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Assemblea Nazionale Mediatori Culturali Opera
Nomadi
Roma, 10 - 11 maggio 2002
presso MIUR Viale Trastevere 76/a
Sala Conferenze Piano Terra
I “MEDIATORI” NEL TERZO MILLENNIO:
QUALI PROSPETTIVE?
Relazione introduttiva
PREMESSA
L’esperienza di formazione di “Mediatori Rom e Sinti”, da inserire nelle scuole materna ed elementare e nei servizi socio sanitari, prosegue la sperimentazione avviata con notevole e insperato successo, in una prospettiva di educazione interculturale e multiculturale, nei primi anni ’90 a Milano e Mantova, ed estesasi progressivamente nel molteplice e variegato contesto nazionale.
Nata inizialmente dall’esigenza di affrontare con strumenti nuovi la scolarizzazione dei bambini Rom, Sinti e Camminanti, problema che resta ampiamente irrisolto per complessi condizionamenti di ordine politico, sociale ed educativo, la “mediazione” ha visti riconosciuti ed estesi spazi di intervento professionale e culturale sempre più qualificati nell’ambito delle attività e delle strategie sociali delle Istituzioni.
“Il Mediatore” interviene oggi principalmente in 4 ambiti:
1. scuola
2. politiche sociali
3. sanità
4. giustizia.
J.P. Liègois in un suo scritto ha affermato che la scuola degli uni non è la scuola degli altri. L’incontro dei bambini rom/sinti con la scuola è nella maggior parte dei casi ancora traumatico, e lo è anche per gli altri soggetti non zingari presenti nella scuola, a causa delle differenze culturali che caratterizza la presenza di questi bambini.
La scuola, la sua organizzazione, i contenuti trasmessi, le sue finalità rappresentano per questi alunni i valori che la stessa società, che li esclude, ha definito.
Malgrado le buone intenzioni, il contesto generale è un contesto che può negare, provare diffidenza o addirittura escludere la diversità.
Con i
“Mediatori” si delinea una nuova figura che, se da un lato
contribuisce alla promozione della partecipazione di un popolo tradizionalmente
escluso dai processi decisionali ed organizzativi e al riconoscimento della
dignità di una cultura sconosciuta ai più, dall’altro
potrebbe costituire un modello che diventi punto di riferimento autorevole e
riconosciuto per i bambini, nelle scuole, e motore di sviluppo e integrazione
delle comunità zingare nella società.
L’intreccio di cause che caratterizzano negativamente la scolarizzazione, ma anche la evidente separazione sociale diffusa su tutto il territorio nazionale e che divide i Rom dal resto dei cittadini e delle istituzioni, può trovare anche in questa figura un valido sostegno per la ricerca comune di strategie di sviluppo e integrazione, con il coinvolgimento di più soggetti impegnati in campo educativo e sociale.
Si pensi ad esempio, in ambito scolastico, alle difficoltà di dialogo con i genitori degli alunni Rom, con la realtà di provenienza: in questo caso il mediatore contribuisce allo sviluppo di una comunicazione efficace non solo dentro la scuola ma anche con i soggetti che operano in campo economico, sociale e sanitario sul territorio.
Il “Mediatore” può dunque promuovere l’interazione tra sistemi spesso lontani creando quella reciprocità e quello scambio tra diverse culture e tra diverse regole di vita familiare e sociale di cui la nostra società ha estremo bisogno.
A
cura della Segreteria Nazionale
con
il contributo delle sezioni di:Milano, Mantova, Lazio e Torino
Si
ringraziano: Giorgio Bezzecchi, Maurizio Pagani, Yuri Delbar,
Carlo
Berini, Secondo Massano e Aleramo Virgili
LA
FIGURA DEL MEDIATORE CULTURALE
una progettualità costruita a Mantova
Perché è urgente l’esigenza della mediazione culturale?
Perché ogni cultura dà per scontate alcune cose: dà per scontato che il suo modo di comunicare, i suoi valori, il suo modo di rappresentare la realtà siano "il" modo, cioè l'unico modo, o che comunque sia capito da tutti, anche da coloro che non lo condividono. Inoltre, dà per scontato anche il fatto di tendere ad inglobare chi non fa parte di questa cultura, come dà per scontato che coloro che appartengono a culture “diverse” sono come gli stereotipi li presentano. Vede quindi queste altre culture attraverso gli occhi degli stereotipi.
Se io non conosco qualcuno, l'immagine che ne ho è -in genere- quella stereotipata; e se io non me ne rendo conto, questa si trasforma in pregiudizio, in discriminazione ecc. Proprio per questa ragione nasce l'esigenza di una mediazione.
La
mediazione culturale
La mediazione culturale, e in particolare la figura del mediatore culturale, assume i caratteri della professionalità: è un mediatore di tipo professionale, programmato, pensato e istituzionale.
La
mediazione culturale è politica formativa verso le Istituzioni,
perché nelle Istituzioni le persone si presentano con particolari
bisogni e disagi, e verso le comunità intere.
La mediazione culturale dovrà svolgere diversi compiti nelle Istituzioni: il bambino che entra nella scuola ha bisogno di questa mediazione, perché entra in un mondo che non conosce, con dei bisogni ed esigenze che non sono conosciute dall’Istituzione Scuola. I compiti della mediazione culturale saranno quelli:
1. di far conoscere ai genitori del minore rom/sinto la valenza educativa e formativa dello strumento scuola nella cultura maggioritaria ed insieme allo stesso genitore chiedere alla scuola il cambiamento verso un riconoscimento dei modelli propri della cultura rom/sinta;
2. di stimolare e formulare progetti formativi a favore degli insegnanti perché acquisiscano gli strumenti atti a tramutare in progetti educativi e didattici le richieste dei genitori, facendo in modo che ogni minore possa ritrovare nella scuola tracce del suo mondo concreto, soprattutto in campo educativo dove si dovranno attuare modelli interculturali.
Questo breve esempio di mediazione culturale, non esaustivo verso il problema scuola, è da applicare a tutti i contesti politici e Istituzionali: negli ospedali, nelle maternità, nei consultori, nelle scuole, nelle Questure, negli Enti Locali, ecc.
Cosa accomuna tutte queste situazioni, e quindi accomuna tutte le figure di mediatore culturale, al di là delle differenze?
1. Queste sono situazioni in cui esiste uno squilibrio di potere, in genere, fra l’appartenente alla cultura minoritaria e l'Istituzione. L'appartenente alla cultura minoritaria ha quindi particolarmente bisogno di essere garantito, di essere legittimato.
2. Sono situazioni in cui scattano, molto spesso condizioni di pregiudizio razziale, discriminazione razziale, quando non veri e propri razzismi: di fronte ad una Istituzione la persona che porta con sé una cultura diversa è impacciato, imbarazzato, viene trattato in genere diversamente. Il mediatore deve essere garante che queste cose non accadano.
3. In ultimo, al di là dei lati negativi esposti, o comunque problematici, esiste una differenza culturale: ci sono diversi modi di comunicare col corpo, ci sono persone che, quando si parlano, devono stare vicine, e persone che invece devono stare lontane ecc.; ci sono culture molto più dirette, nel dire le cose, culture che ci girano attorno; e, comunque, sussiste anche un problema di comprensione della lingua. Esistono diversi modelli familiari, ecc.
Da qui la definizione della mediazione. In queste situazioni, che possono essere accomunate da questi aspetti, la mediazione è un'azione che si svolge fra due gruppi di persone, di culture diverse, tramite terze persone - i mediatori - per far sì che queste due persone o gruppi comunichino fra loro o si sanino comunicazioni già sbagliate, già insane, che hanno portato già a malintesi, a rifiuti, a diffidenze, a chiusure.
La
mediazione culturale mette in contatto, getta ponti su mondi molto diversi,
riuscendo a creare un dialogo atto a responsabilizzare le Istituzioni sui
propri doveri e le famiglie rom, sinte, camminanti sui propri diritti e doveri
di Cittadini Italiani.
Cultura
e acculturazione
A questo punto prima di continuare ad abbozzare alcune definizioni su chi è il mediatore culturale e cosa fa, poniamoci una domanda: non esiste una comunicazione attualmente tra la cultura maggioritaria e la cultura rom, sinta e camminante?
Esiste una comunicazione perché ci troviamo di fronte a due culture vive che sono a contatto da sei secoli; intendendo il proteico termine cultura nel senso usato dagli etnologi: essa designa un insieme di comportamenti originali, appresi, trasmessi a tutti i membri di un dato gruppo, più un insieme di idee, abitudini, valori immagini, credenze, più una serie di oggetti, utensili, strumenti, tecniche, vesti, e anche di procedimenti, di gusti architettonici.
Questo tipo di comunicazione è dato da processi di acculturazione, ovvero da processi di confronto, mescolanza, dialogo e più spesso di prove di forza tra due culture. L’acculturazione comprende i fenomeni che risultano dal contatto diretto e continuo fra gruppi di individui di diverse culture, con cambiamenti susseguenti nei tipi culturali originali dell’uno o dei due gruppi.
La
grande maggioranza degli studi sull’acculturazione procede da una
scoperta: i bisogni di comunicazione fra gruppi umani nell’estrema
diversità esistente ancora sulla ”terra degli uomini”.
Di conseguenza, sullo sfondo della drammatica dei gruppi umani, nella loro minuta cronaca di urti, accettazioni, compromessi, la parte attiva va alle culture, entità animatrici e sovrane.
La mediazione culturale favorisce i processi di acculturazione cercando di eliminare gli elementi di attrito e soprattutto di scontro, ricercando e valorizzando i momenti di condivisione che la cultura maggioritaria e la cultura rom/sinta hanno trovato o stanno contrattando insieme, lasciando i momenti di diversità al loro posto.
I mediatori culturali
Una delle frasi fatte che si sentono ripetere è che il mediatore "sta in mezzo", fra le due culture, alcuni suggeriscono l'idea di un mediatore equilibrista, che cammina su un filo, senza rete, con due corde che lo tirano in direzioni opposte: prima o poi verrà strappato da una parte o dall'altra, o cadrà rovinosamente. Di fatto, parlando durante le tante riunioni e nei momenti informali emergeva un po' quest'idea, cioè il fatto di sentirsi a metà fra una situazione e l'altra, vivendo uno stato di schizofrenia culturale. Allora, se vogliamo fare un passo avanti dobbiamo dire che il mediatore non può essere uno, ma devono essere due: un/una rom/sinto e un/una appartenente alla cultura maggioritaria[1]. Perché devono saper percorrere entrambe le culture, ma senza perdere la propria identità, sostenendosi ed elaborando insieme strategie per la risoluzione dei conflitti. Quindi svolgono un duplice processo, di avanti e indietro, di dare e avere, di diffusione presso l'altra cultura di quello che fa l'una, accoglimento presso la prima di quella che fa l'altra e viceversa .
I mediatori culturali sono persone appartenenti alle due culture “in gioco” che hanno visto e vissuto i momenti di forte scontro nei processi di acculturazione e che hanno sperimentato tecniche per ammortizzare questi scontri.
Metodologia
nella mediazione
Metodologicamente possiamo esprimere tre specifiche funzioni.
1) Funzione pratica
I mediatori hanno una funzione di orientamento di tipo organizzativo/pratico. Devono aiutare gli utenti a capire che cosa fare, dove farlo, come farlo. Quindi: se io mi voglio iscrivere a scuola, devo sapere qual’è la scuola dove mio figlio si può meglio inserire, dove sono in funzione alcuni servizi specifici quale il trasporto scolastico, il tempo pieno, normale o prolungato, ecc.
I mediatori devono possedere tutte queste informazioni per poter aiutare l'utente. Dal dove andare al come fare, devono sapere che va compilato un modulo e devono aiutare l'utente a compilarlo.
Ci sono dunque tutta una serie di funzioni pratiche che i mediatori hanno e che sono fondamentali. E che sono, se vogliamo, anche le più urgenti, anche se non le più importanti, perché sono quelle che costituiscono il primo impatto di un utente con il servizio, il primo approccio di una persona che vuole regolarizzare una attività lavorativa autonoma, che va in ospedale, in una scuola, in Comune, ecc. La prima cosa è sapere dove andare, con chi parlare, che cosa fare.
2)
Funzione comunicativa – formativa
I mediatori, a seconda del suo ruolo, deve aiutare l'adulto, il bambino, la donna, la famiglia che va in un ospedale, in una scuola, a comunicare con il professionista (il medico, l'insegnante, la direttrice, il funzionario, lo psicologo ecc.), e viceversa. I mediatori sono quelli che aiutano a riempire i vuoti. Ovvero, quando non c'è comprensione devono capire dove si è fermata la comunicazione, qual è il vuoto e riempirlo; cioè dire: «Guarda che in questo caso quella parola vuol dire questo, in quell'altro vuol dire quell'altro»; oppure, rispetto al comportamento: «Guarda che se la maestra ti viene vicina non è perché ti vuole picchiare, guardare, scrutare, ma ti vuole dimostrare la sua vicinanza».
I mediatori hanno quindi questa funzione di spiegare le cose che non vengono capite. Dall'uno (l'utente) o dall'altra (l'istituzione). «Guarda che se il bambino rom/sinto sta zitto, non è perché non è interessato, ma perché ha paura di parlare». Questo è uno dei casi citati da Gabrieli Davide (mediatore culturale nel Comune di Mantova), ma che emergeva anche dalla mappatura che abbiamo fatto nelle scuole della Provincia di Mantova: il bambino rom/sinto, all'inizio, sta zitto, non fa domande anche se non capisce, non dice che è interessato, non dimostra la sua voglia di imparare, di partecipare, di far parte di. Quindi i mediatori sono coloro che spiegano all’insegnante che il bambino tace perché ha paura, non perché “se ne frega” e che aiutano il bambino ad aprirsi, a non avere paura.
Si tratta dunque di colmare i vuoti della comunicazione. E assicurarsi che poi tutti abbiano capito. I mediatori devono incoraggiare entrambe le parti a fare domande, perché se io non ho capito, l'unica modo per capire meglio è chiedere. E questo in tutt'e due le direzioni. Bisogna quindi chiedere al bambino rom/sinto se ha qualcosa da dire, e alla maestra se può ripetere a spiegare.
