INVISIBILI
MA PRESENTI
Fra
i luoghi del vivere quotidiano, l'appartenenza etnica e le espressioni della
comunità ospitante
Percorsi
di partecipazione socio-culturale e occupazionale
delle
donne migranti
Indice
1 |
Introduzione |
1 |
1.1 |
Note Preliminari |
1 |
1.2 |
Finalità Dello Studio |
2 |
1.3 |
Osservazioni Metodologiche |
3 |
|
|
|
2 |
Fisionomie Del
Fenomeno Migratorio |
6 |
2.1 |
Indicazioni Propedeutiche |
6 |
2.2 |
Presenza Femminile Nell'Immigrazione |
8 |
2.3 |
Profili Femminili Di Riferimento |
13 |
|
|
|
3 |
I Giochi Dell'
Invisibilità |
20 |
3.1 |
La Realtà Lavorativa |
20 |
3.1.1 |
Un'Integrazione Condizionata |
28 |
3.2 |
La Dimensione Socio-Culturale Del Vivere Quotidiano |
32 |
|
|
|
4 |
Considerazioni
Conclusive |
42 |
|
Riferimenti
Bibliografici |
45 |
Rapporto di ricerca
A cura di
Barbara Bastarelli
Trento, dicembre 2000
1 INTRODUZIONE
1.1
NOTE PRELIMINARI
Interrogare le
invisibilità - sociali, economiche, culturali e affettive - e il loro
intrecciarsi fra condizioni ricercate o subite così come trapelano dalle
esperienze delle donne da noi raccolte è, parallelamente, riflettere
l'attenzione ad un'analisi che ci comprenda, e possa cogliere quali tipi
privilegiati di accoglienza sappiamo e desideriamo porre in essere.
Il porsi - dunque - come
soggetto e nel contempo oggetto d'analisi nell'affrontare la complessità
che la tematica delle migrazioni inevitabilmente comporta, è segno di un
approccio che, nel fotografare il contesto multietnico che caratterizza la nostra società
e il nostro territorio, apre - similmente - ad una riflessione critica sugli
equilibri che dobbiamo ancora perseguire e ricercare per una politica
dell'accoglienza che sappia e voglia gestire anche le possibilità date
dalla multiculturalità, per una società plurale «in cui l'adattamento da parte
altrui non sia l'unico modo di convivenza permesso, in cui l'immigrato/[a] non
sia necessariamente obbligato/[a] all'accettazione dell'uniformità,
secondo linee gestite da altri, ma gli/[le] si riconosca il diritto alla
diversità» (Macioti M. I.; 1995, p.12).
Se il dato fattuale della
compresenza territoriale di persone di diversa origine, la multietnicità
di un contesto, chiama prioritariamente l'attenzione a problemi sociali di tipo
strutturale - in particolare ai temi del lavoro e della casa - un orizzonte
multiculturale presuppone un paritario e reciproco riconoscimento simbolico
dell'altro, un'accettazione - scevra dalle derive assimilatorie o cooptatrici
indotte dai pregiudizi etnocentrici - dell'esistenza di paradigmi e prospettive
diverse, di cittadini e cittadine che nei loro insiemi veicolano ciò che
chiamiamo culture e culture di genere - eterogenee, fluide, sempre passibili di
reciproche ibridazioni.
Relazioni e chiusure, barriere
di incomprensioni e spazi comunicativi si manifestano - nel nostro studio -
nelle esperienze con la comunità ospitante riferite dalle donne
incontrate. Esperienze che inevitabilmente si incontrano/scontrano con i
progetti migratori e i segni dell'appartenenza etnica che diversamente plasmano
i percorsi di partecipazione nella società di accoglienza. Entrambi gli
aspetti sondati guardano allo specifico del genere femminile nelle migrazioni
non solo - ed esclusivamente - per nominare un'assenza ancora troppo spesso
riscontrabile negli studi di sociologia delle migrazioni o nei progetti di
politiche d'accoglienza, ma anche - e principalmente - per aprire a prospettive
diverse che sappiano cogliere - contestualizzandoli - significati e valori che
i corpi sessuati quotidianamente ci propongono[1].
1.2 FINALITA' DELLO STUDIO
Analisi
diretta a riconoscere e a interpretare i limiti e le possibilità delle
dinamiche di partecipazione socioculturale e occupazionale delle donne
straniere extracomunitarie presenti sul territorio della Provincia di Trento.
L'analisi è posta in
relazione sia con le influenze dei progetti migratori - motivazioni alla
partenza, competenze sociali e professionali pregresse, caratteristiche degli
aggregati d'appartenenza, universi simbolici di riferimento - che con la
percezione degli spazi e delle relazioni concesse dalla società d'accoglienza
- collocazioni occupazionali e modalità di inserimento nel mercato
lavorativo, atteggiamenti della comunità ospitante, valutazione delle
opinioni collettive.
Alla
luce dell'esperienza empirica - e nei limiti e parzialità che ogni
lavoro di ricerca inevitabilmente comporta - il presente studio rappresenta un
approccio alla lettura del fenomeno migratorio al femminile che nel nominare i
significati attribuiti dalle cittadine straniere ai loro quotidiani incontri
con la comunità autoctona coglie - similmente - la conoscenza di alcuni
aspetti del fenomeno migratorio stesso.
Conoscenza
che, propositivamente, potrebbe offrirsi come orientamento per eventuali
interventi operativi, efficaci ad incidere sulle realtà presentate.
1.3 OSSERVAZIONI METODOLOGICHE
L'orientamento
metodologico adottato si propone - secondo una metodologia accorta e attenta a
non "confondere" i livelli di analisi in cui si articola la ricerca -
di "interscambiare" soggetto e oggetto d'analisi. Loro sono "oggetto" delle nostre
osservazioni nel medesimo momento in cui noi siamo "oggetto" delle loro
osservazioni. Paradigmaticamente nel rapporto di ricerca centralità e
marginalità delle culture si avvicendano, riconoscendo valore alla
scelta di "riportare ampi stralci delle testimonianze raccolte",
testimonianze rese per costruire spazi comuni di intelligibilità.[2]
Il
piano del lavoro ha previsto tre momenti di ricerca: una prima fase -
essenzialmente bibliografica - di raccolta e studio del materiale cartaceo
pubblicato, analisi che ha permesso la costruzione di una griglia
interpretativa finalizzata ad indagare l'oggetto della ricerca. A tale momento
propedeutico è seguita la fase propriamente empirica del lavoro, con la
realizzazione di quaranta interviste in profondità sulla base di una
traccia - precedentemente impostata e testata - di item comuni a tutte le testimonianze raccolte.
Infine si è proceduto ad una analisi del contenuto del materiale
raccolto che, comparato con gli elementi bibliografici precedentemente
consultati, ha portato alla stesura del presente rapporto di ricerca.
Per
restituire spessore storico alle testimonianze raccolte la metodologia
qualitativa adottata si è avvalsa dello strumento d'analisi
dell'intervista semi-strutturata, la cui traccia è stata opportunamente
modulata sia per facilitare la pratica discorsiva nella narrazione del vissuto
personale delle donne intervistate che per superare eventuali resistenze
nell'identificare e/o raccontare atteggiamenti avvertiti come pregiudiziali
della società autoctona.
Le
interviste[3],
della durata variabile da quaranta a novanta minuti circa, sono state condotte
fra giugno e ottobre 2000 da donne frequentanti il "Centro
Interculturale delle Donne - Ujamaa'", committente della ricerca, opportunamente preparate in alcuni
incontri di briefings.
Considerando
gli ambiti che la ricerca si prefigge di esaminare, lo studio ha coinvolto
donne presenti nel nostro Paese da almeno tre anni, anche se non in possesso di
regolare permesso di soggiorno. Il campione è stato calibrato sulla base
delle indicazioni emerse dall'analisi delle caratteristiche socio-demografiche
delle immigrate regolarmente presenti nella Provincia di Trento[4],
ponderando in particolare le macro aree di provenienza delle cittadine
straniere (con esclusione delle donne originarie del Nord - America e dei Paesi
Europei Occidentali non comunitari), la distribuzione territoriale delle stesse
e le motivazioni espresse nella richiesta del permesso di soggiorno.
Riteniamo
opportuno precisare - prima di procedere nell'esposizione del presente
contributo - che metodologie di tipo qualitativo rinunciano a pretese di
generalizzazione ed esaustività delle indicazioni raccolte, in favore
della possibilità di inoltrare compiutamente l'analisi all'approfondimento
dello spaccato di realtà esaminato.
2 FISIONOMIE DEL FENOMENO
MIGRATORIO
2.1 INDICAZIONI PROPEDEUTICHE
L'inversione
storica del nostro Paese da "area di esodo ad area di approdo" si
è imposta - significativamente - nei primi anni Ottanta, contestualmente
all'attuazione di misure a carattere restrittivo (la c.d. "politica degli
stop") avviate dai Paesi industrializzati dell'Europa Centro -
Settentrionale al fine di controllare il flusso degli ingressi. I nuovi
spostamenti migratori - secondo la letteratura classica sulle migrazioni - sono
stati determinati da interdipendenze globali e connessioni multiple ben
distinguibili dalle grandi migrazioni intraeuropee che hanno caratterizzato gli
anni Cinquanta e Sessanta, e che avevano nei Paesi della sponda Nord del
Mediterraneo le "riserve" di lavoro manuale a cui attingere.
Quest'inversione
risponde, dunque, alle trasformazioni generali del contesto socio - economico
internazionale, trasformazioni identificabili nei processi di
deindustrializzazione e terziarizzazione dell'economia, nei bassi tassi di
natalità e nell'invecchiamento della popolazione che caratterizzano i
Paesi industrializzati, congiuntamente ai processi di depauperizzazione
ambientale, esplosioni demografiche, urbanizzazioni, conflitti etnici -
razziali e degrado ecologico che distinguono sempre più vaste aree del
Sud del Mondo.
Se
le politiche adottate dai Paesi Europei di antica tradizione immigratoria a
cavallo degli anni Ottanta hanno "spostato" i flussi migratori nelle
aree "di ripiego" mediterranee, caratterizzate da un'accentuata
permeabilità delle frontiere[5],
la nuova fisionomia internazionale, i mutamenti nello scenario economico
nazionale e - non da ultimo - l'implosione che a partire dagli anni Novanta ha
sconvolto i Paesi dell'Europa dell'Est ad economie centralmente pianificate,
hanno definitivamente connotato i Paesi industrializzati dell'Europa
mediterranea come "mete", non più marginali, di eterogenei
flussi migratori.
La
società italiana - caratterizzata da una forte differenziazione
economica e geografica fra realtà regionali - ha assistito ad un flusso
migratorio concentrato, nella sua fase iniziale, nelle grandi metropoli e nelle
aree centro - meridionali del Paese, composto da cittadini originari del
Maghreb (in particolare marocchini e tunisini) e da cittadine provenienti
dall'Eritrea, da Capo Verde e dalle Filippine, occupati prevalentemente nei
settori ittico e agricolo stagionale e nel settore domestico.
«Mete
di un'immigrazione di natura selettiva e guidata dalla consapevolezza delle
opportunità di lavoro in esse esistenti» (Zanfrini L., 1993, p.87)
le regioni settentrionali italiane (e in particolare le realtà del Nord
- Est) perdono - nel corso degli anni Novanta - la loro "relativa estraneità
al fenomeno migratorio" e diventano polo attrattivo sia per gli stranieri
già presenti nelle aree centro - meridionali del Paese -
"migrazione intraterritoriale" - che per le aggiuntive e
significative migrazioni provenienti dai Paesi dell'Europa dell'Est.
2.2 PRESENZA FEMMINILE
NELL'IMMIGRAZIONE
La
"progressiva e precoce femminilizzazione dei flussi" (Favaro G.,
1991) con la presenza di donne sole con progetti migratori prettamente
lavorativi è la significativa anomalia dei flussi migratori italiani.
Particolarmente
nella sua fase iniziale - indicativamente negli anni Ottanta - tale anomalia
distanzia nettamente la realtà del nostro Paese con quelle delle Nazioni
a più matura tradizione immigratoria, che - fra gli anni Settanta e
Ottanta - vedono una presenza femminile determinata, in larga misura, dalle
norme sui "ricongiungimenti familiari". Solo a partire dagli anni
Novanta il fenomeno incomincia ad essere diversificato per la presenza di donne
- per lo più maghrebine - che, agevolate dalle nuove norme legislative,
sono giunte - o giungono - in Italia a seguito del coniuge, per
"ricomporre" il nucleo familiare originario (la c.d.
"immigrazione femminile derivata").
Nell'osservare
il trend italiano se
già dagli anni Settanta la percentuale femminile sul totale della componente
migratoria oscillava intorno al 30%, i dati ultimi disponibili mostrano una
presenza femminile pari al 45% dell'immigrazione regolare in Italia, con una
quota sempre considerevole di percorsi migratori declinati al femminile[6].
