a) Nel suo
complesso, la legge Bossi Fini ( L. 30 luglio 2002,
n.189) risulta caratterizzata
dalla preoccupazione di affrontare il fenomeno dell'immigrazione soprattutto
come una questione di ordine pubblico, ponendo in primo luogo lesigenza di
allontanare gli immigrati irregolari e di contrastare il traffico di
clandestini. Tale intento emergeva chiaramente dalle prime righe della
relazione allegata al disegno di legge 795 del 2001, secondo la quale, davanti
al pericolo di una vera invasione dellEuropa da parte di popoli che sono alla
fame, in preda ad una inarrestabile disoccupazione o a condizioni di
sottoccupazione bisogna affrontare il problema di fondo concernente
limmigrazione clandestina.
In realt la
nuova legge oltre ad inasprire lapparato sanzionatorio chiude ogni possibilit
di ingresso legale per lavoro, accentuando la precariet dei lavoratori
migranti, costretti di fatto allingresso clandestino o a limitate possibilit
di ingresso per lavoro stagionale.
Aspetto centrale della nuova disciplina, entrata in
vigore nei primi giorni di settembre del 2002, il nuovo "contratto di
soggiorno", la cui
concessione legata all'esistenza di un contratto di di lavoro, con la
conseguenza che lo status giuridico
dell'immigrato dipende dalla persistenza del rapporto di lavoro. quindi, dalla
volont del datore di lavoro. Se
entro sei mesi dal licenziamento limmigrato non riesce a concludere un nuovo
contratto di lavoro, scadr anche il permesso di soggiorno e la condizione di
irregolarit non sar pi sanabile con la stipula di un successivo contratto di
lavoro.
La riforma del
mercato del lavoro introdotta con la legge Biagi nel 2003, a partire dalla legge 30 e dal d. lgs.
276/2003, con la forte
differenziazione dei rapporti di lavoro che ne seguita, dalle collaborazioni
ai lavori a progetto, ha accresciuto le difficolt che incontrano gli immigrati
in Italia nella stipula di rapporti di lavoro che in base al T.U.
sullimmigrazione 286/98 dovrebbero essere caratterizzati dalla rigidit, come
nel caso del contratto di lavoro a tempo determinato o indeterminato, uniche
possibilit di accesso al permesso di soggiorno per lavoro subordinato.
Legare la
possibilit di soggiorno legale alla stipula ( ed alla permanenza) di un
contratto di lavoro tanto rigido, che levoluzione del mercato tende a
superare, significa esporre gli
immigrati ad ogni sorta di pressioni, che possono tradursi anche in
comportamenti ricattatori a danno dei soggetti pi deboli ( come le donne o gli
immigrati pi anziani). La conseguenza pi evidente che ne deriva, anche tra
gli immigrati regolarmente residenti, la diffusione ulteriore delle diverse
tipologie di lavoro informale, fino al vero e proprio lavoro
nero.
Con le modifiche apportate alla disciplina dei rapporti di lavoro dalla legge Bossi- Fini, soprattutto per lo stretto legame tra il contratto ed il permesso di soggiorno, si introduce un principio di netta differenziazione tra i lavoratori immigrati ed i lavoratori italiani, in contrasto non solo con la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ( n. 9047 dell 11 luglio 2001), che riafferma la parit di trattamento in caso di licenziamento, ma con lart. 1 della Convenzione dellOIL n. 143/75, gi recepito dalla legge 943/86 e dalart. 2 del T.U. 286/98 che vietano la discriminazione dei lavoratori stranieri. Ai sensi di tale convenzione, la perdita del posto di lavoro non pu comportare la conseguente scadenza del permesso ( definito dalla legge Bossi Fini come contratto) di soggiorno
La gi restrittiva disciplina degli ingressi per lavoro, dettata
dallart. 22 del T.U. 286 del 1998, viene ulteriormente inasprita, obbligando i
futuri datori di lavoro ad assumere anche limpegno di trovare una adeguata
sistemazione alloggiativa per il lavoratore, ed a corrispondere le spese per
il viaggio di ritorno nel paese di provenienza.
All'inasprimento
della disciplina degli ingressi corrisponde una pericolosa precarizzazione di
tutti gli immigrati, anche di quelli in regola da anni nel nostro paese.
Si allontana la
prospettiva della stabilizzazione dei permessi di lunga durata ( carta di
soggiorno), dimezzando i tempi di durata del permesso di soggiorno dopo il
primo rinnovo ( da quattro a due anni) ed allungando i tempi richiesti per
conseguire la carta di soggiorno ( da cinque a sei anni) con requisiti di
reddito sempre pi difficili da provare.
b)
Alla luce del contesto normativo e delle prassi amministrative attuali, non
facile rispondere a tutte le domande proposte dal questionario UNHCHR perch in
Italia non ci sono osservatori indipendenti, e dunque mancano dati
attendibili sulla discriminazione razziale e sulla xenofobia, n programmi
nazionali coerenti con le raccomandazioni della Dichiarazione di Vienna e del
programma di azione, per non parlare di Durban, che per evidenti ragioni
politiche sembra finito proprio nel dimenticatoio.
Non si riscontrano
neppure istituzioni pubbliche effettivamente operanti sul terreno del contrasto
alla discriminazione razziale ed alla xenofobia, a parte il nuovo comitato istituito
presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Anche a livello
locale la situazione non migliore ed un bilancio degli organismi preposti ad
affrontare le problematiche dellintegrazione degli immigrati nel nostro paese
appare decisamente sconfortante.
Molti Consigli
territoriali sullimmigrazione non si riuniscono da tempo, la Commissione per le politiche di
integrazione ( art. 46 T.U.286/98) sembrerebbe ormai estinta, i nuovi comitati
interministeriali, come quello previsto dallart. 2 bis del T.U. modificato
dalla Bossi Fini si limitano a concertare le misure di espulsione e di
contrasto dellimmigrazione clandestina, ma non si occupano di integrazione, n
rendono pubblici i loro lavori.
Manca in questa
situazione una casistica rilevante della discriminazione razziale e della
xenofobia, e le ricerche empiriche al riguardo segnalano soltanto i casi che
vengono censiti dalla stampa, con notizie occasionali su singoli episodi.
Anche il dossier
della Caritas e le pubblicazioni delle associazioni consultate nella stesura
del rapporto, come ASGI, ICS, ARCI, Casa dei diritti sociali, CISS danno un quadro molto limitato della
discriminazione razziale e della xenofobia in Italia.
Appare comunque
evidente la condizione di
particolare svantaggio dei richiedenti asilo, nel periodo spesso molto lungo (
fino a due anni) di attesa per la decisione sulla richiesta di asilo. Di
recente a Roma, nel quartiere Tiburtino, a Caserta ed a Palermo esploso il
disagio di questa categoria di migranti costretta di fatto alla pi totale
precariet a causa dei ritardi della Commissione centrale che ha accumulato un arretrato di oltre
17.000 istanze ( circa diciotto mesi), e della totale mancanza di assistenza
pubblica.
Come noto, infatti, la legge italiana
proibisce la stipula di un contratto di lavoro ed il ricongiungimento familiare
per quei richiedenti asilo che sono ancora in attesa di conoscere la decisione
della Commissione centrale, con la conseguenza che la maggior parte di loro,
spesso isolata dal contesto familiare di provenienza, rimane totalmente priva
di un contributo pubblico di assistenza, ed costretta al lavoro nero ed a
subire ogni tipo di ricatti per ottenere beni primari come il cibo o
lalloggio.
Esemplare a tale
riguardo la vicenda dei profughi sudanesi giunti a Lampedusa, a partire dal 2001,
immediatamente destinatari ad Agrigento di provvedimenti di espulsione o di
trasferimenti forzati in altre parti di Italia, come a Crotone in strutture di
detenzione amministrativa, e poi abbandonati al loro destino nelle campagne di
Caserta, nelle citt siciliane, o costretti a spostarsi a Roma, nella speranza
di un esame pi rapido delle loro istanze di asilo. Soltanto adesso i media
cominciano a parlare di genocidio nel Darfur, ma
non sembra che i componenti della Commissione centrale, che ha respinto
numerose istanze presentate da questi asilanti, diano rilievo a questi fatti ormai evidenti. In
alcune interviste da parte della Commissione, durate appena pochi minuti, ha
assunto maggior rilievo la attivit politica svolta dai richiedenti asilo
giunti in Italia, e i loro collegamenti con le associazioni che li avevano
accolti ed assistiti nel nostro paese. Altissima, in questi casi, la
percentuale dei dinieghi, anche nei riguardi di richiedenti asilo ai quali
erano state amputati gli arti inferiori.
c) In ordine al
punto 9 degli issues si osserva quanto segue.