L'altra cosa è far sì che nasca una relazione, perché di fatto, in molti casi, addirittura questa relazione non nasce. In alcuni casi, c'è una tale difficoltà a comunicare che non nasce la relazione diretta fra i due, cioè fra il medico e il paziente, fra l'insegnante e l'alunno, ecc. I mediatori non devono sostituirsi e avere loro la relazione, per esempio col bambino rom/sinto o il genitore e con l'insegnante separatamente, perché questo non serve a nessuno (o per lo meno serve solo in un primo tempo). Devono far sì che ce l'abbiano queste due persone. E per far ciò un modo è quello di creare un clima non di paura, non di diffidenza, ma di fiducia, anche molto banalmente di cordialità.
Qui emerge un fatto che viene molto discusso da tutti coloro che lavorano nella mediazione, e che viene sollevato anche dai sei mediatori culturali: la paura di dover sostituire l'operatore. "io non sono capace di fare la maestra - diceva Gabrieli Davide - anche se voglio aiutare i nostri bambini nei compiti o in altre cose»; oppure ancora: «Ma io non voglio andare a dire alle famiglie quello che deve dir loro la scuola. Sarà la scuola che va a cercare la famiglia, e viceversa per dire che il bambino deve andare a scuola dopo i sei anni, fino ai quattordici - quindici». I mediatori potranno essere presenti per far sì che queste persone si parlino e si capiscano, ma non possono sostituirsi al ruolo dell’uno o dell’altro. Questa è una delle ambiguità che creano problemi, ed è una delle ragioni che, in genere, fanno fallire le esperienze di mediazione.
Ancora: i mediatori devono assicurare all'utente (il bambino, la mamma, il papà, il/la paziente, la partoriente) che gli verrà assicurato il servizio migliore possibile, cioè che non gli verrà fornito un servizio più schifoso fa parte di una minoranza. Gli garantirà il diritto al servizio migliore possibile, e dovrà far sì che così avvenga. D'altra parte, però dovrà un spiegare quali richieste sono legittime e quali non sono legittime, ad esempio:
a) se io vado a chiedere alla scuola che mi risolva i problemi di ordine medico di mio figlio, i mediatori e gli insegnanti potranno sì mettere in contatto col medico scolastico, ma devo sapere che il medico scolastico lo manderà da qualcun altro, perché non è compito della scuola risolvere questo problema;
b) se io vado a scuola e dico: «Io ti mando in classe mia figlia, ma solo se tu mi trovi un lavoro, se no devo mandare lei a lavorare» questa richiesta non è legittima.
D'altra parte, se la richiesta è legittima, allora i mediatori saranno i garanti che questa venga soddisfatta.
Questo per quanto riguarda la comunicazione. Dietro a questo sta tutto quello cui si accennava prima: il problema dei pregiudizi, degli stereotipi, o peggio del razzismo. Allora i mediatori, in questo caso, hanno una grande funzione perché sono le figure, appartenenti a tutte e due le culture, che si pongono insieme di fronte a tutti i soggetti interessati: nella scuola sia ai minori e genitori rom/sinti, sia ai minori e genitori racli, sia anche alle insegnanti e a tutta la scuola.
Nell’esempio scuola punto fondante sono gli insegnanti, perché sono essi che devono accettare, accogliere i minori. Anche qui: i mediatori non possono sostituirsi agli insegnanti, ma possono dare un primo sostegno affettivo all'entrata in classe.
Quindi c'è una prima funzione affettiva, ma, nei fatti, è l'insegnante che deve accettare il bambino, perché è l'insegnante l'autorità dell'istituzione. E allora, a questa punto, la presenza dei mediatori che aiutano l'insegnante a costruirsi una formazione, a vedere il bambino rom/sinto in maniera meno stereotipata.
Non solo. Ma i mediatori fanno vedere il rom/sinto non più solo come portatore di problemi, portatore di bisogni, portatore di richieste, ma anche come una persona che risolve questi bisogni, che risponde a queste richieste, che riesce a portare ricchezza.
Tutto questo per rimanere nella funzione comunicativa, formativa e culturale.
3)
Funzione psicosociale
E’ il livello di lavoro più delicato che devono affrontare i mediatori culturali che abbiamo finora solo sfiorato.
Perché da una parte è quella che aiuta entrambi i gruppi a superare la posizione di "noi e loro": «loro sono cattivi, noi siamo buoni», cioè di gruppi contrapposti.
Questa posizione è una posizione psichica di chiusura, e i mediatori devono fare questo lavoro, molte volte lento e graduale, perché venga superata.
Strettamente connessa al psicosociale, e anch'essa delicata, è la continua lettura nella ridefinizione dell'identità delle culture.
Ogni qualvolta si parla di questi argomenti, appunto, viene fuori il problema: «allora la cultura minoritaria deve omologarsi», o comunque i mediatori culturali sono quelli che devono spiegare al bambino, alla donna, all'uomo della sua cultura che se non si comporta in un certo modo non verrà accettato; e quindi che deve cambiare, deve tradire se stesso.
I mediatori non tradiscono niente e nessuno, così come nessuno deve tradire. Il problema è che l'identità non è una cosa statica, tutta monolitica come abbiamo visto nel concetto di cultura. E' un qualcosa per cui alcuni aspetti non possono essere "traditi", perché altrimenti la persona perde l'identità e sta male, può diventare pazzo, può ammalarsi, può avere delle crisi; ma ci sono alcuni aspetti che possono essere modificati.
I
mediatori, e questa è la funzione ultima, più delicata e, se
vogliamo, anche più ideale, perché la più difficile (e non
è detto che venga sempre svolta), aiutano l'appartenente al gruppo
minoritario e l’appartenente al gruppo maggioritario a capire quali aspetti
possono condividere senza aver paura di tradire una parte della propria
cultura. Perciò, se io penso che nella mia cultura rom/sinta la
fedeltà nei rapporti sia importante (per esempio la fedeltà
nell'amicizia) non devo perdere quello; però non devo neanche pensare
che se una persona non ha le mie stesse modalità comunicative, allora
vuol dire che non mi è fedele: avrà diversi modi di essermi
fedele, anche se parla anche con altri, anche se, per esempio nel caso della
maestra a scuola, guarda anche altri bambini.
Un altro esempio può essere espresso nelle diverse modalità di comunicazione: la cultura sinta ha una tradizione di lingua orale, mentre la cultura maggioritaria ha una tradizione di lingua scritta. L’impegno di una persona verso un’altra è espresso dalla “parola data” nella cultura sinta, questo non vuole dire che come sinto mi fiderò di un contratto scritto ma nello stesso tempo spiegherò a chi mi promette una determinata cosa che per la mia cultura è molto più importante “la parola data”. Allo stesso modo come raclo, appartenente alla cultura maggioritaria, mi fiderò “della parola data” ma nello stesso tempo spiegherò a chi mi promette una determinata cosa che per la mia cultura è molto più importante scrivere gli impegni presi. In questo modo io non tradisco la mia cultura ma condivido diversi modi di rapportarmi con le “altre” culture.
I rischi
nella mediazione culturale
La prima condizione perché possa avvenire la mediazione culturale è che le culture vengano considerate di pari dignità, alla pari, perché altrimenti non si parla di mediazione ma di omologazione, di facilitazione all'omologazione.
Il rischio è evidente in quelle situazioni in cui i rom/sinti sono “a traino” dei “racli”, dove più o meno consapevolmente appartenenti della cultura maggioritaria si ergono a interpreti delle richieste delle comunità sinte, sfruttando a proprio vantaggio la situazione.
Al contrario è reale il rischio che siano gli appartenenti alla cultura sinta che “trainano” gli appartenenti alla cultura maggioritaria, considerando le Istituzioni e in generale i racli come “vacche da mungere” e spremere a proprio vantaggio.
Ancora peggiore è il rischio quando gli appartenenti alla cultura maggioritaria esplicitano la convinzione che i rom/sinti “devono fare da soli” e nello stesso tempo sono loro a prendere decisioni “sulla testa delle persone” adducendo a giustificazione un presunto grado di maturità e di crescita non ancora soddisfacente a degli standard propri della cultura maggioritaria.
La seconda condizione è che entrambe le culture riconoscano i mediatori culturali, perché se non riconosciuti da una delle culture si cade nel rischio della delegittimazione. Dalla nostra esperienza il rischio più grave è nelle Istituzioni, che hanno il compito di sostenere finanziariamente e non solo i processi di mediazione. L’Istituzione si trova spesso in difficoltà nel riuscire a riconoscere l’importanza della mediazione culturale perché è qualcosa di nuovo, di diverso e molto spesso non si riesce a leggere in modo positivo le nuove esperienze anche se riescono, come nel nostro caso, a raggiungere obbiettivi importanti, riconosciuti dalle comunità intere.
L'obbiettivo finale della mediazione culturale è accompagnare il nostro prossimo futuro in una società dove la conoscenza e il rispetto siano insiti nelle diverse comunità, creando i presupposti per l’effettiva crescita di una società interculturale.
Þ Il proteico termine cultura designa un insieme di comportamenti originali (es. lingua), appresi, trasmessi a tutti i membri di un dato gruppo, più un insieme di idee, abitudini, valori immagini, credenze, più una serie di oggetti, utensili, strumenti, tecniche, vesti, e anche di procedimenti, di gusti architettonici.
Þ Ogni cultura viva è “un organismo vivente” instabile, è un sistema autoregolativo attraverso i valori morali e in alcuni casi giuridici che regolano l’organizzazione della società espressa.
L’instabilità
è il concetto chiave per comprendere se una cultura è
”viva”, è oramai sfatato dalle scienze sociali il vecchio
paradigma che sosteneva la gradualità dell’evoluzione (la crescita
graduale, Darwin) lenta, continuativa, .... e progressiva (verso il
“meglio”). Negli studi di Eldredge-Gould (1972), grazie anche agli
studi paleontologici, si enuncia che l’evoluzione è anche:
rapida, discontinua, ... e contingente (non
progressiva e fondamentalmente dipende dalle condizioni esterne).
Þ Dove si incontrano due culture vive non può esistere equilibrio, ogni cultura parte dal presupposto di essere la migliore nei confronti dell’altra e viceversa.
L’antropologo
Piasere parla di errore secolare dell’umanità, la mediazione
culturale deve sempre lavorare verso il riconoscimento pieno della
validità di ogni cultura da parte delle stesse culture.
Þ Nell’incontro tra due culture l’evoluzione dei rapporti, nella costruzione di patti sociali, è instabile.
La
mediazione culturale tende a dare stabilità
nell’instabilità, ovvero a non far prevalere una cultura
sull’altra e viceversa.
Mediazione culturale
Cultura maggioritaria (in senso numerico) Cultura sinta
PROCESSI
DI
ACCULTURAZIONE
società a solidarietà
meccanica (1) che impone e difende il proprio sistema (2) attraverso:
a) struttura politica a polvere
b) non riconoscimento (furto)
c) tendenze all’inclusione e allo sfruttamento
società a solidarietà
organica (1) che impone e difende il proprio sistema capitalistico o dello
stato moderno attraverso:
a) assimilazione (scuola)
b) controllo (area sosta, servizio sociale)
c)
repressione ed esclusione (forze dell’ordine)
AZIONE MULTICULTURALE Favoriscono
i processi di acculturazione ovvero di condivisione tra le due culture
mettendo in contatto gettando ponti su mondi molto diversi MEDIAZIONE
CULTURALE sono
presenti in tutti i momenti di incontro/scontro per agevolare la
comunicazione tra le due culture e sanare quelle comunicazioni già
sbagliate AZIONE INTERCULTURALE Non intervengono nei momenti
ritenuti non condivisibili dalle due culture in un dato momento,
valorizzando i momenti di condivisione
Nota 1, SOLIDARIETA’ MECCANICA E
ORGANICA
Emile Durkheim nella sua opera, De la division du travail social, considerata un classico della letteratura sociologica e antropologica, offre un modello dicotomico (rapporto di due caratteri che si escludono l’un l’altro) nella ricerca di una causa prima capace di spiegare come mai le società umane si trasformino:
da società dove è scarsamente sviluppata la divisione del lavoro a società dove è altamente sviluppata la divisione del lavoro.
Noi possiamo utilizzare questo modello, in modo improprio, per cercare di comprendere le profonde differenze che vi sono tra la cultura sinta e la cultura maggioritaria eludendo il modello evoluzionistico che è fondamento, anche se non troppo approfondito, in questa teoria dicotomica.
Solidarietà Meccanica, cultura sinta - nella società, dove manca o è scarsamente sviluppata la divisione del lavoro, non vi è spazio per le individualità e le differenze, le varie unità sociali stanno insieme perché sono tutte simili e tutte ugualmente sottoposte all’unità di grado superiore di cui fanno parte: l’individuo alla famiglia, la famiglia al clan familiare, il clan familiare al gruppo etnico-linguistico. In questa società la presenza della solidarietà meccanica è evidenziata dal prevalere di norme che puniscono in modo esemplare coloro che violano le leggi del gruppo (sanzioni repressive).
Solidarietà Organica, cultura maggioritaria - nella società, dove prevale un’alta divisione del lavoro, ogni individuo e gruppo svolge funzioni diverse, la solidarietà sociale non si fonda più sull’uguaglianza ma sulla differenza, gli individui e i gruppi stanno insieme, formano “società”, perché nessuno è più autosufficiente e tutti dipendono dagli altri. Nei sistemi giuridici prevalgono le norme che regolano i contratti (il diritto civile), la violazione di tali norme non produce punizioni esemplari, ma sanzioni che ristabiliscono l’equilibrio turbato dalla violazione (sanzioni restrittive).
<Per conoscere il sistema o i sistemi propri di una cultura devi essere nato in una cultura e devi vivere in quella cultura> (Yuri Del Bar, Mediatore Culturale Sinto) per poi concettualizzare il sistema o i sistemi che regolano la tua società.
Ma in quale forma concettualizzare questi sistemi? usando i concetti, le definizioni e le modalità proprie di una delle due culture, in questo caso quella maggioritaria? creare nuove concettualizzazioni, nuovi paradigmi? come poi potranno interagire queste nuove concettualizzazioni con quelle proprie della cultura maggioritaria e viceversa?
Questo è un limite evidente di tutta la concettualizzazione schematizzata, difficilmente superabile in tempi brevi; possiamo nominare questa parte dello schema: area buia, dove si è tentato impropriamente di aprire uno spiraglio. Sarà fondamentale un impegno profondo di tutti, ma soprattutto dei sinti nel concettualizzare la propria società anche utilizzando (processo di acculturazione) pezzi concettuali propri della cultura maggioritaria.