Donne
che, in prima persona, agivano e agiscono la dinamica migratoria, e che spesso
rappresentavano e rappresentano il momento di inizio di una catena migratoria
di genere o di ricongiungimenti familiari. Donne appartenenti - prevalentemente
- a gruppi etnici ben determinati e inserite - in particolare nella prima fase
del flusso immigratorio nel nostro Paese - in correnti favorite
dall'associazionismo legato alla Chiesa cattolica[7],
una relazione che, variamente ancora unisce "l'essere donna, colf e
cattolica" (De FilippoE., 2000).
Sebbene
a tali "flussi storici" si siano aggiunti altri e più
compositi flussi che stanno ridefinendo la componente di genere nell'origine
etnica dei gruppi migratori, rimane - comunque - sempre una marcata
caratterizzazione di genere nelle diverse collettività presenti, con una
presenza numerica maggiore
di quella maschile fra gli asiatici (sono donne il 67.3% dei filippini), fra i
cittadini provenienti dal Centro - Sud America (il 69.6% dei peruviani e il
73.2% dei brasiliani) e dell'Europa dell'Est (il 67.5% della popolazione
polacca presente è di genere femminile). Confrontando la consistenza
numerica fra i generi per nazionalità, le donne costituiscono la
componente minoritaria
fra i senegalesi (5.7%) e i pakistani (8.7%), mentre sono di genere femminile
il 20.4% dei macedoni, il 20.7% dei marocchini e il 30.7% degli albanesi
presenti sul nostro territorio[8].
Sin
dalle sue origini, la femminilizzazione della presenza straniera
extracomunitaria significa, sostanzialmente, una collocazione occupazionale
nell'ambito familiare, passando - nell'ultimo quindicennio - dalla cura della
casa alla cura delle persone, un "ampliamento" che sempre più
ha richiesto la presenza di "lavoratrici giorno e notte" (de Filippo
E., 1994) disponibili ad una flessibilità di ruoli e orari e adattabili
ai bisogni e agli spazi della famiglia datrice di lavoro. Lavoratrici con
"pressoché nulle prospettive di mobilità professionale"
(Vicarelli G., 1994) che svelano - con la loro presenza - una domanda di
servizi alla persona elusa da uno stato sociale in progressiva erosione,
«servizi non forniti, o insufficientemente forniti, dallo Stato e dalle
Amministrazioni locali» (de Filippo E., 2000, p.52).
Domande
di cura - alla casa, ai minori, ai disabili, … - indotte - in
società postindustriali - dalle trasformazioni nei rapporti comunitari e
familiari, dal sistema di produzione economica, dalle politiche di restrizione
- più che di trasformazione - del welfare state, dalla presenza femminile nel mercato
lavorativo extra-domestico e dal costante invecchiamento della popolazione.
Richieste
di servizi rivolte all'universo femminile extracomunitario per compensare la
parziale e incompleta trasformazione dei "nostri" modelli familiari,
così «queste donne, che vengono da lontano, occupano i posti che
noi [donne] abbiamo lasciato liberi, fanno i mestieri che non siamo riuscite a
condividere con i nostri uomini, svolgono ruoli che non abbiamo ottenuto che
fossero organizzati civilmente dalle strutture sanitarie e per i quali il
volontariato non ha abbastanza braccia e cuori» (Luciano A., 1994,
p.225).
Qualsiasi
sia la scelta all'emigrazione o - più propriamente - qualsiasi sia il
"peso" delle variabili che nella loro eterogenea compresenza
intervengono in ogni progetto migratorio - e qualsiasi sia il livello di
scolarità o professionale raggiunto nel Paese d'origine, la collocazione
occupazionale nel settore domestico e/o assistenziale appare l'unico spazio
realisticamente praticabile per le donne migranti. Aspirazioni di "mobilità
verticale", aspirazioni, cioè, legate ad un desiderio di
emancipazione lavorativa e sociale che possa permettere un
"cambiamento" ad un altro settore occupazionale sembrano - nel quadro
della società italiana - difficilmente realizzabili, mentre più
fattibile (anche se non esente da rischi di disoccupazione e da processi di
impoverimento) sembra essere prefiggersi l'obiettivo di "promozione
orizzontale", ovvero passare dalla condizione di lavoratrice convivente ad
impieghi ad ore o all'assunzione in imprese del terziario (imprese di pulizia o
cooperative di servizi alla persona).
Se
l'occupazione "giorno e notte" può corrispondere ai progetti
immigratori "a termine" e alle aspettative di guadagno delle donne
immigrate "sole", in quanto permette, contemporaneamente, un
inserimento lavorativo e alloggiativo, un reddito netto convertibile in rimesse
ai Paesi di provenienza (e - per chi è irregolarmente presente -
l'invisibilità sociale), questi stessi fattori costituiscono - nel tempo[9]
- una forma di "segregazione occupazionale" che rende difficile
ipotizzare percorsi di autonomia personale e abitativa, ricongiungimenti
familiari e modalità di inserimento nella comunità autoctona.
Meno
problematica - ma non per questo priva da conflittualità - appare la
situazione delle donne il cui progetto migratorio segue o accompagna quello del
coniuge o del nucleo familiare d'origine. Donne che migrano - pertanto - per
ricomporre il loro nucleo familiare, e che dagli anni Novanta sono sempre
più presenti nella comunità maghrebina (in particolare fra i
cittadini del Marocco), asiatica (essenzialmente cinese) e - solo recentemente
- in quella albanese.
L'esperienza
migratoria assume - in questi casi - caratteristiche che possono avvicinarsi ai
modelli femminili della tradizione emigratoria intraeuropea degli anni
Cinquanta e Sessanta, figure di donne in cui predomina il ruolo di moglie e
madre, anche in quei casi in cui il lavoro extradomestico appare predominante.
Per
chi non rimane completamente al di fuori del mercato del lavoro (per scelta
personale o di coppia), le opportunità occupazionali sono concentrate
negli stessi ambiti offerti alle donne immigrate "sole", ma presumono
impegni lavorativi più discontinui o modalità, specialmente
orarie, differenti: lavori a ore presso le famiglie, nelle imprese di pulizia o
nella ristorazione.
Se
l'inserimento nel nucleo familiare - nel ruolo di moglie e madre - attenua quei
sentimenti di solitudine, di nostalgia, di "vuoto interiore" che
drammaticamente accompagnano l'esperienza migratoria delle donne
"sole"[10],
l'acquisizione stessa del "ruolo familiare" rende qui complessa
l'esperienza migratoria, esperienza accompagnata - da un lato - da una
"tensione" all'autoisolamento per garantire «un rapporto di
continuità con il passato attraverso la trasmissione della
tradizione» (Grasso M., 1994, p.27) e - dall'altro - da una spinta al
confronto per ricercare nuovi equilibri con i modelli valoriali della
società d'accoglienza.
2.3 PROFILI FEMMINILI DI RIFERIMENTO
Sostanzialmente
simile - nell'offerta d'opportunità occupazionali - ai contesti
territoriali che caratterizzano il Nord - Est Italiano, la presenza migratoria
extracomunitaria nella Provincia di Trento risulta comparabile a quella
registrata nelle regioni confinanti, mostrando un trend dei flussi migratori in costante
incremento. Sebbene l'andamento non sia da considerarsi linearmente
progressivo, si è passati da un tasso d'incidenza degli stranieri
extracomunitari residenti sul totale della popolazione dello 0.4% nel 1990 all'
1.8% nel 1997[11].
La
femminilizzazione del fenomeno immigratorio nella realtà provinciale
è particolarmente evidente (essenzialmente in linea con il dato
nazionale): il 44.8% della popolazione extracomunitaria presente (con
esclusione dei/lle cittadini/e del Nord - America e dei
Paesi Europei Occidentali non comunitari) è di genere femminile[12].
Considerando
la consistenza numerica delle straniere residenti nel territorio e scorporando
il dato per macro - aree geografiche d'origine, la componente femminile
più rappresentativa proviene dai Paesi dell'Est (52.4%), seguita dalla
componente femminile originaria del Maghreb (23.2%), dell'America
Centromeridionale (14.7%, dell'Asia (5.9%) e dell'Africa (3.8%).
Comparando
la consistenza numerica fra i generi per ogni gruppo considerato risulta che la
componente femminile è maggioritaria fra le persone dell'America
Centromeridionale (73.2%), mentre il suo peso appare più contenuto nel
gruppo Asiatico (in cui il 42.4% dei cittadini sono donne), Africano (con il
42.4 delle residenti che appartengono al genere femminile) e nel gruppo
proveniente dall'Europa Orientale (il 41.2% dei cittadini dell'Europa dell'Est
sono donne). La componente femminile risulta, invece, minoritaria fra i
maghrebini/e (sono donne il 31.9% dei/lle residenti nel territorio
provinciale).
I profili femminili di
riferimento emersi dalla ricerca ritraggono - proporzionalmente - le macro -
aree di provenienza delle donne regolarmente residenti nella Provincia di
Trento[13],
considerando la distribuzione territoriale delle stesse nella realtà
provinciale e le motivazioni espresse nelle richieste di rilascio del permesso
di soggiorno.[14]
Lo scenario composto dalle
macro - aree d'origine delle 40 cittadine straniere intervistate rivela che 21
donne provengono dall'Europa Orientale, 9 dal Maghreb, 5 dal Centro - Sud
America, 3 dall'Asia e 2 dall'Africa centrale.
Nello specifico, le diverse
Nazionalità che compongono i gruppi di riferimento sono così
rappresentate:
GRUPPO DI RIFERI-MENTO |
NAZIONALITA' |
TOT. DONNE |
|
GRUPPO DI RIFERI-MENTO |
NAZIONALITA' |
TOT. DONNE |
|
MOLDAVIA |
1 |
|
|
MAROCCO |
6 |
|
UCRAINA |
8 |
|
MAGHREB |
ALGERIA |
2 |
EUROPA |
RUSSIA |
2 |
|
|
TUNISIA |
1 |
|
ROMANIA |
1 |
|
TOT. |
|
9 |
EST |
POLONIA |
3 |
|
|
|
|
|
SERBIA |
1 |
|
AMERICA |
ARGENTINA |
1 |
|
(KOSOVO) |
1 |
|
CENTRO |
CILE |
1 |
|
ALBANIA |
4 |
|
SUD |
ECUADOR |
1 |
TOT. |
|
21 |
|
|
BRASILE |
2 |
|
|
|
|
TOT. |
|
5 |
|
FILIPPINE |
1 |
|
|
|
|
ASIA |
GIAPPONE |
1 |
|
AFRICA |
NIGERIA |
1 |
|
(HONG KONG) |
1 |
|
CENTRALE |
MOZAMBICO |
1 |
TOT. |
|
3 |
|
TOT. |
|
2 |
Quattro
donne (provenienti dall'Argentina, dalle Filippine, dal Centro-Sud America e da Hong Kong) possiedono la
doppia cittadinanza (italiana più straniera) in virtù del
matrimonio con cittadini italiani, ad esclusione di un unico caso in cui la
doppia cittadinanza è data dalle origini italiane della donna cilena
intervistata.
Considerando
le finalità che la ricerca si prefigge di analizzare, si sono coinvolte
nello studio cittadine straniere extracomunitarie presenti stabilmente nel
nostro Paese da almeno tre anni. Il dato relativo al periodo di permanenza in
relazione al gruppo di riferimento è riportato nella seguente tabella:
TEMPO PERMANENZA (IN ANNI) |
GRUPPO DI RIFERIMENTO |
N° DONNE |
TOTALE |
3 |
EUROPA EST |
7 |
8 |
|
ASIA |
1 |
|
|
EUROPA EST |
12 |
|
4-6 |
MAGHREB |
5 |
20 |
|
AFRICA CENTRALE |
2 |
|
|
ASIA |
1 |
|
|
EUROPA EST |
1 |
|
7-9 |
MAGHREB |
3 |
7 |
AMERICA CENTRO-SUD |
3 |
||
10-12 |
EUROPA EST |
1 |
2 |
|
MAGHREB |
1 |
|
13-15 |
ASIA |
1 |
3 |
|
AMERICA CENTRO-SUD |
2 |
|
TOTALE |
|
40 |
Come si evince dalla tabella
riportata il campione di donne considerato risulta avere un periodo medio di
permanenza nel nostro Paese piuttosto elevato. L'incrocio fra tali dati con
quelli relativi allo stato civile delle donne (che riportiamo in seguito) e la
nazionalità del partner evidenzia che tutte le donne presenti da oltre dieci anni sono
coniugate con un italiano. Abitano a Trento città o comuni limitrofi 19
intervistate, 9 a Rovereto città o nei paesi vicine e 12 nelle valli
della nostra provincia.
La
fascia d'età più rappresentativa risulta essere quella fra i 30 -
39 anni (16 donne), mentre 12 e 10 donne hanno - rispettivamente -
un'età compresa fra i 40 - 49 anni e 20 - 29 anni. Solo 2 donne hanno
un'età compresa fra i 50 - 59 anni.
