I Centri di permanenza temporanea ed assistenza (CPT)
sono stati istituiti in Italia da una legge del 1998, la cosiddetta legge
“Turco - Napolitano”, sono stati creati per trattenervi gli
stranieri trovati senza permesso di soggiorno al fine di accertare la loro
identità prima dell’espulsione dal territorio italiano con
accompagnamento.
Con
la nuova legge Bossi-Fini il periodo massimo di trattenimento è passato
da 30 a 60 giorni. Nel caso in cui non sia possibile effettuare il rimpatrio
dello straniero perché l’identità non è stata
accertata o perché, per qualche ragione, non debba o non possa essere
trattenuto, questo viene messo fuori dal C.P.T. con il cosiddetto “foglio
di via” che contiene l’intimazione a lasciare il territorio
italiano entro cinque giorni .
Il primo centro ad essere istituito in Italia fu il Serraino Vulpitta di Trapani.
Il Centro di permanenza temporanea di Trapani viene inaugurato nel luglio del 1998 nei locali della Casa di Riposo per Anziani “Rosa Serraino Vulpitta” alla presenza del capo della polizia Masone e del sottosegretario agli interni Sinisi. Viene celebrato come “il fiore all’occhiello” del Ministero degli Interni. Da subito però si verificano rivolte, tentativi di fuga, episodi di autolesionismo da parte degli immigrati trattenuti. Il clima è di continua, altissima tensione.
Nella notte fra il 28 e il 29 dicembre del 1999, dopo l’ennesimo tentativo di fuga, uno degli immigrati appicca il fuoco ad alcuni materassi in una camerata.
E’ l’inferno. Nel rogo muoiono bruciati vivi tre giovani tunisini, altri tre moriranno in ospedale a causa delle ustioni riportate: Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim.
Nel mese di gennaio, viene presentato un esposto alla magistratura in cui si denunciano le condizioni di sicurezza inaccettabili e le carenze strutturali del centro: mancano le uscite di sicurezza, i corridoi sono troppo stretti per permettere il deflusso in caso di emergenza, gli estintori sono in numero insufficiente.
L’indagine che scaturisce dall’esposto porta nel luglio del 2000 al sequestro del centro da parte dell’autorità giudiziaria; il prefetto di Trapani Cerenzia riceve un avviso di garanzia per omissione di atti d’ufficio ed omicidio colposo plurimo.
Il Ministero degli Interni si rivolge al Tribunale del riesame che, nel settembre dello stesso anno, dispone il dissequestro del centro, non entrando però nel merito dell’inchiesta sul rogo ma rilevando soltanto come i lavori di ristrutturazione fatti in seguito ne rendano accettabili le condizioni di sicurezza all’interno.
La Procura di Trapani ricorre alla Corte di Cassazione, il “Serraino - Vulpitta” riapre ufficialmente il 15 novembre 2000.
L’inchiesta si conclude con il rinvio a giudizio dell’ormai ex prefetto di Trapani per omissione di atti d’ufficio, omicidio colposo plurimo, lesioni colpose nei confronti degli agenti di polizia rimasti feriti nel rogo, omessa cautela per non aver predisposto le misure di sicurezza necessarie ed il piano antincendio. Attualmente il processo è in corso.
Dal 2000 la gestione del Vulpitta è affidata alla cooperativa “Insieme” di Castelvetrano. Direttore del centro, nominato con decreto dal prefetto Cerenzia, è il cav. Giacomo Mancuso, già responsabile del centro di accoglienza Badia Grande della Caritas di Trapani.
Dopo il rogo il Ministero degli Interni ha fissato in 54 unità il numero massimo di trattenuti al Vulpitta; tale limite però viene spesso ampiamente superato.
Il Vulpitta dopo le ristrutturazioni, assomiglia sempre più ad un carcere. La cosa che colpisce di più è la presenza di sbarre dovunque.
Si accede al centro da via Tunisi. L’ingresso è sorvegliato da un agente di polizia. Per entrare nell’edificio bisogna attraversare un campetto di calcio, circondato da una alta e spessa rete di protezione.
Al piano terra ci sono gli uffici del personale della Questura, del direttore del centro ed un magazzino, al 1° piano c’è il centro di identificazione, un corridoio e alcune stanze.
Spesso è vuoto, qualche volta ci sono gli immigrati appena sbarcati in qualche parte della provincia che non hanno trovato posto al piano di sopra, in attesa di essere fotosegnalati e smistati in altri centri, possono rimanere lì anche per giorni, in questo caso dormono a terra sopra delle coperte. Quando ciò si verifica, quasi sempre il cancello e la porta anti - incendio che danno sul corridoio vengono chiuse.
Al 2° piano c’è il centro di trattenimento, diviso in due settori; il primo sottoposto alla vigilanza della polizia, il secondo a quella dei carabinieri, collegati fra loro da un ballatoio esterno, di solito nel settore dei carabinieri vengono trattenuti i tossicodipendenti e coloro che provengono dal carcere. I poliziotti, a differenza dei carabinieri, sono armati.
Le celle danno tutte sul ballatoio, alle sbarre dei cancelli delle celle ci sono sempre appesi ad asciugare i vestiti che gli stessi immigrati lavano.
Gli unici spazi in cui i trattenuti possono stare, oltre alle celle, sono i corridoi interni, anche questi chiusi da un cancello.
Le celle misurano circa cinque metri per cinque. Quando il centro è sovraffollato vi vengono sistemate anche dieci brandine.
C’è anche una cella di isolamento per chi si agita troppo o per chi non vuole dormire con gli altri perché ha paura.
Le lenzuola sono di carta.
I trattenuti possono uscire all’esterno solamente nell’ora d’aria per giocare a calcio, a gruppi di otto scortati da un numero pari o addirittura superiore di agenti.
All’arrivo al Vulpitta viene consegnato loro un borsone con una camicia e un paio di pantaloni o una tuta, delle scarpe di tela tipo tennis, dei capi di biancheria intima.
Ogni dieci giorni i trattenuti ricevono una scheda telefonica da 5 euro a testa e ogni settimana un pacchetto di sigarette.
I rimpatri vengono effettuati il lunedì e il giovedì; nel mese di agosto anche il sabato; gli
immigrati vengono prelevati dal centro e condotti con i mezzi della polizia al porto di Trapani per essere imbarcati sulla nave per Tunisi.
Esiste un progetto, già approvato dal Ministero degli interni, per la realizzazione a Trapani in contrada Milo di un altro CPT con una capienza di 200 posti e di un centro di identificazione per 500 immigrati, la cosiddetta “cittadella dell’accoglienza” (definizione del sottosegretario D’Ali’).
La storia del Vulpitta non è solo la cronaca degli eventi drammatici che lì si sono verificati, l’elenco dei provvedimenti giudiziari che lo hanno riguardato o i resoconti delle udienze del processo.
