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CULTURE
PROPOSTA DI LEGGE DI RIFONDAZIONE COMUNISTA IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE

Rifondazione Comunista(15/02/2007) -

Siamo ad un passaggio di grande rilevanza per quel che riguarda la modifica della normativa vigente in tema di politiche migratorie. A partire dall’affermazione dell’Unione alle elezioni politiche scorse, infatti, si è aperto un dibattito pubblico segnato dalla necessità di realizzare un cambiamento strutturale delle politiche sull’immigrazione, mentre il governo ha costruito un importante percorso di confronto con regioni, enti locali, attori sociali, associazioni, migranti. In  questo quadro, ormai in prossimità della presentazione del Disegno di Legge delega del Governo, si colloca la nostra proposta. Essa vuole rappresentare un contributo al dibattito parlamentare che si svilupperà sul testo del governo. Al contempo, essa vuole contribuire anche alla discussione successiva: quando il disegno di legge delega sarà approvato, e l’esecutivo sarà chiamato a definire, a partire dagli indirizzi dati dalle Camere, una nuova legge in materia di immigrazione, sostitutiva dell’attuale Testo Unico. Il testo che presentiamo rappresenta una proposta di legge organica, che sceglie di collocarsi sul terreno dell’attuazione puntuale del Programma dell’Unione, nelle parti appositamente dedicate alle politiche migratorie, ma anche per quanto contenuto più complessivamente in altri passaggi, in materia di lavoro, scuola, giustizia, come dei più generali riferimenti alla necessità di costruire politiche di inclusione e rimozione delle disuguaglianze. Non è dunque la proposta di legge che astrattamente avremmo presentato come Rifondazione Comunista se avessimo dovuto disegnare, fuori dal contesto dato, la politica a nostro avviso più giusta ed efficace in materia di immigrazione, ma la declinazione normativa che proponiamo di quel compromesso avanzato che tutta l’Unione ha sottoscritto presentandosi agli elettori. Ed è una proposta di legge organica che cerca di ridisegnare un quadro complessivo, anche oltre i temi che sono stati maggiormente affrontati nel dibattito di questi mesi. Partendo dalla riscrittura dunque delle finalità e dei principi generali, per affrontare via via tutti i nodi di una materia decisiva per il futuro della nostra società, sul terreno demografico, sociale ed economico, culturale e democratico. La logica della nostra proposta è la stessa che è sottesa ed esplicitata nel programma dell’Unione, il cui contributo innovativo si basa su un intreccio di nodi analitici e propositivi. Da un lato, un assunto di fondo. Ci troviamo di fronte non ad una “emergenza” ma a processi strutturali di lungo periodo, determinati dalle disuguaglianze a livello planetario e dall’accresciuta mobilità delle persone. Parlare di migrazioni significa in quest’ottica parlare prima di tutto di donne e uomini che stanno cercando di costruire propri percorsi di vita, non determinati dalla condizione che il destino ha dato in sorte a ciascuno. I diritti di queste persone debbono essere criterio fondante delle politiche migratorie, in linea con quanto ci ricorda l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. A questo assunto di fondo se ne associa un altro più “empirico”, che attiene al bilancio delle politiche sin qui seguite. E’ noto come dal 1986 ad oggi siano intervenute 5 sanatorie (1986, 1990, 1995, 1998, 2002), che hanno regolarizzato un milione e mezzo di persone; al 2003 - anno in cui si sono registrati gli effetti dell’ultima regolarizzazione - oltre il 70% degli stranieri regolari in Italia risultava beneficiario di un provvedimento di sanatoria. Nonostante gli investimenti massicci sul terreno della repressione - va ricordato che in questi anni lo stato italiano ha speso l’80% delle risorse per azioni di contrasto, espulsioni, detenzioni, rimpatri, e solo il 20% per misure e progetti di inserimento sociale - la stragrande maggioranza degli immigrati sono entrati come clandestini, o comunque hanno vissuto un periodo più o meno lungo di irregolarità. La vera politica sull’immigrazione è stata dunque un mix di proibizionismo – con i correlati proclami propagandistici per “tranquillizzare” l’opinione pubblica - e periodiche sanatorie. Il bilancio è quello di un meccanismo assolutamente ipocrita e inefficace rispetto agli obiettivi dichiarati, ma che ha viceversa prodotto e alimentato clandestinità e tragedie dai costi umani elevatissimi. Com’è noto, infatti, la percentuale di migranti che arrivano clandestinamente via mare è estremamente ridotta (minore del 10%), ma le tragedie che si consumano enormi. L’organizzazione United for International Action ha documentato, dal 1993 ad oggi, oltre 5000 cittadini stranieri morti nel tentativo di entrare o rimanere nell’UE: e si tratta certamente di cifre approssimate per difetto.