Si può comunque azzardare che la cultura sinta è una società con meno diseguaglianze della cultura maggioritaria (capitalista) che è fortemente differenziata e stratificata.
MEDIATRICI CULTURALI ROM NELLA SCUOLA
L'esperienza
di Milano
Il progetto iniziale di
formazione di mediatrici culturali rom nasce a Milano, nei primi anni '90, con
lo scopo di creare una nuova figura che potesse favorire l’instaurarsi di
un fattivo dialogo tra l’istituzione scolastica e le famiglie zingare,
facilitando l’inserimento scolastico dei bambini e la loro integrazione
nel rispetto della propria identità culturale.
In
particolare, considerati i pregiudizi particolarmente marcati nei confronti del
popolo Rom e dei bambini già inseriti nelle scuole, si ritenne
particolarmente importante inserire nelle scuole figure Rom qualificate, che
diventassero col tempo punto di riferimento autorevole per loro e, più
in generale, per tutti i bambini.
Un
ulteriore obiettivo fu anche quello di rispondere alla richiesta, soprattutto
di giovani donne rom, di una possibilità di lavoro, di istruzione e di
apertura al confronto positivo con il mondo non zingaro.
Il
Corso di formazione iniziale, venne realizzato nel 1993
dall’Università Degli Studi di Milano (équipe coordinata da
Susanna Mantovani, allora docente di Pedagogia sperimentale, oggi Preside di
Facoltà) in collaborazione con l’Opera Nomadi.
Successivamente,
nel 1996, le mediatrici hanno svolto un ulteriore corso di formazione e
aggiornamento (della durata di 50 ore) gestito sempre in collaborazione tra
Università e Opera Nomadi.
Questo
secondo momento di formazione, preceduto da un’attività di ricerca
(interviste e colloqui con le mediatrici e con insegnanti e dirigenti
scolastici), ebbe lo scopo di monitorare l’esperienza, di offrire un
supporto formativo in campo pedagogico e culturale e di rilanciare il ruolo
delle mediatrici culturali all’interno della scuola e con le stesse
famiglie zingare (analisi e riflessione sulle problematiche emerse, bisogni
specifici di cui prima si era consapevoli in modo generico, prospettive future
di cambiamento).
All'inizio
del 1998 le mediatrici culturali zingare, sostenute dalla convinta richiesta
delle scuole e dei loro dirigenti, vennero incaricate direttamente
dall'Amministrazione Comunale con contratto da allora rinnovato annualmente.
Da
questo momento esse non hanno più avuto altri successivi momenti di
formazione, formazione di cui si avverte ora l’esigenza (in campo
psicopedagogico, per migliorare il livello d’istruzione e di cultura, per
consentire la riflessione sul ruolo e sui compiti specifici delle mediatrici
culturali nella scuola).
Il
lavoro delle mediatrici viene seguito da una psicologa, che opera per conto del
Comune, con incontri periodici e finalizzati al solo coordinamento delle
attività.
Inizialmente
le mediatrici erano 10.
Di
queste solo 2 hanno abbandonato, nel corso degli anni (difficoltà di
alcune mediatrici a sostenere il loro ruolo rispetto alle proprie famiglie
perché, per un certo periodo, esse non vennero retribuite; inoltre difficoltà
riconducibili al fatto di trovarsi tra due mondi e due culture e
difficoltà ad adeguarsi
alle regole lavorative richieste dall’istituzione)
Altre
2 si sono nel frattempo diplomate come "educatrici d'infanzia", pur
continuando a svolgere l'attività di mediatrice.
Attualmente
nelle scuole elementari milanesi lavorano 10 mediatrici, di cui 7 da ben nove
anni.
Notevoli
sono state le difficoltà incontrate, soprattutto nei primi anni:
preparazione iniziale insufficiente, richieste eccessive delle scuole che non
ne compresero la funzione.
Tuttora
i loro compiti non sono stati del tutto definiti con chiarezza, per cui alle
mediatrici si chiede contemporaneamente tutto e niente, dal puro accudimento
dei bambini, all’assunzione vera e propria del ruolo di insegnanti nei
loro confronti, ruolo per cui esse non sono preparate e che non è
comunque il ruolo di mediazione culturale che esse dovrebbero svolgere nella
scuola. Le mediatrici dovrebbero semmai affiancare le insegnanti e non
sostituirsi ad esse; inoltre le scuole chiedono alle mediatrici di farsi
carico, talvolta in toto, dei contatti e delle comunicazione con le famiglie
zingare, “scaricando su di esse” un compito che dovrebbe prima di
tutto riguardare la scuola stessa e a cui esse potrebbero offrire un valido
supporto come, appunto, mediatrici culturali e non come pure
“portavoci” delle esigenze dell’istituzione scolastica presso
le famiglie zingare e, viceversa, delle istanze delle famiglie zingare presso
la scuola.
Un
ulteriore aspetto degno di nota è costituito dal fatto che
l’esperienza ha consentito il superamento, da parte degli stessi
mediatori Rom e dei bambini, di rigidità nei confronti di altri Rom
provenienti da insediamenti o gruppi diversi da quelli di appartenenza,
favorendo così una maggiore reciproca conoscenza e solidarietà.
Alcune
delle mediatrici oggi dimostrano di aver compiuto, spesso da sole, un percorso
di crescita formativa che le ha portate ad assumere una notevole consapevolezza
e capacità di riflessione rispetto al loro ruolo e ai loro compiti, con
cognizione di tutte le contraddizioni irrisolte, delle difficoltà
incontrate, dei momenti di conflitto che esse hanno imparato a gestire e a
superare anche grazie ad una loro autentica capacità di mediazione
culturale conquistata sul campo.
L’esperienza
condotta in questi nove anni ha sicuramente permesso loro di crescere
umanamente e culturalmente, di confrontarsi in modo ravvicinato con il mondo
dei cosiddetti “gagé” al di là dei reciproci
stereotipi e pregiudizi, che quasi sempre caratterizzano le relazioni fra
zingari e non zingari e di testimoniare, all’interno della famiglia e
della comunità zingara anche un diverso ruolo della donna, in relazione
con quello tradizionale proprio della struttura clanica patriarcale.
La
possibilità di guadagnarsi onestamente da vivere con un lavoro
qualificato, stimolante e di sicura utilità per i bambini rom, oltre che
per la scuola, senza essere costrette alla mendicità o ad altri
espedienti, è ritenuta da tutte le mediatrici qualcosa di molto prezioso
non solo da salvaguardare, ma da promuovere ulteriormente ( per esempio
aumentando il loro impegno lavorativo di mediatrici a scuola, oppure diventando
educatrici nelle scuole dell’infanzia o maestre).
Queste
giovani donne hanno acquisito un certo grado di autonomia e indipendenza dalla
famiglia, dopo un periodo di difficili rapporti perché oggetto di
invidie e di rivalità da parte delle altre donne zingare e, per le
sposate, di difficoltà a conciliare il proprio ruolo di madri e di mogli
con l’impegno lavorativo.
Esse
si sono guadagnate il rispetto di molte famiglie zingare proprio per il ruolo
che svolgono nella scuola. Grazie alla loro presenza, i genitori zingari
affidano volentieri i loro figli alla scuola, sapendo che esse possono
garantirne la protezione e la tutela all’interno dell’istituzione
scolastica ed inoltre possono domandare direttamente ad esse che cosa accade ai
loro bambini, come e che cosa imparano o non imparano, quali sono i problemi e
le difficoltà da superare; talvolta le insegnanti più sensibili
riescono ad instaurare un proficuo dialogo con le famiglie dei loro alunni
zingari grazie al ruolo di mediazione svolto dalle mediatrici che le
accompagnano al campo in visita o accompagnano i genitori zingari a scuola e
sono presenti ai colloqui.
L’essersi
impossessate, certamente a livelli differenti tra l’una e l’altra,
di alcuni strumenti culturali del mondo alfabetizzato, senza venir meno al
rispetto dei valori della cultura di origine, l’aver lavorato
all’interno dell’istituzione scolastica e l’aver conosciuto
regole e condizioni di vita profondamente diverse dalle loro, ha potenziato le
loro capacità ed unitamente alle peculiari doti e risorse della cultura
zingara, ha permesso loro di assumere iniziative e di reagire anche agli aspetti
di incertezza della loro condizione lavorativa.
In
questi nove anni le mediatrici hanno acquisito maggiore autonomia ed
autorevolezza, maggiore capacità d’iniziativa e di collaborazione
nel rapporto con docenti e dirigenti scolastici e maggiore consapevolezza delle
regole che il lavoro dentro l’istituzione scolastica comporta. Esse
svolgono un ruolo cruciale nel primo inserimento dei bambini zingari a scuola e
collaborano con le insegnanti nel predisporre il setting dell’esperienza
educativa e nell’attivazione dei dispositivi necessari
all’accoglienza dei bambini. La loro conoscenza dei bambini zingari e
delle loro famiglie, la conoscenza della loro cultura e soprattutto l’uso
della lingua materna (il romanés), che è reso possibile proprio
dalla presenza delle mediatrici all’interno della scuola (lingua che
viene così riconosciuta ed anche valorizzata), sono i punti di forza
della loro opera di mediazione culturale in tutti i contesti d’
interazione e di relazione; esse svolgono un ruolo cruciale nella mediazione
dei conflitti e nella prassi educativa e didattica.
In
questi anni esse hanno acquisito anche capacità d’insegnamento,
non solo nei confronti dei bambini zingari, ma anche verso gli alunni stranieri
e quelli con difficoltà di inserimento e apprendimento. Ciò
è avvenuto affiancando le insegnanti delle classi o gestendo
direttamente i bambini nell’apprendimento svolto in piccoli gruppi e
nelle attività di laboratorio. In particolare, sul piano metodologico e
didattico, esse hanno compreso il valore di una didattica che si fondi:
·
sull’imparare facendo e giocando
·
sulla predisposizione degli spazi e
sull’organizzazione degli ambienti e dei materiali
·
sull’esperienza della narrazione (recupero del
patrimonio orale delle fiabe e dei racconti di vita zingara)
·
sullo sviluppo della creatività.
A
questo punto del loro cammino all’interno della scuola, le mediatrici
culturali zingare chiedono:
·
il pieno riconoscimento del loro ruolo professionale
all’interno dell’istituzione scolastica, con una definizione
più precisa dei loro compiti e della loro condizione lavorativa
(dovranno rimanere incaricate comunali con un contratto a termine o non sarebbe
più logico una assunzione a tempo indeterminato come operatrici
scolastiche dipendenti dello Stato?)
·
una migliore qualificazione e preparazione, attraverso un
corso di formazione mirato rispetto ad un progetto ispirato alle attuali e
future necessità
·
l’estensione della loro presenza alle scuole
dell’infanzia (in questi anni le famiglie zingare richiedono
l’inserimento dei loro bambini di cinque anni nelle scuole materne
perché ciò rende più facile la loro successiva
scolarizzazione e più naturale il loro inserimento e il loro processo
d’interazione-integrazione nella scuola elementare).
Esse
costituiscono ormai una preziosa risorsa, sia per la scuola, come può
essere attestato dai dirigenti scolastici e dalle insegnanti nelle cui scuole
esse operano e in cui la presenza di alunni zingari è consistente, sia
per le famiglie zingare e per i loro bambini.
I
dati dell’aumento della frequenza scolastica degli alunni zingari, che
è divenuta non solo numericamente più consistente, ma
qualitativamente migliore là dove esse sono presenti, costituiscono
un’ulteriore conferma della validità della loro figura.
Sovente l’analisi dei
fenomeni sanitari evidenzia aspetti di grave preoccupazione, legati soprattutto
all’assenza di interventi mirati di prevenzione e cura delle principali
patologie riscontrabili.
Gli indici relativi ai tassi di
natalità, morbilità, mortalità rilevabili nei diversi
gruppi zingari stanziali sono drammaticamente accostabili a quelli dei Paesi
poveri del sud del mondo e sono la conseguenza diretta anche di un rapporto con
le strutture sanitarie di base e quelle ospedaliere incerto ed occasionale.
Molti elementi di conoscenza
sfuggono alla nostra attenzione giacchè i sistemi informativi sanitari
risultano inadeguati per fornire informazioni specifiche sul “gruppo
zingaro” (la malattia non è un evento che investe solo il singolo
individuo, bensì può diventare un problema sociale che coinvolge
l’insieme del gruppo familiare esteso), mentre gli spostamenti dai luoghi
di residenza (per lo più esercitati in forma coatta) impediscono di
eseguire valutazioni longitudinali consistenti.
Il primo accesso per gli zingari
praticabile nel nostro sistema sanitario è rappresentato solo dal pronto
soccorso ospedaliero, per la sua visibilità, accessibilità ad
ogni orario, gratuità, assenza di controllo di documenti, per la possibilità
di accompagnamento e di solidale permanenza accanto al paziente.
Il ricorso a tale struttura
avviene dunque, secondo tradizione, nel momento di conclamata necessità:
fatti traumatici o l’apparire di sintomi acuti della malattia, mentre
affezioni anche gravi permangono ignorate a lungo.
La stessa gravidanza, anche
quando ha cessato di risolversi all’interno del campo con
l’assistenza delle altre donne (a cui faceva seguito un periodo di
“quarantena” ossia di allontanamento familiare perché il
sangue è ritenuto impuro ) vedeva il ricorso alla struttura ospedaliera
limitatamente al momento del parto, senz’essere assistita in alcun altro
modo.
I dati (pochi) di dimissione
ospedaliera relativi ai ricoveri in Regione Lombardia evidenziano ad esempio un
alto ricorso all’ospedalizzazione in età pediatrica, soprattutto
nel corso del primo anno di vita, con una predominanza di ricoveri per malattie
infettive, respiratorie e per patologie neonatali.
Più che una nomenclatura
clinica si possono quindi raggruppare e classificare fattori di rischio che
sviluppano patologie acute, croniche e da stress che determinano la rilevanza
di malattie delle alte e basse vie respiratorie, del sistema digerente (le
carie dentali sono un fenomeno diffusissimo a partire dalla prima infanzia),
dermatologiche, cardio e cerebrovascolari strettamente correlate alle
condizioni materiali di esistenza (situazioni ambientali malsane, vicinanza ad
arterie stradali a grossa percorrenza, discariche, accumulo di rifiuti, ratti e
insetti; abitudini alimentari che combinano carenze quantitative e qualitative
a occasionale sovralimentazione disordinata (obesità) e abuso di fumo e
bevande alcooliche; una cultura del corpo e della malattia che rende difficile
il rapporto tra medicina ufficiale e zingari).
