SOMMARIO
ATTUALITA’
ED APPROFONDIMENTI
2.
Mass-media, discriminazioni e xenofobia. Una riflessione sull’uso degli
stereotipi etnici da parte degli organi di informazione.
3. No alla discriminazione degli studenti
stranieri nelle elezioni universitarie. L’ASGI scrive al Rettore
dell’Università di Bergamo.
GIURISPRUDENZA
NAZIONALE
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale,
sentenza 8 marzo 2007, n. 9793: "Manifestazioni agonistiche ed esibizione
di emblemi o simboli di organizzazioni razziste o nazionaliste".
RAPPORTI
E DOCUMENTI
SEGNALAZIONI
BIBLIOGRAFICHE
SITI
INTERNET
ATTUALITA’ ED APPROFONDIMENTI
1.
DISCRIMINAZIONI ETNICO-RAZZIALI E ATTIVITA’
DELLE FORZE DI POLIZIA. UNA DISCUSSIONE SULL’”ETHNIC-PROFILING”.
Definizione e fenomeno dell’”ethnic profiling”.
La vicenda degli incidenti
scoppiati lo scorso 12 aprile in
via Paolo Sarpi a Milano, che hanno visto confrontarsi appartenenti alla
comunità cinese con le forze dell’ordine e della polizia municipale, dovrebbe
suscitare un dibattito nel nostro paese su una questione di politiche pubbliche ancora poco nota e che nei paesi
anglosassoni viene definita con il termine di “ethnic profiling”.
In una lettera del 7 luglio
2006, la Commissione Europea ha definito il concetto di “ethnic profiling” come “comprendente qualsiasi comportamento
o pratica discriminatoria effettuata dalle autorità di polizia e pubblica
sicurezza o altri attori pubblici, nei confronti di individui e giustificata in
ragione della loro razza, religione, origine nazionale, piuttosto che del loro
comportamento individuale o del fatto che essi rispondano alla descrizione di
una persona ‘sospettata’”. [1]
Più in generale, per ‘ethnic profiling’ - che in italiano potremmo tradurre con “definizione
di profili etnici” – possiamo intendere la pratica di classificare
sistematicamente gli individui in base alla loro origine etnico-nazionale o
religiosa e di agire nei loro
confronti in base a tale visione stereotipata. La nozione si riferisce,
tuttavia, in particolare
all’operato delle forze di polizia e, più in generale, di sicurezza, per cui si intende per ‘ethnic profiling’, “l’uso o l’influenza di stereotipi
razziali, etnici e religiosi da parte delle forze di polizia nelle proprie attività e con riferimento alle decisioni concernenti il fermo,
l’arresto, la perquisizione, l’identificazione ed il controllo dei documenti
delle persone, l’inserimento di dati personali in database, la raccolta di
informazioni di intelligence e rispetto ad altre tecniche investigative”.[2]
In termini concreti, un fenomeno di
‘ethnic profiling’
sussiste ad esempio quando le
autorità di polizia, nell’esercizio delle loro attività di controllo del
territorio e di accertamenti ed eventuale identificazione e perquisizione di
persone ‘sospette”, vengono influenzate da pregiudizi e stereotipi per cui
certe attività criminali vengono attribuite ad un determinato gruppo
etnico-nazionale in generale sulla base di una supposta prossimità di tale gruppo a tali attività ovvero una
sua propensione al crimine,
etnicamente connotata. Ne consegue che
i membri di tale gruppo (generalmente immigrati o minoranze etniche)
diventano il target sistematico di tali operazioni di controllo ed
identificazione con il risultato che
essi hanno una probabilità molto più elevata di essere fermati da agenti di polizia per semplici accertamenti e controllo dei documenti rispetto a
quanto avviene per individui
dell’etnia ‘maggioritaria’ e ciò per il solo fatto dell’appartenenza
etnico-razziale, a prescindere da ogni altro fattore comportamentale. [3]
Riflessioni sulla vicenda di Milano.
Ritornando al discorso iniziale, che cosa c’entra la questione dell’’ethnic profiling’ con le vicende degli incidenti di Milano del
12 aprile scorso?