La grande quantità di risorse spese in contrasto e repressione ha dunque avuto come solo esito quello di causare sofferenze, e di rendere le vite dei migranti sottoposte ad ogni ricatto e precarietà. Non ha, viceversa, fermato in alcun modo i flussi migratori, alimentati dalle aspettative dei migranti, dalle dinamiche demografiche e dalle necessità del mercato del lavoro, tanto più per la presenza rilevantissima, in Italia, di un’ampia area di lavoro nero ed economia sommersa.
Per costruire nuove politiche e una nuova legislazione in materia di immigrazione è necessario fare un bilancio veritiero di quanto fin qui accaduto, guardando alla realtà dei processi sociali. Le nostre società hanno bisogno dell’immigrazione. Vale per l’Europa e a maggior ragione per l’Italia. Secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con la popolazione dei 15 “vecchi” stati europei in costante e rapido invecchiamento c’è bisogno di circa 47 milioni di immigrati per mantenere fino al 2050 l’attuale dimensione complessiva della popolazione europea e, addirittura, di 79 milioni di immigrati per mantenere costante la fascia compresa tra i 15 e i 64 anni, cioè la fascia attiva. Nella previsione di un costante aumento dell’occupazione femminile (+1% annuo per i prossimi 25 anni), del mantenimento degli attuali livelli di crescita del Pil europeo, ipotizzando un aumento di produttività al 2,5% annuo, l’UE registrerà una carenza di lavoratori al 2050 di 38 milioni di unità, di 88 milioni se la produttività aumentasse solo del 2%. Per quel che riguarda l’Italia, senza l’immigrazione la popolazione della fascia di età più attiva (fra i 20 e i 40 anni) diminuirebbe di oltre 300.000 unità all’anno. La programmazione degli ingressi per come è sin qui avvenuta ha significato di fatto l’impossibilità di entrare legalmente nel nostro paese: quote irrisorie rispetto agli stessi fabbisogni del mercato del lavoro, e un meccanismo, come quello della chiamata nominativa su estero, per cui i datori di lavoro avrebbero dovuto assumere “a distanza” persone che non conoscevano. E’ centrale, rispetto all’ingresso, la possibilità dell’incontro diretto fra domanda e offerta di lavoro. Prevediamo anzitutto una programmazione dei flussi molto più ampia e realistica di quanto fin qui avvenuto. Le quote debbono tener conto delle dinamiche del mercato del lavoro, come anche dei processi migratori effettivi. Si tratta, tra l’altro, di due fattori oggi in equilibrio: si stima in circa 250-300.000 il numero di persone che ogni anno entrano - regolarmente o meno - in Italia, un numero corrispondente ai fabbisogni del mercato del lavoro e alle dinamiche demografiche. Per altro verso è centrale la previsione di poter entrare per cercare lavoro: anche senza avere, cioè, un datore italiano che abbia effettuato un’assunzione dall’estero. Anche in questo caso, si tratta di far diventare norma quanto avviene nella realtà. Nella nostra proposta, che segue fedelmente le indicazioni del programma dell’Unione, l’ingresso per ricerca di lavoro è legato alla dimostrazione di un certo livello di garanzie economiche. E’ cosa nota che chi decide di emigrare organizza la propria scelta, costruisce un suo percorso. Oggi, in particolare, per chi viene dall’altra sponda del Mediterraneo (che è solo il 10% dell’immigrazione clandestina) non esiste altra possibilità che mettere da parte risorse per pagare gli scafisti fino a Lampedusa, sperando di arrivare vivi. Domani dovrà essere possibile che quelle risorse servano a garantire la propria sopravvivenza nel periodo di ricerca lavoro, prendere un traghetto di linea e sbarcare in una qualsiasi parte del territorio nazionale. Il livello di garanzie economiche non deve essere una barriera insormontabile, ma corrispondente alle possibilità effettive dei migranti, essendo evidente che in caso contrario scafisti e trafficanti continuerebbero a lucrare sui bisogni delle persone. Per questo, nella nostra ipotesi il migrante che voglia venire a cercare lavoro in Italia dovrà dimostrare la disponibilità di 5 mensilità dell’assegno sociale, corrispondenti a circa 2.000 euro. Tali risorse potranno essere depositate sia dal cittadino straniero che si trova ancora al paese di origine (e fruite nel periodo della ricerca di lavoro), sia da un “garante” in Italia: un cittadino straniero regolarmente soggiornante, un privato, un’associazione o un’impresa. Si tratta, in questo secondo caso, della reintroduzione del cosiddetto “sponsor”, abolito dalla Bossi-Fini. Una volta entrato in Italia, il migrante potrà