Inoltre si riscontra anche un
atteggiamento delle strutture sanitarie che, riflettendo passivamente il senso
comune corrente, combina incomprensione, indifferenza e atteggiamenti
discriminatori: non si tenta di capire la cultura “altra”, vista
solo come indice di ignoranza se non di barbarie; non si prende coscienza
né della gravità né della stessa esistenza del problema;
spesso - anche se con numerose lodevoli eccezioni - si discrimina più
semplicemente lo zingaro che cerca il contatto con le strutture sanitarie.
Per affrontare direttamente la
questione sanitaria andando al nocciolo del problema occorrerebbe dunque
partire dal difficile rapporto tra la cultura del corpo e della salute delle
comunità rom e sinte e la cultura specifica degli operatori dei servizi
sanitari progettando percorsi di mediazione culturale tra queste due culture,
così come già si sta facendo da tempo nel campo scolastico.
Ad esemplificazione di quanto
detto i Rom e i Sinti esprimono, ad esempio, una valutazione alquanto diversa
del proprio stato di salute rispetto a quanto noi siamo soliti attribuire loro
sulla base di riscontri biomedici e dati statistici, non riconoscendosi come
gruppo particolarmente soggetto a malattie o con una aspettativa di vita media
molto bassa rispetto alla popolazione maggioritaria.
La stessa struttura demografica
delle comunità zingare ci fornisce la scelta dove indirizzare le nostre
proposte di intervento: l’altissimo numero di gravidanze e di parti, quel
48 – 52% di popolazione infantile e pre-adolescenziale impongono
“naturalmente” il coinvolgimento dell’area del materno
– infantile.
Ma a queste ragioni obiettive se
ne sommano altre.
Visto che si tratta di mediare tra due
culture diverse, la scelta da effettuare è quella di investire
innanzitutto sulla mediazione tra due culture femminili diverse: da una parte
non la cultura “media” dei servizi sanitari ma la cultura
fortemente innovativa delle operatrici dei servizi territoriali del materno
– infantile (puntando soprattutto sulle operatrici dei consultori familiari
e dei consultori pediatrici, da sempre tese all’ascolto attento delle
utenti …) e, dall’altra, la specifica cultura del corpo, della
sessualità, della gravidanza, dei parti e dell’accudimento –
allevamento dei bambini di cui sono portatrici le romnì e le sinte
– le donne zingare.
Tanto
più che l’esperienza parallela della mediazione scolastica ci
rivela una peculiarità femminile all’interno della cultura
zingara: l’essere cioè le donne le migliori custodi della
tradizione e, contemporaneamente, le più audaci portatrici del bisogno
dinamico di cambiamento.
La mediatrice
sanitaria rom è quindi un’operatrice che all’interno della
propria cultura e comunità, da quel luogo di vita quotidiano in cui essa
stessa vive, impara a rapportarsi alla cultura maggioritaria rappresentando la
specificità etnica e culturale del proprio gruppo (i bisogni, i problemi
e le risposte che in esso maturano) ed acquisendo dalla cultura
“altra” tutto quello che può essere utilmente riportato.
In questa
dinamica di interscambio culturale assumono quindi un ruolo centrale i servizi
dell’area della famiglia, infanzia, età evolutiva, in relazione
agli scenari demografici (soprattutto se si pensa al ben più consistente
fenomeno migratorio in atto) e ai bisogni di prevenzione che modificano o
meglio, costringono a ripensare il superamento di un modello di intervento solo
di tipo emergenziale e per questo frammentario e una struttura dei servizi
molto poco incentrata su un sistema complesso di interazioni.
Ci stiamo
velocemente avviando verso un panorama sociale multietnico che richiede un
salto qualitativo anche dell’operato dei Servizi socio sanitari, nel
percorso che porta la persona appartenente ad una minoranza verso il
riconoscimento di una compiuta “cittadinanza”, passando così
da un sistema a fiducia personale ad un sistema a fiducia generalizzata.
Occorre quindi
favorire la relazione tra operatori e utenti soprattutto attraverso il ricorso
del mediatore culturale, promovendo interventi di confronto interculturale,
inventando, sviluppando e mettendo in rete risorse e metodologie già
esistenti sul territorio.
In questa
dinamica di interscambio culturale assumono un ruolo centrale i servizi
dell’area della famiglia, infanzia, età evolutiva in relazione ai
bisogni di prevenzione che modificano o meglio, costringono a ripensare il
superamento di un modello di intervento solo di tipo emergenziale e per questo
frammentario e una struttura di servizio molto poco incentrata su un sistema complesso
di interazioni.
Dal 1996
l’Opera Nomadi ha avviato con la ASL di Milano – Dipartimento ASSI
la formazione e l’inserimento nei Consultori Familiari di mediatrici
culturali sanitarie rom, dando vita alla prima e a tutt’oggi unica
esperienza pilota in questo settore.
Il Consultorio
Familiare è progressivamente diventato un punto di riferimento
importante per le mediatrici e le comunità di rom stranieri e italiani
e, a partire da questa relazione, anche altri Servizi socio sanitari hanno
iniziato ad acquisire ai loro occhi una specifica e riconosciuta fisionomia.
Nel loro
percorso di formazione professionale le mediatrici hanno raggiunto un
consistente grado di autonomia nei rapporti con i Servizi e un livello di
riconoscimento da parte delle comunità Rom che ha inciso anche sulla
loro condizione di donne.
All’interno dei villaggi rom la
fiducia acquisita le ha messe in condizione di operare per un lavoro di
sensibilizzazione sui problemi sanitari e di educazione igienica dei bambini, a
partire dalla profilassi delle vaccinazioni, i controlli in gravidanza, il
ricorso alla contraccezione.
La
continuità ha rappresentato un valore specifico di rafforzamento
dell’esperienza acquisita e di perfezionamento della sperimentazione
condotta.
Ma nello
specifico della cultura e della condizione dei rom essa è anche:
-
una condizione
essenziale per mantenere un rapporto di fiducia, faticosamente raggiunto, verso
la nostra società e verso gli operatori che hanno saputo accogliere,
formare e accompagnare le mediatrici nella loro attività
-
una complessiva
risorsa delle comunità interessate, lungo un cammino lento di
integrazione che va reso il più possibile sicuro e continuo: ogni
interruzione rappresenterebbe infatti una rovinosa perdita di
credibilità globale e quindi un probabile abbandono dei processi
avviati.
-
L’impiego
delle mediatrici rom nei servizi socio sanitari del settore materno infantile
dei Consultori è mirato al raggiungimento dei seguenti obiettivi:
·
promuovere un
ruolo attivo dei Consultori Familiari e dei Servizi Materno Infantile;
·
rispondere al
bisogno di servizi alla maternità e di assistenza all’infanzia da
parte dell’utenza delle famiglie rom;
·
rafforzare e
sviluppare ulteriormente il rapporto di fiducia tra operatori e mediatrici;
·
consolidare e
allargare la conoscenza e l’utilizzo dei Servizi coinvolti;
·
consolidare ed
estendere il rapporto con i Consultori Pediatrici e l’uso di Asili Nido e
Scuola Materna, sia per contrastare l’usanza tradizionale delle donne che
praticano la questua spesso portando con sé i piccoli, sia per offrire a
quest’ultimi e ai loro genitori di accedere a realtà socializzanti
e acculturanti, introduttive alla scuola dell’obbligo, in modo da
perseguire anche un migliore e paritario percorso formativo ed educativo con i
bambini non rom;
·
consentire la
progressiva riduzione degli ostacoli culturali e comunicativi tra operatori
– mediatrici – comunità rom facilitando a quest’ultime
un accesso sempre più diretto ai servizi del territorio;
·
sperimentare
nuove e più organiche modalità di approccio da parte dei Servizi
nei rapporti con l’utenza rom, consolidando ed estendendo, anche
attraverso seminari e incontri tra operatori e mediatrici la loro interazione;
·
avviare un
più stabile rapporto di affiancamento tra operatori e mediatrici sia all’interno
dei servizi che nelle visite ai campi;
·
migliorare la
capacità di fornire risposte adeguate di fronte al mutare dei bisogni
della società multietnica da parte dei servizi dell’area materno
– infantile;
·
superare modelli
di intervento solo di tipo emergenziale e frammentario;
·
consolidare
percorsi e connessioni istituzionali;
·
estendere
protocolli che individuino percorsi facilitanti per famiglie immigrate nel
servizio dell’area materno infantile;
·
diffondere tra
gli immigrati la conoscenza delle opportunità di salute date dai servizi
socio sanitari.
La salute è un
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività… recita l’art. 32 della Costituzione. Badate
bene: “dell’individuo e della collettività (ricordava Carlo
Cuomo). Abbiamo visto con quale drammaticità si pone, per le
comunità zingare, la questione della salute ma anche
dell’intervento coordinato dei servizi socio sanitari territoriali,
così come una specifica formazione degli operatori riguardo alla
realtà antropologica delle comunità e la collaborazione dei
mediatori.
Insomma, su questa strada il
confronto è aperto ancorché lungo….
________________________________________________________________________________
ROMA, il CASO
del CAMPER SANITARIO MOBILE:
la DEFINIZIONE e
RIDEFINIZIONE delle STRATEGIE
e degli
OBIETTIVI USATI dall’EQUIPE del CAMPER SANITARIO
con
L’UTENZA ROM/SINTA
Esempi di mediazione,
arbitrariato e più in generale la risoluzione dei conflitti attraverso
la comunicazione sono presenti in quasi tutte le epoche. In questo secolo, le
tecniche di mediazione
e la loro applicazione in diverse situazioni sono state messe a punto.
In particolare la
mediazione familiare è nata nel 1972 come un’alternativa alla
separazione ed al divorzio in tribunale, con il lavoro di Jim Coogler. Come
sottolinea Buzzi la mediazione “può essere definita come il
processo in cui i partecipanti grazie all’assistenza di una persona o
più persone neutrali trovano un accordo isolando sistematicamente i
termini della lite al fine di sviluppare opzioni, considerare diverse
alternative e raggiungere una risoluzione consensuale che risponderà ai
loro bisogni.”. Un aspetto particolare di questo processo, sottolineato
da Folberg e Taylor, è che l’accento sia sempre posto sulla
responsabilità dell’individuo nel prendere le decisioni. Quindi da
una parte c’è una forma di “empowerment”, ovvero il
rendere le persone consapevoli delle possibilità e scelte che hanno.
Dall’altra parte, le persone che entrano in questo processo devono
assumersi le responsabilità delle decisioni prese, le quali avranno un
esito notevole nelle loro vite. Questi concetti sono stati applicati a numerosi
campi con esito positivo. Questo studio propone di individuare come la
mediazione sia fondamentale alla continuità del progetto socio-sanitario
all'interno delle comunità Rom.
La comunità Rom
Sarebbe presuntuoso e
poco professionale generalizzare atteggiamenti, modi di fare e profili di
sviluppo dei Rom, quindi questo breve sintesi non dovrebbe essere preso alla
lettera.
I Rom non sono un
popolo omogeneo, ma famiglie di numerosi gruppi diversi che spesso portano
avanti delle liti iniziate generazioni, se non secoli prima. In particolare
c'è una divisione netta tra le usanze e le abitudini dei Rom cattolici o ortodossi e quelli mussulmani;
tra i Rom Italiani e non Italiani; tra i Rom in generale e altri abitanti i
cosiddetti “Campi nomadi” (come ad esempio i Marocchini di Casilino
900 qui a Roma che di recente hanno incominciato a convivere con i Rom nei campi
nomadi in condizioni di particolare povertà e
sofferenza).
I Rom non Italiani
(proveniente dalla Serbia, dalla Bosnia, dalla Romania, dalla Turchia, dal
Montenegro ecc.) dei campi nomadi semi attrezzati
nascono e muoiono in estrema povertà e spesso in situazioni di devianza
e violenza. I bambini nascono all'interno di nuclei familiari già
numerosi, sono allattati e coccolati dalla madre finché non arriva il
prossimo bambino.
A questo punto la
responsabilità del benessere del bambino viene delegato alla prole
più grande e di conseguenza il bambino impara molto precocemente le
tappe dell'autonomia socio-personale (per es. controllo sfinterico, mangiare da
soli verso i 24-30 mesi ecc.). In più imparino presto a risolvere i loro
problemi da soli (per es. Una fonte di conflittualità enorme che
sarà trattata più avanti è che molti bambini anche alla
tenera età di 4 o 5 anni si rivolgono all'equipe socio-sanitario senza i
genitori). Un altro aspetto del quadro di sviluppo importante è che
all'interno delle famiglie Rom l'aggressività non è scoraggiata
ma socialmente accettata ed anzi, spesso anche incoraggiata. Al tempo stesso,
in particolare nel caso dei bambini maschi, nessuno tranne i famigliari
più stretti possono riprendere i bambini.
Quindi già
verso i 2 o 3 anni i bambini incominciano ad essere molto più autonomi rispetto allo sviluppo normale
occidentale. Verso i 6 o 7 anni le bambine incominciano ad assumere le
responsabilità casalinghe come pulire e cucinare, curare i fratelli e
sorelle più piccoli mentre i bambini incominciano ad essere portati in
giro dai grandi. A questo punto sarebbe opportuno specificare qualcosa a
riguardo i mestieri dei Rom che vengono portati avanti da tutto la famiglia. Un
secolo fa i Rom vivevano molto di più il Nomadismo perché i loro
mestieri li portavano di paese in paese. Mentre gli uomini vendevano cavalli,
vendevano e riparavano pentole di rame ecc. le donne leggevano la mano e
chiedevano elemosine. Ora questi mestieri portati avanti da secoli sono caduti
in disuso e i Rom hanno dovuto adeguarsi per sopravvivere. Ora alcune famiglie,
fanno quello che per l'immagine stereotipata collettiva fanno tutti i Rom,
ovvero si dedicano al furto, specializzandosi in appartamenti o macchine ecc.