LItalia non ha
ancora ratificato la Convenzione ONU del 1990 sulla protezione dei lavoratori
migranti e delle loro famiglie. La condizione dei migranti lavoratori in una condizione
di irregolarit ( categoria specificamente prevista da quella convenzione)
rimane pertanto caratterizzata dalla massima precariet. Gli sforzi fatti da
diverse associazioni per una ratifica della Convenzione sono rimasti ancora
senza effetti. Sembra prevalere il timore che qualsiasi riconoscimento di
diritti a migranti irregolari possa tradursi in un ostacolo per le politiche
espulsive praticate dal nostro governo. In realt la presenza di lavoratori
clandestini sul nostro territorio tollerata, i controlli delle autorit
competenti, come gli ispettorati del lavoro , sono molto scarsi, ed il
caporalato ormai stabilmente presente tanto nelle piazze dei comuni del ricco
Nord, quanto alla periferia dei centri agricoli del meridione.
La
normativa nazionale contro gli atti di discriminazione razziale ha avuto una
applicazione molto limitata e dopo
la attuazione delle direttive comunitarie con i decreti legislativi n. 215 e
216 del 2003 le prospettive
sembrano ancora peggiori, dal momento che non si realizzata la inversione
dellonere della prova, che incombe ancora alla vittima degli atti
discriminatori, e mancano agenzie indipendenti che possano denunciare i casi di
discriminazione, evitando alle vittime il rischio di una successiva ritorsione.
Ma laspetto pi
grave che si rileva nella trasposizione delle direttive comunitarie contro la
discriminazione e la xenofobia nel nostro paese costituito dalla clausola
omnibuspresente nei decreti di attuazione.
Secondo la normativa
interna di attuazione
Il presente
decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla
nazionalita' e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni
relative all'ingresso, al soggiorno, all'accesso all'occupazione,
all'assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi
nel territorio dello Stato, ne' qualsiasi trattamento, adottato in base alla
legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti.
Nel rispetto dei
principi di proporzionalita' e ragionevolezza, nell'ambito del rapporto di
lavoro o dell'esercizio dell'attivita' di impresa, non costituiscono atti di
discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento
dovute a caratteristiche connesse alla razza o all'origine etnica di una
persona, qualora, per la natura di un'attivita' lavorativa o per il contesto in
cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un
requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attivita'
medesima.
Non costituiscono,
comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di
trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano
giustificate oggettivamente da finalita' legittime perseguite attraverso mezzi
appropriati e necessari.
Mentre la Convenzione
ONU sui diritti dei lavoratori migranti e il Piano di azione della Conferenza
di Durban sollecitavano i diversi paesi firmatari a modificare le legislazioni
interne che risultassero in contrasto con il divieto di discriminazione
razziale, la clausola appena richiamata inverte quasi del tutto la situazione e
afferma la intangibilit della legislazione interna in materia di condizione
giuridica degli immigrati, anche quando questa risulta direttamente o
indirettamente discriminatoria.
In
questo modo si chiude quasi completamente la possibilit di perseguire tanto il
cd. razzismo istituzionale, spesso nella forma di atti o comportamenti, posti
in essere da pubblici ufficiali, riconducibili al concetto di discriminazione
indiretta, quanto le sempre pi diffuse discriminazioni verificate nellambito
dei rapporti di lavoro.
Le forme di
razzismo istituzionale sono le pi diverse, e in alcune occasioni sono state
avallate dallautorit giudiziaria che intervenuta in sede di controllo di
legittimit degli atti della pubblica amministrazione.
La legge non stabilisce esplicitamente (pur non
vietandolo) che al detenuto straniero debba comunque essere rilasciato o
rinnovato un permesso di soggiorno. Si e assestata, in questi ultimi anni, una
prassi (Messaggio del Ministero dellinterno alla Questura di Vercelli del 4
Settembre 2001) secondo la quale listanza di rinnovo del permesso non puo
essere accolta perche resa superflua dal provvedimento dellAutorita giudiziaria
in forza del quale lo straniero e detenuto. Recentemente, pero, una sentenza
della Corte di Cassazione Penale (Sez. I, n. 30130/2003) ha stabilito che
laccesso allaffidamento in prova al servizio sociale e alle altre misure
alternative extra-murarie e precluso allo straniero privo di permesso di
soggiorno, dal momento che comporterebbe la permanenza illegale di uno
straniero nel territorio dello Stato. Il mantenimento della prassi citata
rischia, alla luce di questa sentenza, di rendere impraticabili i percorsi di
recupero sociale del detenuto straniero.
a)
La discriminazione nellaccesso al lavoro
La normativa attuale impone, per lingresso legale
in Italia per motivi di lavoro, la dimostrazione di una preventiva promessa di
assunzione da parte di un datore di lavoro (art. 22 T.U.). Limpossibilita di dar
luogo a forme legali di incontro diretto tra domanda e offerta di lavoro
costringe, nei fatti, i lavoratori stranieri che aspirino a migrare in Italia
ad avvalersi di un periodo di soggiorno illegale che consenta loro di porre le
basi per la costituzione di un rapporto di lavoro, altrimenti irrealizzabile.
Questa situazione alimenta da anni il bacino di immigrazione illegale, che
viene periodicamente svuotato da provvedimenti di sanatoria. Si tratta di un
fenomeno tuttaltro che marginale: nel periodo 1988-2002 i permessi di
soggiorno per lavoro (non stagionale) rilasciati in seguito a un ingresso
formalmente successivo alla promessa di assunzione sono stati circa 285.000 (in
media, circa 19.000 per anno); quelli rilasciati in seguito a provvedimenti di
sanatoria, circa 1.360.000 (in media, circa 90.000 per anno). La condizione di
illegalita forzata e quindi un elemento strutturale dellimmigrazione per
lavoro in Italia, con le conseguenze facilmente immaginabili in termini di
compressione dei diritti dei migranti.
La materia dei rapporti di
lavoro degli immigrati
presenta molteplici aspetti
di discriminazione razziale . In molti casi si verificano discriminazioni
insopportabili, ma queste derivano proprio dalle disposizioni legislative o
regolamentari contro le quali non possibile azionare la tutela introdotta
dagli artt. 43 e 44 del T.U. 286 del 1998. Cos ad esempio i titolari di un permesso
di soggiorno per motivi di salute non potrebbero svolgere nel nostro paese
alcuna attivit lavorativa, trovandosi quindi nella impossibilit di sostenere,
o contribuire al sostentamento del proprio nucleo familiare.
Con una importante decisione del Tribunale di Firenze del 24 dicembre
2001, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2002, p168 con nota di
M.Pipponzi), e con altra decisione della Corte di Appello di Firenze del 21
dicembre 2001, si afferma il principio di non discriminazione, tra chi ha il
permesso di soggiorno per motivi di salute e chi invece titolare di un
permesso per motivi di famiglia, che consente pacificamente la prestazione di
una regolare attivit lavorativa. In entrambi i casi dunque, solo grazie
allintervento della giurisprudenza viene evitata una pesante discriminazione
istituzionale ai danni di immigrati in condizioni di particolare vulnerabilit,
perch malati, ed al contempo responsabili del mantenimento dei propri figli. I
giudici fiorentini richiamano anche la Convenzione dei diritti del fanciullo
del 1989, resa esecutiva in Italia con la legge n.176 del 1991, dalla quale si
ricava come i genitori possano adempiere ai propri doversi di assistenza nei
confronti dei figli solo se sono messi nella effettiva possibilit di
procurarsi i mezzi necessari prestando una attivit lavorativa
La vicenda che aveva preso le mosse dal diniego
frapposto dalla questura di rilasciare un permesso per motivi di famiglia, in
luogo del permesso per motivi di salute poi rilasciato, mette in risalto la
questione della difesa legale che costituisce lunico strumento in Italia,
quando possa essere effettivamente esperita, per il riconoscimento e la tutela
dei diritti fondamentali degli immigrati.
b)Impossibilita di accesso a mezzi leciti di sostentamento
In
diversi casi e previsto dalla legge che lo straniero possa soggiornare
legalmente in Italia per motivi legati alla tutela di diritti
costituzionalmente garantiti o al rispetto di obblighi internazionali.
Rientrano in questambito il soggiorno per richiesta di asilo (art. 1 L.