rimanervi per un anno, per cercare lavoro. Occorre inoltre intervenire radicalmente su altri ostacoli che si frappongono alla effettiva possibilità di costruire percorsi legali di ingresso che sono toccati solo marginalmente dalla legge, primo fra tutti una riforma del sistema dei consolati, attualmente del tutto inadeguato. Nel testo di legge, si dà indicazione di procedere a tale riforma, e si introducono nei consolati dei paesi di maggiore emigrazione associazioni di tutela dei diritti. Attualmente, persino i migranti già arrivati in Italia, e che soggiornano in modo regolare, sono assoggettati ad una condizione di precarietà intollerabile. Se è pressoché impossibile, per un cittadino straniero, entrare legalmente nel nostro paese, o regolarizzarsi quando è “clandestino”, è invece molto facile perdere il permesso di soggiorno quando lo si è già ottenuto: le condizioni per il rinnovo sono spesso irrealistiche, o comunque molto difficili da soddisfare. Stranieri da lungo tempo residenti in Italia, e ormai stabilmente inseriti, vengono trattati come persone appena arrivate, e assoggettati a controlli continui e spesso vessatori. I permessi di soggiorno hanno tempi di validità molto brevi, e al momento del rinnovo non possono essere rilasciati con una durata superiore rispetto a quella del primo rilascio: così, i migranti sono costretti a presentarsi più volte in Questura, incrementando file e tempi di attesa. Se si perde il lavoro o si viene licenziati – cosa che accade frequentemente, data la progressiva precarizzazione del mercato del lavoro – si finisce per perdere anche il permesso di soggiorno: oggi, con la Bossi-Fini, si può rimanere in Italia per non più di sei mesi. Noi vogliamo de-precarizzare la condizione di vita dei migranti. Ad un mercato del lavoro che offre opportunità quasi esclusivamente a tempo determinato non possono corrispondere permessi di soggiorno rigidamente ancorati a tali contratti. Proponiamo il rilascio di un permesso per un anno allo straniero che abbia contratti di lavoro a tempo determinato inferiori a sei mesi, e di permessi di durata biennale per contratti più lunghi. Chi è assunto a tempo indeterminato avrebbe, nella nostra proposta, un permesso di soggiorno per tre anni (attualmente sono al massimo due). Chi rimane senza lavoro, o a cui scade il contratto a tempo determinato, avrebbe diritto ad un permesso di durata annuale, per attesa occupazione, prorogabile una sola volta in presenza di adeguati mezzi di sussistenza. Dopo cinque anni di permanenza in Italia, il cittadino straniero deve aver diritto alla “carta di soggiorno” (cioè ad un documento a tempo indeterminato). Accanto alla “carta di soggiorno europea”, già introdotta dal nuovo governo in attuazione di direttive comunitarie, abbiamo previsto una “carta di soggiorno nazionale”, che – come scritto nel programma dell’Unione – non è vincolata a requisiti di reddito o abitativi. Vogliamo facilitare la possibilità di ricostruire in Italia il nucleo familiare. Attualmente il “ricongiungimento” è ostacolato da difficoltà burocratiche di ogni tipo. La nostra proposta è quella di semplificare le procedure, e di ampliare le tipologie di parenti che possono entrare con il ricongiungimento: oltre al coniuge e ai figli minori, si prevedono figli maggiorenni e genitori (che già oggi possono entrare, ma solo se in possesso di requisiti troppo restrittivi). Con le norme attualmente in vigore, nessun cittadino straniero irregolare può ottenere il permesso di soggiorno: nemmeno se ha un lavoro, e se dimostra di possedere tutti i requisiti per poter rimanere in Italia. In questi anni, un simile divieto generale di regolarizzazione ha prodotto i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Sono ormai numerosissime, per esempio, le famiglie che affidano il lavoro domestico - ma anche la cura di anziani e bambini - a migranti, spesso donne, costrette ad essere “clandestine”, che rischiano di essere espulse, prive di ogni diritto a cominciare da quello di poter tornare periodicamente e alla luce del sole alla famiglia e agli affetti del paese di provenienza. Eppure a loro affidiamo la cura dei nostri parenti più stretti. Ovviamente la modifica delle norme sugli ingressi ha l’obiettivo di diminuire considerevolmente l’area dell’immigrazione “clandestina”: tuttavia, non possiamo pensare che norme anche sensibilmente migliori possano eliminare del tutto l’irregolarità, e non esiste un motivo ragionevole per impedire che chi ha comunque costruito un proprio percorso di inserimento nella società