Donne nel pieno del loro ciclo
di vita che risultano - nella stragrande maggioranza - coniugate (30), poche -
in proporzione - le nubili (8) e 2 le separate o divorziate. Sono sposate con
un cittadino italiano 12 intervistate, 4 delle quali originarie dell'Europa
dell'Est, 3 dal Maghreb, 2 dall'America Centromeridionale, 3 dall'Asia e una
dell'Africa Centrale. Delle 40 donne contattate 21 hanno figli/e minori (in
genere molto piccoli/e) e 4 hanno ragazzi/e maggiorenni. In 8 casi i/le figli/e
risiedono nel Paese d'origine dell'intervistata, convivendo con il padre o con
un componente della famiglia d'origine.
Relativamente
alla religione praticata 17 donne si professano Cattoliche, 10 Mussulmane, 11
appartengono ad altre religioni (Ortodossa, Evangelica, …) e una si
dichiara atea. Solo una donna non ha ritenuto di dover esprimere nel colloquio
la propria religione d'appartenenza.
Il
livello di scolarizzazione delle intervistate è mediamente elevato. Ben
5 donne hanno conseguito un Diploma di Laurea nel Loro Paese, 20 donne hanno un
Diploma di Scuola Media Superiore di durata quinquennale, 9 hanno conseguito un
Diploma Professionale che prevedeva un corso triennale di studio e, solo 6
donne, hanno conseguito nel loro Paese la Licenza Media Inferiore.
La tabella seguente consente
di visualizzare immediatamente il buon livello di scolarità posseduto
dalle donne intervistate:
GRUPPO DI RIFERIMENTO |
TITOLO DI STUDIO |
|||||
LICENZA ELEMENTARE |
SCUOLA MEDIA INFERIORE. |
DIPLOMA PROFES. (3 ANNI) |
DIPLOMA SCUOLA MEDIA SUPERIORE |
LAUREA |
TOT. |
|
EUROPA EST |
|
1 |
6 |
11 |
3 |
21 |
MAGHREB |
|
2 |
2 |
4 |
1 |
9 |
AMERICA CENTYRO-SUD |
|
2 |
|
2 |
1 |
5 |
AFRICA CENTRALE |
|
|
1 |
1 |
|
2 |
ASIA |
|
1 |
|
2 |
|
3 |
TOTALE |
|
6 |
9 |
20 |
5 |
40 |
Dall'analisi
del contenuto delle interviste emerge che, particolarmente nei Paesi
dell'Europa Orientale, gli elevati livelli di scolarità raggiunti dalle
donne si armonizzavano con adeguati percorsi lavorativi. Percorsi professionali
- dunque - che il crollo delle economie centralmente pianificate ha frantumato.
I
dati relativi alla situazione occupazionale attuale in relazione alle macro -
aree geografiche di provenienza delle 40 donne da noi incontrate sono
visualizzati nel quadro seguente:
GRUPPO DI RIFER. |
SITUAZIONE OCCUPAZIONALE |
|||||
STUDEN-TESSA |
CASA- LINGA |
OCCU- PATA (24/24 h)* |
OCC. TEMPO PIENO |
PARZ. OCC. |
DISOC. |
|
EUROPA EST |
2 |
2 |
5 |
6 |
5 |
1 |
MAGHREB |
|
3 |
|
1 |
2 |
3 |
AMERICA CENTRO-SUD |
|
2 |
1 |
|
2 |
|
AFRICA CENTRALE |
|
1 |
|
|
1 |
|
ASIA |
|
2 |
|
|
1 |
|
TOTALE |
2 |
10 |
6 |
7 |
11 |
4 |
*coabitante con il datore
di lavoro
Il
panorama che si presenta osservando gli ambiti occupazionali
"coperti" dalle 24 donne che risultano "occupate" o
"parzialmente occupate" (in rapporto al gruppo di riferimento)
è illustrato nella seguente tabella:
GRUPPO DI RIFERIMENTO |
AMBITI / MANSIONI
OCCUPAZIONALI |
|||
ASSISTENZA DIURNA E
NOTTURNA* |
COLLABO- RAZIONE DOMESTICA³ |
INTERPRETA- RIATO*** |
ALTRO**** |
|
EUROPA EST |
5 |
11 |
|
|
MAGHREB |
|
1 |
2 |
|
AMERICA CENTRO-SUD |
1 |
|
1 |
1 |
AFRICA CENTRALE |
|
|
1 |
|
ASIA |
|
|
1 |
|
TOTALE |
6 |
12 |
5 |
1 |
* assistenti diurne e notturne ad anziani **domestiche / operatrici in imprese di pulizia *** Mediatrici culturali, interpreti, lettrici **** segretaria d'azienda
Dati particolarmente
esplicativi - seppur non generalizzabili, ma sostanzialmente simili allo
scenario nazionale - sulla collocazione occupazionale offerta alle donne.
Collocazione che, a fronte di una minoranza collocata nel variegato settore
dell'interpretariato (con un impegno estremamente saltuario) vede la stragrande
maggioranza delle donne inserite nell'ambito domestico e/o assistenziale,
spesso assunte - dalla famiglia datrice di lavoro - senza alcun tipo di
contratto lavorativo.
Nel periodo di svolgimento
della ricerca tutte le
donne contattate che svolgevano mansioni relative alla cura degli anziani (con
assistenza diurna e notturna) e la metà delle donne che lavoravano (a tempo pieno o a
ore) nelle famiglie in qualità di collaboratrice domestica risultano "assunte
in nero".
Oltre 1/4 delle donne intervistate, presenti
regolarmente in Italia da tre o più anni, sono in condizione di "clandestinità",
tutte impiegate presso famiglie.
3 I GIOCHI DELL'INVISIBILITA'
Proporre
percorsi e storie di migrazione raccontate dalle protagoniste è rendere
familiare e visibile la "pluralità della loro esperienza":
valutazioni e percezioni che ogni donna singolarmente esprime rispetto alla sua
esperienza concreta, a ciò che apprende da altri/e, alla conoscenza che
ha del suo ambiente e di ciò che ascolta nella società in cui
vive.
Ogni
donna porta con sé diversità originate dal progetto migratorio
perseguito, dal suo contesto d'origine, dal periodo di permanenza nel nostro
Paese, dalla condizione in cui vive e dalle "risorse personali" a cui
può attingere. Diversità che nel contempo fanno emergere tracce
di esperienze sovrapponibili - spazi che a noi possono permettere la lettura di
un fenomeno che appare - per molti aspetti - ancora in ombra.
3.1 LA REALTA' LAVORATIVA
Nel
veicolare il patrimonio di storie, notizie, strategie d'immigrazione che
costituiscono - nei Paesi di esodo - la fonte principale di informazione sul
nostro Paese e sulle possibilità occupazionali che esso può
offrire, un ruolo fondamentale sembrano assumere le reti informali - personali
o familiari - di conoscenti. Reti che, se attivate, rendono
"fattibile" la partenza, individuabile l'approdo e, talvolta,
facilitano l'inserimento lavorativo:
«Avevo problemi
economici, non c'era tanto lavoro lì […] Sentivo che tante donne
della mia città venivano qui e allora ho chiesto a una conoscente
[…] mi ha detto come fare i documenti e sono venuta» (B. Ucraina);
«Mia sorella ha chiamato
che una signora aveva bisogno allora ho preso il pullman e sono venuta. [E'
venuta con i documenti?] Tutte siamo senza carte, con il passaporto e il visto
veniamo con il pullman.» (C. Moldava);
«Un collega mi ha detto
dove andare per avere subito le carte giuste [Il visto d'ingresso?] Si [Ma
sapeva il posto?] Tutti sanno che ci sono posti, poi però non sono tutti
buoni, mi ha detto lui dove andare, sono stata fortunata [Conosceva qualcuno
qua?] Non sono partita con gli occhi chiusi […] Nessuno parte con gli
occhi chiusi, c'erano [… lontani parenti] di mio marito a Foggia sono
stata un anno in una casa [assistenza ad un anziano] poi un'amica conosceva una
famiglia che cercava qua e sono venuta» (D. Albanese).
Reticoli di conoscenze cui
ricorrere anche nel Paese d'approdo, forme di solidarietà
intra-comunitaria che, al di là della loro funzione "relazionale -
affettiva" - sono spesso considerate una fra le principali risorse
"materiali" a cui appellarsi in un'eventuale ricerca di un
inserimento lavorativo. Parallelamente, le risorse istituzionali, i servizi
pubblici e privati che potrebbero sostenere ed orientare la ricerca di un'occupazione
(Centri per l'Impiego, Agenzia del Lavoro, Agenzie del Lavoro interinale)
sembrano poco utilizzati, ritenuti - per lo più - inefficaci (ad
esclusione del settimanale locale di annunci gratuiti) e burocratizzati:
«E' molto meglio
arrangiarsi da sola per il lavoro, con gli amici che hai.[…] Puoi
prendere "Bazar", o vedi "l'Alto Adige". Non l'Ufficio del
Lavoro perché io non mi fido mai, vai, lasci il nome e non ti chiamano
mai. Meglio da sola però …» (J. Marocchina);
«Se dovessi consigliare
a una mia amica come cercare lavoro consiglierei di cercarlo attraverso
conoscenze … poi non so …» (P. Albanese);
«Direi i giornali, come
"l'Alto Adige", "Bazar" e gli amici. Non conosco altri Enti
che aiutano per il lavoro a parte la CISL» (O. Russa)
«Non so … Ma
meglio non andare negli Uffici, devi portare le carte e poi non sanno per noi
… Poi non sai se lasci il nome … [ma cosa può succedere?]
non sai … Meglio chiedere agli amici o a chi conosci»
(B.Brasiliana).
Un'informazione sulla
realtà locale che appare generalmente "sfumata", anche in chi
ha una maturata esperienza migratoria nella nostra Provincia, risulta coniugata
con un cittadino italiano o ha conseguito la Licenza Media nella nostra
Provincia. Una non chiara conoscenza dei limiti/opportunità delle risorse
territoriali che distanzia le testimonianze seguenti dal panorama generalmente
ascoltato[15]:
«Consiglierei a chi
cerca un lavoro di iscriversi e di andare a vedere gli annunci all'Ufficio di
Collocamento, o nelle altre Agenzie, ma anche lì le cose sono lunghe. Ti
mettono in una lista d'attesa ma non sai mai quando ti chiamano. E' la strada
giusta ma è molto lunga. Ma proverei anche in altri modi, metterei un
fogliettino nel supermercato o nel giornale. Proverei ad andare all'ACLI,
sempre per domestica. Per altri lavori migliori non so, perché anch'io
non ho cambiato, non ho trovato niente» (M. Albanese);
«Direi quello come
quello che direi a me [se cercassi un lavoro]. Vai alle Agenzie come Adecco o
altre e all'Ufficio di Collocamento, lì ci sono gli indirizzi, ti iscrivi
ma è lungo il tempo. Subito ci sono i giornali di qui e
"Bazar", sempre se vuoi cercare come domestica, altro è
difficile …. Poi vedi di far riconoscere la scuola che hai fatto,
è importante» (R. Albanese).
Un singolare e
accentuato ripiego comunitario, sostenuto da progetti migratori
autorappresentati e immaginati come esperienze limitate, a "breve
termine" (anche in chi, nei fatti, li ha ripetutamente procrastinati),
sembra plasmare i rapporti e le relazioni che si strutturano (in particolare)
fra le donne ucraine intervistate, esperienze che "limitano" le
informazioni ad un unico canale facilitatore per un rapido inserimento
lavorativo:
«Appena venuta sono
stata alla "Casa della Giovane" e poi sono andata alla
"Caritas", e ho preso i numeri di telefono, ci sono sempre anziani
[…] Se avessi un'amica che cerca lavoro direi di andare alla
"Caritas". Poi io conosco tante persone qui, ci sono tanti vecchi [da
assistere], l'aiuterei io» (G. Ucraina);
«Io aiuterei, adesso la
"Caritas" non è più buona come una volta … ma
forse anche la "Caritas … altro non so» (E. Ucraina);
«"Caritas",
[vale] anche per me. Tante donne vanno alla "Caritas": indirizzi,
numeri di telefono» (Q. Ucraina).
Se lo stato di
clandestinità porta con sé l'inevitabilità di un'occupazione
irregolare:
«Tutte noi vorremo
essere regolari. Tutte, così potremo stare qui per altri 2 o 3 anni
ancora. Adesso abbiamo paura […] basterebbe che il Comune ci dicesse
"paghi e ti do il permesso di soggiorno". Noi lavoriamo e tutto sarebbe
a posto» (F. Ucraina);
«Noi non abbiamo
diritti. Come clandestine dobbiamo accettare tutto» (B. Ucraina);
«Non ho le carte del
lavoro perché qui siamo tutte clandestine [ma vorrebbe avere un
contratto di lavoro in regola?] Si, si, ma se torno a casa poi non posso più
ritornare … allora resto qui» (C. Moldava);
il possesso di un permesso di
soggiorno non sembra - però - essere requisito sufficiente per entrare
nel mercato del lavoro regolare[16]
- un desiderio di uscita da un mercato sommerso espresso frequentemente dalle
donne intervistate:
«Senti, se una straniera
cerca in regola non trova. Mio marito [italiano] mi ha trovato questo [lavora
come segretaria part-time presso una ditta] e sono fortunata.[E' in regola?]
no, no … vorrei ma non dipende da me. [Ma ha chiesto?] Si, ma hanno detto
che forse più avanti … [Da quanto tempo lavora lì?].