Il Vulpitta va raccontato anche attraverso le storie dei suoi “ospiti”, di chi ha vissuto in quelle stanze, di chi è stato inghiottito dal buco nero del rimpatrio, di chi è ritornato dopo quei trenta interminabili giorni alla sua eterna condizione di clandestino; va raccontato attraverso le storie di quelli che contano i giorni e le ore sperando di farcela ad uscire con il foglio di via, di quelli che vogliono tornare a casa, di quelli appena sbarcati e di quelli che in Italia vivono ormai da anni, di quelli che fanno i duri e di quelli che passano le notti senza dormire perché hanno paura.
Abbiamo tentato di raccontare queste storie restandone fuori, non ci siamo riusciti, così il Vulpitta lo raccontiamo attraverso le nostre emozioni, attraverso la nostra rabbia soprattutto.
Abbiamo scelto di raccontare non solo le storie “facili”, ma anche quelle di coloro che non ci sono piaciuti, perché il Vulpitta è il luogo di tante contraddizioni, dove la violenza che ne è elemento assolutamente naturale, coesiste con manifestazioni di grande solidarietà.
Vi proponiamo queste storie perché di quelli che sono passati al Vulpitta rimanga qualche traccia che non sia solo un decreto di espulsione, qualcosa che li racconti come uomini e donne, non solo come clandestini.
Lo facciamo anche nel tentativo di recuperare un pò di dignità, non per coloro che stanno “dentro” ma per quelli che stanno “fuori”.
Un po’ di quella dignità persa quando una legge, di un governo di centro-sinistra, istituì in Italia i “centri di permanenza ed assistenza per extracomunitari”, dove vengono segregate persone anche se non hanno commesso reati.
Quando un ministro, pure lui di centro-sinistra, dichiarò dopo il rogo al Vulpitta, quando vi erano già tre morti e altri tre ragazzi stavano morendo in ospedale, che non si trattava certo di carceri ma neanche di alberghi.
Quella dignità che continuiamo a perdere quando qualcuno invoca i CPT come un’ occasione di lavoro per i disoccupati del sud.
Fra qualche anno probabilmente un ministro di un qualunque governo chiederà scusa per tutto questo. Intanto oggi il Vulpitta rimane lì con il suo intollerabile carico di morti , di dolore e disperazione, a patetica testimonianza del fallimento della lotta dei governi italiani alla immigrazione clandestina; lugubre simbolo, con i suoi enormi costi di gestione e le sue costosissime ristrutturazioni, dell’ennesima vergogna di stato.
Le storie che vi raccontiamo vogliamo dedicarle a coloro che abbiamo conosciuto ma anche a quelli che non abbiamo mai incontrato: a Mourad sperando che in qualche modo sia riuscito a farcela; a Samir che era troppo diverso anche per un posto come il Vulpitta; a Kamel che abbiamo visto, e non riusciremo mai a dimenticare, appeso alle sbarre di un cancello con un lenzuolo stretto intorno al collo; e a quella donna, a quel ragazzo di vent’anni, a quell’uomo annegati il 27 aprile a Mazara, e a tutti gli altri, sepolti in quei cimiteri che ormai sono diventati in nostri mari.
Ma le dedichiamo anche a tutti voi perché possiate non arrendervi mai alla tentazione di considerare luoghi come il Vulpitta “normali” o necessari.
TYSON, 30 anni, albanese.
E’ chiamato cosi da tutti,
dai compagni e dai poliziotti, e non solo per la somiglianza fisica con il
personaggio ma anche per il
carattere, tutt’altro che tranquillo. E’ stato in carcere
per sfruttamento della prostituzione.
Tyson viene da Milano, dal CPT di
Via Corelli, dal quale è stato trasferito per una sorta di punizione:
insieme ad altri albanesi aveva dato vita ad una rissa con un gruppo di
marocchini. Oggetto della contesa alcune donne, prostitute. Quando ci racconta
questa storia non può fare a meno di puntualizzare con orgoglio che lui
sa difendere le proprie donne.
Ha una lunga cicatrice che gli
solca una parte del volto, dalla tempia al mento, ricordo probabilmente di
qualche altra impresa.
Sua moglie è spagnola
quindi non capisce perché lo trattino da clandestino e lo abbiano
rinchiuso in un centro.
Nonostante si faccia chiamare
Tyson, protesta più volte perché è costretto a vivere con
i “negri”, cosi chiama i suoi compagni maghrebini, confidando nella
nostra solidarietà in virtù della comune appartenenza alla razza
bianca.
Ritiene di essere il
“capo” là dentro e che tutti debbano rispettarlo: spesso
ordina ai poliziotti più giovani di preparargli il caffè o di
procurargli qualcosa di cui ha bisogno, ed èsempre pronto alla rissa se
questi accennano a una reazione.
Tyson è stato messo fuori con il foglio di via.
CHOCKRI, 28 anni,
tunisino.
Fermato a Petrosino, comune vicino Marsala, dove
lavorava come bracciante agricolo insieme al padre che ha un regolare permesso
di soggiorno. Chockri soffre di epilessia.
Portato al Vulpitta ha una prima violenta crisi. In
quel momento non risultano essere presenti operatori sanitari al centro.
Rischia di ingoiare la lingua e soffocare, viene soccorso dal personale di
polizia.
Trasportato all’ospedale di Trapani, viene
tenuto per alcuni giorni in coma pilotato, poi torna al Vulpitta dove ha altre
cinque crisi convulsive ; stavolta viene condotto all’ospedale Civico di
Palermo dove rimane sette giorni per poi essere riportato al centro.
Nella relazione di dimissione i medici rilevano una
discontinuità nella somministrazione della terapia, riferibile al
periodo di trattenimento. Nonostante ciò, anche in seguito risulta assai
difficile reperire al centro i farmaci di cui Chockri ha bisogno: per questo
motivo verrà messo fuori con un permesso di soggiorno temporaneo per
motivi di salute.
LARBI, 24 anni,
tunisino.
Lo incontriamo in ospedale a Trapani.
Aveva tentato con altri nove compagni la fuga dal centro, cercando di
saltare giù dal balcone del ballatoio dopo aver scavalcato le grate di
protezione. Solo due riescono a fuggire.
Larbi cade e si frantuma le ossa delle gambe. Rimane immobilizzato a
letto per più di trenta giorni.
Non può camminare neanche con l’ausilio
delle stampelle data la gravità e il numero delle fratture riportate: in
vari punti le ossa sono ridotte a schegge.
E’ terrorizzato: teme di non poter più
camminare. Più volte finiamo col cedere alla tentazione di rassicurarlo,
noi che non siamo medici.