italiana non possa accedere a meccanismi di regolarizzazione. La nostra proposta prevede sia la possibilità di regolarizzarsi consensualmente con il proprio datore di lavoro (senza penalizzazioni nel caso in cui questo sia una famiglia e non esista fine di lucro nell’assunzione irregolare del migrante); sia la regolarizzazione per denuncia o accertamento di lavoro nero; sia, infine, su valutazione di una commissione territoriale composta da Prefetto, Questore, organizzazioni sindacali e datoriali, associazioni di tutela. Sono tutti strumenti presenti nel programma dell’Unione. Nel caso di denuncia di lavoro nero o sfruttamento del lavoro dei migranti si tratta di fare un passo avanti rispetto alla modifica dell’articolo 18 dell’attuale testo Unico, già proposta dal governo, svincolandolo dal legame con la tratta e dunque dalla previsione che la regolarizzazione possa scattare solo in caso di “pericolo concreto e attuale per l’incolumità della persona”. Il programma dell’Unione, del resto, prevedeva che occorresse “concedere un permesso di soggiorno ad ogni immigrato che denunciasse la propria condizione di lavoro irregolare”. Il complesso di queste misure avrebbe come conseguenza non solo di tutelare i diritti dei lavoratori migranti, ma anche di rafforzare i diritti di tutti i lavoratori eliminando i meccanismi di concorrenza al ribasso. Lo svuotamento delle sacche di lavoro ed economia sommersa significa inoltre eliminare uno dei fattori principali di attrazione di flussi migratori irregolari, riportando a legalità il funzionamento del mercato del lavoro nel nostro paese. Quando parliamo di immigrazione, l’associazione automatica è agli “sbarchi” di cittadini stranieri sulle coste italiane, in particolare nel Sud del nostro paese. Nonostante il risalto mediatico che viene attribuito a questo fenomeno, è noto che esso non rappresenta che il 10% degli ingressi irregolari. La costruzione di possibilità di ingresso legale, attraverso una diversa programmazione dei flussi, l’introduzione dell’ingresso per ricerca lavoro e su garanzia di terzi, hanno come esito la riduzione degli arrivi irregolari, e la convenienza dei migranti ad entrare con i propri documenti di identità. D’altra parte, la messa in campo di norme volte alla stabilizzazione della presenza dei cittadini stranieri e alla diminuzione della precarietà della loro condizione di vita e di lavoro sono destinate a ridurre l’area dell’«irregolarità di ritorno» (chi entra regolarmente ma poi perde il permesso di soggiorno). A tutto questo va aggiunta l’indispensabile approvazione di una normativa sull’asilo, in attuazione dell’art.10 della nostra Costituzione, che darebbe finalmente a chi emigra non per motivi economici, ma per bisogno di protezione, la possibilità di vedere riconosciuti i propri diritti. L’insieme di queste misure riduce il problema delle espulsioni ad una dimensione effettivamente residuale, che può e deve essere gestita nel pieno rispetto dei diritti delle persone e senza misure di “diritto speciale” come la detenzione amministrativa. Il migrante arrivato irregolarmente via mare (in numeri – ribadiamo - che sarebbero sensibilmente inferiori agli attuali) dovrebbe essere accolto in strutture aperte, in cui garantire la propria reperibilità: qui, dovrebbero essere distinte le diverse situazioni soggettive. Ci ha diritto all’asilo, chi non può essere espulso per motivi umanitari deve poter avere un permesso di soggiorno; chi non possieda tali requisiti deve essere avviato a programmi di ritorno concordato al paese d’origine, secondo il meccanismo indicato dal programma dall’Unione e sviluppato dalla stessa Commissione sui centri per immigrati del Ministero dell’Interno (cd. “Commissione De Mistura”). Il ritorno concordato – che vale anche per chi sia divenuto irregolare - con il drastico abbattimento della durata del divieto di reingresso e il sostegno alla costruzione di percorsi di reinserimento nel paese d’origine è un meccanismo che vuole ricostruire consensualmente la legalità degli ingressi e l’interesse del migrante ad accedere a tale percorso. Nei casi in cui è necessario procedere all’espulsione, deve essere il giudice ordinario a prendere la decisione, e non più il Prefetto come accade attualmente, con pieno rispetto delle norme costituzionali in materia di libertà della persone. Nel caso in cui il giudice ritenga che il migrante possa rendersi irreperibile, o per problemi legati all’identificazione, può disporre la misura della sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno in una