Aspetta …sono quasi due anni e mezzo» (A. Brasiliana);
«Questa persona mi ha
detto che se accettavo di lavorare senza contratto era meglio per lei [ma
perché era meglio per lei?] per i contributi, nessuno vuole pagarti i
contributi […] Se uno vuole lavorare in regola non si trova» (T.
Mozambicana).
«Se sei in regola hai
tutto tranquillo, se ti ammali, le ferie e tutto. [Ha chiesto se la
regolarizzano?] Tre parti [la signora lavora come domestica a ore da tre
famiglie] e nessuno vuole» (R. Albanese).
Il bisogno di un'occupazione e
la percezione della precarietà contrattuale - lavorativa inducono -
nelle donne intervistate - una sorta di "realistico adeguamento" alle
condizioni imposte dal mercato del lavoro. La "non -
opportunità" di alternative occupazionali al settore
domestico/assistenziale che, per molte, assume il carattere
dell'impossibilità al cambiamento[17]:
«Fare questo lavoro
[domestica] per una giovane come me non è gran che, serve per andare
avanti. Ma nella vita, per il futuro, devi fare un lavoro che almeno un
po’ ti piaccia […] Sai nella mia situazione è difficile
cambiare, tanto difficile. Vorrei fare dei corsi della Provincia per entrare
nei buchi che la società ha bisogno […] ma lavoro tutto il giorno
…» (M. Albanese);
«Fare altri lavori [la
signora lavora come domestica] è quasi impossibile per me […] Ho
lavorato come capo - infermiera a Scutari [Albania] mi piaceva quel lavoro.
Forse se prendo la scuola qua ho qualche possibilità di fare altro
… forse. Ma ora non posso […] Vedi i bambini? sono qua per loro.
[la signora ha due bambini ed è giunta in Italia per ricongiungimento
familiare] dobbiamo lavorare anche male per loro»(R. Albanese);
«Non ci sono tante
scelte [per una immigrata] per trovare lavoro, lo so per mia esperienza
personale. Anche per le mie amiche che hanno qualifiche minori della mia [la
signora è casalinga, laureata e sta cercando il riconoscimento del
titolo di studio conseguito] trovano solo da fare pulizie e assistenza
anziani» (H. Algerina).
La distanza fra lavoratrici
straniere e lavoratrici italiane (fra i "non - diritti delle une" e i
"diritti delle altre") è un sentire che accomuna la stragrande
maggioranza delle donne straniere intervistate, occupate o non:
«Qui per certi lavori si
preferiscono le straniere [perché?] perché si sa che le straniere
lavorano di più perché hanno bisogno del lavoro e lo vogliono
tenere» (D. Argentina);
«Sento tante mie amiche
[la signora è casalinga] lavorano tanto e sono pagate poco. Sfruttano
tanto sui problemi degli altri […] Le italiane prendono differente, di
più […] C. lavora sempre [24/24h] da un anziano e prende 1.000.000
£. [Sa se ha giorni di riposo o ferie?] la domenica non lavora, poi
sempre» (C. Ecuadoriana);
«E' successo proprio a
me. Sono andata per un annuncio e questa persona mi ha detto che dovevo
lavorare dalle 8 alle 18 per 1.2000.000 £ .Io non ci sono andata. Subito
l'ho detto a una mia amica italiana, lei è andata e le hanno detto che
la pagavano 1.500.000 » (T. Mozambicana);
«Qui trovi facilmente
lavoro … se non pretendi troppo. Molte [donne immigrate] si accontentano
di quello che trovano e si lasciano sfruttare per paura di rimanere senza
lavoro» (K. Russa);
«Sono in regola e per
tutte [italiane e non] c'è la stessa tariffa […] Se poi lavori
fuori orario [straordinario] sono privilegiate le italiane […] L'ho
scoperto questo "privilegio", non è scritto ma esiste!»
(I. Polacca);
«La donna italiana [che
fa il mio stesso lavoro] prende di più, tu lo sai» (E. Ucraina);
«Prendono di più
[le italiane]. L'ho saputo da altre donne che fanno il mio stesso lavoro
[assistenza anziani 24/24h.]. Ma per noi la cosa che conta è lavorare,
non importa se c'è [il giorno] libero o no […] Sarebbe bello che
avessimo libero 2 o 3 ore al giorno perché sono lavori pesanti, ci sono
invalidi, anziani che non ragionano ed è pesante. Ma non sempre questo
è possibile. E' così» (A. Ucraina).
Inevitabile adattamento alle
regole del mercato che, per alcune, sembra rendere superflua anche la sola
informazione sui diritti (retribuzione, riposi, ferie …) garantiti dalle
norme contrattuali vigenti:
«Una volta ho letto su
un giornale che c'era questo contratto, ma non ricordo bene […] tutto non
so, non serve per noi che siamo senza carte [permesso di soggiorno]» (E.
Ucraina);
«Lavoro in nero
[…] Una volta volevo andare a chiedere bene … ma poi non sono
andata [perché?] mio marito ha detto "ma cosa serve se poi non puoi
chiedere?" [e non sei andata] No »(R. Albanese);
«So … so delle cose
ma non mi sono mai informata bene [perché?] non sono assunta giusta,
anche se so a cosa serve?» (B. Brasiliana);
«Ho sentito delle voci,
fra noi » (Q. Ucraina).
In una fase di maturata
esperienza migratoria, il senso di costrizione / frustrazione per un ruolo
caricato di disistima sociale - anche in molte culture di riferimento delle
donne migranti - diviene particolarmente opprimente laddove la scelta
migratoria ha comportato un collassamento dello status sociale precedente alla partenza con la
"frantumazione" d'invidiabili carriere professionali:
«Tu devi lavorare e
accettare tutto, non hai scelta …Devi […] Cambiare così
… la mia vita e il lavoro [la signora era ingegnere responsabile in
un'Azienda a Durazzo (Albania)] è molto difficile dentro da accettare
[…] Ho pianto tanto …fuori accetti … ma dentro accettare non
penso che riesci […] Prima [appena giunta in Italia] non pensavo proprio
che era così, pensavo che forse trovavo qualche cosa, non proprio come
là, ma … qualche cosa […] C'è anarchia là, niente
funziona adesso, non puoi lasciare crescere giusto un ragazzo [il figlio] che
deve studiare, fare tutte le scuole buone, ora non puoi farlo più in
Albania» (D. Albanese).
Senso di frustrazione
accentuato dal desiderio di veder legalizzata la propria carriera scolastica,
una possibilità che richiede farraginosi e lunghi iter burocratici in assenza di accordi
specifici fra Stati. Problematica, quest'ultima, particolarmente sentita e
richiamata nelle interviste ascoltate:
«Non penso che sia
giusto che uno se ha fatto degli studi poi qua non è niente … io
non sono niente [la signora è ragioniera] ho chiesto, ma hanno detto che
devi fare tanti documenti e poi non sai se vanno bene per qua […] Una mia
amica che sa cinque lingue e che ha studiato tanto anche lei è
così come me […] Queste cose noi non ci possiamo fare niente,
è una cosa di Governi» (I. Algerina);
«Volevo fare un corso a
Trento per far riconoscere il mio diploma di infermiera professionale. Ho fatto
tutta la pratica, ma adesso, dopo 11 mesi, Roma non mi ha ancora
risposto» (L. Ucraina);
«.Mi sono informata [per
il riconoscimento della laurea in Ingegneria] e hanno detto che devo fare tre
esami ma devo portare i programmi [degli esami sostenuti] ed è difficili
averli là adesso … vorrei fare … Ma non so se poi serve
[…] Ci sono tanti qua che conosco, non ignoranti, che hanno studiato
tanto e lavorato tanto prima [con la loro qualifica] e adesso sono qui e fanno
questi lavori, come me […] Tu studi tanto e qui sei ignorante! …
Serve anche per te, dentro … qui non hai riconosciuta neanche la scuola
più bassa!» (D. Albanese).
Il tipo di progetto
migratorio, la possibilità di scelte differenti, l'istruzione, lo status socio/professionale precedente
all'esperienza migratoria condizionano - seppure sempre in un quadro di
notevoli differenze soggettive - la stessa disponibilità ad accettare
determinate collocazioni lavorative:
«Anche mio marito
è sempre stato d'accordo, se devo andare a pulire le case degli altri
è meglio non lavorare "fuori" […] Qui c'è solo
per le pulizie io non spendo il mio tempo a cercare quello che non c'è
[…] Non ci sono occasioni [ma ha mai chiesto?] No, perché qui gli
stranieri hanno proprio difficoltà a trovare il lavoro che vogliono
loro. Se sei professionista o infermiere è difficile […] Questi
lavori sono per gli italiani, sono anche loro disoccupati e quindi il lavoro
pulito va a loro, per noi c'è il lavoro sporco» (V. Filippina);
«Sono sarta, l'ho sempre
fatto e mi piace. […] Sto cercando lavoro come sarta. [Non c'è
lavoro?] Non so …dipende. Quando io telefonavo [per un annuncio] e
sentivano che ero straniera dicevano che non c'era lavoro per gli
stranieri» (N. Marocchina);
Se la risorsa
"disponibilità / adattamento" sembra l'elemento che in qualche
modo accomuna le donne lavoratrici intervistate, le valutazioni rispetto
all'atteggiamento del datore di lavoro nei loro confronti sembrano fortemente
condizionate dal periodo di permanenza nel nostro Paese e dal progetto
migratorio perseguito.
Molte indagini, compresa la
nostra, hanno rilevato una preminenza di giudizi positivi nei confronti dei
datori di lavoro fra i/le lavoratori/trici che non sono
in possesso di un permesso di soggiorno valido, che sono irregolarmente assunte
e che compongono la fascia più precaria e debole (più ricattabile
economicamente) della popolazione immigrata. Dinamiche individuali e sociali,
processi psicologici complessi di "dislocazione identitaria"[18],
il mito di un ritorno in Patria, la condizione di "solitudine
affettiva" in cui si trovano a vivere, l'isolamento sociale e la
«condizione di debolezza sul mercato del lavoro [sono tutti elementi che
fanno] apparire come una sorta di benefattore chi specula sul lavoro nero degli
immigrati» (Ambrosini M., 1993, p.190):
«Lavoro 24 ore al
giorno, all'inizio la nonna si svegliava anche 4 o 5 volte la notte […]
Il sabato non lavoro e neanche la domenica, perché la testa ha bisogno
di riposare [Lavora tutte le notti?] una notte alla settimana non lavoro, ma
dove vado che il mio letto è qua? Dove lavoro tutti mi vogliono bene,
tutti mi vogliono aiutare. Capiscono che per me è difficile, e che ho
nostalgia. Io ho sempre detto che gli italiani sono brava gente» (E.
Ucraina);
«Lavoro giorno e notte.
La famiglia dove lavoro è molto buona, molto religiosa. Io dico le preghiere
insieme alla signora anziana […] le ho anche insegnato alcune canzoni
ucraine, canzoni religiose [Hai il giorno libero?] Si, i figli sono molto
buoni, io lavoro sempre tutta la settimana, ma non la domenica e due ore il
pomeriggio degli altri giorni [… Secondo te una donna italiana che fa il
tuo stesso lavoro prende lo stesso?] Io non posso dire queste cose, vedo che la
vita qui è cara, le tasse sulla casa e poi le donne italiane hanno i
figli qui e non possono lavorare come noi […] Noi non vogliamo quello che
voi avete, vogliamo solo che i nostri figli mangino e vogliamo stare
tranquilli» (A. Ucraina)».
Presenze consolidate nel
nostro Paese e situazioni di minor marginalità sociale informano
valutazioni più caute rispetto all'atteggiamento del datore di lavoro:
«Senti, sono educati
… come posso dire … sono normali con me. Io lavoro bene, tanto,
tanto e non possono dire niente di me … Non so come spiegare …
è normale essere educati … ma tu pensi che sia giusto non pagare
il giusto?» (R. Albanese);
«Anche se alcuni non si
comportano male hanno con te sempre un rapporto … non come una persona
come loro [...] Ti possono ferire anche senza pensare di fare qualche cosa di
male … Dove vai tu a lavorare se si approfittano allora quello è
razzismo, […] ti vedono come meno di loro. Non farebbero le stesse cose
con un'italiana. Quello è razzismo.» (B. Ucraina);
«All'inizio se uno
assume una straniera ha paura di ciò che ha sentito del Paese che viene
o altro […] ci sono tante difficoltà, non c'è mai fiducia
per una persona straniera. E' la fiducia che manca, per un'italiana penso che
ci sia subito la fiducia […] All'inizio per me è stato difficile
guadagnare la fiducia, e già conoscevano i miei parenti! […] Ti
dico solo che ho lavorato 5 anni per guadagnarmi questa fiducia, non 5 giorni,
ma 5 lunghi anni» (M. Albanese).