39/1990), il soggiorno per lesercizio del diritto di difesa (art. 17 T.U.),
quello che consegue alle situazioni di inespellibilita della donna incinta o
che abbia partorito recentemente (art. 19, co. 2 T.U.) e il soggiorno del
genitore autorizzato dal Tribunale per i minorenni a tutela dello sviluppo del
minore soggiornante in Italia (art. 31, co. 3). Per questi casi e escluso, o
non e stabilito esplicitamente, che lo straniero ammesso al soggiorno legale
possa svolgere attivita lavorativa, senza pero che siano tassativamente
previste misure atte a garantire che gli siano assicurati adeguati mezzi di
sostentamento.
I requisiti previsti per il rinnovo del permesso di
soggiorno del lavoratore subordinato straniero (e, in base allart. 30, co. 3
T.U., dei suoi familiari) sono molto rigidi. In particolare, e necessaria, ai
fini del rinnovo, lesistenza di un contratto di lavoro (art. 5, co. 5 T.U.).
Una certa elasticita e prevista in caso di perdita del posto di lavoro per
licenziamento o dimissioni: in questo caso, ove il permesso di soggiorno vada a
scadenza prima che siano trascorsi sei mesi dalla perdita del posto, il
lavoratore ottiene un limitato rinnovo mirato a consentirgli un periodo di
ricerca di nuova occupazione di durata complessiva non inferiore, appunto, a
sei mesi (art. 22, co. 11 T.U.). Salva questa modesta forma di tutela, quindi,
la perdita delloccupazione puo facilmente tradursi per il lavoratore
straniero (e, conseguentemente, per i suoi familiari) nella perdita della
facolta di soggiornare in Italia.
La condizione e ulteriormente aggravata per i
lavoratori che abbiano stipulato un contratto a termine (invece che a tempo
indeterminato). La legge italiana non consente per questo tipo di contratti
licenziamenti o dimissioni, se non in casi eccezionali (art. 2119 c.c.). Non si
applicano quindi le disposizioni di cui allart. 22, co. 11 T.U.. Inoltre, la
necessita di presentare la domanda di rinnovo almeno sessanta giorni prima
della scadenza del permesso preclude la possibilita che a sostegno della
richiesta sia esibito un nuovo contratto a tempo determinato con lo stesso
datore di lavoro (vietato dallart. 5 D. Lgs. 368/2001). Stante allora la
difficolta di reperire, a rapporto di lavoro in corso, una possibilita di
impiego con un diverso datore di lavoro, lunica possibilita per il lavoratore
e quella di ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro a termine in
rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Si vede allora come, a dispetto del principio di
parita di diritti tra lavoratore straniero legalmente soggiornante e
lavoratore italiano, sancito dalla Convenzione OIL n. 143/1975 e dallart. 2,
co. 3 T.U., la rigidita delle disposizioni sul rinnovo del permesso di
soggiorno finisca con lincatenare il lavoratore al proprio posto di lavoro. La
libera scelta delloccupazione, sancita per il cittadino dallart. 4 Cost., e
gravemente sacrificata per il lavoratore immigrato, che perde cosi anche gran
parte della propria forza contrattuale nei confronti del datore di lavoro.
Le modifiche apportate recentemente al T.U. dalla L.
189/2002 (Legge Bossi-Fini) hanno poi appesantito la posizione del datore di
lavoro che intenda stipulare un contratto di lavoro con un lavoratore
straniero: e previsto che il datore debba garantire il reperimento di un
alloggio, per il lavoratore, che soddisfi i requisiti previsti dalle leggi
regionali sulledilizia residenziale pubblica, e che debba coprire le eventuali
spese di rimpatrio per lo stesso lavoratore. Se questi requisiti aggiuntivi non
contrastano con il principio di parita in sede di ammissione del lavoratore in
Italia (non si tratta ancora di un lavoratore legalmente soggiornante), essi configurano
una disciminazione inaccettabile se applicati ai contratti di lavoro che lo
straniero stipuli successivamente al suo ingresso. Costituiscono infatti un
deterrente per il datore di lavoro, e, di conseguenza, un fattore di esclusione
del lavoratore straniero che sia rimasto privo di occupazione dalla
possibilita di rientro nel mercato del lavoro. Tale applicazione estensiva non
e, di per se, stabilita dalla L. 189/2002, ma e prevista dallart. 32 del
Regolamento di attuazione della stessa legge (art. 36-bis DPR 394/1999),
approvato dal Consiglio dei Ministri e attualmente allesame del Consiglio di
Stato in vista della definitiva emanazione.
Questa forma di discriminazione rende paradossalmente
improponibile, nei fatti, laccesso del lavoratore straniero alle forme
flessibili di contratto di lavoro recentemente introdotte o potenziate dalla L.
30/2003 e dal D. Lgs. 276/2003 (soprattutto la somministrazione di lavoro e il
lavoro intermittente), mirate ad alleggerire gli oneri per il datore di lavoro
e a diminuire cosi lo squilibrio esistente, nel mercato del lavoro, tra la
condizione degli insider e quella degli outsider.
d)
Incertezza dei tempi per rilascio e rinnovo del permesso
Benche la legge stabilisca, per il rilascio o il
rinnovo del permesso, un termine di venti giorni dalla richiesta, la
corrispondente disposizione (art. 5, co. 9 T.U.) ha un carattere meramente
ordinatorio, non essendo assistita da alcuna sanzione ne da un principio di
silenzio-assenso. In pratica, limmigrato resta per molti mesi privo di un
documento indispensabile sia per la stipula di un contratto di lavoro sia per
il godimento dei diritti associati alla titolarita del permesso (ad esempio, a
seconda dei casi, la possibilita di chiedere il ricongiungimento con i familiari
residenti allestero o liscrizione in un corso di studio o di formazione). Gli
effetti negativi di questa situazione sono stati in parte ridotti stabilendo
esplicitamente che e lecito impiegare uno straniero titolare di un permesso di
soggiorno che abiliti al lavoro, per il quale sia stato chiesto nei termini di
legge il rinnovo (art. 22, co. 12 T.U.); restano pero irrisolti i problemi
relativi al godimento delle altre facolta e quelli connessi al ritardo nel
rilascio del primo permesso di soggiorno.
e) Ostacoli allo svolgimento di una
professione
A
dispetto del principio di parita tra lavoratore straniero legalmente
soggiornante e lavoratore italiano (Convenzione OIL n. 143/1975 e art. 2, co. 3
T.U.), lo svolgimento di una professione da parte del lavoratore straniero
legalmente soggiornante e in possesso dei titoli abilitanti richiesti per
quella professione e consentito dalla legge solo entro i limiti numerici
fissati annualmente dal Governo in relazione agli ingressi di nuovi immigrati in
Italia per motivi di lavoro autonomo (art. 37, co. 3 T.U.). Tali limiti
comprensivi di tutte le attivita autonome sono stati, in questi anni,
estremamente bassi (circa tremila per anno), e senza che fosse stabilito
esplicitamente un criterio di precedenza per i lavoratori gia legalmente
soggiornanti in Italia.
f)
Discriminazioni nellassistenza sociale
Lart.
41, co. 1 T.U. sancisce formalmente la parita di diritti, ai fini del
godimento delle misure di assistenza sociale, tra cittadino italiano e
straniero legalmente soggiornante con un permesso di durata non inferiore a un
anno. Lart. 80, co. 19 L. 388/2000 (legge finanziaria per il 2001) ha pero
limitato drasticamente la portata di questa disposizione, stabilendo, per la
maggior parte delle provvidenze economiche previste dalla legislazione in
materia di assistenza sociale, che la parita riguarda i soli titolari di carta
di soggiorno. Questa limitazione ha creato, in particolare, un grave circolo
vizioso ai danni del lavoratore straniero per il quale sopravvenga, mentre e
ancora titolare di un semplice permesso di soggiorno per lavoro, una condizione
di invalidita civile (ad esempio, in seguito a un incidente stradale). Tale
condizione, precludendogli la prosecuzione dellattivita lavorativa, gli rende
impossibile il rinnovo del permesso di soggiorno (art. 5, co. 5 T.U.). La
mancanza di un reddito per se e per i propri familiari, poi, anche
nellipotesi in cui il lavoratore abbia gia maturato i sei anni di soggiorno
legale in Italia, gli impedisce di ottenere la carta di soggiorno (art. 9, co.