determinata località (il proprio domicilio o, in caso non abbia un domicilio, altre strutture) e obbligo di dimora in determinate ore della giornata. Il migrante che si renda irreperibile, al rintraccio è sottoposto alla misura del fermo di polizia e alla successiva espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera da parte della forza pubblica. I Centri di Permanenza Temporanea, a cui da sempre ci opponiamo, per il loro rappresentare un “eccezione” allo stato di diritto, privando della libertà persone che non hanno commesso alcun reato, verrebbero in questo modo soppressi. La situazione attuale ha del resto evidenziato in maniera eclatante l’assoluto fallimento del sistema dei CPT rispetto agli obiettivi dichiarati. Facendo due conti a partire dai dati della Corte dei Conti, del Ministero degli Interni, della stessa De Mistura i centri allontanano effettivamente appena il 2,5% degli irregolari. Sono dunque luoghi di negazione dei diritti, di sperpero di risorse, inutili rispetto agli scopi dichiarati. Le competenze sul rinnovo dei permessi di soggiorno sono trasferite agli Enti Locali. Si deve porre fine a quel meccanismo discriminatorio per cui mentre tutti i cittadini si recano all’anagrafe dei Comuni, per gli immigrati è previsto un altro canale. La recente esperienza dell’accordo con le Poste sottoscritto dal precedente governo, che deve essere revocato al più presto, è oltretutto la dimostrazione più eclatante della necessità di mettere in campo un meccanismo a regime non più emergenziale. La proposta di legge che presentiamo tecnicamente prevede la riscrittura integrale di tutti gli articoli dall’1 al 33 e l’abrogazione delle modificazioni introdotte dalla Bossi-Fini per quel che riguarda gli articoli dal 34 al 46, ritornando in questo caso alla legislazione precedente. Questa scelta è motivata da due ragioni di fondo. La prima è relativa al fatto che si è ritenuto urgente intervenire sulla parte che ha in questi anni causato maggiori iniquità e distorsioni, mentre gli articoli dal 34 al 46 in molte loro parti contengono indubbiamente norme avanzate, il cui limite è stato semmai lo scarso seguito che hanno avuto in termini di concreta attuazione. La seconda motivazione risiede nel fatto che tuttavia proprio su questa parte che riguarda il concreto accesso ai diritti di cittadinanza sociale (sanità, assistenza, formazione, politiche abitative) sono necessari interventi fortemente intrecciati con le politiche di welfare generali e che riordinino complessivamente il quadro normativo. Si tratta in sostanza, una volta riscritti i principi generali su ingresso e soggiorno, di aprire la grande e centrale partita della ridefinizione dello stato sociale nel nostro paese, come di ripensare, per fare un esempio, ad una scuola che non sia aggiuntivamente attenta ai problemi posti dalla presenza di bambini stranieri ma che si ridefinisca sul terreno della promozione dell’uguaglianza e insieme della valorizzazione e del dialogo fra culture. Un compito complesso che riguarda in realtà la vera posta in gioco in una situazione in cui sono ormai tre milioni i nuovi cittadini, destinati a crescere significativamente nei prossimi anni, e che non poteva essere svolto senza il necessario approfondimento. Su due aspetti tuttavia interveniamo da subito nel corpo delle proposte. Il primo sancisce il diritto delle cittadine e dei cittadini stranieri a partecipare a concorsi e selezioni per l’accesso al pubblico impiego. Il secondo prevede la possibilità già contenuta nella legge 40/98 di restituzione dei contributi pensionistici versati, in caso di ritorno in patria prima dell’età pensionabile per quei paesi con in quali non esistano accordi che consentono la totalizzazione dei contributi, ponendo fine ad un evidente furto ai danni dei lavoratori immigrati e creando anche per questa via un’incentivo alla regolarizzazione dei rapporti di lavoro. In ultimo, la nostra proposta riprende quella dell’ANCI in materia di diritto di voto attivo e passivo per le elezioni amministrative e regionali, che viene acquisito dopo cinque anni di soggiorno regolare in Italia. La proposta, nei principi guida, indica anche la Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. La Convenzione non è stata ancora ratificata, ma rappresentava uno degli impegni del programma dell’Unione, a cui crediamo si debba dare coerentemente seguito come richiesto da moltissimi soggetti associativi, a cominciare dalle organizzazioni sindacali.

Roberta Fantozzi

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