Altre famiglie raccolgono ferro e
carta da riciclare, ed altri ancora trovano oggetti nella spazzatura da
vendere al mercato. La scolarizzazione dei figli è spesso vissuta come
superflua o addirittura come intralcio all'apprendimento del mestiere familiare
ed in modo particolarmente da quelle famiglie di stampo più
tradizionale. Al momento nonostante gli sforzi di molti operatori all'interno
dei campi, è raro che i bambini finiscano la scuola obbligatoria. Anche
se l'età media in cui i Rom si sposano sta aumentando leggermente, non
di rado bambini di 14 o 15 anni sono già sposati e verso i 16 o 17 anni
hanno già prole. Spesso uomini della stessa età hanno già
avuto più volte a che fare con il sistema giudiziario Italiano ed il
carcere. Molti Rom parlano pochissimo Italiano. Questo si evidenzia in maniera
eclatante quando i bambini iniziano a frequentare la scuola ed in generale nel
rapporto con il mondo esterno alla loro comunità.
Il progetto
socio-sanitario avviato dall'ASL RM/B, Comune di Roma e Opera Nomadi si
struttura attraverso un’equipe socio-sanitaria mobile.
L'equipe comprende:
Un medico di base
Un infermiere
Un assistente sociale
Un mediatore culturale
L'utenza mensile
oscilla fra le 800 e le 1000 persone. Ogni caso affrontato riporta a
problematiche estremamente valide se non di sopravvivenza. La mediazione in
molte situazioni viene usata quotidianamente e costantemente. E' molto
difficile cercare di isolare alcune mediazioni da altre perché la
mediazione di molte situazioni correlate è stata fondamentale per la
continuità del progetto stesso. Per questo motivo questo studio è
diviso in due parti: la prima descrive in generale le diverse strategie usate
allo scopo di aumentare i contatti con l'utenza e la graduale accettazione del
servizio all'interno dei campi; la seconda parte è dedicata alla
descrizione di un lavoro di mediazione preciso, ovvero la sospensione
temporanea delle barriere esistenti tra i diversi gruppi per un accesso libero
al camper sanitario.
Non si può
scendere nel dettaglio di tutte le mediazioni svolte quotidianamente dagli
operatori dell'equipe socio-sanitaria e quindi questa parte sarà
dedicata alla descrizione di come l'equipe sia riuscita a raddoppiare il tasso
d'utenza mensile e di come ha gestito alcuni situazioni attraverso le tecniche
di mediazione.
Analisi dei Bisogni
Innanzitutto è
stato individuato un equilibrio adeguato tra quanto può fare l'equipe
(un servizio di STP, la distribuzione dei fogli d'esenzione in caso di visite
specialistiche, agevolazioni nel prendere appuntamenti con servizi sanitari
specializzati, distribuzione di prodotti farmaceutici gratis, maggiore
l'accettazione della realtà dei Rom a livello sociale, creazione e
coordinazione di una rete tra diverse autorità e l'equipe) e quanto
invece deve essere delegato ai vari centri sanitari specializzati.
Introduzione
I campi nomadi
abusivi o semi attrezzati sono vere e proprie baraccopoli paragonabili alle
favelas Brasiliane. Le baracche sono fatte di legno e vecchie roulotte o
macchine, che spesso vanno a fuoco. I topi e gli insetti sono una costante
minaccia alla salute (numerosi utenti si rivolgono all'equipe dopo essere stati
morsi dai topi durante il sonno). Le pozzanghere e i fiumiciattoli di acqua
stagnante scorrono in mezzo alla maggior parte delle abitazioni. I bambini
spesso girano nudi e scalzi anche di inverno. La vita media di un Rom è
abbastanza breve quindi ci sono pochi anziani e chi arriva alla vecchiaia di
solito presenta già da tempo numerose gravi patologie.
All'inizio del
progetto i Rom avevano un atteggiamento ambivalente e spesso aggressivo nei
confronti dell'equipe. L'atmosfera
generale oscillava tra sospetto, paura o rabbia rispetto alle figure
istituzionali e bisogno urgente di cure mediche basilari. La maggioranza dei
Rom non aveva una copertura sanitaria e quando si ammalava si rivolgeva al
Pronto Soccorso.
La posizione
dell'equipe socio-sanitaria nei confronti di questa realtà è
stata ed è tuttora molto precaria. Viene spontaneo cominciare a
denunciare le condizioni di vita di queste persone (cittadini) a tutte le
autorità competenti e di “forzare” il più possibile
le regole del sistema sanitario italiano per poter fornire assistenza e
medicine a tutti. Ma a lungo termine quest'approccio è dannoso per le
comunità stesse. Da una parte, quando si smuovono le acque riguardo a
questi problemi nei confronti delle autorità competenti la solita risposta è che si
può fare qualcosa solamente per chi ha il permesso di soggiorno e come
conseguenza vengono avviate forme di controllo a tappeto delle comunità
Rom allo scopo di espellere chi non è regolare
nei paesi di provenienza (anche quando si tratta di persone nate e cresciute in
Italia che non hanno mai avuto contatti con il loro paese d'origine). Al
momento stesso l'aggiramento delle regole del sistema sanitario italiano
incoraggia ad un atteggiamento di learned helplessness che viene presentato da
tutti gli utenti davanti alle autorità. (Learned helplessness e' un
concetto sviluppato da Rotter negli anni 60 per descrivere come alcuni soggetti
esposti a stimoli avversi iniziano ad abbandonarsi alla propria impotenza e a
rinunciare ad ogni iniziativa personale ritenendo esclusivamente esterno il
locus of control.
I Rom hanno una storia
di espulsioni e maltrattamento alle spalle lunga secoli e quindi il loro
atteggiamento verso le autorità è di sospetto e di paura. In
più il medico dell'equipe non poteva e non può per legge
prescrivere medicine gratis a chi non ha assistenza sanitaria. Questo creava
una considerevole fonte di tensione e di burnout per l'incapacità di
fornire assistenza a chi veramente aveva bisogno. Quindi uno dei bisogni fondamentali presentato dall'utenza
era la necessità degli STP ovvero l'assistenza sanitaria temporanea per
tutti gli stranieri (regolari o meno). Essi stessi potevano fare questo
tesserino rivolgendosi all'ASL di competenza però spesso l'utenza
comprende pochissimo l’italiano o non sa muoversi all'interno della
città ed in definitiva è diffidente verso qualsiasi
istituzione/autorità. Quindi il Progetto prevedeva la possibilità
di consegnare una fotocopia del documento al camper e di affidare il rilascio
degli STP all'equipe.
Il processo di mediazione sociale
In alcuni casi le cure
mediche si pagano lo stesso. Più specificamente le medicine necessarie
per la cura della scabbia e dei pidocchi costano parecchio e non sono a carico
dell'assistenza sanitaria Italiana. In alcuni periodi dell'anno ci sono vere e
proprie epidemie di queste affezioni e di conseguenza il blocco della
scolarizzazione, di nuovo il burnout dell'equipe e la disperazione dell'utenza.
Davanti all'impossibilità di curare questi problemi e davanti alcuni
metodi drastici usati dai Rom (per esempio nel caso dei pidocchi rasare la
testa ed in un caso lavarsi la testa con la candeggina, anche se i capelli,
specialmente per le donne Rom, hanno una valenza particolare), l'équipe
ha cominciato a cercare metodi alternativi per procurare le medicine necessarie
per questi interventi. Gli assistenti sociali hanno chiesto aiuto alle
parrocchie, alle farmacie, ai negozi vicino ai campi, agli enti locali, e ad
associazioni di carità, diffondendo non solo un atteggiamento diverso
nei confronti dei Rom ma riuscendo così a procurare farmaci fondamentali
per la continuità del servizio all'interno dei campi, ed addirittura
avviando un vero e proprio lavoro di mediazione sociale.
Da questi rapporti
allacciati inizialmente sta fiorendo un rapporto di collaborazione sociale.
A questo punto bisogna
aggiungere una breve parentesi.
Il lavoro di
mediazione svolto con l'equipe ed i bambini Rom.
Uno dei problemi
principali che l'equipe affronta dal punto di vista logistico é la noia
dei bambini. Qualsiasi nuovo elemento è fonte di curiosità
estrema interesse e gioco, in particolare se è gagè (non Rom).
Non solo il camper viene regolarmente smontato da piccoli mani già
esperte, ma in alcuni momenti, il lancio di sassi, il bussare alla porta ed il
lancio dei petardi od altro diventano un vero ostacolo allo svolgimento del
lavoro. Al momento stesso non si può riprendere i bambini in questi casi
per non suscitare l'ira delle famiglie di origine. Questi comportamenti spesso
aumentano e vengono alimentati dal fatto che il medico per legge non può
visitare bambini se non accompagnati da un adulto. Come già detto in
precedenza questi bambini divengono autonomi precocemente e verso l'età di
dieci anni sono quasi completamente lasciati a loro stessi e le loro madri non
li accompagnano perché sono secondo loro già grandi. Dopo lunghi
e spesso conflittuali scambi d'opinione l'equipe ha individuato le seguenti
opzioni possibili:
Far accompagnare
l'equipe dalle forze dell'ordine tutti giorni (in specifico i NAE –
Nuclei Anti Emarginazione dei Vigili Urbani);
Parlare con le
famiglie d'origine dei bambini per farli accompagnare sempre dagli adulti.
Mettere a disposizione
un componente dell'equipe per accompagnare il bambino a casa e spiegare ad un
adulto esattamente quali e in che modalità le cure mediche necessarie
dovrebbe essere somministrate.
Organizzare giochi ed
attività per i bambini in modo che siano occupati in attività
creative piuttosto che distruttive.
Si è deciso di
impiegare le ultime tre strategie. La prima, ovvero "far accompagnare
l'equipe dalle forze dell'ordine tutti giorni" sarebbe stata molto dannosa
per l'immagine collettivo del camper sanitario da parte dei Rom. (Per l'equipe avere
un’immagine super partes è molto
importante e viene spesso sancita con l'accettazione di inviti a cerimonie e la
partecipazione attiva alla vita della comunità). Le seconde due
strategie hanno aiutato ad abbassare il livello di frustrazione e di risentimento
tra i giovani che in un certo senso si sentivano respinti quando il medico
diceva loro di tornare con un genitore. L'ultima strategia è stata
realizzata con l'aiuto di una parrocchia. Questa parrocchia ha fornito l'equipe
di pennarelli, matite colorate e carta per disegnare, ed ora si sta preparando una mostra dei disegni dei
bambini Rom nella parrocchia stessa.
Il lavoro di Enpowerment svolto con
l'utenza e l'equipe
Un altro importante
aspetto del lavoro svolto è l'invio dei Rom ai centri per visite
specialistiche. Sembra ovvio che quando e' necessario il medico proponga visite
dal ginecologo in caso di gravidanza o l'elettrocardiogramma nel caso di
problemi cardiaci ecc. Ma inizialmente le risposte erano tipiche di un
atteggiamento di "learned helplessness".
"Chi mi
accompagna? Non ho la macchina"
"Sono agli
arresti domiciliari, non mi posso muovere"
"Non so dove
andare"
Le opzioni aperte
erano:
Cercare un ente locale
o qualche istituzione caritatevole disposti ad accompagnare chi avesse bisogno
realmente di essere accompagnato. (Vantaggio: la certezza che chi aveva bisogno
andava a visitarsi, Svantaggio: la conferma che un atteggiamento di
"learned helplessness" funziona)
Fornire tutte le
informazioni necessarie (incluso il foglio d'esenzione) per poter prendere ed andare agli appuntamenti
seguendo attentamente le varie fasi dell’iter da seguire ad es. ricordare
l'utente i giorni prima dall'appuntamento. (Vantaggio: Rompere un atteggiamento
di Learned helplessness e l'avvio dell’utente lungo la strada
dell'empowerment, Svantaggio: l'incertezza che chi avesse bisogno andava a
visitarsi,)
Nei casi di arresto
domiciliare, una strategia elastica ovvero:
nel caso di chi aveva
bisogno di cure urgenti - di chiamare le forze dell'ordine e chiedere il permesso
ed il pronto soccorso contemporaneamente
nel caso di utenti che potevano svolgere
le visite con più calma, il ricorso al normale iter burocratico legale
per ottenere il permesso.
Le seconde due
strategie sono state messe in pratica ed ora dopo 2 anni di applicazione ed in
particolare l'uso delle tecniche di Empowerment si sono ottenuti risultati
considerevoli. Nonostante le fortissime resistenze iniziali, ora, molti
utenti hanno cure adeguate per le
loro malattie (per es. in un caso, la dialisi 3 volte alla settimana), altri
stanno tentando di farsi assegnare una casa popolare ed altri ancora hanno
avviato le pratiche per ottenere la pensione dell'invalidità e di
vecchiaia. Inoltre molti bambini disabili sono in terapia riabilitativa.
Il lavoro di Enpowerment svolto con
l'equipe
Le discussioni e le
elaborazioni delle esperienze dell'equipe hanno reso la loro rappresentazione
mentale dello "zingaro" meno stereotipata e più realistica,
orientata verso l'individuo con conseguenti cambiamenti di stile lavorativo.
Abbattere l'immagine collettiva stereotipata dello “zingaro sporco e
ladro” e viceversa abbattere l'immagine collettiva stereotipata del
gagiò (non zingaro) aggressivo e scostante è un processo lungo e
difficoltoso. Però se inizialmente l'equipe era riluttante all'idea di
girare a piedi nei campi o a frequentarne la vita quotidiana ormai i membri
dell'equipe sono familiari quasi a tutti.
Le fasi di questo
processo sono state molto difficili e tuttora ci sono ancora molte resistenze
da entrambe le parti. Qui per mancanza di spazio si può elencare solo
alcuni degli elementi più significativi di questo processo.
Uno dei processi
più importanti nell'abbattere queste immagini stereotipate è
stata la discussione aperta e libera dei sentimenti suscitati dai resoconti dei
Rom e dalle esperienze dell'equipe.
Il setting del camper
è diventato non solo un luogo dove ottenere cure mediche ma anche di
ascolto e di comprensione. Il rendere l'ambiente lavorativo più aperto
alla discussione (particolarmente perché fa parte della tradizione Rom
raccontare una buona storia) ha avuto un duplice effetto. Da una parte i
sentimenti di burnout e di frustrazione più o meno presenti girano
più liberamente e si risolvono i problemi quotidiani collettivamente
piuttosto che singolarmente. Dall'altra parte l'équipe é
costantemente in contatto con la realtà Rom, i loro problemi ed i loro
bisogni reali e l'utenza è consapevole dei problemi affrontati
dall'equipe tutti giorni.