La miccia che ha fatto accendere quegli scontri è stata la frustrazione
dei commercianti cinesi in relazione all’applicazione del divieto all’uso di
carrellini per il trasporto merci con conseguenti multe ai trasgressori. Le
reazioni immediate di alcuni esponenti politici, tra cui lo stesso Sindaco di
Milano, Letizia Moratti, agli
scontri sono state improntate ad un atteggiamento “legalista”: la legge, in
sostanza vale per tutti e non ammette eccezioni o ‘zone franche’. Ma da una
parte della comunità cinese il provvedimento sul divieto dell’uso dei carrellini è stato percepito come
applicato in modo discriminatorio e penalizzante. Un video realizzato da
studenti di giornalismo dell’Università Cattolica riprende un finto facchino
italiano che trasporta, con un carrellino, un pacco di cartone all’interno del
quale una telecamera
nascosta mostra chiaramente il diverso atteggiamento dei vigili verso i
trasgressori italiani rispetto a quelli cinesi, tolleranza verso i primi;
repressione verso i secondi.[4]
Conseguenze ed effetti sociali dell’’ethnic profiling’
La vicenda di Milano ha messo in evidenza ancora una volta ciò che
corrisponde ad una percezione spesso diffusa tra gli immigrati nel nostro paese
ed in particolare tra quelli che hanno delle connotazioni somatiche che li
rendono più facilmente distinguibili rispetto alla popolazione maggioritaria
italiana: il fatto di essere fermati e sottoposti a controlli identificativi da
parte delle autorità di polizia in misura proporzionalmente maggiore rispetto a
quanto avviene per le persone autoctone; ciò sulla base di atteggiamenti degli
appartenenti alle forze dell’ordine non necessariamente apertamente razzisti,
ma che certo spesso rispondono a stereotipi subconsci in base ai quali
determinate appartenenze etnico-razziali e relativi tratti somatici vengono
considerati quali indizi di una eventuale condizione di clandestinità o, peggio, associati a
fenomeni o comportamenti criminali o devianti. Pur mancando dati e ricerche
specifiche sull’argomento, l’esperienza diffusa sembra confermare tale
percezione, accresciuta sensibilmente dopo gli avvenimenti dell’11 settembre
2001, che hanno diffuso nell’immaginario collettivo l’applicazione a talune componenti
etnico-religiose mediorientali di stereotipi legati alla minaccia di fatti e
comportamenti particolarmente gravi come quelli del terrorismo e
dell’estremismo politico e religioso.
Le conseguenze di tali atteggiamenti di ethnic profiling nelle attività delle forze dell’ordine sono particolarmente negative.
Innanzitutto per gli
appartenenti alle comunità etniche che ne sono il target, i quali con il
passare del tempo finiscono per sviluppare atteggiamenti di impotenza ma anche
di risentimento nei confronti delle forze dell’ordine, con conseguente
esacerbarsi delle relazioni tra le comunità e le istituzioni, e danno alla coesione sociale nel suo
complesso. Gli esperti, tuttavia, sottolineano pure gli effetti
controproducenti che l’’ethnic profiling” viene a produrre per l’efficacia dell’attività repressiva della
criminalità da parte delle stesse forze di polizia, che richiede infatti
innanzitutto un buon rapporto di
fiducia con il tessuto delle comunità immigrate, sul quale soltanto può
costruirsi quella rete di informazioni e di “intelligence” che risulta molto
più efficace nella prevenzione e repressione della criminalità di una politica
di fermi e controlli a tappeto, indiscriminati ed “etnicamente” determinati. [5]
La giurisprudenza internazionale sull’’ethnic profiling’
L’”ethnic profiling”,
tuttavia, oltre ad essere una tecnica inappropriata e controproducente per i
negativi effetti sociali che a lungo andare tende a produrre, costituisce
comunque di per sé una condotta illegittima, discriminatoria e spesso in
violazione di diritti umani fondamentali.
Ciò non è spesso compreso dagli appartenenti alle forze dell’ordine, che
richiamandosi all’ampio potere discrezionale assegnato dalle leggi in materia
di identificazione e, date certe condizioni, anche di perquisizione,[6]
ritengono di essere legittimati a compiere dette operazioni nei confronti di
chiunque appaia loro sospetto, in base ad una valutazione soggettiva,
senza pertanto che possa avere un rilievo, disciplinare, civile o penale, l’eventuale incidenza di atteggiamenti
e pregiudizi, se non razzisti, comunque influenzati da stereotipi più o meno
diffusi. In sostanza, molto spesso viene a valere l’espressione: “Fermo e
controllo chiunque io voglia!”.
Una tale condotta tuttavia non è legittima, in quanto le attività di
controllo e perquisizione attuate dalle forze dell’ordine, incidendo sulla
libertà personali dell’individuo, debbono essere esercitate avendo a riguardo
dei principi di necessità e proporzionalità, che trovano fondamento ultimo
nella soddisfazione del requisito del ragionevole sospetto. A sua volta, la
sussistenza di questo requisito non può essere basata esclusivamente
sull’apparenza esteriore dell’individuo, i suoi tratti somatici, la sua
appartenenza etnica o religiosa, ma deve avere un fondamento obiettivo, avendo
in considerazione le circostanza di tempo e luogo della situazione specifica.
Altrimenti, anche l’attività di controllo delle forze dell’ordine può
determinare una limitazione su base discriminatoria dei diritti della persona, la quale a sua volta costituisce una violazione degli
standard internazionali e costituzionali dei diritti dell’uomo.
In questa direzione di ragionamento, vanno segnalati tanto recenti
provvedimenti di soft-law emanati
da organismi internazionali, quanto una giurisprudenza vera e propria prodotta
da giurisdizioni internazionali e nazionali.
