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mercoledì 31 agosto 2005 - 11:41 Scrivi alla redazione | Contatti | Pubblicità
 
Sei in: Prima Pagina | Immigrazione | Testo
Anche gli extracomunitari illegalmente in Italia possono godere delle misure alternative
Chi è senza permesso di soggiorno ha tutti i diritti in carcere
(Cassazione 22161/2005)
Anche i cittadini extracomunitari privi del permesso di soggiorno che si trovano in carcere hanno diritto ad usufruire delle misure alternative alla detenzione in quanto hanno pari dignità rispetto ai cittadini italiani. Questo il principio stabilito dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione che ha annullato un'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna con la quale erano state negate le richieste di applicazione di misure alternative al carcere (affidamento in prova al servizio sociale, affidamento terapeutico, semilibertà e detenzione domiciliare) avanzate da un cittadino extracomunitario che era stato espulso con decreto del Prefetto, fatto che, ad avviso dei magistrati bolognesi, escludeva la possibilità di un suo reinserimento sociale. Di tutt'altro avviso è stata invece la Suprema Corte, che ha ricordato che il fine rieducativo della pena, sancito dalla nostra Costituzione, non consente di operare discriminazioni tra cittadini e stranieri, sia titolari del permesso di soggiorno sia clandestini, in ragione della tutela della dignità della persona, in quanto la risocializzazione non può essere ristretta all'interno di connotati nazionalistici. (23 agosto 2005)
 
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, sentenza n.22161/2005 (Presidente: P. Mocali; Relatore: G. Silvestri)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

PRIMA SEZIONE PENALE

UDIENZA CAMERA DI CONSIGLIO DEL 18/05/2005

Sentenza n.2078/05 Registro Generale n.000454/2005

Composta dagli Ill.mi Sigg.:

Dott. MOCALI PIERO Presidente
1.Dott.SILVESTRI GIOVANNI Consigliere
2.Dott.SIOTTO MARIA CRISTINA Consigliere
3.Dott.URBAN GIANCARLO Consigliere
4.Dott.CASSANO MARGHERITA Consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da :

1) B. D. S. N. il 15/07/1977

avverso ORDINANZA del 11/11/2004 TRIB. SORVEGLIANZA di BOLOGNA

sentita la relazione fatta dal Consigliere SILVESTRI GIOVANNI

lette le conclusioni del P.G. Dr. G. Viglietta che ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza;

Ritenuto in fatto

Con ordinanza dell'11.11.2004, il Tribunale di Sorveglianza di Bologna rigettava le richieste di affidamento in prova al servizio sociale, di affidamento terapeutico, di semilibertà e di detenzione domiciliare presentate da B. D. S., rilevando che costui era stato espulso con decreto prefettizio e che non esistevano, dunque, valide prospettive di reinserimento sociale sul territorio nazionale.

Il difensore del condannato proponeva ricorso per cassazione denunciando mancanza di motivazione, per non essere stata in alcun modo valutata la documentazione influente sul giudizio prognostico, e violazione di legge, sull'assunto che la decisione era in contrasto con i principi sulla funzione rieducativa della pena e con le circolari ministeriali relative alla condizione degli stranieri extracomunitari ammessi a misure alternative.

Considerato in diritto

1. - II ricorso è fondato, in quanto l'ordinanza impugnata è inficiata dai vizi logici e giuridici prospettati dal ricorrente.

Preliminarmente occorre stabilire se nei confronti dello straniero extracomunitario espulso dal territorio dello Stato con decreto prefettizio l'espiazione della pena possa o non avvenire nelle forme delle misurealternative previste dall'ordinamento penitenziario [1].

Ricorrono precisi ed inequivoci argomenti di ordine logico e sistematico per ritenere che la soluzione debba essere affermativa e che il regime delle misure alternative alla detenzione in carcere possa essere applicato anche allo straniero entrato illegalmente in Italia e colpito da provvedimento di espulsione amministrativa operante solo dopo l'esecuzione della pena.

Come ha lucidamente osservato il Procuratore Generale presso questa Corte nella sua requisitoria scritta, le misure alternative previste dall'ordinamento penitenziario trovano diretto ed immediato referente nella funzione rieducativa della pena sancita dall'art. 27, comma 3, della Carta costituzionale.