1 T. U.). La condizione di indigenza sarebbe superabile, se solo lo straniero
potesse ottenere la pensione di invalidita, per la quale e certamente in
possesso dei requisiti soggettivi. Ma tale pensione e riservata, appunto, tra
gli stranieri, ai titolari di carta di soggiorno. Lacquisizione della
condizione di invalidita diventa cosi motivo di perdita della facolta di
soggiornare in Italia.
3) La
discriminazione e il diritto alla famiglia ( punto 22 issues)
Ai
fini del ricongungimento familiare, il lavoratore straniero deve dimostrare,
tra le altre cose, la disponibilita di un alloggio che rientri nei parametri
minimi previsti dalle leggi regionali per gli alloggi di edilizia residenziale
pubblica (art. 29, co. 3 T.U.). Allo stesso tempo, pero, laccesso agli
alloggi di edilizia residenziale pubblica e previsto, a parita di condizioni
col cittadino italiano, per i soli titolari di permesso di soggiorno di durata
almeno biennale e con regolari attivita di lavoro subordinato o autonomo in
corso (art. 40, co. 6 T.U.). Sono cosi esclusi i lavoratori stranieri che
abbiano ottenuto il permesso di soggiorno in relazione alla stipula di un
contratto a termine; per costoro, infatti, la durata del permesso di soggiorno
non puo essere superiore a un anno (art. 5, co. 3-bis T.U.). Tuttavia, questi
stessi lavoratori, purche dotati di un contratto di durata non inferiore a un
anno, possono chiedere il ricongiungimento familiare (art. 28, co. 1 T.U.). Per
loro, quindi, e a dispetto dellart. 31 Cost., i parametri fissati dalle leggi
regionali a tutela del benessere delle famiglie, giocano paradossalmente il ruolo
opposto di ostacoli al godimento del diritto fondamentale allunita familiare.
b ) Richiedenti
asilo e ricongiungimento familiare.
I
richiedenti asilo prima della decisione della Commissione centrale non hanno
diritto al ricongiungimento familiare, che viene negato anche ai richiedenti lo
status di protezione umanitaria o temporanea. Il ritardo nella approvazione dei regolamenti di
attuazione della legge Bossi- Fini, nella parte che disciplina la nuova procedura di asilo sta
comportando una situazione di paralisi nelle attivit amministrative che
riguardano i richiedenti asilo, e da parte di questi si notano recenti processi
di autoorganizzazione ( soprattutto a Roma, in Campania e in Sicilia) al fine
di esprimere la propria disperazione e ottenere almeno il modesto risultato di
un esame della pratica a livello locale, da parte della Commissione centrale (
prassi consentita da un decreto governativo dello scorso anno e gi
sperimentata in Puglia ed in Calabria).
LItalia
deve dare ancora attuazione alle direttive comunitarie sul ricongiungimento
familiare, che dedica una attenzione particolare solo ai rifugiati, ma non ai
richiedenti asilo, e alle altre direttive sulle procedure e sullo status di
rifugiato, in corso di pubblicazione in queste settimane
(
sembrerebbero gi approvate definitivamente a livello di Consiglio dellUnione
Europea).
Lassenza
di dati normativi certi, sia a livello nazionale che a livello comunitario,
consegna i richiedenti asilo al potere
discrezionale delle Questure e del Ministero degli interni, e i familiari di questi soggetti,
quando giungono in Italia irregolarmente ( come avviene quasi sempre) sono
spesso costretti a lunghi periodi di clandestinit, anche per la difficolt di
documentare i rapporti familiari, in caso di un successivo e separato ingresso
dei diversi membri della famiglia.
4) La
discriminazione con riguardo ai minori ( punto 30 issues)
a) Profili generali
Se
vero che la legge 40 del 1998 accordava ai minori figli di immigrati laccesso al sistema della istruzione pubblica
a parit di condizione con i minori italiani, anche quando si riscontrassero
situazioni di irregolarit nel soggiorno, nei fatti questo diritto fortemente
compresso dal contesto ambientale in cui i minori stranieri sono costretti a
vivere, contesto che anche di forte degrado, come nel caso dei bambini Rom,
la cui partecipazione alle attivit scolastiche appare in costante diminuzione;
anche per la maggiore mobilit alla quale sono costretti queste categorie di
immigrati, per effetto delle politiche degli enti locali sempre pi orientate
alla loro espulsione dal territorio comunale, ed anche per effetto del rischio
sempre maggiore di espulsione con accompagnamento immediato in frontiera;
rischio che ha avuto come conseguenza una costante mobilit di gruppo che prima
vivevano periodi pi lunghi in una stessa citt, e quindi potevano essere
inseriti pi facilmente in percorsi di integrazione, proprio a partire dalla
frequenza scolastica dei minori.
Anche
i figli dei richiedenti asilo vivono una condizione di particolare disagio, e
non solo con riferimento al loro inserimento nelle istituzioni scolastiche. La
situazione di totale precariet dei loro genitori comporta infatti anche per
loro una forte mobilit, e non si riesce mai a seguire in uno stesso luogo,
salvo forse che a Roma, il percorso di integrazione di un gruppo di richiedenti
asilo e delle loro famiglie, perch durante la procedura cambiano citt pi
volte.
b) Diritto di
accesso ai corsi di studio
Il diritto ad
accedere ai corsi di studio e positivamente garantito al minore straniero, a
prescindere dalla regolarita del suo soggiorno, dallart. 45 DPR 394/1999. La posizione del minore
straniero iscritto ad un corso di studi e pero, ove egli sia figlio di
genitori illegalmente soggiornanti, assolutamente precaria: benche sia vietata
lespulsione dei minori, salvo che per gravi motivi di ordine pubblico o
sicurezza dello Stato, e stabilito, ovviamente, il diritto del minore di
seguire il genitore o laffidatario espulsi (art. 19, co. 2). Una forma di tutela e offerta dalla
disposizione di cui allart. 31, co. 3 T.U., in base alla quale il Tribunale
per i minorenni puo autorizzare, in deroga alle altre disposizioni di legge,
il soggiorno dello straniero quando questo si renda necessario per tutelare lo
sviluppo psico-fisico del minore soggiornante in Italia.
In
questi anni, tuttavia, lorientamento dei Tribunali e stato molto disomogeneo,
con incerta rilevanza della condizione di iscrizione del minore stesso ad un
corso di studi ai fini dellaccoglimento dellistanza relativa al soggiorno del
genitore. Paradossalmente, quindi, e a causa della accresciuta visibilita,
lessere iscritto a scuola puo tradursi, per il minore, in un maggior rischio
di allontanamento dal territorio dello Stato.
Si
richiama a tale riguardo la
iniziativa assunta nel 2003 dalla Prefettura di Catania che ha chiesto ai dirigenti
scolastici la comunicazione di eventuali iniziative attuate mediante progetti,
conferenze o convegni a favore dei
figli degli immigrati di religione diversa dalla cattolica. In conseguenza,
il dirigente del provveditorato agli studi di Catania ha inviato una circolare
applicativa richiedendo ai presidi delle singole scuole notizie sulle
iniziative attuate a favore di alunni di religione diversa dalla cattolica.
Si cos realizzato da parte della Prefettura, di un ufficio periferico del
governo dunque, un censimento di
tutti gli studenti figli di immigrati di religione diversa da quella
cattolica. Siccome in Italia il diritto-dovere allo studio riconosciuto
anche ai figli di immigrati irregolari, una semplice verifica attraverso i
sistemi informatici permetter di scoprire i figli di immigrati privi di
permesso di soggiorno, con domicilio e generalit dei genitori, con il rischio
di una loro espulsione e di un allontanamento degli stessi figli minori da quel
percorso formativo che avevano intrapreso nel nostro paese. E questo solo
perch si tratta di giovani di religioni diverse, non solo quindi di musulmani,
ma anche di protestanti , o induisti.
Le conseguenze discriminatorie di una simile iniziativa sono evidenti
in quanto il primo effetto immediato consistito nel ritiro degli alunni figli
di immigrati irregolari, costretti da questa iniziativa ad una nuova e pi
umiliante clandestinizzazione.
c) Diritti dei
minori ed espulsione dei genitori
Similmente,
e piu in generale, la mancanza di una previsione automatica di protezione del
minore dallallontamento dal territorio dello Stato in seguito allespulsione
del genitore o dellaffidatario fa si che perfino un minore nato e vissuto per un numero
rilevante di anni in Italia possa veder troncati improvvisamente tutti i propri
legami sociali.