Ci nasconde di essere stato in carcere per spaccio; lo
scopriamo in Questura a Trapani quando richiediamo per lui un permesso di
soggiorno per motivi di salute perché possa continuare a curarsi in
Italia: Larbi non vuole tornare in quelle condizioni in Tunisia; ha paura di
non poter ricevere cure adeguate.
L’ospedale di Trapani, però, rifiuta di
prolungare oltre il suo ricovero; nonostante numerosi tentativi, nessuna
struttura di accoglienza o di assistenza comunale o privata a Trapani e a
Palermo risulta disponibile ad ospitarlo.
La Questura decide di eseguire l’espulsione:
viene portato in ambulanza al porto, trasportato sulla nave in barella e
rimpatriato il 7 luglio del 2000.
AURELIAN, 27 anni, rumeno,
E’ stato portato al Vulpitta
il 16 luglio 2000 dal carcere di Milano, dove era detenuto.
Lo incontriamo la prima volta il 18 luglio. Aurelian
chiede di essere rimpatriato subito: ha appreso della morte del padre e vuole
essere presente almeno al funerale il 22 luglio.
Ci dice che, se non
l’avessero portato al centro, avrebbe tolto il disturbo immediatamente,
pagandosi pure il viaggio.
Invia un fax al consolato rumeno
di Milano e si fa spedire dalla Romania i documenti d’identità per
accelerare le procedure di riconoscimento. Tutto inutile: i suoi
“documenti di viaggio” arriveranno troppo tardi. Aurelian
verrà rimpatriato qualche
giorno dopo il funerale.
NANAYAKKARA, 30 anni, viene dallo Sri Lanka; dal ’89 vive a
Palermo.
Lo incontriamo al centro il 21
febbraio 2001. Ci racconta di avere avuto in precedenza un permesso di
soggiorno, che non ha poi potuto rinnovare a causa del rifiuto del suo datore
di lavoro di metterlo in regola. E’ tossicodipendente.
Il 9 dicembre del
2000 ha subito una rapina ad opera di connazionali ed è stato spinto
giù dal balcone di casa. E’ stato trasportato all’ospedale
Civico di Palermo in stato di coma e con numerose fratture. Dopo la degenza in
ospedale è stato condotto in carcere perché nel suo appartamento
la polizia ha rinvenuto alcune dosi di eroina. E’ rimasto in carcere solo
sedici giorni perché le sue condizioni di salute non erano ritenute
compatibili con la detenzione: infatti può camminare solo con le
stampelle e accusa forti dolori al ventre.
Dal carcere è stato portato
al Vulpitta.
Durante il trattenimento al centro
richiede una visita medica specialistica che non verrà mai effettuata.
L’1 marzo presenta una
richiesta per un permesso di soggiorno per motivi umanitari: non può
tornare nel suo paese perché è fuggito a diciannove anni
sottraendosi al servizio militare; ma la Questura di Trapani si dichiara
incompetente ad esaminarla.
Il 2 marzo Nanayakkara viene
prelevato dal personale di polizia
della Questura di Palermo.
Non sappiamo se sia stato
rimpatriato.
SALEM, 32 anni, algerino.
Lo incontriamo al centro il 21
febbraio 2001. E’ tossicodipendente e ha trascorso nove mesi in carcere
per spaccio.
Ci racconta di essere arrivato in Italia nel ’92 per
sfuggire dalla guerra civile che da anni insanguina il suo paese. Nel ’90
i suoi genitori sono stati uccisi dagli integralisti. Anche lui ha rischiato di
essere ucciso: ci mostra delle cicatrici al volto e alla testa.
Non vuole tornare in Algeria. Decide di presentare richiesta di asilo ma
non viene ammesso alla procedura a causa dei precedenti penali.
Il 28 febbraio viene portato al
carcere di San Giuliano di Trapani su disposizione del Tribunale di Perugia per
scontare un residuo di pena.
NICU,
40 anni, rumeno.
Lo incontriamo il 28 marzo 2001.
E’ molto depresso e spesso, mentre parla, scoppia in lacrime.
E’ arrivato in Italia un
anno fa insieme alla moglie. Ha un bambino piccolo che è rimasto in
Romania con i nonni.
Vive a Roma. La polizia però lo ha preso in
un albergo a Cosenza, dove si trovava per lavoro.
Lavora per una cooperativa che
distribuisce le Pagine Gialle ma, ci dice, non l’hanno ancora mai pagato.
Ha paura di essere rimpatriato, di dover abbandonare la moglie da sola in
Italia, di non poter avere i soldi che gli spettano.
Nicu è stato messo fuori
con il foglio di via.
BOUBAKER, 42 anni,
tunisino.
E’ arrivato in Italia nell’81. Ha vissuto
a Roma e a Brescia; ora risiede a Palermo. Ha avuto un permesso di soggiorno
che non ha potuto più rinnovare.
E’ stato in carcere per reati connessi allo
spaccio di stupefacenti. Tutti i suoi soldi sono stati posti sotto sequestro
dal Tribunale di Roma e per poterli riavere indietro dovrebbe andarli a
ritirare personalmente nella banca in cui sono custoditi.
Naturalmente non può farlo.
E’ stato rimpatriato.
DANIEL, MICHEL, ISLAM, ALI e gli altri, sono
eritrei, etiopici, somali.
Sbarcati a Pozzallo il 15 di agosto 2001, vengono
trattenuti in parte (15 uomini) al Vulpitta, e in parte (17 donne, due uomini e
22 bambini) al centro di prima
accoglienza della Caritas di Trapani.
Quando li incontriamo, nessuno di loro è stato
ancora informato sulla possibilità di chiedere asilo politico in Italia.
In seguito al nostro intervento decidono di farlo tutti, uomini e donne.
Per loro l’ACNUR attiverà il Piano
Nazionale Asilo: i vari nuclei familiari saranno ospitati nei centri per
rifugiati in Sicilia e nel resto d’Italia.
SADOK, 35 anni,
tunisino.
E’ sbarcato a Triscina insieme ad altri
quarantacinque maghrebini.
Sono stati portati tutti al 1° piano del Vulpitta, nel cosiddetto
centro di transito, in attesa di essere smistati nei vari CPT.
Sadok ha un’emorragia e viene portato in
ambulanza all’ospedale di Trapani.
Viene lasciato lì senza vestiti: i poliziotti
glieli requisiscono per evitare che scappi; solo nella tarda serata gli viene
dato un pigiama.
In ospedale ci racconta di essere in Italia da parecchi anni; sua
moglie si trova a Modena. E’ dovuto tornare in Tunisia per un breve
periodo di tempo e non poteva far altro che tentare di rientrare in Italia da
clandestino.
Intanto i medici gli comunicano che dovrà
subire un operazione per le emorroidi.
