arbitraria separazione
tra onesti e innocenti da un lato, criminali e colpevoli dall’altro. Il
motto dell’attuale Ministro della Giustizia è significativamente
“dalla parte di Abele”.
E’ il caso di
accantonare, in questa sede, i problemi aperti da un linguaggio che richiama la
funzione assoluta della giustizia
umana, anche con riferimenti “biblici” di segno opposto alle
posizioni teologiche oggi più accreditate. Resta una riflessione
indispensabile: la collettività nel suo complesso non è
così innocente e estranea alla genesi della criminalità. Vi sono
dimensioni non trascurabili di corresponsabilità sociale, vi è
una compartecipazione diffusa al male e al male penalmente rilevante. E’
superficiale ridurre il problema criminale a una irrealistica dicotomia Caino / Abele. Gli episodi
drammatici, anche di criminalità giovanile, dei mesi scorsi ne sono la
riprova, tanto che la società non è ancora giunta a dare
spiegazioni convincenti e a rendere feconda la propria autocritica.
5.
Dalla logica della pena subita alla logica dell’impegno intrapreso
Abbandonata
la logica contabile della giustizia della bilancia, in quale modo potrebbe
rispondere lo Stato democratico alle domande di giustizia?
Una
guida orientativa per il sistema penale è costituita proprio dalla
riflessione feconda sul concetto di democrazia: la risposta democratica alla
commissione di un reato non fa leva sul fattore della forza, bensì sul
fattore del consenso. Un sistema
penale moderno, efficiente, democratico progetta interventi complessivi di
prevenzione degli illeciti; promuove l’adesione libera, il rispetto
spontaneo delle norme da parte dei cittadini attraverso l’emanazione di
un ordinamento giuridico autorevole, credibile, significativo che possa ben
radicarsi nella coscienza civile e orientare culturalmente i consociati;
interviene dopo la commissione dell’illecito superando la sterile
afflittività della pena detentiva – ancora dominante e centrale
nel panorama sanzionatorio vigente per proporre percorsi seri, quindi anche
severi e impegnativi, di reinserimento sociale. In ultima analisi, una
giustizia democratica è una giustizia che sostituisce alla forza della
pena che si può solo subire,
l’efficacia significativa di un impegno in prima persona che si
può intraprendere. Non una pena contro, ma un impegno per, per la persona offesa, per la collettività, per la
ricostruzione del legame sociale e il ripristino di quel patto di fiducia
originaria che deve sussistere in una “società buona da
viverci”.
6.
Le ragioni di un appello
L’attuale
situazione italiana vede la popolazione detenuta, per la grande maggioranza,
appartenente alle componenti deboli e svantaggiate della nostra società
(basti pensare che circa il 40% non ha la terza media e che un altro 37% ha
solo la terza media – dati min. giustizia 2001).
La
situazione dei detenuti è drammatica: il sovraffollamento, la mancanza
di cure per chi è malato, la carenza di personale (soprattutto educativo
e sociale), la scarsa applicazione delle misure alternative dovuta a ragioni di
povertà… sono alcune delle ragioni dell’allarme: le carceri
non rispettano la dignità della persona, sono, nei fatti quotidiani, un
trattamento inumano.
Viene
reso inutile lo strumento legislativo della facilitazione delle imprese che
assumono detenuti, ex detenuti e sottoposti a misure alternative: la legge
Smuraglia non sarà più finanziata dalla Legge Finanziaria per il
2003.
Volendo
vedere questa situazione attraverso i presupposti che sono stati sopra esposti,
non possiamo che constatare che le cose non vanno: bisogna cambiare rotta.
Vogliamo
rileggere e rilanciare le parole del papa “un
segno di clemenza verso [i detenuti] mediante una riduzione della pena
costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilita', che non mancherebbe di
stimolarne l'impegno di personale ricupero in vista di un positivo
reinserimento nella società.
Vogliamo,
cioè, che la clemenza e la messa alla prova divengano modi per
responsabilizzare i detenuti nella costruzione di reali storie di vita non
più criminali che possano contaminare la nostra
società di senso della legalità e rispetto degli
altri.
Le
organizzazioni del volontariato e del privato sociale, religiose e laiche,
stanno dimostrando con moltissimi esempi la reale percorribilità di modi
diversi di intendere le pene.
$
Conclusione
Proprio per
contribuire a promuovere una cultura e una prassi che rafforzi l'esigenza di
una nuova giustizia penale, anche in riferimento alle riflessioni prima
sviluppate facciamo in concreto alcune richieste :
·
Un urgente e chiaro atto di clemenza che non
lasci dubbi di interpretazione sulla volontà di una effettiva riduzione
della pena. La proposta attualmente in discussione al parlamento senza
stravolgimenti va approvata nel più breve tempo possibile per favorire
atteggiamenti più vasti di riforma, di riduzione del sovraffollamento,
di prevenzione del crimine, di una nuova politica per la sicurezza sociale.
·
Vanno sostenute proposte per aumentare
opportunità di lavoro reali per i detenuti. In questo contesto crediamo
urgente rifinanziamento della cosiddetta legge Smuraglia.
·
Assunzione di educatori, assistenti sociali e
un'adeguata politica di qualificazione del lavoro della polizia penitenziaria.
·
Favorire e sostenere sperimentazioni volte al
recupero e alla prevenzione con particolare riferimento a quelle fasce di
popolazione che affollano il carcere ( immigrati, tossico dipendenti ecc...