La cosa assume un carattere particolarmente grave quando si tratti di minori
figli di genitori che abbiano scontato una pena detentiva di notevole durata in
Italia: lespulsione che nella maggior parte dei casi accompagna la remissione
in liberta del genitore (art. 15, co. 1 e 1-bis e art. 16, co. 5 T.U.)
aggiunge un trauma grave alla condizione, gia fortemente provata, del minore.
d)Discriminazione
ai danni del minore straniero non accompagnato
Il minore
straniero non accompagnato, al pari di qualunque altro minore straniero, non
espellibile se non per gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato
(art. 19, co. 2 T.U.). Quando ne sia segnalata la presenza sul territorio dello
Stato, pero, si da luogo ad una procedura finalizzata ad accertare se sia
effettuabile il suo rimpatrio in
condizioni di sicurezza (art. 33, co. 2-bis T.U.). Nelle more della decisione
relativa al rimpatrio, al minore per il quale non sia disposto laffidamento e
rilasciato un permesso di soggiorno per minore eta (art. 28, co. 1 DPR 394/1999). Una Circolare del Ministero dellinterno (13
Novenbre 2000) ha disposto che tale permesso non sia utilizzabile per lo
svolgimento di attivita lavorativa. Questa disposizione, discriminando il minore
straniero nelle condizioni descritte rispetto al coetaneo nazionale (ma anche
rispetto al coetaneo straniero titolare di un permesso di soggiorno per motivi
familiari o per affidamento) appare
in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dalla Convenzione
ONU di New York del 1989 sui diritti del fanciullo (ratificata con L.
176/1991).
Dati
i tempi estremamente lunghi delle procedure di accertamento, e frequente il
caso di titolare di permesso di soggiorno per minore eta che raggiunga la
maggiore eta mentre e ancora in attesa della decisione relativa al rimpatrio.
La Circolare del Ministero dellinterno
del 13 Novenbre 2000 esclude la possibilita di conversione del permesso per
minore eta in un permesso per motivi di studio o di lavoro. Anche in questo caso si
configura una discriminazione ai danni del titolare di permesso per minore
eta, dal momento che e previsto che il minore titolare di un permesso per
motivi familiari o per affidamento possa fruire invece di tale conversione
(art. 30, co. 5 e art. 32, co. 1 T.U.).
5) La
discriminazione e lassistenza ai richiedenti asilo
a) Diritti fondamentali dei richiedenti asilo e delle loro famiglie
Nel corso del 2002 le richieste di
asilo In Italia sono state 9.608, mentre nel 2001 erano state 17.600 e nel 2000
pi di 18.000. Se consideriamo che la commissione centrale respinge annualmente
il 90 per cento delle richieste di asilo, si pu giungere facilmente alla
conclusione che lItalia non rispetta il fondamentale diritto della persona
umana allasilo, e costringe decine di migliaia di richiedenti asilo alla
clandestinit, determinando problemi anche agli altri paesi europei verso i
quali rivolgono flussi sempre pi consistenti di potenziali richiedenti asilo
respinti, espulsi o resi clandestini dal nostro paese.
Chi viene rimpatriato
senza avere neppure la possibilit di presentare una domanda di asilo, pur
avendo manifestato la volont di chiedere asilo in Italia, finisce per essere
internato in carcere o ucciso, come si teme che sia successo gi nel caso della
famiglia siriana, o di un gruppo di kurdi rimpatriati nel 2001 direttamente in
Turchia, e come avviene anche per molti cingalesi disertori o tamil,
riconosciuti dal console cingalese e rimpatriati con un volo charter
direttamente nel paese dal quale erano fuggiti. Nel 2002 lItalia ha effettuato
5 voli charter verso lo Sri Lanka per rimpatriare persone molte delle quali,
rinchiuse nei centri di detenzione pugliesi, avevano manifestato lintenzione
di chiedere asilo; senza riuscire a formalizzare la domanda, in assenza di
interpreti o per il giudizio sommario da parte delle autorit di polizia circa
la strumentalit della richiesta. Altri voli charter sono stati eseguiti nel
2003 e in questo primo scorcio del 2004.
In moltissimi casi
i potenziali richiedenti asilo sono stati trattenuti per settimane nei centri
di permanenza temporanea, o in centri di transito, comunque strutture chiuse ed
inaccessibili per gli operatori delle organizzazioni non governative, senza
potere presentare domanda di asilo, oppure anche dopo avere presentato domanda
di asilo, prima della loro identificazione.
Con i provvedimenti
adottati nel settembre del 2002, nel marzo e adesso nel mese di maggio del
2003, con una ordinanza del Presidente del Consiglio, si consentito che la
commissione centrale, competente a decidere sulle domande di asilo, operasse
anche senza la collegialit prevista dalla legge, spostandosi nei centri di
detenzione dove restavano rinchiusi molti richiedenti asilo.
Ma i rappresentanti della commissione
non sono arrivati quasi mai in Sicilia. Pi spesso i richiedenti asilo sono
stati deportati dalla Sicilia verso la Calabria, a Crotone, o nei centri
pugliesi. Adesso sembra
prossimo lavvio dei nuovi centri di identificazione per richiedenti asilo,
come il centro di Salina Grande, vicino Trapani; con il nuovo escamotage dei
cd. centri a destinazione mista, gi collaudato al Regina Pacis di Lecce, dove
pi facile spacciare per accoglienza quella che rimane soltanto detenzione
amministrativa, spesso anche al di l dei termini e delle procedure previste
dalla legge. Al riguardo autorevoli fonti
ministeriali affermavano, fino a
poche settimane fa, come nei nuovi centri di identificazione i richiedenti
asilo avrebbero sofferto solo di una limitazione della libert di circolazione,
e non della libert personale, restando consentito in altri termini luscita
giornaliera dal centro con rientro serale; nellultima versione del decreto
attuativo, sembra per le pressioni della Lega nord, i centri di identificazione
sono caratterizzati dal divieto assoluto di allontanamento e di uscita: si
tratter dunque di veri e propri centri chiusi, che porranno delicate
questioni di gestione delle strutture e di compatibilit delle prassi
amministrative di trattenimento con le previsioni di legge e della Costituzione
in materia di asilo e di limitazione della libert personale (art.13).
Come si vede, continua a regnare lincertezza, e non si conosce ad oggi quale sar lesatto status dei richiedenti asilo in Italia; anche se tra poco , a tale riguardo, dovr darsi attuazione alla Direttiva comunitaria n. 9 del 2003, che imporr anche allItalia la predisposizione di nuove norme che rendano uniformi gli standard europei in materia di procedure per i richiedenti asilo, garantendo soprattutto leffettivit del diritto di ricorso riconosciuto al richiedente asilo dopo il diniego della sua istanza.
La stessa direttiva comunitaria n.9 del 2003 contiene a tale riguardo previsioni che risultano in totale contrasto con quanto previsto dalla legge Bossi Fini, e ancora di pi con il nuovo regolamento di attuazione non ancora entrato in vigore, che consente laccompagnamento immediato in frontiera anche in presenza di un ricorso non ancora esaminato dal giudice.
b) Accoglienza ed
assistenza ai richiedenti asilo
Il progetto
nazionale asilo (PNA) avrebbe dovuto dare una risposta ai gravissimi problemi derivanti
dalla lunghezza delle procedura e dalla quasi totale assenza di interventi
pubblici di assistenza rivolti ai richiedenti asilo. Non sembra per che le
recenti scelte del Governo italiano e della Commissione mista appositamente istituita , che hanno determinato il finanziamento di
una trentina di progetti sparsi per lItalia corrispondano alle attese.
Innanzitutto
lo stanziamento complessivo irrisorio, considerato anche il numero di
richiedenti asilo ancora in attesa di una definizione della loro pratica, il numero dei posti offerti su base annua (
circa 1500) non raggiunge neppure un decimo dei soggetti che vi avrebbero
diritto, e si
nota una forte penalizzazione di alcune regioni che pure come la Sicilia sono
uno snodo importante nellingresso degli immigrati richiedenti asilo in Italia.
Dopo
le decisioni della commissione nazionale competente a decidere sulle richieste
avanzate da parte degli enti locali e delle associazioni, solo un progetto
stato finanziato in Sicilia, sembrerebbe nella provincia di Ragusa, che, tra
laltro, riceve un numero di richiedenti asilo nettamente inferiore rispetto
alle provincie della Sicilia Occidentale, come Palermo, Trapani ed Agrigento.