Lui vorrebbe tornare a Modena dalla moglie e farsi
operare lì. Lo convinciamo a rimanere in ospedale a Trapani.
Sadok non sarà però mai operato. E’ stato rimpatriato.
IMED, 20 anni,
algerino.
E’ sbarcato a Pantelleria. Ha un fratello che
vive a Trapani con un regolare permesso di soggiorno: è lui che ci ha
contattato
Dopo aver passato un paio di notti al 1° piano del
Vulpitta è stato portato con gli altri al CPT “Regina Pacis”
di Lecce. Tentiamo di comunicare con lui ma è quasi impossibile: al
“Regina Pacis”, infatti, non ci sono telefoni pubblici a
disposizione dei trattenuti; solo chi ha con sé un cellulare può
comunicare con l’esterno.
Scopriamo, inoltre, che i trattenuti al R.P. non
vengono identificati con i nomi che dichiarano ma con un numero: quello di Imed
è 28089.
Imed è stato rimpatriato.
MOUSSA, MOHAMMED, ISSA, DENNIS, BENSON, JIBRILE E OMAR,
vengono tutti dalla Sierra Leone, tranne Omar che è sudanese.
Sono sbarcati a Pantelleria il 31 dicembre 2001.
Fuggono da paesi in cui si combattono guerre
sanguinose. Alcuni di loro, ci raccontano, sono gli unici sopravvissuti ai
massacri dei villaggi in cui vivevano.
Presentano tutti richiesta di asilo. Usciranno
però dopo aver ultimato i trenta giorni di trattenimento a causa dei
ritardi dell’Ufficio Stranieri della Questura di Trapani nell’ espletare
le operazioni preliminari di ammissione alla procedura di asilo.
MOKTAR, 42 anni, marocchino.
E’ uno dei centotrentasette
maghrebini , fra cui alcune donne, che si trova a bordo di un’
imbarcazione bloccata il 4 febbraio 2001 al largo delle coste mazaresi.
Il 7 febbraio chiediamo di poterli
incontrare, ma non otteniamo l’autorizzazione.
Inizialmente vengono portati nei locali del centro di
transito al 1° piano del Vulpitta in attesa di essere trasferiti in altri
centri. Li’ dormono a terra sopra delle coperte.
Alcuni immigrati iniziano lo
sciopero della fame e si verificano anche tentativi di rivolta: viene data alle
fiamme una coperta. Più volte intervengono gli agenti antisommossa.
In seguito a questi episodi, gli
uomini vengono trasferiti nella palestra della scuola Buscaino Campo di
Trapani, requisita appositamente dalla Prefettura. A loro si aggiungono il 13
febbraio centoquarantanove
maghrebini sbarcati a Pantelleria e altri cinquantuno sbarcati a Mazara. Anche
in palestra continuano a verificarsi tentativi di rivolta e di fuga, sedati dagli agenti di
polizia, ed episodi di autolesionismo: un ragazzo inghiotte una chiave ed
è portato in ospedale dove
subisce un intervento.
Alle donne, invece, viene
consegnato il foglio di via; ma quasi tutte non sanno dove andare senza soldi
e, soprattutto, senza i loro compagni trattenuti in palestra: qualcuna
finirà per passare la notte in strada.
Quando finalmente otteniamo
l’autorizzazione ad entrare al centro, incontriamo Moktar che dalla palestra è stato
riportato al Vulpitta perché ha continue crisi d’asma; è
finito pure in ospedale. Ma la sua situazione non è migliorata:
continua, infatti, a dormire per terra, fuori dalla cella, perché i suoi
compagni fumano troppo.
Moktar, insieme a molti altri, è uscito dal
centro con il foglio di via prima di aver ultimato i trenta giorni, a causa del
sovraffollamento.
STEFANIA e le altre.
Arrivano in aereo da Cagliari il
19 febbraio 2002.
Sono cinquantuno donne fermate in
diverse località della Sardegna durante un blitz anti-prostituzione
disposto dal Ministero degli Interni. Sono quasi tutte nigeriane; solo due sono
albanesi.
Vengono portate al Vulpitta, svuotato per l’occasione. Il centro fino ad allora, a parte un brevissimo periodo dopo l’apertura, non aveva mai ospitato donne.
Chiediamo di poterle incontrare
per conoscere le loro condizioni di salute, il modo in cui vengono trattenute,
le loro storie, ma soprattutto per poterle informare della possibilità
di chiedere protezione sociale: se decidono di uscire dal giro della
prostituzione, infatti, in base all’art.18 del Testo Unico
sull’immigrazione, hanno
diritto ad un permesso di soggiorno.
Molte di loro arrivano in Italia credendo di poter lavorare
come colf o come commesse; invece vengono costrette a prostituirsi per pagare
il debito contratto con i trafficanti che puo’ raggiungere anche gli
ottanta milioni di lire. Queste donne, inoltre, se rimpatriate, rischiano la
lapidazione, in ogni caso non viene loro permesso di risiedere nei propri
villaggi; se affette da HIV vengono segregate e lasciate morire; nel migliore
dei casi vengono rivendute ai trafficanti e dopo pochi mesi tornano sui
marciapiedi italiani.
Malgrado le nostre pressioni, a
causa di precise disposizioni ministeriali, non ci viene permesso di
incontrarle. Possiamo comunicare con loro solamente attraverso il telefono.
Inizialmente sono molto diffidenti, ci credono
poliziotti, usano tutte lo stesso nome: Stefania. Riusciamo a tranquillizzarle e finalmente accettano di
parlare: si lamentano delle condizioni in cui sono trattenute al centro, del
freddo delle celle, del cibo distribuito, per vari giorni solo panini, che si
rifiutano di mangiare.
Sono arrabbiate perché
vogliono uscire da lì, tornare nelle loro case in Sardegna; ma anche
allegre: al telefono sentiamo le loro risa e i loro canti.
Il 28 febbraio trentaquattro di
loro vengono messe su un pullman e portate a Roma per essere rimpatriate
insieme ad altre centoventisei donne provenienti da Milano.
Le ragazze rimaste al Vulpitta,
che hanno fatto richiesta di asilo politico, non sembrano più molto
combattive, non hanno voglia di parlare, qualcuna piange.
Le incontriamo, finalmente, il 1
marzo, appena uscite dal centro, e scopriamo che una Stefania esiste veramente;
con loro hanno valigie enormi; ci chiedono informazioni sui treni per Palermo e
sulla nave per Cagliari.
Tranne una: lei ha solo un
sacchetto con poche cose e, ci dice, in Sardegna non ha una casa né
qualcuno da cui tornare. Ha schifo della vita che ha fatto, vuole restare qui e
vuole trovare un lavoro. Ci chiede se possiamo aiutarla.
KHALIFA, 35 anni,
tunisino.