Questo spazio creato
all'interno del camper ha aiutato tutti a cambiare atteggiamento verso il
lavoro da affrontare. Invece di ignorare od essere aggressivi verso i conflitti
che si presentano quotidianamente in questo ambiente lavorativo ci si muove
verso un atteggiamento di ricerca delle soluzioni proponibili e la
possibilità o meno della loro efficacia.
Collettivamente
l'equipe sta affrontando un processo di Enpowerment piuttosto che di
un'aderenza dogmatica alle prassi lavorative. Questo cambiamento si è
concretizzato nell'accettazione di alcune delle tradizioni Rom. Per es. le
visite domiciliari nei casi di malattie gravi o nel rispetto delle tradizioni
culturali. (Per esempio per alcune famiglie i neonati non possono uscire da
casa per i primi venti giorni di vita e se hanno bisogno il medico li visita
nelle loro abitazioni).
Lavoro di rete con le istituzioni
preposte
Le vaccinazioni contro
l'epatite A di massa sul posto: Quest'anno svariati casi d'epatite A sono
emersi tra gli utenti e quindi l'equipe ha avvertito le istituzioni preposte.
In seguito si è svolta una massiccia campagna informativa che é
culminata nella vaccinazione di massa contro l'epatite A. I passi svolti
durante questo progetto sono stati una vera e propria mediazione. Non solo nel
persuadere l'utenza dell'importanza delle regole igieniche di base e della
necessità della vaccinazione ma anche nei confronti delle istituzioni:
ovvero nell’approntare un’équipe per un breve periodo allo
scopo vaccinare tutti velocemente.
Da questo progetto
è emerso quanto fosse necessario capire chi fosse stato vaccinato e
quali vaccini avesse fatto (anche in relazione alla frequenza scolastica) e
quindi si è avviato un progetto di screening delle vaccinazioni.
La seconda parte di
questo studio e' dedicato alla descrizione dettagliata del processo di mediazione
svolto con l'equipe e con i Rom per assicurare la sospensione temporanea delle
dispute tra diversi clan per garantire un accesso libero al camper sanitario.
Inizialmente uno degli
obbiettivi principali dell'équipe era di assicurare che chi voleva
accedere al servizio poteva tranquillamente farlo. La prima domanda a cui
bisognava dare una risposta funzionale era dove parcheggiare il Camper
sanitario. Questo per tre ordini di motivi:
Lo stato del posto
– problemi del fango e delle montagne di rifiuti;
La grandezza del
Camper - le vie dei campi sono strettissime e per via
della densità delle abitazioni, ovunque si parcheggia e' sempre davanti
alla casa di qualcuno;
Le difficoltà
di convivenza e di vicinanza dei diversi gruppi che compongono la comunità.
Se il camper veniva
parcheggiato in certe zone del campo, famiglie appartenenti ad altri gruppi non
si avvicinavano anche quando avevano urgenti bisogni familiari. Il processo di
mediazione attuato tra le diverse famiglie e l'équipe del camper per la
collocazione ideale del camper e' stato lungo e faticoso.
La fase di pre-mediazione
Si e' individuata la
necessità di un intervento di mediazione per il parcheggio del camper,
sia per via dei timore di alcuni potenziali utenti nell’attraversare il
campo o di aspettare il proprio turno in una zona abitata da un diverso gruppo
e sia per via dell'atteggiamento aggressivo e spesso violento (lancio di sassi,
non rispetto della fila ecc.) di chi vive nelle vicinanze del camper verso gli
altri utenti.
Di fronte a questi
problemi di carattere logistico del servizio, c'era il bisogno di un intervento
immediato ma anche rispettoso degli equilibri esistenti all'interno del campo e
nell'équipe. Si suggeriva quindi di:
dividere l'orario di
permanenza nella comunità in due parti e di spostarsi di conseguenza in
due parti differenti della comunità:
VANTAGGIO- un accesso
maggiore degli utenti al servizio
SVANTAGGIO- Confusione
- I Rom hanno una propria concezione spazio/temporale,
dedicare un turno alla
settimana ad una parte del campo ed il secondo turno ad un altro
VANTAGGIO- un accesso
maggiore
SVANTAGGIO- Confusione
- I Rom hanno difficoltà spazio/temporali,
accompagnare famiglie
dei diversi gruppi al camper
VANTAGGI - un accesso
maggiore e l'allaccio di rapporti più amichevoli con l'utenza
SVANTAGGIO - Il
rischio di sembrare più predisposti verso alcune famiglie
di collocare il camper
in un posto dove tutti possono accedere, per es. la via d'ingresso del campo
VANTAGGIO- l'accesso a
tutti
SVANTAGGIO- il
bloccare la strada
In realtà tutte
queste opzioni sono state sperimentate ad una ad una nel corso del tempo.
Nessuna di loro e' risultata adeguata allo svolgimento del lavoro quanto il
parlare e discutere insieme agli abitanti coinvolti in questa situazione.
Un processo di
comunicazione aperta tra i protagonisti della situazione non era possibile
all'epoca per via degli atteggiamenti reciproci di chiusura e ostilità.
Fasi della mediazione
L'analisi dei conflitti
Impiegando tutte
queste strategie nell'immediato si e' iniziato un lavoro di reciproco
avvicinamento attraverso un lavoro di analisi dei conflitti in corso.
L'importanza di questo lavoro spunta dal fatto che le risposte alla
conflittualità rinforzano credenze e attitudini. (Hansen ’85, Nisbet e Ross’ 89, Festinger
’57).
Parlando con le
famiglie dei diversi gruppi e' emerso che il cattivo rapporto che scorreva tra
loro ed il camper sanitario e' il risultato di diversi conflitti atavici e
spesso insiti nelle culture di appartenenza. Si possono distinguere i diversi
tipi di conflitto presentati dall'utenza e il tipo di risposta data durante la
mediazione -
Conflitti emotivi:
sentimenti di rabbia presenti o passati per torti subiti reciprocamente per
es.:
“Hanno picchiato
mio figlio senza motivo / suo figlio ha picchiato mio figlio”
RISPOSTA - I vostri
figli hanno litigato ma questo che c’entra con la possibilità di
accedere al servizio?
“Hanno rubato
nella mia baracca”
RISPOSTA- Mi dispiace
che non puoi stare al sicuro a casa tua e sicuramente vorresti evitare che si
ripeta un'altra volta, ma credo che permettendo a tutti l'accesso al camper non
comporti un pericolo maggiore del solito
“Sono tutti
sporchi (ortodossi riferendosi ai mussulmani)”
RISPOSTA - Hanno un
modo molto diverso di vivere rispetto al vostro ma dall'altro canto avete tutti
un modo abbastanza particolare di vivere
Conflitto delle
informazioni:
“Voi venite per
visitare loro, perché non venite anche nella nostra parte del
campo?”
RISPOSTA- Dove mettere
il Camper é un problema che riguarda tutti, noi non siamo qui per
assistere loro (la parte della comunità dove il
camper viene parcheggiato) ma tutta la comunità, però non
possiamo visitare tutte le diverse zone del campo. Secondo voi dove possiamo
mettere il camper per accontentare tutti?
“Noi non
aspettiamo la fila perché state parcheggiando davanti casa nostra”
RISPOSTA- Mi sembra
giusto che anche voi aspettiate in fila, dato che se parcheggiamo da un'altra
parte non vi farebbe piacere se qualcuno cercasse di saltare la fila?
Conflitto di interessi:
“Andate via di
qui se abbiamo bisogno andiamo al Pronto Soccorso”
RISPOSTA - Questo e'
un servizio per tutti, anche per voi, se avete bisogno potete venire evitando
di andare al pronto soccorso
“Se parcheggiate
qui, vengono a sporcare il nostro campo”
RISPOSTA - Cercheremo
di chiedere a tutti gli utenti di dare il meno fastidio possibile a chi vive
vicino a dove parcheggiamo
“Se parcheggiate
qui, vi rubiamo tutto”
RISPOSTA - Abbiamo
bisogno di tranquillità per svolgere questo servizio se ci rubate tutto
saremo costretti a chiamare le forze dell'ordine, e questo sarebbe spiacevole
per tutti
Conflitto strutturale:
“Questo e' il
nostro campo e loro non possono entrare”
RISPOSTA- non stiamo
chiedendo la vostra amicizia ma abbiamo bisogno della sicurezza che tutti
possano trarre beneficio da questo servizio
“Questa é
la loro parte del campo e noi non possiamo entrare”
RISPOSTA - Penso che i
vostri problemi di salute attuale siano più importanti dei vostri
conflitti passati
Conflitto di valori:
“Loro mangiano
il maiale, loro sono sporchi”
RISPOSTA - Abbiamo
tutti modi di fare diversi
Attraverso un lento
lavoro di reframing e di mediazione di questi conflitti di fondo si sono
gradualmente costruite le basi per poter discutere, ponendo l'accento sul
futuro del servizio e sulla sua utilità all'interno della comunità, piuttosto che sui
conflitti passati e presenti.
Questi conflitti si
sono delineati attraverso il tempo e le vecchie barriere si infiammano di nuovo
abbastanza spesso. Svolgendo un costante
lavoro di mediazione ed incoraggiando la conversazione aperta (ma al tempo
stesso guidata) durante i tempi di attesa si e' creato uno spazio neutrale.
Inizialmente si e' svolto un lavoro paragonabile alla mediazione a navetta con
i diversi protagonisti della situazione, affinché si creassero i
presupposti di una mediazione.
Avendo analizzato
insieme i conflitti con tutte le parte implicate nel processo di mediazione
sono emersi i seguenti bisogni -
Da parte dell'equipe -
Il bisogno di
sicurezza durante lo svolgimento del lavoro
Il bisogno di
tranquillità durante lo svolgimento del lavoro
La sicurezza di un
accesso al servizio per tutti
Da parte degli
abitanti della zona -
Il bisogno di
sicurezza durante lo svolgimento delle visite mediche
Il bisogno di
sicurezza durante il passaggio di altri membri della comunità nel proprio
territorio
Il bisogno di cure
mediche
Da parte degli utenti
del resto del campo
Il bisogno di
sicurezza durante l'attesa
Il bisogno di
tranquillità durante l'attesa e durante lo svolgimento della visita
La sicurezza di un
accesso al servizio per tutti
Il bisogno di cure
mediche
Come si può
vedere, al di la dei conflitti tra i diversi gruppi e l’équipe,
un’accurata analisi dei bisogni ha dato luogo ad una piattaforma su cui
lavorare.
Il lavoro successivo
si é basato sull'accordo dei diversi soggetti implicati a mantenere gli
impegni fissati insieme. Questa fase del lavoro e' stata abbastanza facile
rispetto alle fasi iniziali della mediazione data la somiglianza dei bisogni dei
diversi protagonisti della situazione.
Da parte
dell'équipe.
Impegnarsi a tenere
sotto controllo chi sta aspettando in fila
Impegnarsi a tenere
sotto controllo potenziali fonti di conflittualità durante lo
svolgimento del lavoro
Impegnarsi a fornire
il miglior servizio possibile
Da parte degli
abitanti della zona.
Impegnarsi a tenere
sotto controllo i bambini e di evitare fonti potenziali di
conflittualità con gli altri utenti
Comportarsi con decoro
e rispetto reciproco durante l'orario del servizio
Da parte degli utenti
del resto del campo-
Comportarsi con decoro
e rispetto reciproco durante le loro visite in altre parti del campo
Non gettare rifiuti
per terra ed evitare di avvicinarsi troppo alle abitazioni dei Rom della zona
Anche
se e' prassi della mediazione stendere gli accordi per inscritto, la maggior
parte dell'utenza é analfabeta. Ogni tanto si torna a ridiscutere alcune
parti di questo accordo.
In linea di massima siamo riusciti a trovare un accordo che
soddisfi i bisogni di tutti
MEDIATORI CULTURALI
ROM/SINTI:
VERSO UNA
PROFESSIONE DELL’INTERCULTURA - TORINO
Le esigenze
delle comunità Rom, Sinte e Camminanti, conseguenti sia allo stato di
sedentarizzazione, semisedentarizzazione, nomadismo, vengono poste presso gli
EE.LL. e le Istituzioni per favorire il loro inserimento sul territorio.
E’ d’altra parte
acquisito che le culture debbano essere riconosciute di pari dignità e
quindi considerate ed accolte come patrimonio comune di una società che
diviene sempre più mista e multiculturale.
Tenuti presenti quindi i diritti
e i doveri di accoglienza e di inserimento positivo nella società si
pone nei casi di difficoltà sia iniziale che protratta dei Rom, Sinti e
Camminanti, quelli di cittadinanza italiana e quelli stranieri, un intervento
di mediazione da parte di mediatori Rom, Sinti, Camminanti (di seguito
denominati semplicemente M.C.R.) in grado di esercitare i propri ruoli presso
entrambe le comunità, quella ospitata e quella ospitante.
I mediatori culturali Rom
verranno quindi ad operare tra i loro gruppi (di seguito denominati Zingari e
Viaggianti) ed i sedentari, secondo caratteristiche diverse per funzione e per
territorialità, ma complementari, per creare un ponte di comprensione e
di collaborazione tra le due culture.
In effetti la mediazione
culturale diviene necessaria per favorire il processo di informazione e di
emancipazione culturale e sociale degli Zingari e Viaggianti e per
l’atteggiamento della società nei loro confronti nel senso di
un’integrazione rispettosa, senza obbligarli ad una assimilazione forzata
(e conflittuale).
Nella pratica il M.C.R. (a
conoscenza della propria cultura e di quella del territorio ospitante)
può utilmente configurarsi al fine di:
1.
prestare
attenzione ai bisogni delle persone ed aiutarle a risolvere i loro problemi;
2.
risoluzione
difficoltà quotidiane degli Zingari e Viaggianti;
3.
aiuto alla
scolarizzazione dei minori Zingari e Viaggianti e sollecitare la scuola ad
essere più flessibile;
4.
facilitare le
relazioni tra gli Zingari e Viaggianti e gli Enti e le Istituzioni locali;
5.
aiuto alle
famiglie Zingare e Viaggianti in contrasto con gli Enti locali e le
Istituzioni;
6.
favorire
l’inserimento dei giovani nei corsi/borse di lavoro;
7.
affrontare in
collaborazione con gli Enti locali e i Servizi del territorio problemi di
accompagnamento/sostegno dei minori, problemi di povertà e quelli
connessi con la salute, l’igiene, la vecchiaia;
8.
difesa del
diritto e della cultura degli Zingari e Viaggianti;
9.
facilitare
l’aggregazione e la rappresentanza degli Zingari e Viaggianti;
10.
trovare una
soluzione nei casi di disaccordo tra Zingari e Viaggianti.