Queste scelte
amministrative della Commissione che ha deciso sulle richieste di finanziamento
del PNA ed il ridotto impegno politico finanziario del governo sul terreno
dellaccoglienza dei richiedenti asilo e protezione umanitaria ma si sa tutte
le risorse destinate allimmigrazione sono impegnate per i rimpatri con
accompagnamento immediato e per i centri di detenzione, adesso anche per i
richiedenti asilo- sono direttamente responsabili del fallimento di molti
sforzi da parte delle associazioni umanitarie, e di un grave degrado della
condizione di vita dei richiedenti asilo, o protezione umanitaria, e delle loro
famiglie, spesso costrette a mendicare sulla strada, ad accettare lavori ad
alto rischio, e ad abitare in strutture fatiscenti, con grave rischio anche per
la salute, e la vita, dei soggetti pi deboli, anziani, donne e bambini.
6)La attuazione delle direttive comunitarie 43/2000/CE e 78/2000/CE
a) Il decreto
legislativo n.215 del 2003 che recepisce la direttiva 2000/43/CE del 29 giugno
2000, che
attua il principio di parit di trattamento fra le persone indipendentemente
dalla razza e dallorigine etnica tradisce in numerosi punti le finalit e la
lettera della corrispondente direttiva comunitaria.
Lart.1 definisce
loggetto del
decreto legislativo, relativo allattuazione della parit di trattamento tra le
persone indipendentemente dalla razza e dallorigine etnica, disponendo le
misure necessarie per impedire che le differenze di razza e di origine etnica
siano causa di discriminazione anche in un ottica che tenga conto del diverso
impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini
nonch dellesistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.
La previsione tiene
conto del 14 considerando della Direttiva 2000/43/CE, secondo cui nell'attuazione del principio della
parit di trattamento a prescindere dalla razza e dall'origine etnica la
Comunit dovrebbe mirare, conformemente all'articolo 3, paragrafo 2, del
trattato CE, ad eliminare le inuguaglianze, nonch a promuovere la parit tra uomini
e donne, soprattutto in quanto le donne sono spesso vittime di numerose
discriminazioni. Risulta invece innovativo, rispetto al testo della
corrispondente direttiva, il richiamo alla considerazione delle forme di
razzismo a carattere culturale e religioso.
Lart. 2 fornisce
le nozioni di discriminazione, e definisce innanzitutto i concetti di discriminazione
diretta ed indiretta.
Si
ha discriminazione diretta quando, per la razza o lorigine etnica, una
persona trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe
trattata un'altra in situazione analoga; ricorre una discriminazione indiretta
quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un
comportamento apparentemente neutri mettono persone di una razza o di una
determinata origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto
ad altre persone.
Le
previsioni appaiono corrispondenti a quanto disposto al riguardo dalla
direttiva comunitaria.
Si
fa salvo il disposto dellart. 43 commi 1 e 2 del decreto legislativo n. 286
del 1998, comunemente inteso come Testo unico sullimmigrazione.
Si
precisa inoltre che sono considerate come discriminazioni anche le molestie
ovvero quei comportamenti indesiderati posti in essere per motivi di razza o
di origine etnica, aventi lo scopo o leffetto di violare la dignit di una
persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e
offensivo.
La
norma conclude infine che lordine di discriminare persone a causa della razza o dellorigine etnica
considerata come una discriminazione ai sensi del primo comma dellarticolo
in esame.
Lart.3 delimita il
campo di applicazione del decreto di attuazione e ha un contenuto corrispondente a
quanto previsto dalla direttiva.
Il
principio di parit di trattamento si applica a tutte le persone nei settori
pubblici e privati, per quanto concerne laccesso alloccupazione, al lavoro,
allorientamento ed alla formazione professionale, loccupazione e le
condizioni di lavoro, le attivit nelle organizzazioni di lavoratori e datori
di lavoro, la protezione sociale, lassistenza sanitaria, le prestazioni
sociali, listruzione e laccesso a beni e servizi.
Si prevedono inoltre alcuni casi di differenze di trattamento che non costituiscono discriminazioni ai sensi dellart.2 : Nel rispetto del principio di proporzionalit e ragionevolezza, nellambito del rapporto di lavoro o nellesercizio dellattivit di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dellart.2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o allorigine etnica di una persona , qualora si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dellattivit lavorativa.
Ma chi stabilisce la
portata effettiva questa importante fattispecie derogatoria? Probabilmente,
tutto rimarr affidato al potere di organizzazione e di distribuzione del
lavoro nellimpresa, proprio del datore di lavoro, e la tutela delle vittime di
discriminazione razziale o etnica nei luoghi di lavoro non si potr
compiutamente realizzare. Ma sotto questo profilo occorre tenere conto della
coeva introduzione in Italia della normativa derivata dalla direttiva
78/2000/CE, relativa alla discriminazione nei luoghi di lavoro.
Nel decreto
legislativo di recepimento sono fatte salve tutte le norme vigenti in materia
di ingresso, espulsioni e accesso al lavoro ( art.3 comma 2).
In questo modo, considerando la larga
discrezionalit amministrativa esercitata in questo ambito, si apre la strada
per la immunit degli agenti statali che pongono in essere comportamenti
discriminatori ai danni degli immigrati per quanto riguarda la libert
personale e di circolazione.
Sar infatti
sufficiente invocare una norma di legge, per mettersi al riparo dalla prova,
che rimane sempre in capo alla vittima, di un comportamento discriminatorio.
Si trascura peraltro di dare applicazione
allart. 14 della direttiva che imponeva agli stati
membri di adottare le misure necessarie per assicurare che tutte le disposizioni
legislative, regolamentari ed
amministrative contrarie al principio della parit di trattamento siano
abrogate.
Lart. 4
disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti.
Si ribadisce la
possibilit di utilizzare la specifica azione civile contro la discriminazione
razziale gi dettata dallart. 44 del T.U. n. 286 del 1998. Rimane fermo
lonere della prova in capo alla vittima dellatto o della prassi
discriminatoria.
Il ricorrente, al
fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio
danno pu dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e
concordanti, che il giudice valuta nei limiti di cui allart. 2729, primo
comma, del codice civile.
In questo modo si
contraddice la normativa comunitaria che ne imponeva la modifica, stabilendo la
inversione dellonere della prova che sarebbe dovuto toccare al convenuto e non
alla vittima della discriminazione parte attrice.
Viene completamente
disatteso lart. 8 della Direttiva 2000/43/CE che assegnava alla parte accusata
del comportamento discriminatorio, e non alla vittima, lonere della prova.
Non vi traccia
della trasposizione nel nostro ordinamento del fondamentale art. 9 della
direttiva, che stabiliva la protezione delle vittime degli atti di discriminazione,
imponendo agli stati membri di introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici
le disposizioni necessarie per proteggere le persone da trattamenti o
conseguenze sfavorevoli, quale reazione a un reclamo o a un azione volta ad
ottenere il rispetto del principio della parit di trattamento
Rispetto alla
normativa gi in vigore ( Testo Unico sullimmigrazione n.286 del 1998), lart.
4, comma terzo, non richiama il fondamentale principio dellinversione
dellonere della prova ma anzi aggrava lonere probatorio che aveva inficiato
la effettivit della norma gi in vigore ( art.44): si precisa anzi che, come
previsto dallart. 2729 del codice civile, il ricorrente al fine di
dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno
pu dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e
concordanti.
Lonere della
prova rimane per intero a carico della vittima della discriminazione.
Esattamente lopposto
di quanto intendeva la direttiva comunitaria.
Rimane a questo punto di scarso impatto la possibilit che il giudice ordini il risarcimento del danno anche non patrimoniale, oppure impartisca disposizioni per fare cessare il comportamento discriminatorio ( tutela inibitoria), oppure, ancora, ordini ladozione di un piano di rimozione degli effetti del comportamento discriminatorio, di cui tenere conto in sede di liquidazione dei danni.
Il giudice tiene conto ai fini della liquidazione del danno che latto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attivit del soggetto volta ad ottenere il rispetto del principio di parit di trattamento.
Pu essere prevista
la pubblicazione della sentenza di condanna.
Possono agire in giudizio per denunciare casi di discriminazioni razziale soltanto le associazione iscritte in un apposito elenco approvato con decreto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunit ed individuati in base delle finalit programmatiche e della continuit dazione.
Il successivo art. 6 precisa i requisiti che devono possedere le associazioni che intendono iscriversi nel Registro delle associazioni che intendono svolgere attivit nel campo della lotta alle discriminazioni, aggiungendo che la Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le pari opportunit, provvede annualmente allaggiornamento del registro.