Lo incontriamo l’11 marzo del 2002. Ci racconta
che vive in Italia ormai da sedici anni. Fino all’anno scorso aveva un
regolare permesso di soggiorno, revocatogli dal Questore di Trapani
perché accusato di aver dato vita ad una rissa e di avere opposto
resistenza quando è stato fermato.
E’ sicuro che uscirà presto perché
il suo avvocato ha presentato ricorso contro la revoca del permesso e contro l’espulsione. Per questo ricorso
ha pagato mille euro.
Lo avvertiamo che la presentazione del ricorso non
sospende l’esecuzione del rimpatrio; il suo avvocato non glielo aveva
detto. Tenta più volte di mettersi in contatto con il legale ma non
riesce a trovarlo.
Khalifa è stato rimpatriato.
SATWINDER, JANSWINDER e i due GURDIP, hanno fra
i 20 e i 25 anni, sono
indiani.
Li hanno presi alle giostre, dove lavoravano.
Li incontriamo il 27 marzo 2002. Sono spaventati. Solo
uno di loro parla inglese. Temono di non riuscire più a ritrovare i loro
compagni di lavoro che hanno lasciato già la città.
Non conoscono altri in Italia: si trovano qui da meno
di un anno.
Presentano richiesta di asilo ed escono dopo alcuni
giorni.
ANDREJ, circa 40 anni, rumeno.
E’ una giornata tesa al
Vulpitta quando incontriamo Andrej.
Ci viene subito chiesto dalla
assistente sociale di ridurre la durata dei nostri colloqui per problemi di
organizzazione del personale di sorveglianza.
Andrej sta nel settore dei
carabinieri, insieme ad altri che come lui provengono dal carcere. Notiamo che
sono particolarmente sorvegliati: non possono uscire dal corridoio e quando
parliamo con loro, attraverso le sbarre, i carabinieri si schierano dietro di
noi.
Lui però non è
particolarmente preoccupato dalla loro presenza: ha un’aria di sfida ed
un tono arrogante. Vuole essere rimpatriato subito, ci dice, perché
vuole rivedere il figlio che in quei giorni compie diciotto anni; è
stato già espulso dal nostro Paese due volte ed una volta dalla Germania.
E’ stato in carcere con l’accusa di favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina: è un passeur. Si alza la maglietta
e ci mostra due cicatrici: sono i fori di un proiettile, racconta, che gli
hanno sparato i carabinieri qualche anno prima.
Protesta perché al Vulpitta
sono costretti a fare la doccia con l’acqua fredda; l’acqua calda,
invece, finisce nello scarico del water perché, nel sistemare
l’impianto idraulico, probabilmente sono stati invertiti i tubi. Continua
a ripetere che in carcere si sta meglio che al centro.
Gli parliamo della nuova legge, di
quanto sarà difficile la vita per chi entra in Italia da clandestino.
Andrej ride e risponde che per lui non sarà difficile ottenere un visto
e un permesso di soggiorno. Ha avuto dei permessi di soggiorno per lavoro, come
muratore e come conducente di gru per l’edilizia ma non è mai salito su una gru
né hai mai fatto il muratore. Basta pagare, dieci milioni circa.
I carabinieri, dietro di noi,
ascoltano in silenzio.
Quando un ispettore di
polizia ci chiede di interrompere
il nostro colloquio e di lasciare il centro, Andrej e gli altri protestano e
cominciano a scuotere il cancello. Cerchiamo di calmarli: torneremo,
promettiamo.
Andrej è stato rimpatriato
il 23 aprile.
LI MU SONG, cinese, ambulante, preso a Bari, al Vulpitta dal 19
aprile 2002.
Parla solamente il cinese e
nessuno, quindi, al centro è in grado di capirlo e di farsi capire.
Contattiamo telefonicamente una sua amica, anche lei cinese ma che parla
italiano: grazie a lei Li Mu Song ha potuto sapere perché si trovava al
centro, quanto tempo doveva rimanerci.
Li Mu Song è stato messo
fuori con il foglio di via.
CHIZOBA, 24 anni, nigeriano, da un anno e cinque mesi in Italia, dal 23 aprile
2002 al Vulpitta.
Poiché aveva un lavoro
sicuro, ignorando la legge italiana, aveva pensato di poter avere anche un
permesso di soggiorno. Si era recato in Questura ma lì lo avevano
fermato e portato al centro.
Quando lo incontriamo è
molto triste, non riesce proprio a capire perché si trova li’.
Lo informiamo della
possibilità di chiedere asilo politico.
Chizoba scrive una lettera al
Questore in cui spiega le ragioni per cui è dovuto fuggire dal suo paese
e perché non può tornarvi.
Al secondo incontro ci dice che
gli è stato chiesto di scrivere quattro lettere: una al Questore, una al
Prefetto, una al Ministero degli Interni e l’ultima a un’altra
autorità che lui non riesce a definire.
E’ molto agitato, gli
spieghiamo di nuovo la procedura corretta per richiedere asilo in Italia.
Riscrive la richiesta e promette
di chiamarci dopo averla consegnata; ma da lui non abbiamo avuto più
notizie.
E’ uscito dal centro con il
foglio di via.
HAJI,
31 anni, tunisino, dal ’96 vive a Parma, ma è stato preso a
Mazara.
Si trova a Mazara perché
deve arrivare sua moglie. Quello sbarco, però, si trasforma in una
tragedia: l’imbarcazione si rovescia. Il cadavere di una donna
verrà trovato sugli scogli; altri due, quello di un ragazzo di circa
vent’anni e quello di un uomo adulto, saranno ripescati nei giorni
seguenti; i dispersi risultano tredici.
La notte del 28 aprile 2002
Haji salva parecchie persone
dall’annegamento.
La polizia, giunta sul luogo, ferma anche lui.
Quando lo incontriamo è
preoccupato perché non riesce ad avere notizie della moglie e teme che
possa essere annegata anche lei.
Parla molto bene l’italiano
perché legge molto, ci dice. In Tunisia ha militato nella Jihad
Democratica Islamica e proprio per questo è stato perseguitato e
costretto a fuggire.
Haji è stato messo fuori
col foglio di via, e ha ritrovato sua moglie a Milano.
MOHAMED, tunisino.
Sua madre e sua sorella vivono a
Bologna da 13 anni con regolare permesso di soggiorno e lui vorrebbe
raggiungerli. Dice di avere 17 anni; i minorenni non possono essere trattenuti
nei CPT, ma dalla radiografia del polso
risulta maggiorenne.
La prima volta che lo incontriamo
è abbastanza tranquillo, allegro, un po’ spaccone. La volta
successiva, invece, durante il colloquio scoppia a piangere senza alcun motivo
evidente; continua a ripetere che vuole andare dalla madre.