Mentre alcune connotazioni
operative dei M.C.R. sopra indicate sono state messe in atto in alcune
realtà territoriali italiane altre sono state per lo più
prospettate come ipotesi soprattutto nell’ambito di corsi di formazione
per M.C.R. attuati qua e là sul territorio.
Si tratta comunque di
connotazioni operative di base, che attengono ai cosiddetti M.C.R.
“locali”.
Potrebbero essere connotazioni
operative dei M.C.R. nazionali/internazionali quelle più complesse e
propositive che riguardano:
a.
un aiuto ai
M.C.R. locali per approfondimento di normativa nazionale/internazionale;
b.
fornire pareri a
livello nazionale/internazionale, dopo aver sentito i M.C.R. locali;
c.
Ipotesi di
corsi/seminari per M.C.R. locali, centrati sui ruoli e compiti delle
Istituzioni nazionali/internazionali nonché su problematiche che
riguardano la coscientizzazione dell’identità dei Rom e il loro
riconoscimento etnico-linguistico.
d.
L’attuazione
di una rete di servizio di mediazione con centri regionali/nazionali ecc…
I M.C.R. nazionali/internazionali
dovrebbero essere forniti di istruzione di livello medio-superiore, di consenso
da parte di un gran numero di comunità Rom e, non escluso in tempi
lunghi, anche un’elezione/designazione da parte di una base ampia di Rom
del territorio.
L’O.N. annovera tra le sue
attività più importanti (ex. art. 3/a dello Statuto O.N. del
22.03.98) quella di “realizzare corsi di formazione per mediatori
culturali che si pongono nella società quali intermediari tra la cultura
Rom, Sinta e Camminante e le altre culture, con un’attenzione particolare
all’impiego di queste figure nel mondo della scuola, della
società, della formazione professionale e del lavoro…”: ciò
premesso l’O.N. ha consolidato una certa esperienza di formazione (anche
alla luce di progetto comunitario triennale) e di proposta di utilizzo (in
tempi brevi) dei M.C.R. in alcuni ambiti specifici.
Si è in grado di
raccomandare che un M.C.R. debba essere preparato da un’Associazione a vocazione
specifica o da un Ente di formazione professionale o da un’Associazione
Rom rappresentativa.
Il M.C.R., sin dal periodo della
formazione, deve essere aiutato a realizzarsi tra Zingari e Viaggianti e
sedentari: deve possedere conoscenze di base in diritto, pedagogia, sociologia,
buona comunicazione orale e scritta nonché, in caso di specializzazione,
nozioni di pronto soccorso, igiene, alimentazione, puericultura,
contabilità e abilità di guida qualificata di automezzo (ad esempio
un pulmino).
Per comprendere la loro
comunità e per rappresentarla i M.C.R. devono appartenere all’
etnia Zingara e Viaggiante e comunque esserne originari: sempre i M.C.R. devono
essere riconosciuti oltre che dagli Zingari e Viaggianti anche dagli EE.LL. e
dalle Istituzioni del territorio.
Considerata l’urgenza di
adempiere a funzioni di para mediazione Rom in casi eccezionali può
sopperire la propensione al compito, il monitoraggio/aiuto di qualche esperto,
l’impegno di conseguire entro qualche tempo l’accertamento di cultura
di base postelementare.
Oltre la formazione/propensione
al compito di M.C.R. occorre considerare alcuni presupposti essenziali:
a.
considerare le
idee ed opinioni di Zingari e Viaggianti;
b.
godere di un
carisma e di un adeguato rispetto da parte degli utenti e delle Istituzioni;
c.
considerarsi
interlocutore diretto di coloro che decidono;
d.
considerarsi
operatore che parla ed agisce ufficialmente per sbloccare situazioni oggettive,
anche pressanti;
e.
essere
produttivo poiché il suo incarico riveste carattere risolutore o per lo
meno di perorazione a fronte di insuccessi, diffidenze, scacchi sempre
possibili nella trama dei rapporti per l’accoglienza e
l’inserimento nella società.
Contribuiscono a determinare il
profilo del M.C.R.:
1.
l’età
non inferiore ai 18 anni per porsi come interlocutori validi;
2.
una buona
scolarizzazione di base;
3.
il possesso
sicuro della lingua Romanès;
4.
buoni
comportamenti e buone referenze;
5.
disponibilità ed impegno a far
rimuovere disuguaglianze ed incomprensione;
6.
Credere nel
ruolo della mediazione e del servizio disinteressato per il proprio popolo.
Come conseguenza e tangibile
riconoscimento della professionalità dei M.C.R. dev’essere
garantita una equa retribuzione, in rapporto alla durata e alla qualità
della prestazione.
Per la sicurezza dev’essere
chiaro il contratto di lavoro, sia a tempo determinato che indeterminato, ed
altresì garantita la solvibilità dell’Ente/Servizio
preposto all’utilizzazione dei M.C.R.
Eventuali ipotesi di stato
giuridico dei M.C.R. devono essere studiate e ratificate a più livelli
(locali, regionali, nazionali, internazionali) con la partecipazione
qualificata di rappresentanti dei Rom, Sinti e Camminanti nonché di
esperti del settore, interni o esterni agli Enti e Istituzioni proponenti.
Già prima della formazione dei M.C.R. occorre individuare gli
Enti/Istituzioni che si faranno carico di utilizzare i M.C.R. per contribuire
ad una formazione mirata o polivalente (l’aggiornamento in servizio si
pone comunque come risorsa successiva alla formazione,
a fronte di nuove necessità emerse o esigenze di maggior
qualificazione).
A Cosenza vive una delle più grandi
comunità Rom del
Paese: l’1,5% dei 72.000 abitanti.
Ed in merito come sempre grande fu
l’intuito di Giacomo Mancini, allorchè, a pochi giorni dal
conseguimento della Laurea all’UNICAL di Arcavacata, assunse
immediatamente Eugenia Bevilacqua come consulente per il popolo Rom nel Comune di Cosenza.
A Cosenza interagiscono con grande equilibrio
i quattro livelli indispensabili al buon funzionamento del <Mediatore
Culturale> : l’Ente Locale (con un solo referente di Giunta,
l’Assessore Piperno, che coordina le diverse competenze, sempre in
relazione consultiva ancorchè operativa con Eugenia), la Scuola (dove
funziona anche lo <Sportello Sociale> del Comune che assomma le diverse
competenze di servizio per le tre comunità Rom della città), l’Associazionismo
(la nuova Sezione dell’Opera Nomadi – San Vito/Sibaritide - , dove
i tre soci più attivi, e sempre coordinati fra loro, sono il Presidente gagiò Giuseppe De Rosa e i due Mediatori Rom Francesco Bevilacqua e Patrizia Manzo) e gli
stessi Rom (dove Eugenia
in tre anni di paziente lavoro ha conquistato la fiducia piena delle tre
Comunità cittadine e Francesco e Patrizia, coordinati anche
istituzionalmente con lei, sono riconosciuti come reali portavoce interni);
nella ludoteca comunale lavora un’altra Mediatrice Rumrì, Rubina Berlingieri.
Altri mediatori e mediatrici stanno per
entrare nella macchina
comunale, proprio sulla base di questa interazione che ha già espresso
grandi prodotti per l’habitat (le 41 villette ed i 31 appartamenti di
recentissima assegnazione, perfettamente inseriti nel contesto urbano e sociale
cosentino), per l’avviamento al lavoro (50 Rom occupati da 5 anni e nuova
occupazione stabile nella raccolta differenziata del materiale ferroso e
nell’ippoturismo), nella scolarizzazione (che ha conosciuto nuovo impulso
in concomitanza con l’assegnazione delle case e con l’inserimento
di Francesco Bevilacqua nel lavoro quotidiano con le famiglie e sullo
scuolabus) e nella valorizzazione artistica (ad es. l’uso della tarantella
tradizionale fra i Rom).
Certo è stata, ed è,
determinante la grande capacità di ascoltare i diversi di Franco Piperno e di tradurre con loro
operativamente le esigenze del gruppo.
A piena conferma che il futuro è nella
comunicazione costante e totale, ancorchè completamente paritaria, fra
Ente Locale e Mediatori Rom.
QUANTI SONO GLI ZINGARI?
In Italia gli zingari costituiscono una piccolissima
minoranza etnica: 110/120.000 persone su 58 milioni di abitanti.
La metà di questa popolazione è composta
da minori, bambini e giovani adolescenti compresi nell’età 0 -14
anni che formano, secondo le comunità di appartenenza, poco meno o poco
più del 50% della popolazione zingara complessiva, mentre solo il 2,5 -
3% supera i 60 anni.
Il tasso di natalità è elevato
(mediamente 5/6 figli per i nuclei familiari di nuova formazione, mentre si
stima che il numero medio di figli per famiglia sia di 8), la mortalità ha
tassi gravissimi (soprattutto quella in età minorile tra i gruppi di
recente immigrazione), lo stato di salute preoccupante (la morbilità
cronica e invalidante attanaglia ampi strati della popolazione adulta in cui
sono riconoscibili patologie complesse e in taluni agglomerati suburbani
patologie definite da “ghetto” o da “campo di
concentramento”).
La scolarizzazione è bassa (c.ca il 30% del
totale) e ancora limitata al conseguimento della licenza elementare;
l’analfabetismo (anche di ritorno) è dilagante, la disoccupazione
diffusissima.
La presenza dei Rom e Sinti, sovente ignorata o
più semplicemente relegata ai margini delle città e di centri di
piccole e medie dimensioni, emerge periodicamente come una delle cause dei
maggiori elementi di conflittualità urbana e di possibile tensione
sociale.
Due realtà, la “nostra” e la
“loro”, distinte, separate, che non si “parlano” ma che
convivono gli uni vicini agli altri, semplicemente fingendo di ignorarsi.
Nella
dimensione territoriale nazionale (da un punto di vista socio economico) le
migliori forme di inserimento urbanistico e sociale sono presenti nelle regioni
centro meridionali dove, le politiche dell’abitazione ai Rom appaiono
sostanzialmente più avanzate e integrabili nel contesto urbanistico
(vedi anche la recente realizzazione del Comune di Cosenza di 40 villette
unifamiliari per i Rom calabresi e l’accesso all’edilizia
residenziale pubblica di 50 nuclei di nuova formazione), mentre fortemente
arretrate appaiono le strategie perseguite finora nelle regioni del nord.
Anche da queste condizioni ambientali, frutto di
scelte o non scelte politiche e sociali, discendono le particolari condizioni
di vita che agiscono negativamente sulle problematiche sanitarie delle
comunità zingare. Temi legati alla tutela della salute, alla conoscenza
e accesso ai servizi socio sanitari che stanno ad indicare l’esistenza di
una stretta correlazione fra il profilo epidemiologico dei problemi di salute e
i fattori di rischio socio ambientali che danno luogo o costituiscono la
premessa per fenomeni di emarginazione o anomia sociale.
TRA NOMADISMO E INTEGRAZIONE:
UN PERCORSO A RITROSO, UNO SGUARDO IN
AVANTI.
Per l'italiano medio, "normale", la parola "zingaro", la vista nel proprio quartiere di una famiglia di Rom, Sinti o Camminanti (la roulotte, i moltissimi bambini, le donne con le gonne lunghe) provocano inquietudine, diffidenza, qualche ribrezzo. Nessun'altra minoranza suscita un così forte e totale sentimento di "sgradevolezza", nessuna è altrettanto misconosciuta, ignorata. Noi, i “gagé” - i non zingari - sappiamo poco o niente di queste comunità, di questo piccolo popolo che vive tra noi da più di sei secoli. Ma crediamo di sapere. Al posto della conoscenza mettiamo un mito e crediamo che il mito sia conoscenza.
Ma chi sono gli zingari, da dove
vengono?
Dall’analisi della lingua,
il romanès, nelle sue componenti lessicali (derivanti dalle lingue
indiane quali l’antico sanscrito, la hindi e la punjabi) e negli
imprestiti ricavati dalle lingue nazionali europee, si sono acquisiti elementi
importanti di conoscenza delle origini e della storia del popolo zingaro.
Le tradizioni, le radici, il
sentimento di una comune appartenenza sono conservate nella memoria orale di un
popolo tramandata di generazione in generazione, piuttosto che in fonti
storiche spesso contraddittorie.
Intorno all’anno ‘800
– 1000, a seguito di cambiamenti e tumulti tra i piccoli regni in
conflitto nelle lontane regioni dell’India Nord Occidentale, ebbero forse
inizio le prime migrazioni di gruppi zingari attraverso la valle
dell’Indo, Iran e Armenia, fino al morente Impero Bizantino.
L’esame storiografico delle
croniche redatte nelle
città in cui transitavano, della lingua (e i suoi stretti legami con le
altre popolazioni), della geografia dei corsi d’acqua (vie naturali di
spostamento e insediamento lungo le quali per centinaia d’anni si
è scaglionato il “viaggio” di piccoli o grandi gruppi
nomadi) hanno permesso di ricostruire sommariamente le direttrici di un lungo
percorso migratorio verso il continente europeo.
Gli Zingari compaiono con diverse
denominazioni nei principali stati europei: Atsingani in Calcidica, Zingari in
Italia, Tsiganes in Francia, Zigeuner in Germania, Cyganis in Romania,
Hungaros, Gypsies, Gitani, Kalè ecc.
Dove le condizioni si rivelano
favorevoli adottano un sistema di vita sedentario, interagendo economicamente e
socialmente con la popolazione locale (come nella Grecia continentale e
insulare dove, tra il 1100 e il 1300, si stanzieranno per oltre due secoli),
ricoprendo specifici spazi o “nicchie economiche” riservate
all’esercizio del mestiere di fabbro e della lavorazione di metalli.
Definire i Rom
“nomadi” è sbagliato, fuorviante. Il “nomadismo”
è un comportamento culturale (comunque oggigiorno fortemente minoritario
e stimabile in Europa intorno al 5 – 10 %), con certe forme e certe sue
regole ma, soprattutto, è uno dei modi di essere delle comunità
zingare. Sono numerosissimi invece, nel tempo storico e nello spazio
geografico, gli esempi di gruppi semi sedentari o compiutamente sedentarizzati.