Altra previsione
in contrasto frontale con la direttiva, risulta essere lart. 7 del decreto
delegato secondo il quale ҏ istituito presso la Presidenza del Consiglio dei
ministri dipartimento per le pari opportunit un Ufficio per la promozione
della parit di trattamento e la rimozione delle discriminazione fondate sulla
razza e sullorigine etnica, ufficio che dovrebbe fornire assistenza nei
procedimento giurisdizionali o amministrativi le vittime dei comportamenti
discriminatori.
Lufficio ha la
facolt di richiedere ad enti, persone ed imprese che ne siano in possesso, di
fornire le informazioni e di esibire i documenti utili ai fini
dellespletamento dei propri compiti.
La direttiva
2000/43/CE prevedeva un agenzia indipendente dal governo, mentre in Italia la normativa di attuazione
stabilisce che questo ufficio che dovrebbe promuovere la parit di trattamento
diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei
ministri
Tale
ufficio si potr avvalere anche di personale di amministrazioni pubbliche
nonch di esperti e consulenti esterni tutti rigorosamente scelti in base al
metodo della cooptazione.
Insomma
un vero e proprio ufficio studi al servizio del governo.
Insomma tutto il contrario di quanto previsto dalla direttiva comunitaria che prevedeva un
organismo indipendente per la promozione della parit di trattamento ( art. 13).
Nel decreto delegato non vi traccia del
dialogo con le organizzazioni non governative
previsto dallart. 12 della Direttiva 2000/43/CE, secondo il quale gli stati membri incoraggiano il
dialogo con le competenti organizzazioni non governative che... hanno un interesse legittimo a
contribuire alla lotta contro la discriminazione fondata sulla razza e sullorigine etnica
Manca infine un adeguato quadro sanzionatorio, che era invece imposto
dallart. 15
della direttiva,
ed al riguardo, in particolare, non si fa alcuna menzione delle conseguenze che incombono al
soggetto autore del comportamento discriminatorio che non obbedisce allingiunzione del giudice di
astenersi da tale comportamento. Non si vede in sostanza come le sanzioni proposte dal decreto
possano risultare effettive, proporzionate e dissuasive.
b)Il testo di
decreto delegato n.216 approvato dal Consiglio dei ministri del 3 luglio 2003,
stato pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica, n. 187 del 13 agosto 2003.
Rimane innanzitutto trascurato il
considerando n.15 della direttiva 2000/78/CE, secondo cui la
valutazione dei fatti sulla base dei quali si pu argomentare che sussiste
discriminazione diretta o indiretta una questione che spetta alle autorit
giudiziarie nazionali o ad altre autorit competenti conformemente alle norme e
alle prassi nazionali. Tali norme possono prevedere in particolare che la
discriminazione indiretta sia stabilita con qualsiasi mezzo, compresa
l'evidenza statistica.
Altrettanto trascurato risulta laltro principio fondamentale contenuto
nel considerando n.29della direttiva, in base al quale le vittime di
discriminazione a causa della religione o delle convinzioni personali, di un
handicap, dell'et o delle tendenze sessuali dovrebbero disporre di mezzi
adeguati di protezione legale. Al fine di assicurare un livello pi efficace di
protezione, anche alle associazioni o alle persone giuridiche dovrebbe essere
conferito il potere di avviare una procedura, secondo le modalit stabilite
dagli Stati membri, per conto o a sostegno delle vittime, fatte salve norme
procedurali nazionali relative alla rappresentanza e alla difesa in giustizia
Stessa sorte per il considerando n.30 secondo cui lefficace attuazione del
principio di parit richiede unadeguata protezione giuridica in difesa delle
vittime.
Ma la violazione pi grave perpetrata dal governo italiano ai danni
della direttiva comunitaria riguarda le norme in materia di onere della prova.
In base al considerando n.31 della Direttiva comunitaria, queste avrebbero
dovuto essere adattate quando vi sia una
presunzione di discriminazione e, nel caso in cui tale situazione si
verifichi, l'effettiva applicazione del principio della parit di trattamento
richiede che l'onere della prova sia posto a carico del convenuto. Non incombe
tuttavia al convenuto provare la religione di appartenenza, le convinzioni
personali, la presenza di un handicap, l'et o l'orientamento sessuale dell'attore.
Altrettanto disatteso infine, come si vedr meglio dallesame del testo
articolato del decreto legislativo approvato dal governo il 3 luglio 2003, il confronto con le parti sociali.
Secondo il considerando 33 della direttiva 2000/78/CE, gli Stati membri
dovrebbero promuovere il dialogo fra le parti sociali e, nel quadro delle
prassi nazionali, con le organizzazioni non governative ai fini della lotta
contro varie forme di discriminazione sul lavoro.
Lart. 1 del
decreto ne definisce loggetto individuato in disposizioni relative
allattuazione della parit di trattamento fra le persone indipendentemente
dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dallet e dagli
orientamenti sessuali, per quanto concerne loccupazione e le condizioni di
lavoro, disponendo le misure necessarie affinch tali fattori non siano causa
di discriminazione, in un ottica che tenga conto anche del diverso impatto che
le stesse forme di discriminazione possono avere su uomini e donne. In questo
caso la previsione pi ampia del corrispondente articolo 1 della direttiva,
per il richiamo al diverso impatto che i vari fattori di discriminazione
possono avere tra uomini e donne, frutto di un intenso impegno parlamentare di
alcuni gruppi di opposizione.
Lart. 2 del
decreto ripete la medesima
formulazione dellart. 2 della direttiva comunitaria 78/2000, e quindi per
"principio della parit di trattamento" si intende l'assenza di
qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni
personali, degli handicap, dellet o dellorientamento sessuale, fornendo
quindi una definizione di discriminazione diretta ed indiretta conforme al
modello comunitario. E molto importante per la previsione di un ampio regime
derogatorio, che richiamato dallinciso salvo quanto disposto dallart.3,
commi da 3 a 6..
Tale regime rischia
di svuotare nella maggior parte dei casi la portata sostanziale della nuova
normativa, e ne analizzeremo le
ragioni quando tratteremo specificamente lart.3.
Intanto si pu affermare
che sussiste sussiste discriminazione diretta quando, per religione,
per convinzioni
personali, per handicap, per et o per orientamento sessuale, una persona
trattata meno
favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata unaltra in una
situazione analoga.
Sussiste invece una discriminazione
indiretta quando una
disposizione, un criterio,
una prassi , un atto, un
patto, o un comportamento apparentemente neutri possono mettere
le persone che professano
una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone
portatrici di un handicap, le persone di una particolare
et o di un orientamento sessuale,
in una posizione di
particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
Sono altres
considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti
indesiderati posti in
essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1 aventi lo scopo o l'effetto di
violare la dignit di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile,
degradante, umiliante od offensivo.
Per quanto riguarda
la nozione di discriminazione si pu dunque rilevare una sostanziale
corrispondenza tra la direttiva comunitaria 78/2000 e la corrispondente
normativa italiana che ne costituisce attuazione.
Anche lambito di
applicazione dei decreti delegati corrisponde al campo di applicazione della
direttiva 2000/78/CE.
In particolare il
decreto delegato stabilisce che il principio di parit di trattamento
suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme di tutela del successivo
art. 4 del decreto , e qui risiede gi una potenziale delimitazione
dellefficacia della direttiva rispetto alla formulazione pi ampia della
direttiva secondo cui questa si applica a tutte le persone, sia del settore
pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico,
per quanto attiene:
a) alle
condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo,
compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente
dal ramo di attivit e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonch
alla promozione;
b)all'accesso a tutti i tipi e
livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e
riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
c) alloccupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni
di licenziamento e la retribuzione;
d)
allaffiliazione
e allattivit in unorganizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in
qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione,
nonch alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.
La delimitazione del campo di applicazione della direttiva appare
poi in tutta la sua evidenza quando si considera la previsione del secondo
comma dellart. 3, in base al quale la disciplina contenuta nel decreto fa
salve tutte le disposizioni vigenti in materia di:
a)
condizioni
di ingresso, soggiorno ed accesso alloccupazione, allassistenza e alla
previdenza dei cittadini dei paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello
Stato;
b)
sicurezza
e protezione sociale
c)
stato
civile e prestazioni che ne derivano
d)
forze
armate, limitatamente ai fattori di et e di handicap
La direttiva 2000/78/CE prevedeva soltanto che questa non riguardava
le differenze di
trattamento basate sulla
nazionalit e non pregiudica le disposizioni e le condizioni relative
all'ammissione e al soggiorno
di cittadini di paesi terzi e di apolidi nel territorio degli Stati membri,
n qualsiasi trattamento
derivante dalla condizione giuridica dei cittadini dei paesi terzi o degli
apolidi interessati. Si
aggiungeva poi che la stessa direttiva non si applica ai pagamenti di
qualsiasi genere, effettuati
dai regimi statali o da regimi assimilabili, ivi inclusi i regimi statali di
sicurezza sociale o di
protezione sociale. Infine si conferma la previsione comunitaria secondo cui
gli Stati membri possono
prevedere che la presente direttiva, nella misura in cui attiene le
discriminazioni fondate
sull'handicap o sull'et, non si applichi alle forze armate.