Un infermiere gli porta un
bicchiere con dei tranquillanti: questo è cio’ che al Vulpitta
tutti chiamano “la terapia”.
Chiediamo all’infermiere
perché gli vengano somministrati questi farmaci; ci risponde che sono i
trattenuti stessi a chiederli. Ma
Mohamed in lacrime ci assicura di non avere mai preso tranquillanti prima di
allora.
Mohamed è stato messo fuori
col foglio di via.
AHMED, 55 anni, tunisino, da due anni in Italia, al Vulpitta dal 7 maggio 2002.
La sua famiglia è in
Tunisia; i suoi figli sono piccoli, ci racconta, e per questo motivo è
partito lui in cerca di lavoro.
Prima di essere preso dalla
polizia lavorava come bracciante agricolo a Marsala.
E’ preoccupato perché
non ha ancora ricevuto i soldi per gli ultimi mesi di lavoro ,775 euro, e
rischia di essere rimpatriato senza poterli avere. Ci dice di aver telefonato
al padrone, cosi lo chiama, ma
quest’ultimo cerca di prendere tempo, probabilmente nella speranza
che lo rimpatrino.
Ahmed è stato messo fuori
con il foglio di via e così
è potuto andare a prendere i suoi soldi.
ALI,
tunisino, proviene dal carcere di Castelvetrano, al Vulpitta dal
20 maggio 2002.
Quando lo
incontriamo ci dice di non comprendere il perché di questo ulteriore
mese di detenzione; è
preoccupato perché ancora non gli sono stati pagati gli ultimi mesi di
lavoro che ha svolto in carcere, 208 euro, e rischia di essere rimpatriato
senza poterli avere.
Ali ha un avvocato ma non lo
può chiamare perché il telefono del centro è rotto.
E’ stato rimpatriato prima
di riscuotere i soldi.
TAREK, 30 anni, algerino.
Lo incontriamo il 27 giugno 2002,
è stato portato al centro dal carcere di Milano.
Gli parliamo attraverso le sbarre
perché ci ferma quando stiamo andando via. Ci dice di voler essere
trasferito a Milano perché vorrebbe sottoporsi ad un intervento di
varicocele, e là lo effettuano con il laser.
Qualche giorno dopo apprendiamo
che è stato portato in ospedale a Trapani perché accusava forti
dolori.
Tornato al Vulpitta ci
telefona piu’ volte
dicendo di stare molto male.
Il 4 luglio ritorniamo al centro
per incontrarlo, ma Tarek non
è più lì, è stato portato in carcere per scontare
un residuo di pena.
SAMIR, 36 anni, tunisino, sbarcato a Favignana, dal 13 luglio al Vulpitta.
Samir è berbero, cristiano
e omosessuale: una miscela esplosiva dentro un CPT. E infatti Samir sembra non
piacere a nessuno: né ai suoi compagni, né ai poliziotti. Neanche
a lui piacciono gli altri trattenuti: non vuole parlare in arabo e si rifiuta
di farci da interprete.
Con noi invece, la prima volta che
lo incontriamo, è molto gentile e saluta con il baciamano.Non vuole
tornare in Tunisia, ci dice, perché quello non è un paese democratico e la’ lui
vive male. La seconda volta che lo incontriamo, invece, Samir è diverso:
è agitato, invece di parlare urla e sembra terrorizzato.
Lo hanno spostato dal settore dei
carabinieri a quello della polizia, perché gli altri lo insultavano e
qualcuno aveva tentato anche di aggredirlo; ma la situazione non è
cambiata di molto, ci dice.
Samir, ora, vuole tornare in
Tunisia; adesso ritiene che neanche l’Italia sia un paese democratico,
poiché esistono posti come
il Vulpitta.
E’ stato rimpatriato.
MUHEUDDIN, 23 anni, del Bangladesh, da due anni in Italia, dal 2 agosto 2002 al
Vulpitta.
E’ stato preso a Favignana
dove lavorava come ambulante.
Quando lo abbiamo incontrato era
molto impaurito, non capiva perché si trovava li, continuava a ripetere
di non avere fatto nulla, di non essere un criminale, di avere sempre e solo
lavorato.
Lo abbiamo informato che aveva diritto
a presentare richiesta di asilo politico in Italia. Lo ha fatto.
E’ uscito dal Vulpitta circa una settimana dopo
come richiedente asilo.
MOHAMED ALI, circa 30 anni, tunisino.
Ci racconta di essere stato
fermato a Pantelleria, subito dopo lo sbarco, insieme ad un altro; erano solo
in due su una piccola barca che avevano acquistato in Tunisia per 3000 euro.
Mohamed è stato espulso
dall’Italia già tre volte. Ha vissuto a Varese tre anni; per
campare faceva l’imbianchino.
La sua fidanzata è in
Germania e lui vorrebbe raggiungerla, ma sa che probabilmente verrà
rimpatriato. Ci dice, però, che
proverà comunque a ritornare in Italia.
Mohamed è stato rimpatriato
per la quarta volta.
NEJII, 25 anni, tunisino.
Quando incontriamo Nejii il 31 agosto, c’è molta
tensione al Vulpitta: uno dei trattenuti è riuscito a fuggire,
probabilmente durante una partita di calcio. C’è un numero
spropositato di agenti e ben tre ispettori di polizia. Tutti sono nervosi: il
poliziotto che ha il compito di sorvegliare noi e di fare uscire gli immigrati
che vogliono parlarci, si infila,
a ogni buon conto, i guanti prima di aprire i cancelli e bestemmia
perché non riesce a capire i nomi di quelli che deve chiamare.
Nejii ci racconta
che suo fratello sta ormai da molti anni in Francia e che lui spera di raggiungerlo anche per poter
vedere il nipotino che non ha ancora conosciuto.
E’ tranquillo perché
il giorno seguente ultima i trenta giorni di trattenimento, e quindi può
uscire. Il fratello verrà a prenderlo.
Lui in Tunisia proprio non ci
può tornare, ci dice, perché è fuggito mentre faceva il
servizio militare e in precedenza aveva avuto anche numerosi
problemi per una rissa.
Ci telefona il giorno dopo: gli
hanno comunicato che oggi non può uscire, perché è
domenica, gli uffici della Questura sono chiusi e al centro non è ancora
arrivato il suo foglio di via; gli hanno assicurato che uscirà domani,
che si tratta di aspettare solo un altro giorno. Ma Nejii ha paura: il
lunedì è giorno di rimpatri, teme che lo mandino in Tunisia. Lo rassicuriamo: non possono farlo.
Lunedì mattina tentiamo di richiamarlo al centro; ma
Nejii non c’è più: lo hanno davvero portato via .
E’ stato rimpatriato in
Tunisia al trentunesimo giorno di trattenimento.