Nella giurisprudenza della Corte costituzionale è stato chiarito come ciascun istituto previsto dall'ordinamento penitenziario si modelli e viva nel concreto come strumento dinamicamente volto ad assecondare la funzione rieducativa della pena, non soltanto nei profili che ne caratterizzano l'essenza, ma anche per i riflessi che dal singolo istituto scaturiscono sul più generale quadro delle varie opportunità trattamentali che l'ordinamento fornisce (Corte cost., 30 dicembre 1997, n. 445). E, a proposito dell'affidamento in prova, il Giudice delle leggi ha precisato che tale misura non costituisce un provvedimento premiale o di clemenza, ma corrisponde ad un esperimento penitenziario, condotto sotto altre modalità di espiazione, per agevolare ed affrettare il reinserimento sociale del condannato, consentendogli di espiare la residua pena in condizioni di relativa libertà al fine di favorire la disponibilità alla collaborazione rieducativa (Corte cost., 22 dicembre 1989, n. 569).

Il preminente valore costituzionale della funzione rieducativa della pena, sotteso ad ogni misura alternativa alla detenzione in carcere, deve costituire la necessaria chiave di lettura delle disposizioni dell'ordinamento penitenziario, di talché l'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa consente di affermare che l'applicazione di dette misure non può essere, a priori, esclusa nei confronti degli stranieri privi di permesso di soggiorno, destinatari di espulsione amministrativa da eseguire dopo l'espiazione della pena. Infatti, in materia di misure alternative deve essere senz'altro negata la possibilità di introdurre discriminazioni tra cittadini (e stranieri muniti di permesso di soggiorno) e stranieri in condizione di clandestinità, per la decisiva ragione che le relative disposizioni di legge sono dettate a tutela della dignità della persona umana, in sé considerata e protetta indipendentemente dalla circostanza della liceità o non della permanenza nel territorio italiano: sicché un'eventuale disparità di trattamento normativo risulterebbe indubbiamente contraria al principi di uguaglianza e al canone della ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione.

A simili coordinate interpretative si è uniformata, già in passato, la giurisprudenza di questa Corte allorché ha stabilito che le misure alternative devono essere applicate nei confronti di tutti coloro che si trovano ad espiare pene, inflitte dal giudice italiano in istituti italiani, senza differenziazione di nazionalità, con la precisazione che non esiste incompatibilità tra espulsione da eseguire a pena espiata e misura alternativa volta a favorire il reinserimento del condannato nella società, posto che non è possibile distinguere tra società italiana e società estera e che "la risocializzazione non può assumere connotati nazionalistici, ma va rapportata alla collaborazione fra gli stati nel settore della giurisdizione" (Cass., Sez. I, 31 gennaio 1985, Ortiz, rv. 168034).

Tale orientamento merita piena conferma, in quanto la normativa dell'ordinamento penitenziario e quella del testo unico sull'immigrazione, neppure dopo le modifiche introdotte dalla l. 30.7.2002, n. 189, contiene alcun divieto, esplicito o implicito, di applicazione delle misure alternative ai condannati stranieri che siano entrati illegalmente in Italia.

2. - Le considerazioni appena svolte spiegano esaurientemente le ragioni per le quali non può essere condiviso l'opposto principio stabilito da questa Corte, improntato a linee ermeneutiche del tutto difformi da quelle esposte, secondo cui "l'affidamento in prova al servizio sociale e, in genere, tutte le misure extramurarie alternative alla detenzione, non possono essere applicate allo straniero extracomunitario che si trovi in Italia in condizione di clandestinità, atteso che tale condizione rende illegale la sua permanenza nel territorio dello Stato e che non può ammettersi che l'esecuzione della pena abbia luogo con modalità tali da comportare la violazione o l'elusione delle norme che rendono configurabile detta illegalità" (Cass., Sez. I, 20 maggio 2003, Calderon, rv. 226134).