3.1.1 UN'INTEGRAZIONE CONDIZIONATA
«Se faccio io quello
che tu non fai sono accettata» (B. Brasiliana) è una scena che racchiude mondi diversi, ma
che sembra comprendere e veicolare il sentire comune delle donne intervistate,
un pensiero rivolto agli spazi d'inserimento lavorativo offerti e proposti
dalla società autoctona. E' la percezione di un'integrazione fortemente
subordinata al concetto dell'utilità, della valutazione che - in termini
economici - la società d'accoglienza fa della presenza degli/delle
immigrati/e extracomunitari/e sul
proprio territorio.
L'integrazione lavorativa
sembra essere percepita, dunque, come un "non-problema" per la
società - se si rimane ai suoi margini, se ci si adatta, se non si
pongono questioni di scelta:
«Qui sei integrata
così … se tu non scegli il lavoro da fare non è difficile
per una straniera. Assistenza agli anziani c'è dappertutto, cercano
domestici, per gli stranieri se tu non scegli il lavoro c'è sempre il
lavoro per te […]Però se cerchi un lavoro altro è
difficile, difficile» (V. Filippina);
«Ci sono sempre i soliti
lavori, poco pagati, pagati in nero, sempre nel terziario, assistenza anziani o
vai a fare le pulizie o vai a raccogliere mele. Ma sono lavori così, non
c'è sicurezza» (E., Cilena);
«Se cerchi un lavoro
così … lo trovi. Dipende tutto da ciò che cerchi. Per le
pulizie … [non c'è problema] … anche perché se vuoi
la fare commessa dicono che gli stranieri sono troppo lenti … trovi a
lavorare in casa di altri e basta, ma per lavorare in un posto un po’
più bello sono pochissimi gli stranieri che trovano» (T.
Mozambicana);
«Dipende sempre dal
lavoro che vuoi. Per quelli di basso basso livello non è difficile
trovare» (J. Polacca);
«Dipende da come una si
adatta, e dipende dal tipo d'offerta» (M. Marocchina).
Ma l'integrazione economica
sembra dipendere, seppur con connotazioni meno accentuate - e nel quadro delle
differenze percettive delle donne intervistate - da una serie di pregiudizi[19]
e diffidenze, stereotipi[20]
e chiusure che pesano - inevitabilmente - nei percorsi di partecipazione
economica delle donne migranti.
Se il motivo religioso -
culturale sembra essere percepito come legame fiduciario e polo di vicinanza
fra alcuni gruppi Nazionali e la società italiana - facilitatore,
pertanto, di un'integrazione occupazionale:
«Per noi ucraine
è più facile [trovare lavoro] perché non siamo tanto
diversi [dagli italiani …] Noi dell'Ucraina siamo più vicine a
voi» (L. Ucraina);
«Forse per noi ucraine
è più facile [trovare lavoro] perché non siamo tanto
diverse dalle italiane, allora si fidano di più per il lavoro in casa
[…] Le abitudini non sono tanto diverse […] e allora è
più facile capirsi, si fidano di più» (E. Ucraina);
«L'offerta di lavoro?
… Certo che dipende dal Paese d'origine [della donna], nelle case private
certo che si. Ne abbiamo discusso anche fra noi … [nel gruppo amicale di
cittadine polacche che la donna frequenta] Se sei polacca va benissimo, se sei
marocchina allora "no" mi ha detto una signora dove ho lavorato,
"perché abbiamo le abitudini diverse" […] Un'altra
signora [dove poi ho lavorato] mi ha chiesto da dove venivo.
"Polonia" e lei "oh che bello, siete come noi, è da dove
viene il Papa e no come questi Africani che hanno una cultura
diversa"» (H. Polacca);
la stessa dichiarazione
d'appartenenza religiosa della donna musulmana "velata" può
suscitare - nell'esperienza di talune donne intervistate - un'accentuazione
della diffidenza sociale, traducibile - nella dimensione occupazionale - nella
percezione di addizionali difficoltà d'inserimento lavorativo:
«Io penso che ci siano
difficoltà per tutte [le donne straniere] per trovare qualche lavoro. E'
forse più difficile per una donna che porta il velo perché
dicono:"chissà che cosa fa, che cosa pensa quella donna". Al
corso "Miriam" ho conosciuto donne che hanno le difficoltà che
ho io. [ … L'integrazione dipende dal Paese dal quale viene la Persona
straniera?] Dipende più dalle religione che dalla Nazionalità.
Prima facevo l'esempio del velo, ecco per quella donna è difficile
integrarsi qua» (H. Algerina);
«E' sempre più
difficile che per le altre [donne] se vieni dal Marocco o dal mio Paese
[Algeria] … si sentono dire tante cose …. e … è
difficile trovare nelle case […] No, per me non è stato facile
[trovare lavoro] ma vedo che di più è per le mie amiche, con loro
è più … più difficile [ma perché?]
Perché portano il fazzoletto - come dicono gli italiani - e c'è
… come dire … pensano che sei diversa … non so come
dirti» (I. Algerina).
Percezioni di
difficoltà occupazionali riscontrabili, quindi, anche per alcune
Nazionalità - albanese e marocchina in particolare - su cui sembra
gravare l'etichettamento sociale dell'appartenenza a una comunità
"intrinsecamente" deviante: stereotipi che non risparmiano alcune
delle stesse donne intervistate:
«Si, certo che l'offerta
di lavoro dipende da dove vieni. Se vieni dal mio Paese [Albania] o dalla
Polonia ha un peso diverso per voi italiani. Hai come un marchio, in tutte le
cose che fai [Ma questo vale anche per le donne albanesi?] Per gli uomini si,
sicuramente di più, qui dite delle cose … come che siamo tutti
delinquenti … e poi è tutto un popolo che ne soffre» (D.
Albanese);
«Io ho fatto il corso
["Miriam" per assistenti domiciliari] con le marocchine e loro dicono
"questo no, questo no", sono tanto lontane dalle vostre abitudini.
Noi siamo più vicini alle abitudini Europee» (L. Ucraina);
«Trovare lavoro …
se la cultura è tanto diversa forse è più difficile
… A parte che agli italiani ho visto che piace addossare le colpe agli
stranieri … guarda per gli albanesi ad esempio» (J. Polacca);
«Se vieni dal mio Paese
[Albania] è più difficile … hai sempre un peso per quello
che dicono di noi … che poi c'è tanta diffidenza per darti un
lavoro […] ci sono tante russe, cecoslovacche, moldave che prendono loro,
noi per guadagnare un po’ di fiducia ci vuole tanto tempo» (R.
Albanese).
Stigmatizzazioni sociali
connotative di una presunta "diversità razziale" ricorrono
anche nei racconti delle donne di colore, indizi dell'esistenza di un
pregiudizio aggravante l'inserimento lavorativo:
«Si, si, sicuramente
trovare un lavoro dipende dalla Nazionalità, le africane non sono
accettate facilmente. Non saprei perché, ma dicono che gli africani sono
lenti … non le prendono così facilmente» (T. Mozambicana);
«A volte cercare lavoro
dipende dal Paese da cui vieni, non posso dirti che non fa differenza, ma non
posso neanche condannare questo perché purtroppo esiste anche chi ha
rovinato la "reputazione" di tanti stranieri e quindi la gente ha
pregiudizi. E ci sono anche quelli che per motivi razzisti non vogliono
assumere persone straniere di colore. Questo l'ho sentito tante volte da
persone a me vicine che dicono: "preferisco avere persone sud-americane
con pelle chiara che persone africane con pelle scura per fare la
collaborazione domestica" […] dispiace, dispiace quando si implica
le differenze di colore senza vedere le competenze di quella persona» (M.
Marocchina);
«A una donna ucraina
dicono di si, subito, perché è lavoro in casa, ma quando va
un'africana no, dicono di no, non si fidano. Dicono che viene dalla strada e
dopo che è in casa che va sulla strada!» (S. Nigeriana).
Episodi di diffidenze,
pregiudizi, stereotipie e intolleranze che la risorsa individuale
"disponibilità/adattamento" cerca di arginare, ma che
inevitabilmente provocano nel loro verificarsi - o nel verificarsi ad altre -
una conferma della sensazione di insicurezza/precarietà che sembra
plasmare i percorsi di partecipazione delle cittadine straniere non comunitarie
e i rapporti con la società d'accoglienza.
3.2 LA
DIMENSIONE SOCIO-CULTURALE DEL VIVERE QUOTIDIANO
L'incontro che ogni donna fa
con persone, esperienze, mondi, aspettative e opportunità diverse non
sempre - quasi mai nelle testimonianze raccolte - può formularsi in
parole chiare e immagini nette. E' il dialogo stesso che, nel tradurre le
percezioni sugli atteggiamenti della comunità ospitante e sugli spazi e
sulle relazioni instaurate, crea immagini sfocate della nostra società.
I limiti fra accettazione e
fastidio, i crocevia fra aperture e chiusure dei propri confini culturali da
parte della società ospitante sono, così, variamente interpretati
e codificati dalle donne intervistate, creando - nel complesso - l'immagine
di una comunità
"tollerante", sostanzialmente orientata all'indifferenza.
Appare spesso visibile,
scorrendo le testimonianze raccolte, la distanza fra giudizi non - negativi
espressi sulla società d'accoglienza e l'indicazione - nel corso della
stessa intervista - di episodi che manifestano a volte veri e propri atti o
atteggiamenti xenofobi - di cui si è state vittime. Scarto/Distanza che
sembrerebbe riflettere - pur con modalità diverse - sia la cautela per
una non generalizzazione degli episodi subiti alla "responsabilità"
della comunità - che processi psicologici di difesa che inducono la
minimizzazione degli atteggiamenti negativi che potrebbero provocare un senso
di precarietà o insicurezza nelle donne.
Nel panorama complessivo delle
interviste da noi raccolte «l'ombra che pare stendersi su quasi tutte le
vicende è quella del cosiddetto razzismo quotidiano. Anche se non si
arriva alla violenza, al sopruso o all'insulto, la vita quotidiana
degli/[delle] immigrati/e è esposta a una serie di piccoli incidenti
ognuno dei quali può essere di per sé insignificante, ma che si
compongono in un quadro permanente, sempre pronto a emergere drammaticamente,
di esclusione, di incomprensione e di isolamento». (IRES Piemonte, 1991.
pp.10 - 11)[21].
"Incidenti" che, per le donne, possono tradursi - anche - in
molestie, in comportamenti, frasi o atteggiamenti a chiaro sfondo sessuale;
un'oggettivazione del corpo femminile - specialmente se nero - che indica
chiaramente l'esistenza di pregiudizi razziali e atteggiamenti sessuofobici.
L'appartenenza etnica -
culturale, l'età, la scolarizzazione, la vicinanza o la lontananza dal
mondo degli affetti, il progetto migratorio, le caratteristiche e le esperienze
personali di ciascuna donna costituiscono - nella loro eterogenea combinazione
- le variabili intervenienti nella percezione e nella valutazione degli
atteggiamenti della comunità ospitante riferiti dalle donne incontrate.
La scarsità del
"tempo per sé" - posta dalle condizioni stesse in cui si
trovano la maggioranza delle donne intervistate[22]
- e la percezione, generalizzata, di una società incline alla diffidenza
/ chiusura verso l'altro e che richiede una disponibilità di tempo -
proprio e altrui - per entrare in relazione, generano, nella loro combinazione,
una carenza (riscontrata nella quasi totalità delle testimonianze
raccolte) di relazioni amicali significative o di costanti e strutturati
rapporti di frequentazione con la popolazione locale. Una diffidenza a volte
percepita anche da chi - sposata con un cittadino italiano o figlia di
immigrati italiani - ha una sedimentata esperienza d'immigrazione:
«Ho visto che qui non
è come da noi … qui devono saper bene per dare un'amicizia
[è così anche per un'italiana che proviene da un altro posto?]
Penso di si, questo si ma poi c'è sempre quella che tu sei uno straniero
e chissà cosa sei e allora … senti certe cose … che poi se
ti conoscono non è così»(E. Ecuadoriana);
«Devono avere tempo per
conoscerti, sei considerata così … una straniera […] Poi
devo dire che quando ti conoscono e riescono a capire che tipo sei […]
non ho avuto problemi. Però ci sono sempre troppi che non ti considerano
parte della società, come un'italiana [la signora è nata in Cile
ed è figlia di italiani](E. Cilena).
