Ordinanza del 10
dicembre 2002 emessa dal magistrato di sorveglianza di Alessandria atti
relativi a Hricha Mohamed
Straniero e apolide -
Straniero detenuto, condannato a Pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni - Espulsione a titolo di sanzione
sostitutiva o alternativa alla detenzione - Lesione del principio della
finalità rieducativa della pena - Irragionevolezza.
- Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, art. 16,
commi 5 e seguenti, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189.
- Costituzione, artt. 2, 3 e
27.
IL
MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA
Visti gli atti relativi
all'espulsione dal territorio dello Stato ai sensi e per gli effetti di cui
all'art. 16, D.L. n. 286/98 come modificato dall'art. 15 legge 189/2002 nei
confronti di: Hricha Mohamed, nato in Marocco il 2 luglio 1973, in atto
detenuto presso la Casa Circondariale di Alessandria, in espiazione pena di cui
all'ordine di esecuzione della Procura generale di Torino del 19 aprile 2001
(sentenza 29 marzo 2000 Corte appello Torino).
I.
- Il
procedimento. Risulta
dall'istruttoria compiuta e in atti che Hricha Mohamed:
a)
è
condannato a pena detentiva nella misura residua inferiore a due anni;
b)
è
condannato per delitto diverso da quelli contemplati dall'art. 407, comma 2,
lettera a), del codice di procedura penale, ovvero dai delitti previsti dal
testo unico delle leggi sull'immigrazione (d'ora innanzi, t.u.);
c)
si trova nelle
condizioni di cui all'art. 13, comma 2 t.u.;
d)
è di
nazionalità marocchina, assunte le rituali informazioni circa
nazionalità e identità presso la questura competente;
e) non versa in alcuna delle condizioni ostative di cui
all'art. 19, t.u.
Non vi è pertanto
dubbio circa il fatto che si renda allo stesso applicabile quanto prescritto
dall'art. 16, commi 5 e seguenti del t.u., così come modificato dalla
legge n. 189/2002.
Nell'applicazione di tale
norma sorge il dubbio di legittimità costituzionale sotto i seguenti
profili e per i seguenti motivi.
2. - I parametri
violati e i profili della assunta violazione. I precetti costituzionali interessati dalla odierna
fattispecie appaiono quelli degli artt. 27, Cost., anche in rapporto con gli
artt. 3 e 2, Cost., nel senso che si specificherà a breve.
Come noto, l'art. 27
connota la pena del fine rieducativo. Tale fine rieducativo è,
evidentemente, immanente e necessario nella pena (ancorché non
esclusivo), come riconosciuto dalla costante giurisprudenza costituzionale e
dalla stessa inequivoca lettera della disposizione in esame. L'uso dei verbo «tendere»
serve a chiarire che si tratta di finalità imposta al legislatore, ma
non consente di affermare che tale finalità possa. essere solo
eventuale. Le norme che disciplinano la pena debbono pertanto avere anche
questo indefettibile scopo.
In ciò è
fermo l'insegnamento della Corte Cost. che ha così sancito: «la
finalità rieducativa della pena è una proprietà essenziale
che caratterizza quest'ultima nel suo contenuto ontologico e l'accompagna da
quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si
estingue» (ex plurimis v.
sent. 313 del 1990).
Posto questo primo
caposaldo pacifico, deve osservarsi che la misura della espulsione dal
territorio dello Stato è certamente priva di contenuto e finalità
rieducativa. Il semplice
allontanamento dal territorio nazionale non ha, sotto nessun profilo, né
una certificata idoneità né una finalità di concorrere a
rimuovere i fattori criminogeni nel reo. Tale profilo è assolutamente
evidente. Esso risulta, all'evidenza, dalla disciplina della espulsione (che non
la accompagna di alcun contenuto, prescrittivo, di supporto e simili, a
differenza di quanto accade per la pena, sia nella forma detentiva che in
quella alternativa). Certamente essa non può, per tali ragioni,
ontologicamente assimilarsi né ad una pena, né ad una misura
alternativa. Non è un caso, in proposito, che il nomen juris prescelto dal legislatore, volutamente
ambiguo, sia quello di sanzione. Ma ciò è anche stato
riconosciuto costantemente dalla stessa dottrina e Corte costituzionale (ex
plurimis nella sentenza n. 62
del 1994) che riconosce nell’espulsione una sospensione della pena, una
temporanea rinuncia dello Stato ad applicarla (tra l'altro, proprio per
salvarne la legittimità costituzionale sotto i profili in esame).
Poste queste due premesse,
parrebbe addirittura necessitata la conclusione circa l'illegittimità
costituzionale dell’espulsione del condannato definitivo, prima della
fine della pena. Così non è, perché, sul piano logico, due
potrebbero essere i motivi di salvezza costituzionale dell'istituto, tali che,
nonostante l'assenza di finalità rieducativa, essa potrebbe
giustificarsi.