Nella sua portata di generalizzata ed inderogabile operatività del divieto di applicazione delle misure alternative, la decisione testè citata non solo appare totalmente divergente dall'interpretazione "adeguatrice" imposta dai precetti contenuti negli artt. 27, comma 3, e 3 della Costituzione, alla luce dei quali deve essere ricostruito il contenuto delle disposizioni dell'ordinamento penitenziario, ma muove dalle errate premesse che la condizione di clandestinità rimanga comunque insanabile per tutto il periodo di permanenza in Italia e che l'unica condizione possibile per lo straniero sia quella della detenzione in carcere. Quest'ultima posizione, tuttavia, è certamente inaccettabile, dato che l'espiazione della pena rappresenta essa stessa il titolo che, sospendendo l'esecuzione dell'espulsione amministrativa, giustifica la presenza dello straniero nel territorio nazionale e che il provvedimento giurisdizionale che la legittima ben può determinare modalità di espiazione alternative al carcere. E' opportuno segnalare, del resto, che una consolidata prassi amministrativa riconosce che lo straniero privo di permesso di soggiorno possa essere ammesso alle misure alternative. Con circolare del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria del 23.3.1993, trasmessa alle questure con circolare del Ministero dell'interno n. 8 del 2.3.1994, è stato precisato che i cittadini stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno "sono tassativamente obbligati in forza di una decisione giurisdizionale a permanere sul territorio italiano ed a svolgere attività lavorativa in alternativa alla pena detentiva...". Le medesime regole sono state ribadite, anche successivamente all'entrata in vigore del d. lgs. n. 286 del 1998, con circolari del Ministero della giustizia del 16.3.1999, prot. 547899, e del Ministero dell'interno n. 300 del 2.12.2000: in quest'ultima è dato atto che "riguardo alla posizione di soggiorno dei cittadini stranieri detenuti ammessi alle misure alternative previste dalla legge, quali la possibilità di svolgere attività lavorativa all'esterno del carcere, si rappresenta che la normativa vigente non prevede il rilascio di un permesso di soggiorno ad hoc per detti soggetti. In queste circostanze non si reputa possibile rilasciare un permesso di soggiorno per motivi di giustizia né ad altro titolo, ben potendo l'ordinanza del Magistrato di Sorveglianza costituire ex se un'autorizzazione a permanere nel territorio nazionale".

3. - Le precedenti riflessioni convergono univocamente nel comprovare che nell'ordinamento vigente non esiste un divieto di applicazione delle misure alternative al carcere nei confronti degli stranieri espulsi con decreto prefettizio.

Non può considerarsi compatibile con tale conclusione neppure la decisione di questa Corte con cui è stato stabilito che "è inammissibile per manifesta infondatezza dei presupposti di legge, ex art. 666 comma 2 cod. proc. pen., la richiesta avanzata dallo straniero - espulso ai sensi dell'art. 13 d.lgs. n. 286 del 1998, e per il quale è previsto il divieto di rientrare nel territorio dello Stato per cinque anni - di affidamento al servizio sociale e di semilibertà, non essendo possibile instaurare una interazione tra condannato e servizio sociale, presupposto su cui si basano i due istituti" (Cass., Sez. I, 5 giugno 2003, Mema, rv. 225219).

A ben vedere, una simile posizione, che autorizza la generalizzata declaratoria di inammissibilità "de plano" delle richieste dei condannati stranieri, finisce inevitabilmente per condurre alla indiscriminata esclusione delle misure alternative sulla base di una sorta di presunzione assoluta di inidoneità delle stesse a realizzare il recupero sociale dello straniero presente illegalmente in Italia. In proposito deve, però, obiettarsi che il giudizio prognostico richiesto per l'applicazione di dette misure non può essere formulato alla stregua di premesse astratte, generiche, di tipo presuntivo, che aprioristicamente muovono dal postulato dell’irrecuperabilità sociale di un'intera categoria di persone, dovendo, invece, ritenersi che la concedibilità o non delle misure extramurarie implichi inderogabilmente, sempre e comunque, la valutazione delle peculiari situazioni che connotano la posizione dei singoli condannati, cittadini o stranieri. In altri termini, anche per gli stranieri, privi di permesso di soggiorno e destinatari di espulsione amministrativa, l'accertamento delle effettive probabilità di recupero sociale deve essere compiuto in concreto, caso per caso, tenendo conto delle specifiche condizioni personali del condannato e delle diverse opportunità trattamentali offerti da ciascun tipo di misura.

4. - A conclusione delle precedenti considerazioni va riconosciuto che la "ratio decidendi" dell'ordinanza impugnata è del tutto divergente dalle linee interpretative necessarie ad una coerente ed organica analisi ricostruttiva della normativa, per la duplice ragione che il tribunale di sorveglianza, affermando che "il condannato non ha valide prospettive esterne di reinserimento sociale sul territorio nazionale, essendo colpito da decreto di espulsione già in esecuzione", ha escluso apoditticamente la possibilità di recupero sociale ed ha inammissibilmente attribuito alla funzione rieducativa della pena una portata precettiva più ristretta di quella effettiva perché destinata ad operare soltanto nel caso in cui il condannato rimanga, a pena espiata, nel territorio italiano.

Pertanto, poiché il giudizio negativo non è sorretto da idonea motivazione, deve pronunciarsi l'annullamento del provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che, nel nuovo esame delle istanze, dovrà formulare il giudizio prognostico attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati e valutando, a tal fine, anche le documentate opportunità di lavoro esterno rappresentate dalla difesa del condannato.

P. Q. M.

La Corte Suprema di Cassazione, Prima Sezione Penale, annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Bologna.

Così deciso in Roma il 18 maggio 2005.

Depositata in Cancelleria l'8 giugno 2005.

  
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