Impegni lavorativi e
familiari, difficoltà di significative relazioni sociali con la
popolazione locale, concorrono nel rendere prevalente - fra le donne incontrate
- dinamiche relazionali e forme di solidarietà informale vissute
nell'ambito di gruppi circoscritti, per lo più amicali o familiari, aggregati
per appartenenza etnica:
«Io trovo le mie amiche
al mercato il giovedì, poi la domenica un prete di Trento ci ha dato una
sala per le donne della Moldava che sono a Trento e che vogliono stare al caldo
e parlare» (C. Moldava);
«Ho di più
amicizie straniere e mi trovo meglio, perché abbiamo culture simili e
tanti problemi anche simili» (M. Marocchina);
«Ho più
conoscenze che amici italiani. Sono i colleghi di mio marito [italiano] Non li
frequento regolarmente perché io ho amici miei non italiani» (U.
Asiatica);
«Conosco tanta gente
italiana, anche brava, ma quando ho tempo preferisco stare con i miei
amici» (K. Tunisina).
Nella reciprocità di un
"aggiustamento dinamico fra pari culture" risiede il significato del
concetto d'integrazione che esplicitamente traspare dalle parole delle
cittadine non comunitarie ascoltate.
Veder riconosciuto il valore
del confronto e dello scambio di standard di vita, di tradizioni, di modelli
comportamentali è presumere la necessità di meccanismi
d'interazione fra culture distanti sia da un'idea di conformizzazione, di una
assimilazione - cioè - della cultura minoritaria in quella
maggioritaria, sia dalla mera giustapposizione di culture diverse. Vi è
la necessità, pertanto, di un riconoscimento - da parte della società
d'accoglienza - di culture, tradizioni e valori che possono essere
"altri" ma ugualmente legittimi. Una domanda di "cittadinanza
sociale e culturale" che appare ancora distante dall'essere raccolta:
«Sia gli stranieri che
gli italiani devono cambiare, fino a quando riescono a capirsi […] Gli
stranieri devono adattarsi, devono rispettare le Leggi. Ma la mentalità
e la cultura sono altre cose, lì ognuno deve avvicinarsi all'altro fino
a quando si capiscono» (Z. Giapponese);
«Se vado in un Paese io
devo essere la prima ad adattarmi alle "regole del gioco", non penso
che siano gli altri a doversi adattare alla mia situazione. Però bisogna
sempre cercare un punto di incontro […] un'accoglienza che rispetti
"dentro" la tua cultura. Questo è quello che uno si aspetta
più che altro. Anche perché io rispetto tutti e mi aspetto che
anche gli altri lo facciano. […] Poi ti accettano perché - non so
- la persona ha un certo senso "civico", o lo fa perché gli
fai "pietà", c'è tanta gente buona che vuole aiutare. E
tutto va bene finché questo straniero rimane nel terziario. Se magari
poi le straniero prende il "sopravvento" su un italiano è da
eliminare, perché non va bene, e dicono: "perché lui ha
quello e noi no?" … Finché tu stai sotto va tutto OK»
(E. Cilena);
«Se gli immigrati
lavorano solo e non hanno altro … non è niente, è solo uno
che lavora per voi […] Se chiede qualche cosa di più allora non va
più bene […] un diritto, un rispetto per le sue cose, … le
abitudini, la religione per come sei … allora non va bene» (K.
Tunisina);
«Quando sei in un altro
Paese, cambi ma di sicuro mantenendo la tua diversità, […] Ma se
siamo trattati come forza lavoro e basta, e non hai nessun diritto oltre a
quello che "non puoi dire la tua", ti limiti a dare alla società
il minimo indispensabile. Però se sei coinvolto, se ti considerano
"uguale" allora puoi dire la tua da cittadino» (M. Marocchina);
«Sono sei anni che sono
qui e non sono cambiata "dentro", non mi sento italiana, in parte si,
perché parlo la lingua, perché lavoro, perché un po’
si cambia … ma dentro di me io ho tante cose che non voglio cambiare. Non
si può cambiare dentro perché poi non ti senti più te
stessa, se dimentichi … assomigli ad una "figura immaginaria".
Non si può e anche se si potesse non è giusto. Però questi
cambiamenti toccano anche gli italiani … anche a loro, perché ogni
cosa [nuova] fa cambiare, e domani sai un'altra cosa e corri … Capisci?
… Secondo me non c'è una cultura che abbia una fine» (P.
Albanese);
«Comprensione, questo
deve esserci, sia da parte degli stranieri che da parte degli italiani. Quando
non c'è questa comprensione pian piano cresce un muro, lo straniero si
sente schiacciato, e ha altre immagini. Per capire, per andare d'accordo. Se
non [proprio] d'accordo almeno rispetto da entrambe le parti» (I.
Polacca).
L'interazione con la
comunità appare caratterizzarsi secondo atteggiamenti e orientamenti
ambivalenti da parte degli autoctoni, che sembrano sostanzialmente generati -
secondo la percezione delle intervistate - dal "non interesse alla
conoscenza della diversità", una "ignoranza della diversità"
(Delle Donne M., 1994) sostenuta e alimentata da una cultura etnocentricamente
sbilanciata.
Un'accettazione dello Altro/a
basata sul disinteresse «che consente alla cultura Altra di sopravvivere,
ma non certo di interagire« (Delle Donne M., 1994, p.95) e che equivale -
nella percezione di chi ne è oggetto - a un "non
riconoscimento", particolarmente sofferto in chi - per progetti migratori
o per la presenza di minori - immagina una stabile (o relativamente lunga)
stabilizzazione nel nostro Paese:
«Mi dispiace proprio
tanto [che le maestre (la signora ha una bambina che frequenta la seconda
elementare che parla perfettamente l'italiano)] non abbiano queste
curiosità di domandare, di chiedere […] anche solo per un saluto,
cioè come si dice in albanese "Buon giorno", così gli
altri bambini scherzando imparano, e non solo imparano, ma "parlano"
con la mia figlia … Capisci?» (P. Albanese);
«Devo dire [che a
scuola, (la signora ha tre figli, uno frequenta l'asilo e due sono inseriti
nelle scuole elementari)] che mi chiedono le maestre del piccolo […]
hanno fatto delle cose a scuola che mi sono piaciute [cioè?] Una volta
hanno fatto venire le mamme a raccontare storie [favole] del Paese, poi mi
chiedono delle feste … e altre cose [le fa piacere questo
interessamento?] Si, si, certo [perché?] … è' importante
per il piccolo … non so come dire … ti ho detto l'esempio delle
storie [favole], tutte le storie dei Paesi sono importanti, sono uguali e
diverse [… E con i grandi le maestre chiedono?] Ci sono differenze
… dipende dalle maestre … ci sono maestre che chiedono … ma
così … senza niente!» (K. Tunisina).
Gli atteggiamenti relazionali
verso le comunità Altre non raramente sembrano rivelarsi nella forma di
un'interazione superficiale, «una curiosità un po’
povera» (M. Marocchina),
essenzialmente "paternalista"[23],
veicolante il pregiudizio etnocentrico a fondamento dell'equazione
povertà = ignoranza / inferiorità:
«Molti mi chiedono del
mio Paese, anche per la strada. Anche per la strada ti chiedono …
più ignoranza … è più ignoranza che odio razziale
[Mi fa un esempio?] Una signora ti vede e ti saluta. Tu saluti e poi ti chiede
"come mai sei in Italia?". Può essere curiosità sua ma
io non vado a chiedere "come mai sei in Italia?" ad altre persone. E
poi che gli ho risposto "si, mi sono sposata e sono qua in trentino da
tanti anni" ti dice "oh, che fortunata che sei tu che sei venuta in
trentino che nel tuo Paese c'è la miseria!" Allora quel "tu
sei fortunata" io ci rimango male. E anche se non è proprio un
problema razziale il fatto così, di vederti "fortunata"
perché sei in Italia ti fa male […] In un certo senso lo sono
fortunata, perché economicamente lavori, guadagni, però se io
potessi avere tutto quello che ho, l'amore, il marito nel mio Paese ci vado
volentieri e subito» (M. Marocchina);
«Si, a me chiedono
spesso [del mio Paese] e non sempre mi fa piacere, dipende dalle domande che mi
fanno […] Una volta c'era molta ignoranza verso i Paesi dell'Est, adesso
mi sembra che va meglio, fanno domande normali» (J. Polacca);
«Voi non sapete niente
delle nostre cose, eppure anche da noi ci sono belle piazze e Chiese. Da noi ci
sono le montagne, il mare, i teatri e voi non lo sapete! … Forse qui si
pensa che siamo solo poveri ma anche da noi c'è architettura tedesca,
polacca, ci sono bei centri storici. La nostra città la chiamano la
piccola Parigi […] Quando avrò cinquant'anni voglio scrivere
un'autobiografia, per aiutare gli altri, perché possano capire come
siamo vissute e che cosa abbiamo dovuto fare [per vivere]» (G. Ucraina);
«Non sempre le persone
mi chiedono del mio Paese, mi piace quando lo fanno, però a volte sono
un po’ invadenti e disprezzano il mio Paese anche se non sono mai stati
in Marocco. [Mi fa un esempio?] In banca mi hanno chiesto … se abbiamo
l'acqua! Io gli ho detto: "non ti rispondo, vai a cercarti un libro che
parla del Marocco e leggilo!» (J. Marocchina);
«Ci sono tanti che
chiedono [del mio Paese], ma non tutti … C'è gente intelligente
che domanda, c'è gente non intelligente che non chiede, ma hanno
impressioni brutte [le piace che le chiedono?] Si, molto volentieri rispondo.
Ma ci sono persone, anche tanti, che quando dico che sono filippina …
più questa gente mi dice che in quei Paesi c'è povertà,
tutti poveracci. Ma io dico che c'è povertà, ma che non tutti
sono poveri, alcuni sono più ricchi di te. E' che si generalizza molto
… C'è gente che non sa neanche dove sono le Filippine, allora devo
spiegare che sono in Asia e fare lezione di geografia!» (V. Filippina);
«Quando mi chiedono mi
fa piacere, ma mi chiedono delle cose strane. Pensano che l'Ucraina sia un
Paese come l'Africa!» (L. Ucraina).
Processi di generalizzazione
privi di discrezionalità, politicizzazione della "paura della
criminalità" - alimentata da campagne massmediali enfatizzanti
l'allarme sociale - sono alla base di atteggiamenti pregiudiziali e
stigmatizzazioni sociali verso determinate comunità Nazionali ritenute
"intrinsecamente" devianti. Luoghi comuni e stereotipi (presenti
anche in alcune intervistate) che sembrano rendere ancor più
difficoltoso un processo d'integrazione e legittimazione:
«Integrarsi qui è
un problema per tutti gli immigrati, ma specialmente per gli albanesi,
perché sono quelli di cui ultimamente si parla molto di più.
Hanno, diciamo, un'etichetta, come un marchio, vengono definiti come tutti
delinquenti, ladri, assassini e dire essere albanese … A me non è
che mi importa, perché sono già sei anni che sono qui e so già
la mentalità, e non ci posso fare niente, io non posso cambiare niente.
Quello che io ho e che mi dà la tranquillità per vivere è
il cerchio dove lavoro, le persone con cui sono più a contatto, che mi
danno una certa tranquillità perché mi vedono come una persona
simile [a loro] Ma se io incontro per la prima volta una persona e dico che
sono albanese do un'altra immagine» (P. Albanese);
«Agli italiani piace
addossare le colpe agli stranieri … guarda ad esempio per gli
albanesi» (J. Polacca);
«Io ho sempre detto che
gli italiani sono brava gente. E' per questi albanesi che gli italiani si
lamentano. Al telegiornale lo dicono sempre albanesi, è perché
non vogliono lavorare. Ed è per questo che gli italiani si
lamentano» (E. Ucraina);
«Tanti marocchini non
lavorano e questo non piace alla gente di qui» (C. Moldava).
Immettersi nella sfera
pubblica è - per il genere femminile - anche un "dover" a
volte transitare con un corpo che diventa oggetto di frasi, sguardi,
attenzioni, molestie a chiaro sfondo sessuale. Se a procedere è un corpo
nero, gli atteggiamenti sessuofobici sembrano fondersi - in alcuni immaginari
maschili - nel simbolismo di un corpo a pagamento, da umiliare e offendere con
frasi e atteggiamenti cui talvolta si allude nelle testimonianze raccolte, e
che l'esperienza e il senso di sicurezza di una donna nigeriana (mediatrice
interculturale) nomina e ci rimanda con tutta la sua forza:
«Le persone mi dicono
sempre cose brutte. Quando andavo a casa con il pullman quattro ragazzi sono
venuti vicino a me e uno mi ha preso la borsa quando sono scesa. Io ho chiesto
"Ma perché fai così? e lui mi ha risposto "Ma va,
brutta troia, puttana" …ma ormai io a queste frasi e a queste cose
sono abituata …L'inverno scorso andavo a scuola di italiano vicino a
piazza Duomo e alcuni uomini hanno preso la mia amica [africana] e l'hanno
picchiata e tagliato i capelli. E' pericoloso. Adesso non ci vado più.