Il primo possibile motivo
di giustificazione è nel ritenere che il principio di rieducazione non
abbia una portata generalizzata, ma sia solo limitato alle persone che hanno
titolo di permanenza in Italia. Il secondo è che il principio di
rieducazione, di portata generale, sia immanente alla pena, ma non venga in
considerazione quando il legislatore, nell'esercizio ragionevole della sua
discrezionalità, sospenda la pena medesima.
Circa la prima
giustificazione, è sufficiente osservare che, in primo luogo, essa non
sarebbe del tutto coerente con la disciplina dell'espulsione. Infatti, se la
finalità rieducativa non dovesse concernere le persone abusivamente sul
territorio dello Stato, non si vede perché l'espulsione sarebbe
limitata, in relazione all'entità della pena e al titolo di reato. Come
sia di questo, in ogni caso, deve osservarsi:
a)
che l'art. 27,
comma 2, non contiene alcun elemento che consenta di limitarne la portata
(è vero che è inserito nella parte relativa a diritti e doveri
dei cittadini, ma nessuno ha mai dubitato che la portata dei suoi principi, così come di quelli degli altri commi,
o degli altri articoli collocati nella stessa parte e titolo, abbiano portata
generalissima);
b)
tale generale
portata è stata sempre riconosciuta, implicitamente ma univocamente, da
tutta la giurisprudenza costituzionale che si è occupata della materia
(cfr. tra le altre, Corte cost. sentenza n. 283/1994, ordinanza n. 174/94,
ordinanza n. 174/1994, sentenza n. 129/95, sentenza n. 62/94, ordinanza n.
72/94, ordinanza n. 106/95), anche atteso il carattere inaccettabilmente
discriminatorio della soluzione opposta.
Circa la seconda
giustificazione (irrilevante il fine rieducativo, se la pena è sospesa),
vale la pena di sottolineare
che si tratta del fondamento della ritenuta legittimità costituzionale
del sistema dell’espulsione, come disciplinata nel regime previgente,
tenuta ferma dalla giurisprudenza costituzionale appena citata.
Per esaminare se
ciò comporti la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale (che, in pratica, non sarebbe nuova) si
tratta di verificare la esportabilità di tale giustificazione alla
attuale disciplina della espulsione.
Tale operazione non
può prescindere dalla esegesi dei tessuto argomentativo seguito
dall'Autorevolissima Corte delle leggi. La questione si trova sviscerata con
grande chiarezza e completezza essenzialmente nelle decisioni n. 283 e,
soprattutto, 62 del 1994.
L'iter logico del giudice costituzionale è
così scandito:
a)
il principio
di rieducazione non viene in considerazione per misure che, come l'espulsione,
determinino la non applicazione della pena, la sua semplice sospensione;
b)
si tratta,
allora, di sindacare la legittimità della rinuncia del legislatore
alla attuale applicazione della pena, nei limiti ristretti della manifesta
irrazionalità delle scelte legislative;
c)
in tale sindacato rileva, in primo
luogo, che si possa formulare una ragionevole presunzione, anche di fonte
legislativa, circa il fatto che la parte di pena espiata (nel caso di pena
residua) abbia già raggiunto la finalità rieducativa che gli
è propria (sentenza 62/94 al punto 5 dei motivi di diritto), ovvero che
tale finalità non è necessaria (nel caso di pena non iniziata,
caso non pertinente in questa sede);
d)
ai fini di
tale presunzione non è irrilevante che il giudice sia chiamato a
decidere «acquisite le informazioni degli organi di polizia, accertato il
possesso dei passaporto o di documento equipollente, sentito il pubblico
ministero e le altre parti» (ibidem);
e)
la
iniziativa dei condannato, volta a ottenere l'espulsione, sarebbe la garanzia
che raccorderebbe l'espulsione al necessario rispetto «di un diritto
inviolabile dell'uomo» (ibidem).
Si tratta allora di
verificare se tutti i passaggi appena descritti siano rispettati nel regime
previsto dall'art. 16, commi 5 e seguenti t.u., nella formulazione attuale.
Invariati appaiono i
presupposti di cui ai punti a) e b) che precedono.