Lart.4 della
direttiva comunitaria risulta riprodotto sempre nel corpo dellart. 3 del
decreto delegato al comma terzo, laddove si prevede che nel rispetto dei
principi di proporzionalit e ragionevolezza, nellambito del rapporto di
lavoro o nellesercizio dellattivit di impresa, non costituiscono atti di
discriminazione quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche
connesse alla religione, alle convinzioni personali, allhandicap, allet o
allorientamento sessuale di una persona, quualora, per la natura dellattivit
lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di
caratteristiche che costituiscono
un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dellattivit
medesima.
Il regime derogatorio
introdotto dal legislatore italiano appare comunque pi ampio e maggiormente
rimesso nei fatti alla
discrezionalit amministrativa, rispetto a quanto invece prevedeva la direttiva
comunitaria nelle previsioni
corrispondenti.
Sar utile al riguardo
confrontare le prescrizioni analitiche contenute nella direttiva con le formule
pi sfumate e volutamente
generiche che caratterizzano le corrispondenti previsioni dei decreti di
attuazione.
Secondo la Direttiva 2000/78/CE
, a mente dellart. 4 gli Stati membri possono mantenere nella
legislazione nazionale in
vigore alla data d'adozione della presente direttiva o prevedere in una
futura legislazione che
riprenda prassi nazionali vigenti alla data d'adozione della presente
direttiva,
disposizioni in virt delle
quali, nel caso di attivit professionali di chiese o di altre organizzazioni
pubbliche o private la cui
etica fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una
differenza di trattamento
basata sulla religione o sulle convinzioni personali non costituisca
discriminazione laddove, per la
natura di tali attivit, o per il contesto in cui vengono espletate, la
religione o le convinzioni
personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato
per lo svolgimento
dell'attivit lavorativa, tenuto conto dell'etica dell'organizzazione. Tale
differenza di trattamento si
applica tenuto conto delle disposizioni e dei principi costituzionali degli
Stati membri, nonch dei
principi generali del diritto comunitario, e non pu giustificare una
discriminazione basata su altri
motivi.
Secondo lart.3 comma 6 del
decreto delegato invece non
costituiscono, comunque, atti di
discriminazione quelle
differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente
discriminatorie, siano
giustificate oggettivamente da finalit legittime perseguite attraverso mezzi
appropriati e necessari. La
genericit della previsione derogatoria rischia di svuotare di ogni
contenuto operativo la
stessa categoria di discriminazione indiretta, pure formalmente accolta dalla
normativa italiana di attuazione.
Come detto in precedenza, laspetto pi lacunoso del decreto delegato che attua in Italia la direttiva 2000/78/CE costituito dalla previsione dei mezzi di ricorso e delle procedure giurisdizionali.
Gli artt. 9 e 10 della Direttiva
ne costituivano infatti gli aspetti essenziali perch miravano alla
effettiva applicazione della
nuova normativa, altrimenti destinata a rimanere del tutto inattuata,
come era successo in passato ad
altri interventi legislativi dei competenti organi nazionali che, come si
visto nel caso degli artt. 43 e 44 del T.U. n.286 del 1998, erano rimasti privi
di una applicazione diffusa.
In base allart 9 della Direttiva gli Stati membri avrebbero dovuto provvedere
affinch tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata
applicazione nei loro confronti del principio della parit di trattamento,
possano accedere, anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto
da discriminazione, a procedure giurisdizionali e/o amministrative, comprese,
ove lo ritengono opportuno, le procedure di conciliazione finalizzate al
rispetto degli obblighi derivanti dalla presente direttiva. Secondo il secondo
comma dello stesso art. 9 gli Stati membri riconoscono alle associazioni,
organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri
stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse
legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano
rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per
conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una
procedura finalizzata all'esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente
direttiva.
Secondo il successivo art. 10 della Direttiva, gli stati membri avrebbero dovuto prendere
le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per
assicurare che, allorch persone che si ritengono lese dalla mancata
applicazione nei loro riguardi del principio della parit di trattamento espongono,
dinanzi a un tribunale o a un'altra autorit competente, fatti dai quali si pu
presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba
alla parte convenuta provare che non vi stata violazione del principio della
parit di trattamento.
La direttiva invero lasciava una via di fuga che stata prontamente
sfruttata dal legislatore italiano, circa la delimitazione sostanziale del
principio che stabiliva linversione dellonere della prova in danno del
convenuto, lagente accusato di avere compiuto latto discriminatorio.
Nella direttiva si affermava infatti che gli Stati membri non sono
tenuti ad applicare il paragrafo 1 ( che stabilisce linversione del principio
dellonere della prova in capo allattore) ai procedimenti in cui spetta al
giudice o all'organo competente indagare sui fatti.
E cos che il legislatore italiano, con il decreto delegato approvato
dal Consiglio dei Ministri il 3 luglio 2003 ha previsto che lonere della prova incombe allattore,
affermando a tale proposito che il ricorrente, al fine di dimostrare la
sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, pu dedurre in
giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini
gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dellart. 2729,
primo comma, del codice civile. Come a dire che lonere della prova incombe
tutto in capo allattore. In assenza di una prova convincente fornita
dallattore, vittima della discriminazione, non incombe pi in capo al
convenuto lonere di provare che non vi stata violazione del principio di
parit di trattamento, come invece esplicitamente affermato dalla direttiva
2000/78/CE.
Il decreto delegato aggiunge poi, in corrispondenza al testo della
Direttiva comunitaria, che con il provvedimento che accoglie il ricorso il
giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno non
patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o
dellatto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonch la rimozione degli
effetti. Manca per la previsione di adeguate misure anche a carattere
patrimoniale a finalit compulsive, sul tipo delle penali, per le ipotesi in
cui malgrado lordine inibitorio del giudice, gli atti di discriminazione
continuino a verificarsi.
Significativamente omessa, nel decreto delegato che attua in Italia
la direttiva 78/2000/CE, il richiamo specifico alla tutela delle vittime. In base allart. 11 della Direttiva
intitolato Protezione delle vittime, gli Stati membri avrebbero dovuto introdurre nei
rispettivi ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere i
dipendenti dal licenziamento, o da altro trattamento sfavorevole da parte del
datore di lavoro, quale reazione a un reclamo interno all'impresa o a un'azione
legale volta a ottenere il rispetto del principio della parit di trattamento.
Nulla di questa
previsione stato trasposto nel decreto di attuazione, forse nel convincimento
che lordinamento giuridico italiano gi contenesse adeguati strumenti di
tutela dei lavoratori ed a tale riguardo utile richiamare la strenua
opposizione delle forze di governo, e purtroppo anche di parte
dellopposizione, rispetto alla proposta di modifica dellart. 18 dello Statuto
dei lavoratori del 1970, nella parte in cui consente ancora , nelle imprese con
meno di quindici dipendenti, il licenziamento individuale in assenza di giusta
causa.
Completamente
assente, nel decreto delegato approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 3
luglio, ogni previsione sulla diffusione delle informazioni pure imposta dallart. 12 della Direttiva
2000/78/CE, secondo cui gli Stati membri avrebbero dovuto assicurare che le
disposizioni adottate in virt della presente direttiva, insieme alle
pertinenti disposizioni gi in vigore, siano portate all'attenzione delle
persone interessate con qualsiasi mezzo appropriato, per esempio sui luoghi di
lavoro, in tutto il loro territorio.
Per quanto riguarda la legittimazione ad agire lart. 5 del decreto
delegato prevede che le
rappresentanze locali delle organizzazioni maggiormente rappresentative a
livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o per
scrittura privata autenticata, a pena di nullit, sono legittimate ad agire ai
sensi dellart. 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della
discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui riferibile il
comportamento o latto discriminatorio. Le rappresentanze locali di cui al
comma 1 sono, altres, legittimate ad agire nei casi di discriminazione
collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le
persone lese dalla discriminazione.
FULVIO VASSALLO PALEOLOGO