Poi l'inverno scorso non c'era nessuno per la strada ed era proprio pericoloso
per noi» (S. Nigeriana).
E' nello scenario complessivo
delle storie raccolte che sembrano modellarsi e materializzarsi messaggi,
impressioni, sentimenti e comportamenti che provengono - molto più di
quanto si pensi - dalla nostra società. Messaggi spesso impliciti ma
ambivalenti che inducono - in noi che li abbiamo ascoltati, nelle donne che li
vivono - una pervasiva percezione di estraneità, di lontananza, distanti
dal riconoscersi come forme relazionali paritarie.
Siano piccoli o grandi i
comportamenti o i gesti discriminatori essi mostrano differenze e soprusi da
parte della popolazione locale ("razzismo quotidiano"), episodi di
discriminazione che ogni donna migrante può raccontare, anche se «io,
per me, non ci faccio più caso, perché sono abituata a
quello» (P. Albanese).
Episodi di intolleranza che si
riescono ad evitare / ridurre grazie al perfetto uso e conoscenza della lingua
italiana (minimizzate e non riconoscibili - pertanto - come cittadine
straniere) o ricorrendo all'intermediazione del coniuge italiano:
«Sai io parlo molto bene
la lingua e quando parlo con qualcuno è molto difficile che le persone
si accorgano che sono straniera. Forse questo mi facilita le cose, non
capiscono che sono straniera … io certo non lo dico e parlare bene non
permette agli altri di darmi dei giudizi. E' per questo che non ho avuto tante
difficoltà» (M. Albanese);
«No, [io non ho mai
avuto problemi negli Uffici] anche perché so bene la lingua, so capire
anche il "burocratese" per cui mi so muovere […] Tante mie
amiche, che purtroppo si noterà sempre il loro accento, mi hanno detto
di tanti problemi [ad esempio] negli Uffici non danno informazioni o in Comune,
o nelle ditte ove cercano e loro vanno e dicono subito di no. O ad affittare
case, ad esempio, o l'affitto aumenta o non gliel'affittano […] cose
così. Però devo dire, visto che sono tanti anni che sono qua, che
la mentalità sta cambiando, io vedo un'accettazione diversa e questo mi
fa piacere» (E. Cilena);
«Io, personalmente,
negli Uffici non ho mai avuto problemi. I miei amici si, si specialmente in
questura o in altri uffici, che solo per il fatto che sei straniero ti trattano
come una pezza da piedi … Non so se fanno così perché sono
pieni di lavoro tutti i giorni … però personalmente ho potuto
evitare tutto questo, perché mio marito va lui o insieme anche solo per
le informazioni» (M. Marocchina).
Meccanismi di difesa
/evitamento a cui non tutte possono ricorrere e, al di là delle
differenze percettive degli atti di discriminazione subiti, "episodi di
scortesia, se non di vero e proprio rifiuto" si inseriscono nello sfondo
delle testimonianze raccolte:
«Ho proprio trovato un
ufficio che non so spiegare … io mi sono girata perché piangevo
davanti a tutti e non volevo che mi vedessero. Ero andata all'INPS per
rinnovare delle "carte" per il lavoro. Io le dico così. Solo
che capiscono che sono straniera e allora mi dice la signora che la prendo in
giro e butta tutte le mie "carte" all'aria. Lei mi dice che
"noi" non paghiamo i contributi: "furbi, poi andate all'INPS e
dite che non sapete niente". Io l'ho pregata di non urlare, che cosa aveva
con me?» (L. Ucraina);
«A me non è mai
successo niente … di importante ma a delle mie amiche si [mi può
raccontare un fatto?] Ad esempio una volta che erano in stazione sono state
seguite dalla polizia e che loro [i poliziotti] pensavano che avessero delle
cose [che cosa?] delle cose rubate» (H. Algerina);
«Succedono tante cose a
noi … ad esempio l'altro giorno sono andata all'INPS per portare il
certificato di malattia, e c'è una macchina per imbucarlo. L'impiegato
è uscito perché la macchina non funzionava e io ho detto:
"queste cose io non le so fare, c'è tanta burocrazia qua" e
lui mi ha chiesto se ero di qua. No, ho risposto io, sono straniera, e ho
aggiunto "quante carte!" "Ma questa è l'America" mi
ha risposto, "Qua stai bene!, è l'America per te" … Ci
sono certe frasi che … non rispondi neanche, perché se io dicessi
certe cose che penso … Sai non è il caso di legarsela al dito, ma
ci sono persone "scomode" che stanno lì per affaticarti la vita»
(D. Argentina);
«Ho trovato tante
discriminazioni "psicologiche". In banca non ho problemi
perché sanno che ho soldi e non si permettono … ma negli altri
uffici, quando parlano con te e ti danno del "tu" […] Ma io
posso urlare con loro [quando mi trattano male], io ho il Diritto, ho la
cittadinanza italiana, posso fare come gli italiani!» (V. Filippina);
«Non ho mai avuto
problemi … Alla stazione si, ma penso che non sono tanto normali [cosa
è successo?] Ti prendono in giro, ti dicono parolacce o ti dicono
"ritorna al tuo Paese" … Ma le persone normali non credo che
parlino così» (N. Marocchina);
«Le difficoltà ci
sono a scuola. Per esempio due anni fa ho iscritto la mia figlia alla Prima
Elementare. Il primo giorno di scuola me lo ricordo benissimo […] alla
fine di quella giornata c'era una festa per i bambini, e hanno fatto una specie
di gioco, se erano stati promossi o no per quel primo giorno. I maestri
chiamavano i bambini e dicevano "è promosso" e i genitori
applaudivano. Quando è stata nominata la mia figlia nessuno ha applaudito
… Questa è una cosa che fa male, fa male e mi dispiace anche per
loro, non solo per mia figlia […] Loro [gli altri genitori] hanno sempre
applaudito gli altri bambini, e non perché li conoscevano, solo
perché avevano un nome italiano, quando è stato nominato un
bambino albanese come fosse … Io mi sono sentita molto male, la mia
bambina non ha capito, lei era tutta contenta. [Ma gli altri che reazione hanno
avuto?] Niente … le maestre
[la signora è maestra], le maestre poi non hanno chiesto
l'applauso anche per lei vedendo così …Comunque io ho tanto
applaudito da sola e non so come ho fatto a mantenere le lacrime, ma mi dicevo
dentro di me: voi non avete idea chi è quella bambina, e quando un
giorno la conoscerete avrete tanta voglia di avere una bambina come la mia.
Così ho pensato. […] Poi pian piano […] il tempo è
passato, la bambina ha amici […] e ora vedo che tante mamme invidiano la
mia figlia» (P. Albanese).
Il senso di insicurezza
prodotto dalle relazioni / incontri con la comunità locale sembra anche
determinarsi - secondo la percezione di molte intervistate - da deficit personali di conoscenze linguistiche,
civiche e culturali della società d'accoglienza, che rendono difficile
orientarsi nella complessità della sua organizzazione socio -
istituzionale:
«Magari tanti problemi ci sono perché non
capisco alcuni termini e loro non ti spiegano con parole semplici. Non so
perché, forse non hanno tempo, non so perché non spiegano. Io poi
ho sempre chiesto ai miei amici, e ho capito subito» (H. Polacca);
«Tante cose succedono perché
io ho visto che non so giusto dove andare, non sei sicura che sia il posto
giusto … e poi non sai bene, allora perdi tempo» (B. Brasiliana);
«Ho visto che con il
tempo impari ad informarti e sai andare nei luoghi giusti e come chiedere
giusto … all'inizio [la signora è 14 anni che è in Italia]
c'è sempre paura di sbagliare e anche tu hai problemi e non sai come
chiedere e se vai in un posto non hanno tempo per ascoltarti» (C.
Ecuadoriana);
«Non sempre è
colpa degli italiani […] alcuni [stranieri] non capiscono le regole di
qua e dicono che è colpa delle persone italiane […] devi imparare
anche tu quando vai in un posto nuovo e solo la lingua non basta»(A.
Brasiliana);
«I problemi ci sono
anche perché noi non siamo informate […] e non entriamo nell'ambiente»
(I. Polacca);
«Io penso che il punto
sia la comunicazione, la comunicazione è un grande ostacolo anche nelle
amicizie, al di là della lingua» (Z. Giapponese).
4 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Tracciare - conclusivamente -
un quadro dei percorsi di partecipazione occupazionale e socio-culturale delle
donne migranti nella nostra comunità diviene, similmente, cogliere il
divenire di ogni esperienza migratoria così come esperita dalle
protagoniste, nell'accortezza di non cristallizzare immagini femminili in
identità definite né traslare rigorosamente similitudini emerse
dall'analisi all'universo migratorio femminile presente nel territorio
provinciale.
Se
l'eterogeneità delle migrazioni - carattere generato dal differente
intersecarsi fra eventi sociali, economici, politici di portata trasnazionale
con le svariate realtà di vita delle persone coinvolte - si riflette,
nelle molteplicità dei progetti migratori, sono prevalentemente le
politiche e gli orientamenti della società d'accoglienza che producono
il segno distintivo delle relazioni fra autoctoni e migranti. E', detto
altrimenti, "da ciò che una società è e vuole
essere" (Colasanto M., 1993) che derivano condizioni, opportunità e
significati dei processi d'integrazione, sia a livello economico che a livello
socio - culturale. Piani che dovrebbero procedere linearmente ma che, letti in
prospettiva, appaiono nettamente squilibrati e disarmonicamente articolati al
loro interno.
La
partecipazione lavorativa delle migranti nella società autoctona si
situa - occupazionalmente - nel settore domestico e/o assistenziale,
rispondente a domande di cura - alla casa, agli anziani, ai minori - che
provengono da molte comunità familiari locali e che non trovano, nei
Servizi offerti dallo Stato Sociale, un adeguato soddisfacimento. Spazi
d'inserimento economico configurabili come forme di segregazione occupazionale
e comprendenti ampie fasce di lavoro sommerso, condizioni lavorative che
inevitabilmente incidono sulle possibilità di una "presenza"
delle donne migranti (siano esse occupate 24/24 ore o donne con impegni intra
ed extra familiari) nel tessuto sociale della comunità d'accoglienza.
Tessuto
che sembra esprimere - nei confronti delle persone migranti - un significato
d'integrazione subordinato a quello dell'utilità, della
"valutazione economica" come principio cardine della
"legittimità" della presenza straniera sul proprio territorio.
Vincolando la "legittimità" allo status di lavoratore/trice - o compagne di - i
sentimenti della comunità ospitante sembrano racchiudersi in una sorta
di tolleranza sostanzialmente orientata all'indifferenza, "che consente
alla cultura altra di sopravvivere, ma non certo d'interagire" (Delle
Donne M., 1994), e che non eccezionalmente - nelle molteplicità delle
espressioni della vita quotidiana - possono tradursi in atteggiamenti xenofobi
e pregiudizi etnici. Un'accettazione dell'altro/a che fotografa una
società etnocentricamente sbilanciata, orientata ad un concetto
d'integrazione non scevro da derive meramente assimilatrici.
E'
solo prevedendo un orizzonte "altro", che guardi a percorsi di
cittadinanza, al riconoscimento di diritti politici e civili, che si possono
creare le condizioni per una partecipazione sociale ed economica delle persone
che abitano il territorio, pur provenendo da "fuori". Un'orizzonte
multiculturale che colga - nella società civile - il riconoscimento
simbolico dell'altro, il riconoscimento dell'esistenza - eterogenea, fluida,
sempre passibile di reciproche ibridazioni - di paradigmi e prospettive
diverse, di cittadini e cittadine che nei loro insiemi veicolano ciò che
chiamiamo culture e culture di genere.
E'
per un'efficace interazione fra culture che strategie e politiche d'intervento
- pubbliche e del privato sociale - dovrebbero orientarsi in azioni comunitarie
finalizzate alla conoscenza e alla responsabilizzazione sia dei/delle
cittadini/e autoctone che di quelli/e immigrati/e.
Iniziative
non frammentarie né episodiche, volte ad un coinvolgimento sociale in
positivo della cittadinanza, consapevolmente responsabili dei significati
simbolici e delle implicazioni sociali e culturali che comporta l'appartenenza
ad un genere piuttosto che ad un altro, sia nel momento di progettazione
dell'azione, nei contenuti da veicolare, nelle modalità d'esecuzione che
nei soggetti fruitori dell'iniziativa.
Strategie
e politiche d'intervento indirizzate - pertanto - a favorire esperienze di
contatto con l'altro/a, a promuovere e sostenere forme d'aggregazione etniche
ed interetniche - anche, ma non esclusivamente le forme associative - , a
incoraggiare iniziative che implichino forme di cooperazione fra cittadini/e
stranieri/e e autoctoni, legittimare la figura del/della mediatore/trice
interculturale nell'organico di tutti i servizi e le agenzie pubbliche - anche,
ma non solo, (episodicamente) nella scuola - , prevedere la presenza
degli/delle stranieri/e nelle Istituzioni e negli organismi locali.