KAMEL, 24 anni, algerino.
5 settembre 2002, alle 16:00
entriamo al centro.
L’atmosfera all’interno sembra molto tesa. Ci viene subito chiesto di incontrare prima le persone trattenute nel settore dei carabinieri. Nel settore della polizia ci sono stati dei problemi: un ragazzo si è sentito male ed è stato portato giù in infermeria.
Iniziamo a percorrere il ballatoio e notiamo che nella
cella di isolamento ci sono due ragazzi, seduti per terra con il piatto del
pasto a fianco. Attraverso le sbarre, chiediamo loro perché sono
rinchiusi lì in quelle condizioni. Ci dicono di non saperlo. Sono
sbarcati, in cinque, a Marsala, sono stati in ospedale e da allora non sanno
più nulla degli altri tre compagni. Ci facciamo dare i loro nomi per
poterli fare chiamare.
Procediamo lungo il ballatoio.
Appena arrivati nel settore dei carabinieri sentiamo delle urla provenire
dall’interno. Corriamo dentro. Davanti a noi, appeso con un lenzuolo alle
sbarre del cancello del corridoio, c’è un ragazzo che sta tentando
di impiccarsi; altri, arrampicati, tentano di toglierli il cappio dal collo.
Quel ragazzo è Kamel: ha
saputo che suo fratello, che sta in Francia, ha avuto un incidente;
pensa che sia morto.
I poliziotti aprono il cancello e
trascinano Kamel nella stanza in cui di solito facciamo i colloqui.
E’ in preda ad una crisi
isterica; viene portato in infermeria, al primo piano, in braccio a due suoi
compagni scortati dai poliziotti.
Noi ci fermiamo a
parlare con i ragazzi che stanno dall’altra parte del cancello. Sono
molto agitati, sconvolti; minacciano di imitare il gesto del loro compagno.
Alcuni raccontano di essere
sbarcati il 21 agosto a Lampedusa; di essere stati portati al centro della
isola e di essere rimasti lì per tredici giorni. Scopriamo pero’
dal decreto di espulsione che il
loro fermo è stato convalidato solo il 2 settembre e che i trenta giorni
di trattenimento partono da quest’ultima data; i tredici giorni a Lampedusa non contano.
Cerchiamo di calmarli, ma non abbiamo molto da dire.
Andiamo a chiedere notizie di Kamel, ma sul ballatoio altri
ragazzi ci chiamano dalla cella; dicono di essere molto preoccupati: i loro
compagni stanno preparando una rivolta; loro, invece, stanno tutti terminando i
trenta giorni e non vogliono essere coinvolti; ormai non escono più
dalla loro cella neanche per andare al bagno.
Poco dopo l’ispettore di
polizia ci chiede di lasciare il
centro e di rimandare ad un altro giorno la nostra “visita”.
Sabato 7 settembre entriamo di
nuovo al centro, ma non ci viene
permesso di parlare con Kamel.
Riusciamo a vederlo, però,
attraverso le sbarre: ha i bicipiti e una gamba bendati: la notte della rivolta
ha tentato di tagliarsi le vene. Verremo a sapere in seguito che Kamel ed un
altro ragazzo, subito dopo il nostro arrivo, sono stati portati al piano di
sotto e sorvegliati dai poliziotti
per tutta la durata della nostra visita.
Ritorniamo al Vulpitta il 10
settembre, accompagnati dall’on. Giuseppe Di Lello, parlamentare europeo.
Alla presenza di numerosi funzionari della Questura di Trapani stavolta ci
viene permesso di parlare con Kamel e con gli altri che hanno preso parte alla
protesta.
Alcuni hanno le braccia pieni di
ferite che si sono procurati con degli oggetti appuntiti. Quelli che parlano
solo in arabo chiedono di essere tradotti dai loro compagni e non
dall’interprete del centro. Raccontano ciò che è accaduto
la notte della protesta e nei giorni seguenti: il ragazzo che insieme a Kamel
era stato portato al piano di sotto durante la nostra visita sostiene di aver
ricevuto una manganellata sul viso perché protestava; altri si lamentano
dell’ingiustizia per quei tredici giorni supplementari di detenzione a
Lampedusa e delle condizioni di vita al Vulpitta.
I loro racconti sono
drammaticamente “normali”: scene di ovvia quotidianità
dentro un CPT.
Kamel uscirà alla fine del
periodo di trattenimento e cercherà di raggiungere la Francia per stare
vicino al fratello.
Agli altri verrà consegnato
in anticipo il foglio di via per bilanciare il periodo trascorso a Lampedusa.
YOUSSEF,
MOHAMMED, HASEN, KARIM e gli altri.
Sono i primi a rischiare di dover
trascorrere fino a sessanta giorni al Vulpitta, dopo l’entrata in vigore
della Bossi-Fini.
Sono più di trenta , quasi
tutti maghrebini, provengono da varie parti di Italia, ma sono stati fermati
tutti nel mese di settembre ad Alcamo dove si trovavano per la vendemmia. Sono
stati presi dalla polizia e dai carabinieri per strada o alla stazione, nessuno
nelle campagne mentre lavorava, probabilmente per evitare denuncie ai datori di lavoro
italiani.
Loro i datori di lavoro li chiamano
“padroni”; non ne
conoscono i nomi nè gli indirizzi delle case: hanno conosciuto e
trattato solo con i “caporali”, gli intermediari, spesso stranieri anche loro.
Devono prendere i soldi per le
giornate di lavoro che hanno già svolto, ma ora non riescono a
contattare neanche gli intermediari.
Uno di loro ha consegnato al
proprio caporale 1.500 euro perché li desse al datore di lavoro, che
aveva promesso di regolarizzarlo: 800 euro per pagarsi da sè i
contributi della sanatoria e altri 700 come “regalo” per il
disturbo. Naturalmente ora che è al Vulpitta e rischia il rimpatrio è
sfumata la promessa e sono spariti
i soldi.
Pochi riusciranno a riavere
ciò che spetta loro; quasi tutti verranno rimpatriati.
Non ci risulta essere stato
denunciato alcun alcamese per avere impiegato manodopera straniera in nero.
MOUSTAFA’
Preso anche lui ad Alcamo;
è l’unico senegalese del gruppo; è in Italia solo da due
mesi, prima era stato in Francia; al Vulpitta è arrivato il 20
settembre. Parla un francese frammisto di termini del suo dialetto e spesso non
riesce a farsi capire dagli altri. Non sa perché si trovi al Vulpitta , ma è comunque
tranquillo.
Quando gli chiediamo quanti anni
ha , ci risponde, vergognandosene, di non saperlo.
Portiamo a lui e ai suoi compagni,
dei vestiti perché quelli che passano al Vulpitta sono insufficienti e ormai troppo
leggeri.