Profondamente critico
appare invece quanto sub c) e d). Infatti, e in prime luogo, deve osservarsi che la presunzione
sottesa alla norma qui in esame ha carattere assoluto. Sussistenti i
presupposti descritti, l'espulsione è automatica. Ciò crea perplessità sotto
diversi aspetti. è,
innanzitutto, assai dubbia la legittimità di presunzioni che non
ammettano la prova contraria, nei casi in cui il fatto presunto (nella specie,
che la finalità rieducativa è stata raggiunta) non sia di
verificazione necessaria, sicura, immancabile. Così ha insegnato,
infatti, la Corte delle leggi, sia pure nella diversa materia tributaria (nella
quale peraltro il nucleo delle garanzie non può ritenersi superiore a,
quello della libertà personale): «se è pur lecito formulare
previsioni logicamente valide e attendibili, non è peraltro consentito
trasformare tali previsioni in certezze assolute, imperativamente statuite
senza la possibilità che si ammetta. la prova del contrario»
(Corte cost. 28 luglio 1976, n. 200). Nella specie, invece, sotto i due anni
di pena e in presenza dei requisiti formali prescritti, l'espulsione è de
jure.
Come che sia di
ciò, vale la pena di osservare che, in ogni caso, il fatto presunto (la
non necessità di rieducazione), oltre che non assolutamente certo, non
è neppure probabile. Non si vede perché il solo fatto che la pena
sia inferiore al limite di legge (2 anni) dovrebbe fondare tale presunzione.
Ciò è, anzi, manifestamente irragionevole almeno sotto due altri
profili. Innanzitutto, perché verificatasi la condizione di legge, fa
presumere la non necessità di attività rieducativa per situazioni
completamente diverse (equiparando irragionevolmente, per fare un esempio,
situazioni quali quella del detenuto che abbia tenuto una condotta penitenziario
pessima, rifiutando ogni intervento rieducativo e quella, opposta. di chi abbia
effettivamente completato tutto il percorso rieducativo, magari anche con
l'ottenimento di benefici penitenziari, previsti dall'ordinamento
penitenziario). In secondo luogo perché, manifestamente, discrimina tra
soggetti legittimati a rimanere in Italia e non legittimati, anticipando il momento in
cui non sarebbe più necessaria l'attività rieducativa, nei
confronti dei soggetti clandestini (come se la risocializzazione fosse per definizione
più rapida per questi ultimi). Inoltre (e ciò rafforza la
conclusione predetta) non è dato alcun potere di valutazione dei
percorso rieducativo svolto dal condannato (o di altri elementi), in manifesta
frizione con quanto imposto dalla giurisprudenza costituzionale e ribadito
sopra sub d). Oltre a non
essere fondata la disciplina in esame su valori rieducativi, non è, in
altre parole, lasciato alcuno spazio per la concreta valutazione di. tali
aspetti in sede di applicazione. Nell'attuale sistema è si prevista
l'acquisizione di informazioni, ma non è finalizzata a valutazioni sul
percorso rieducativo (ma solo all'accertamento dell'identità e
nazionalità e al riscontro. di eventuali cause ostative) o a valutazioni
sulla persona e l’individuo.
Non valorizzabile è
poi la circostanza che la disciplina della espulsione si collochi nel contesto
ordinamentale che ne prevede altre forme, posto che o si tratta di forme che
non collidono con il principio di rieducazione (quelle da disporsi a fine pena)
ovvero di forme che potrebbero essere di legittimità costituzionale
dubbia, sotto il profilo che qui interessa (ma non sono, all'evidenza, qui
rilevanti).
Infine, e ciò
rileva, potenzialmente con riguardo all'art. 2 Cost. secondo quanto rilevato
dalla Corte costituzionale nell'arresto n. 62 del 1994, non è
condizionata l'espulsione alla volontà del soggetto. In tutto quanto
precede sta l'esposizione dei motivi per i quali il dubbio di
legittimità costituzionale delle disposizioni di cui ai commi 5 e
seguenti dell'art. 16 t.u, come riformato dalla legge n. 189/2002.
Poiché si tratta
dell'insieme di norme sulla cui applicazione verte il presente procedimento
(finalizzato esattamente all'espulsione dei condannato dallo Stato ai sensi di
tali precetti), la questione è evidentemente rilevante ai fini del
presente giudizio, non potendo essere questo definito se non con l'applicazione
di esse.
Il procedimento deve
pertanto sospendersi e gli atti essere inviati alla Corte costituzionale.
P Q. M.
Visti gli artt. 23 e
seguenti legge 11 marzo 1953, n. 87, 16, 13 e 19 dlgs. 286/98, così come
modificato dalla legge n. 189/2002.
Dispone la trasmissione
degli atti del presente
procedimento alla Corte costituzionale.
Dispone la sospensione
del presente procedimento in attesa della decisione della Corte medesima.
Manda alla cancelleria
per le comunicazioni di legge e, in particolare, la notifica all'interessato,
al Pubblico Ministero, al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché
la comunicazione ai Presidenti delle Camere.
Alessandria, così deciso
addì 10 dicembre 2002
Il magistrato di
sorveglianza: MARCHESELLI