A
livello nazionale si dovrebbero programmare politiche dei flussi rispondenti ai
reali bisogni espressi dalle diverse realtà regionali e si dovrebbero
sostenere quanti - fra stranieri e autoctoni - richiamano la necessità
di modificare l'articolo 48 della Costituzione che non permette agli stranieri
residenti di esercitare il diritto di voto nelle elezioni locali.
"Invisibili ma
presenti" ha
desiderato cogliere - nei limiti di un'immagine - i percorsi di partecipazione
socio - culturale e occupazionale delle donne incontrate, in una locuzione
sintetica che, nella sua congiunzione avversativa, vuol riconoscere e nominare
la presenza di soggettività "altre", nel loro diritto
inalienabile alla diversità in condizioni di parità.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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lavoro degli immigrati nella società lombarda», in Colasanto M.,
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De Filippo E.,
«Le lavoratrici "giorno e notte» in Vicarelli G., Le mani
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[1] «Il genere è un modo di
classificare, di indicare l'esistenza di tipi. In particolare il genere propone
un nome per il modo sessuato con il quale gli esseri viventi si presentano e
sono percepiti nel mondo: nella società convivono due sessi e il termine
"genere" segnala questa duplice presenza. Si tratta dunque di un
termine binario, non univoco: gli uomini, come le donne, costituiscono il
genere. Non è superfluo sottolineare questo punto […] il concetto
di genere […] pone in modo radicale la questione della costruzione
sociale dell'appartenenza di sesso» (Piccone Stella S., Saraceno C.,
1996, p.8).
[2] Nel riferire « strategie, […]
comportamenti, […] forme di pensiero poco familiari, che appartengono a
persone diverse per storia, cultura, provenienza geografica, [… si
risaltano] questi punti di vista riportando ampi brani di discorso diretto.
Ciò non solo allo scopo di restituire il "sentire" dei
soggetti - gli stati d'animo, le motivazioni, le percezioni -, ma, soprattutto,
di mostrare la rilevanza di tali punti di vista in quanto termini
interpretativi ineludibili per la comprensione delle ragioni
dell'Altro/a» (Giacomini M., 1996, p.163).
[3] Sebbene le
interviste siano state concesse - con il vincolo dell'assoluta riservatezza-
sulla base di un rapporto fiduciario che variamente legava l'intervistata con
l'intervistatrice, in alcuni casi le resistenze incontrate alla registrazione
del parlato sono state notevoli, e ciò ha indotto - per non rinunciare
al valore delle testimonianze - ad "utilizzare" un'intervistatrice
con conoscenze stenografiche. Riteniamo utile sottolineare che in alcuni casi
il diniego alla registrazione è stato esplicitato dalle donne contattate
allorché le intervistatrici illustravano l'ambito della ricerca relativo
agli atteggiamenti della società di accoglienza nei confronti degli/delle
immigrati/e.
Una decisa diffidenza a fornire una qualche forma
di testimonianza è pervenuta, in particolare, dalle cittadine straniere
d'origine albanese.
La sigla con la quale sono riportati i brani delle
interviste è costituita da una lettera che in ordine progressivo ha
siglato le testimonianze e dall'indicazione della nazionalità della
donna incontrata.
[4] Fonte O.M.L. - XIV Rapporto
sull'immigrazione in provincia di Trento, Trento, Provincia Autonoma di Trento, n°1,
1999.
[5] «Si registra ovunque un'iniziale
assenza di norme regolanti l'immigrazione e la successiva, più recente,
emanazione di leggi generali riguardanti l'immigrazione particolarmente
restrittive rispetto a nuovi ingressi. L'esperienza della politica migratoria
in questi paesi ha visto il passaggio da una politica (o se si preferisce da
una non-politica) di frontiere aperte a una politica di adeguamento agli
orientamenti emersi in sede di Unione europea. Ma l'originaria situazione delle
frontiere e di grande facilità di ingresso è da considerarsi
senza dubbio una degli elementi di stimolo - non certo il solo - allo sviluppo
dell'immigrazione verso i paesi mediterranei» (Pugliese E., 2000, p.16).
La prima normativa italiana in materia di regolamentazione dell'immigrazione
è la L. 943 del 1986. Attualmente la normativa nazionale di riferimento
è data dalla Legge 40 del 6 marzo 1998. Il regolamento di attuazione
è in vigore dal 18 novembre 1999.
[6] Da dati ISTAT relativi ai permessi di soggiorno rilasciati a
cittadini/e stranieri/e al 31 gennaio 1998 la presenza femminile è
numericamente quantificabile in 458.613 unità, pari al 44.8% sul totale
dell'immigrazione straniera regolare. 206.000 di tali permessi (il 45%) sono
stati rilasciati per motivi di lavoro (fonte ISTAT, 1999).
[7] In tali correnti ritroviamo le cittadine
provenienti da Capo Verde, dal Salvador, dall'Eritrea, dall'Etiopia e - in fase
successiva - dalle Filippine. Per alcuni Paesi di religione Cattolica - la
Polonia come caso emblematico - il motivo religioso - culturale diviene
"polo attrattivo" e "legame fiduciario" fra Paesi, ed ha
caratterizzato flussi femminili di breve - media durata, inizialmente sostenuti
da progetti migratori a "termine" (cfr. Vicarelli, 1994) ma mutati
nel corso del tempo per le difficoltà di mantenere un modello migratorio
"flessibile".
[8] Fonte: ISTAT, La presenza straniera in
Italia: caratteristiche demografiche, Roma, ISTAT, 1999. Riteniamo utile
sottolineare che la capacità informativa fornita dai dati sui permessi
di soggiorno o sulle iscrizioni alle anagrafi comunali ha - allo stato attuale
- una serie di limiti connaturati alla rilevazione dei dati. Tali limiti non
inficiano - comunque - la loro attendibilità come indicatori della presenza
straniera sul territorio nazionale. Rimandiamo alla pubblicazione ISTAT citata
per un compiuto approfondimento.
[9] con l'evidenziarsi delle
difficoltà che sopraggiungono nel mantenere l'alternanza fra
"progetti migratori a termine" e "rientri" nel Paese
d'origine. Difficoltà strettamente congiunte alle norme regolanti il
sistema di visti e ingressi nell'area Schengen e alla legislazione italiana
inerente alla programmazione dei flussi di ingresso dei cittadini
extracomunitari.
[10] L'esperienza migratoria inevitabilmente
è segnata «da una condizione di solitudine affettiva. E' il senso di isolamento, di non
appartenenza, di precarietà che viene attribuito […] alla
disgregazione del nucleo familiare d'origine. La lontananza [dai figli], dai
genitori, dalle sorelle, la mancanza di parenti in Italia sono i dati che
servono a spiegare il "vuoto"» (Favaro G., 1990, p. 169).
[11] Fonte OML su dati Servizio Statistica XIV°
Rapporto sull'occupazione in Provincia di Trento, Provincia Autonoma di Trento, n°1, 1999, p.211.
Il Rapporto citato è punto di riferimento per i dati
provinciali riportati nella presente sezione. La sezione
«Immigrazione» è stata curata da Lucia Trettel (pp. 205-
221).
[12] con un incremento percentuale rispetto al
1996 del 17% (a fronte di un incremento maschile del 10.8%).
[13] Fonte OML su dati Servizio Statistica XIV°
Rapporto sull'occupazione in Provincia di Trento, Provincia Autonoma di Trento, n°1, 1999
[14] Riteniamo opportuno ricordare che lo
studio ha coinvolto anche donne "non ufficialmente presenti" nel
territorio provinciale in quanto prive di regolare permesso di soggiorno.
Le caratteristiche socio -
anagrafiche evidenziate e commentate nel corso del rapporto di ricerca non
possono essere generalizzate all'universo migratorio femminile presente
nell'ambito provinciale. Ne consegue - pertanto - che i dati e le
considerazioni seguenti sono da ritenersi "attendibili" rispetto allo
spaccato di realtà analizzato, composto dalle quaranta donne
intervistate.
[15] «Rispetto al modo di funzionare del mercato del lavoro, c'è da osservare che un sistema sociale è fatto di strutture tendenzialmente complesse in una società come la nostra, e ogni interazione con tali strutture presuppone un savoir faire, la familiarità con determinate "tecnologie sociali", cui l'autoctono è in generale socializzato fin dalla nascita, a differenza dell'immigrato, che deve impadronirsi di codici simbolici, oltre che di nozioni» (Colasanto M., 1993, p.219)
[16] E', pertanto, nelle norme nazionali che
disciplinano l'emigrazione e nelle regole e nel funzionamento del mercato del
lavoro locale che vanno ricercati i presupposti dell'attuale situazione
occupazionale dei/delle cittadini/e non comunitarie.
«L'irregolarità [degli immigrati] deriva in realtà, nella
maggior parte dei casi, dalla mancanza di occasioni di inserimento regolare cui
si affianca, invece, la possibilità di una partecipazione all'economia
informale - in particolare quella dei servizi a bassa qualificazione - che non
solo esiste [ ] ma che tende
via via a estendersi e a trovare una risposta insufficiente nella manodopera
autoctona. Assai più che per effetto dei flussi clandestini,
l'immigrazione irregolare cresce per l'operare di quelli che si possono
enfaticamente - ma non senza ragione - definire come i meccanismi di
costruzione sociale dell'irregolarità degli immigrati» (Zanfrini
L., 1998, p.140).
[17] «Nessuno, o quasi, sceglie un
cattivo lavoro per vocazione. Nessuno, o quasi, accetta di costruire la propria
identità e il proprio progetto di vita sul fatto di essere un buon
manovale a giornata, piuttosto che una buona baby sitters.
In questo gli immigrati che abbiamo conosciuto e
che ci hanno parlato della loro vita non sono diversi da noi […] Il loro
sguardo è altrove. Radicalmente altrove. Almeno quanto è radicale
la rottura che è avvenuta nella loro biografia quando hanno deciso di
emigrare e quando è grande la distanza che separa la condizione attuale
dal progetto, o dal sogno» (IRES Piemonte, 1991, p.184).
[18] ove il sé, la propria
identità, il proprio ruolo sociale è altrove.
[19] «Dal punto di vista etimologico il
termine pregiudizio indica un giudizio precedente all'esperienza, vale a dire
un giudizio emesso in assenza di dati sufficienti. Proprio per tale carenza di
validazione empirica, il pre-giudizio viene di solito considerato un giudizio
errato, vale a dire non corrispondente alla realtà oggettiva»
(Mazzara Bruno M., 1997, p.10).
[20] Gli stereotipi sono delle «immagini
mentali, che costituiscono una sorta di pseudo - ambiente con il quale di fatto
si interagisce, hanno la caratteristica di essere delle semplificazioni spesso
grossolane e quasi sempre molto rigide (gli stereotipi appunto) […] Il
processo di semplificazione della realtà avviene […] secondo
modalità che sono stabilite culturalmente: gli stereotipi fanno parte
della cultura del gruppo e come tali vengono acquisiti dai singoli e utilizzati
per una efficace comprensione della realtà» (Mazzara Bruno M.,
1997, p.15).
[21] La ricerca di cui si riporta il commento
citato è stata condotta nel 1990 nella realtà piemontese. Ha
previsto la raccolta di 87 storie di vita (55 maschi e 32 femmine) con il
metodo dell'osservazione partecipante.
[22] Siano esse lavoratrici occupate 24/24 h.
che donne vincolate da una "doppia presenza" particolarmente gravosa
in chi non ha la possibilità di ricorrere al sostegno della rete
familiare e/o sociale - il "tempo per sé" sembra essere una
risorsa personale particolarmente esigua.
[23] E' questo un «atteggiamento "caritatevole" ma sostanzialmente razzista, per il quale alle donne dell'Africa, ad esempio, si può dare di tutto - sono bisognose! - umiliandole […] E' un atteggiamento che mantiene i confini fra loro - tollerati/e perché e purché in situazione di inferiorità economica - e i locali che "fanno del bene". Questa lettura miserabilista, nella sua schematicità, rimanda per contrasto al tema dei diritti, all'accettazione e al rispetto reciproco» (Merelli M., Ruggerini M.G., «Sicurezza / Insicurezza nelle donne migranti - Prima parte» in Quaderni di Cittàsicure, Sicurezza / Insicurezza delle donne migranti, Regione Emilia - Romagna, n° 16, Aprile 1999, pp. 17 - 97. Il brano citato è a pag. 44). La ricerca cui si fa riferimento è stata condotta nel 1998 e ha previsto la testimonianza di 42 donne migranti (10 interviste individuali e 32 in 10 focus group), residenti a Bologna e a Reggio Emilia; 5 interviste biografiche e informative a donne straniere e 25 interviste a operatori/trici dei servizi quali testimoni privilegiati.