MOKTAR, HAMID, FARID, algerini.
Provengono da Napoli e da Caserta. Sono arrivati a Marsala per lavorare
in campagna nella raccolta delle zucchine.
Il 30
settembre Moktar decide di recarsi in ospedale perché ha un’ernia
che gli causa fortissimi dolori; gli altri due lo accompagnano.
Il
medico che lo visita, dopo avere appreso che sia lui che i suoi compagni sono
privi del permesso di soggiorno, chiama la polizia.
I tre
vengono fermati in ospedale e poi portati al Vulpitta.
Moktar al
centro non riesce a dormire per i dolori alla schiena. Gli assicurano che gli
verrà fornito un materasso ortopedico; ma dopo 27 giorni il materasso
non è ancora arrivato.
NACEUR, 36 anni, tunisino.
Da 22 anni sta in Italia. Ha avuto un permesso di
soggiorno, ma non lo ha potuto rinnovare perché è stato in
carcere nel ’94 per spaccio. Ha anche un precedente decreto di
espulsione: infatti è uno di quelli che nel febbraio del 2002 furono
trattenuti alla palestra Buscaino Campo.
La sua è una storia quasi incredibile: Naceur
vive a Marsala dove fa il commerciante abusivo di musicassette; lì lo
conoscono tutti e lo hanno soprannominato “Ciccio Cd”.
La sua compagna è italiana; quando rimane
incinta Naceur decide di sposarla: si reca in comune con i
documenti per il matrimonio e il
nulla osta dell’ambasciata tunisina. Un funzionario gli dice che è
necessario anche il permesso di soggiorno per potersi sposare; ma poiché egli ha deciso di
contrarre matrimonio con una cittadina italiana ha comunque il diritto di ottenerlo; lo invita quindi a recarsi
in questura a Trapani.
Naceur si reca insieme alla sua compagna in questura
per chiedere il permesso di soggiorno; da lì è prelevato e
condotto al Vulpitta.
E’ stato rimpatriato nei primi giorni di ottobre
del 2002.
Non è necessario il permesso di soggiorno per
gli stranieri che vogliono contrarre matrimonio con cittadini italiani.
YOUSSEF, circa 30
anni, Palestinese.
Dopo
l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini, con il prolungamento del periodo
di trattenimento nei CPT fino a sessanta giorni, al Vulpitta si susseguono le
proteste quasi quotidianamente: c’è chi si rifiuta di consumare i
pasti, chi addirittura minaccia di impiccarsi e chi tenta di tagliarsi le vene
per essere portato in ospedale.
Quando
chiediamo di parlare con Youssef, l’ispettore di polizia tenta di
dissuaderci: non è un tipo tranquillo, ci dice, dà spesso in
escandescenze, quindi la nostra incolumità sarebbe a rischio.
Insistiamo e alla fine riusciamo a parlare con lui.
Youssef però è diffidente; è
necessario che per noi garantisca Karim, il “capo” nel settore
della polizia.
Rassicurato, accetta di raccontarci la sua storia:
è arrivato in Spagna nel 1989 insieme al padre. A tredici anni, dopo la
morte del genitore, viene affidato a una zia, ma scappa subito da casa e
comincia a vagabondare per l’ Europa.
La sua è una vita da sbandato: inizia presto a
drogarsi, a fumare crack; è detenuto in carcere in Spagna, in Olanda, in
Francia e anche in Italia; per due volte finisce anche in manicomio; il suo
equilibrio psichico è seriamente compromesso.
In Italia arriva per la prima volta nel ’97; poi
ritorna nel ’99.
E’ già stato trattenuto nel CPT di Via
Corelli a Milano, dove ha trascorso i trenta giorni senza essere riconosciuto.
Al Vulpitta è arrivato dal carcere.
Protesta perché al centro non gli vengono
somministrati gli stessi farmaci che gli venivano dati in carcere; in ogni caso
adesso prende massicce dosi di tranquillanti.
Youssef non comprende perché deve trascorrere
altri sessanta giorni al Vulpitta; è sicuro che non verrà
riconosciuto neanche stavolta.
Lui, dice, in un posto come quello proprio non
può starci: ha paura di farsi del male o di farne agli altri quando ha
le crisi; ha già tentato di tagliarsi le vene.
Assicura di essere palestinese ma non ha mai fatto
richiesta di asilo politico.
Non conosce l’arabo.
Vuole scrivere al Questore di Trapani perché,
se proprio deve essere trattenuto, preferisce andare in un ospedale
psichiatrico piuttosto che
rimanere al Vulpitta.
MOURAD, 20 ANNI, TUNISINO
Mourad noi non l’abbiamo mai
incontrato. La sua storia ce l’ha raccontata il fratello che vive a
Milano ed ha un regolare permesso di soggiorno.
La barca in cui si trovava Mourad
insieme ad altri venti maghrebini viene intercettata dalla Guardia Costiera a
tre miglia a largo di Pantelleria il 18 giugno 2002.
Appena scorge l’imbarcazione
dei militari, Mourad comprende di avere un’unica possibilità di
sfuggire alla cattura: si butta in mare; sa nuotare e pensa che probabilmente
la riva non sia così lontana. Da quel momento scompare: nessuno lo ha più visto.
I suoi compagni di viaggio vengono
fermati e portati prima alla caserma “Barone” di Pantelleria, poi
al Vulpitta.
Il fratello ci chiama il 17
luglio. Mourad non ha dato notizie di sé né a lui, né ai
genitori in Tunisia. Ha saputo che si è buttato in mare da uno di quelli
che era con lui e che è già stato rimpatriato. Teme che il
fratello non ce l’abbia fatta, che sia morto.
Lo rassicuriamo: probabilmente,
una volta giunto a riva, anche lui è stato fermato ed ora si trova al
Vulpitta. Ma Mourad al centro non c’è. Ci sono altri due suoi
compagni di viaggio che ci confermano di non averlo più visto da quando
si era buttato in mare.
Chiediamo all’Ufficio
Stranieri della Questura di Trapani di controllare le schede di identificazione
degli immigrati fermati a Pantelleria o a Trapani a partire dal 18 giugno:
Mourad è ben riconoscibile per una cicatrice che gli solca il viso. Ma
fra quelle schede la sua non c’è. Non risulta essere stato al
Vulpitta o in altri centri. E fino ad oggi non ha contattato nessuno dei suoi
parenti.
La sua famiglia continua a cercarlo; hanno presentato una
denuncia di scomparsa e hanno chiesto al consolato tunisino di Palermo di
essere informati nel caso in cui venisse rinvenuto qualche cadavere in mare: se
è morto vogliono che sia riconosciuto, vogliono potergli dare un nome,
una identità, una storia. Perché almeno da morto Mourad possa
avere il diritto di esistere.