In questo processo, complesso e
articolato, ci si imbatte spesso in precise motivazioni di ordine politico e
economico che, all’interno di cambiamenti sociali di più ampia
portata per la società, hanno anche provocato la ripresa di fenomeni
nomadici, lungo un filo continuo e costante della storia zingara.
Accanto ad una dimensione strutturale,
legata ad una specifica
organizzazione economica e sociale del gruppo, ne esiste dunque una congiunturale
che si situa nel quadro di un
contesto di relazioni, di rapporti di potere con la società
maggioritaria, di strategie di sopravvivenza.
L’avanzata
dell’impero turco, nella seconda metà del sec. XIV, provoca ad
esempio consistenti spostamenti verso l’Europa balcanico - danubiana (luogo
di forte insediamento delle genti zingare e centro di partenza di successiva
espansione) e, via mare, verso l’Italia centro - meridionale.
Il più antico e numeroso
gruppo di insediamento in Italia è rappresentato dai Rom
Centro-Meridionali (Abruzzo, Molise, Ciociaria, Campania, Basilicata, Puglia,
Calabria), che conserva nel proprio dialetto elementi dell’antico idioma
indiano con numerosi imprestiti dei dialetti italiani centro meridionali.
Giulio Soravia sostiene motivatamente che anche i Camminanti Siciliani altro non sono che gli eredi siculi di questi gruppi approdati
sull’isola assieme alle folte comunità arberes’h del catanese e del palermitano alla fine del
XIV° secolo.
La diffusione degli Zingari
nell’Europa occidentale avviene in un’epoca di importanti
cambiamenti sociali, culturali, di costume e religione caratterizzati dalla
nascita dei grandi Stati moderni.
Ad essi si ricollega il profondo
mutare del rapporto tra gli Zingari e la società ospitante: vengono
abbandonati gli ideali ascetico caritativi e si trasforma l’atteggiamento
generale verso i poveri, i vagabondi, i pellegrini, i viaggiatori stranieri, i
nomadi che cominciano ad essere oggetto di repressione e assimilazione forzata
(Carlo III in Spagna, Teresa d’Austria, Caterina di Russia).
Questo insieme di misure ostili
provocheranno il limitare degli spostamenti migratori, riducendo
l’ampiezza dei viaggi entro il quadro regionale o nazionale, favorendo la
differenziazione geografica e linguistica dei gruppi zingari.
L’antica diaspora del mondo
zingaro troverà poi un’ulteriore accelerazione nel mondo
contemporaneo a partire dalla fine del secolo decimonono.
L’unificazione dei
principati di Moldavia e Valacchia (da cui nascerà nel 1850
l’odierna Romania) porrà fine a secoli di schiavitù provocando
migrazioni consistenti in Europa e in America di gruppi zingari di Rom
Kalderasha, Lovara, Curara.
Con la cessione
dell’Alsazia i Sinti Gac’kane (tedeschi) raggiungeranno la Francia
e l’Italia.
Sono nata il 29 gennaio del
1916.
Brutta gente erano i fascisti,
facevano del male ai sinti, erano brutte “razze” quelle lì.
Ci sono stati buttati dei miei
fratelli in Germania e, ringraziando Dio, sono venuti a casa quei due che sono
andati via.
Si chiamavano Suffer Catullo e
Zimberger Oliviero.
In Germania ci sono stati nel
’43. Sono stati trattati male, trattati come i cani…
Anche in Italia erano trattati
male… li hanno buttati dentro un casotto, i miei fratelli, e là
non ci davano neanche l’acqua da bere… tanti dei nostri sono stati
ammazzati e ci hanno fatto di tutto. Dei nostri. Li torturavano. Gli hanno
tirato via le unghie dei piedi, le unghie delle mani.
Ci sono stati sinti che hanno
fatto parte degli italiani, con i partigiani, a Milano.
Anch’io stavo a Milano
di casa.
I campi di concentramento per
sinti erano a Bolzano, Merano, anche a Milano, li tenevano chiusi dentro una
gabbia, un capannotto e poi ci facevano peggio che Ravetta, quella brutta
“razza” di fascisti, italiani.
Mio fratello si chiamava
Zinberger Giovanni. Ha combattuto a Bolzano contro i fascisti, nel ’44.
ha combattuto per difendere i rom e i sinti … e poi i tedeschi hanno
preso due dei sinti, mi pare che li hanno ammazzati. Mio fratello ha combattuto
tanto. Andava di notte e poi dove ci pareva buttava giù le bombe.
(testimonianza di Dolores Carboni, sinta italiana di 86 anni)
Diffidenza e rifiuto nei
confronti della minoranza dei sinti e rom si trasformano, sotto l’egida
nazionalsocialista della Germania nazista in una forte discriminazione
razziale. Nel ’38 Himmler ordina che gli Zingari vengano tutti schedati e
registrati dalla polizia; nel ’39 viene esteso l’obbligo a
risiedere in appositi campi di abitazione che precede, nel ’42,
l’internamento di tutti gli Zingari del Reich nei campi di concentramento.
Ebbero quindi inizio le deportazioni in massa verso i lager che sfociarono,
negli anni dal ‘43 al ’45, nel genocidio di oltre 500.000 zingari,
propugnato con altrettanta fermezza di propositi della politica antiebraica,
con la complicità e la partecipazione dei governi fascisti e
collaborazionisti.
Lo sterminio di sinti e rom fu
attuato nei campi di sterminio e nei paesi satelliti o occupati dalla Germania
nazista: Auschwitz, Treblinka, Majdanek, Chrlmo/Kulmhof; con esecuzioni di
massa in Polonia e nel Baltico, in Croazia (ustascia), Serbia (cetnici),
Slovenia (guardie Hlinka), in Ucraina, in Crimea ecc.
Marchiati dall’etichetta di
“criminali e asociali”, nell’indifferenza di politici e
dell’opinione pubblica, gli zingari sono stati a lungo esclusi dal
riconoscimento e dal risarcimento della storia per le persecuzioni patite.
Alla fine della seconda guerra
mondiale, in seguito ad un altro spostamento di confine, i Rom della Venezia
Giulia e della Slovenia si trasferiscono nelle regioni settentrionali, in
particolare in Veneto e Lombardia.
La crisi economica dei paesi
dell’est provoca nel corso dei primi anni ‘60 e in modo più
considerevole negli anni ‘80, una nuova ondata migratoria (Macedonia,
Bosnia e Kosovo), indirizzata soprattutto verso l’Europa centrale
(Austria e Germania).
Le vicende politiche recenti, la
caduta delle barriere fra i due blocchi, la guerra nella ex Jugoslavia, i
pogrom e le violenze razziste nei Paesi dell’Europa orientale hanno
accelerato ed esasperato le modalità di trasferimento dai luoghi di
vita, trasformando spesso la “mobilità” in fuga forzata da
fattori economici e politici.
Anche se risulta difficile
fornire statistiche precise si calcola che gli zingari in Europa siano c.ca 9 milioni
di cui poco più di 2 nella parte occidentale e tra 6 e 7 nell’est.
E’ una popolazione giovane
i cui individui con meno di 16 anni sono compresi tra il 45 e il 50%; il 70% ne
ha meno di 30. Pochissimi gli ultra sessantenni pari al 2 - 3%.
Caratterizzata da un discreto
incremento demografico (3 - 5%), di molto superiore a quello medio europeo,
presenta un alto indice di natalità, compensato però dalla forte
mortalità (infantile), morbilità e da una aspettativa di vita
media i cui indici sono paragonabili a quelli delle società più
arretrate del III e IV mondo.
Si calcola che gli Zingari
attualmente in Italia siano c.ca 120.000 (il 2 per mille dell’intera
popolazione italiana), di cui circa i 2/3 di cittadinanza italiana, mentre il
rimanente 1/3 sono cittadini della Comunità Europea (Rom Lovara ispano -
francesi) o cittadini della ex Yugoslavia (Xoraxané, Kanjarja, Rudari,
Arlija ecc.) e ancora, Rumeni e Polacchi.
In generale possiamo affermare
che una classificazione approssimativa dei gruppi è lo specchio quindi
non di precisi elementi giuridici o il rilevamento delle diverse fasi di
popolamento dei territori geografici, quanto piuttosto dell’aggregazione
etnico - linguistica del gruppo.
L’etnonimo, la
“patria” degli zingari è, dunque, la lingua (Soravia).
I due grandi gruppi zingari
storicamente presenti in Italia sono i Sinti e i Rom, che si suddividono a loro
volta in almeno una decina di sottogruppi (Sinti Piemontesi, Lombardi,
Marchigiani, Emiliani, Veneti, Gag’kane o Tajc, Estrekharia ecc.; Rom
Abruzzesi, Harvati e Kalderasha, Napulenghre, Calabresi, Camminanti Siciliani,
ecc.).
I Sinti (denominazione
riconducibile alla regione pakistana del Sind) sono diffusi in tutte le regioni
centro - settentrionali. Cittadini italiani, di religione prevalentemente
cattolica, ma anche evangelico - pentecostale, parlano il Sinto (un dialetto a
base neoindiana con un lessico influenzato da elementi tedeschi e
regionalistici), sono tradizionalmente dediti alle attività circensi
(Orfei, Togni, Medini), giostrai, spettacoli viaggianti, plateatici, commerci
ambulanti.
I Rom (uomini), parlano il
romanès o romanipè (un dialetto neoindiano arricchito di
imprestiti dei dialetti del sud, del serbo-croato, harvati, khanjarja,
khorakhanè), diffusi soprattutto nell’Italia centro meridionale ma
presenti anche nel settentrione, sono dediti all’allevamento e commercio
di bestiame (a Campobasso ed in Puglia le principali macellerie equine del
centro urbano sono gestite da famiglie Rom), lavorazione di utensili e metalli,
raccolta del ferro ecc.
Leggi e istituzioni
La realtà della vita
quotidiana dei Rom e Sinti, pur in un complesso rapporto anche conflitt uale
con la società e l’ambiente, manifesta peculiarità e
caratteristiche che sarebbe un errore generalizzare nel tentativo di ricondurle
ad una visione univoca.
Vi sono questioni di connotazione
più ampia, riguardanti il riconoscimento formale e sostanziale della
specificità della identità culturale zingara, entro le quali sono
inglobati elementi di rivendicazione comune.
Di fronte alla legge non sempre i
diritti degli zingari sono riconosciuti e garantiti come per qualunque altro
cittadino, e, del resto, la recente esclusione della lingua zingara dal
riconoscimento delle minoranze etnico linguistiche approvata dal Parlamento, ha
riproposto un meccanismo di emarginazione sociale, culturale e politica.
La mancanza non di una legge
“quadro” specifica (che storicamente ha assunto valenze negative e
discriminatorie per gli zingari), ma di strategie complessive di sostegno
all’autopromozione di questo popolo, si accompagna ad una visione
etnocentrica e pregiudiziale verso la cultura e lo stile di vita zingaro da
parte della società maggioritaria.
Stigmatizzati, costretti a
sviluppare strategie di adattamento flessibili e autonome alle residue nicchie
economiche per lo più marginali, in un rapporto sempre incerto col
territorio e le comunità locali, gli zingari si caratterizzano per il
pensarsi e viversi come un arcipelago di piccoli gruppi, mescolati ad altri
popoli, orgogliosi della propria diversità e identità.
Essere
“sedentarizzati”, cioè vivere stabilmente in un villaggio,
quartiere, o campo sosta, è un fatto “oggettivo” e non
“soggettivo” nella cultura zingara, in cui cioè permane una
propria visione del mondo strettamente legata alla “condizione dello
spirito” nomade, insieme alla necessità di affrontare continui
imprevisti.
La dimensione del
“viaggio”, le “tradizioni” interagiscono
quotidianamente nella vita sociale e culturale sia abitando in una
“casa” che in una roulotte.
Il passaggio da una condizione
“precaria” (roulotte/baracca) ad una più stabile (abitazione
mista) è un progresso relativo mediato da una esperienza storica
millenaria: è il risultato di un compromesso momentaneo, che le
circostanze possono repentinamente cambiare.
La società zingara
è fondata sul concetto di “famiglia allargata”, sulla
nozione del tempo in cui prioritario è il rapporto umano, relazionale,
territoriale, abitativo. In ogni comunità convivono spessissimo diverse
famiglie allargate, tutte appartenenti allo stesso gruppo. E’ una
società patrilineare, in cui non esistono re o regine, ma capifamiglia
che esercitano la loro influenza tra i propri familiari e che, insieme agli
altri capifamiglia, costituiscono una Kris o Wakeribe (parlamento) in cui si
discutono i fatti della vita che riguardano l’insieme della
comunità.
“L’anomia
zingara” è’ una risposta collettiva alle ipotesi
assimilatrici, ai tentativi di restringerli in contesti sociali inadatti,
tendenti a smembrare il caposaldo dell’identità sociale: la
famiglia allargata.
Formato mediamente da 20 –
30 persone, il gruppo familiare garantisce infatti la solidarietà
sociale, la sicurezza dell’individuo, la propria vocazione educativa e culturale,
estesa a tutti i membri della famiglia. La famiglia è’
l’istituzione sociale per eccellenza, contenitore degli investimenti
affettivi e dei modelli di identificazione.
Attorno al rituale del fuoco (yak) si ritrovano non solo i membri in senso
stretto ma la comunità intera, in uno dei momenti di più alta
coesione sociale del gruppo.
Gli Zingari sono rimasti forse
tra gli ultimi popoli indoeuropei prosecutori di una cultura orale, agrafica,
portatori di un modello linguistico che rifugge qualsivoglia tentativo di
omologazione, pur avendo contribuito in modo sostanziale a costruire nel campo
della letteratura, della musica, dell’arte la stesa identità
culturale europea.
La storia dei Sinti e Rom, nel
vecchio e nuovo mondo è anche il racconto di terribili avversità
incontrate dai popoli di diverse etnie, culture e religioni contro il
pregiudizio, la stigmatizzazione dei diversi, il rifiuto, l’esclusione, la ghettizzazione.
E’ il percorso irrequieto
di un popolo che non rivendica alcun territorio o stato proprio, in una visione
trasnazionale e interculturale dello spazio e del tempo.
“Vuoi sapere la differenza che
c’è tra un gadjo e un Rom? E’ la stessa che corre tra
l’orologio e il tempo: il primo segna i secondi, i minuti, le ore e tu
sai che dopo le sei vengono le sette e dopo le sette, le sette e mezza; il
secondo è il sole e la pioggia, il vento e la neve… e tu non sai
mai quello che sarà”.