Per quanto concerne i primi, va segnalata la Raccomandazione Generale
adottata nel 2005 dal Comitato ONU per l’Eliminazione della Discriminazione
Razziale, il quale, “avendo in considerazione i rischi di aumento della
discriminazione nell’amministrazione e nel funzionamento del sistema di
giustizia penale, anche in conseguenza della crescita dell’immigrazione, che ha
indotto forme di pregiudizio e sentimenti di xenofobia ed intolleranza in certi
settori della popolazione e anche delle forze dell’ordine, e avendo presente come le politiche di
sicurezza e le misure anti-terrorismo adottate da molti Stati abbiano
incoraggiato tra l’altro l’emergere di sentimenti anti-arabi e islamofobi o,
per reazione, atteggiamenti anti-semiti, in diversi paesi”, ha enfatizzato in particolare che “gli
Stati membri dovrebbero adottare le misure necessarie per prevenire i fermi, le
interrogazioni e le
perquisizioni che sono in realtà
fondate esclusivamente sull’apparenza esteriore di una persona, sul suo colore
della pelle, le sue caratteristiche, la sua appartenenza etnica o razziale, od
ogni altro profilo che la esponga ad un maggiore sospetto” (General
Recommendation XXXI on the prevention of racial discrimination in the
administration and functioning of the criminal justice system (2005), para. 20).[7]
Riguardo alla giurisprudenza,
diverse giurisdizioni hanno affrontato il tema dell’”ethnic profiling”, contribuendo a creare una casistica tanto
interessante, quanto ancora sconosciuta nel nostro paese.
Per la sua importanza ed autorevolezza, vale la pena iniziare citando la
posizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, la quale, fu chiamata ad esprimersi
sul ricorso presentato contro la Federazione Russa da un avvocato di origine
cecena, il sig. Timishev,
al quale le autorità di
polizia avevano impedito
l’ingresso nel suo attuale territorio di residenza, la Repubblica di Kabardino
–Balkaria, per il solo fatto
della sua appartenenza etnica . Nella sentenza, la Corte di Strasburgo,
rilevando che le autorità russe non avevano offerto alcuna giustificazione per
la differenza di trattamento tra persone di origine cecena e non in materia di
godimento della libertà di movimento,
concluse che “nessuna differenza di trattamento basata esclusivamente o
in misura decisiva sull’origine etnica della persona è suscettibile di ottenere
obiettiva giustificazione in una società contemporanea fondata sui principi del
pluralismo ed il rispetto per le differenti culture”. [8]
Spostandoci sulle giurisdizioni nazionali, va citata innanzitutto la sentenza
della Corte Costituzionale slovena del 30 marzo 2006, nella quale si afferma che le norme regolanti i poteri di identificazione,
perquisizione e sorveglianza attribuiti all’autorità di polizia debbono
contenere indicazioni precise
circa il modo e le condizioni nelle quali tali poteri possono essere
esercitati, al fine di ottemperare ai principi di legalità ed evitare il
rischio di arbitrio. Nella fattispecie, la Corte dichiarò incostituzionale la
parte della norma della legge sulla pubblica sicurezza che consentiva agli ufficiali di polizia di effettuare
i controlli identificativi delle persone considerate “sospette” anche per la
sola ragione della loro apparenza esteriore.[9]
Alcune sentenze giudiziarie o provvedimenti di autorità indipendente di tutela dei diritti dei
cittadini, hanno ribadito il
principio per cui l’azione concreta degli ufficiali di polizia non può essere
dettata unicamente dalle caratteristiche etnico-somatiche della persona, pena
il compimento di un atto di discriminazione razziale. Così in Francia,
sebbene le modifiche apportate alla legislazione relativa ai controlli e agli
accertamenti sull’identità, con la legge del 10 agosto 1993, consentono in
linea di principio che gli accertamenti amministrativi possano avere luogo su
qualsiasi persona, “indipendentemente dal suo comportamento” (art. 78-2, c. 3
del codice di procedura penale), il Consiglio Costituzionale ha imposto una importante riserva
interpretativa con la decisione del 5 agosto 1993. In essa, viene chiaramente espresso
che “la prassi di controlli di identità generalizzati e discrezionali sarebbe incompatibile con il
rispetto della libertà individuale” . Il Consiglio Costituzionale precisa che,
malgrado la legge usi la formula secondo cui i controlli possono essere
effettuati “indipendentemente dal comportamento” individuale, “rimane che
l’autorità proposta deve giustificare, in tutti i casi, le circostanze
particolari fondanti il rischio di offesa all’ordine pubblico che hanno
motivato il controllo”.[10]
Sulla base della giurisprudenza della Corte di Cassazione, dopo la legge del
10.08.1993, tali controlli non esigono più un nesso tra il comportamento
individuale e delitti o
infrazioni precedentemente
commessi nei luoghi considerati (Cass. 2 Civ. 26.04.2001). Ciò nonostante,
viene richiesto che il numero e la gravità dei delitti commessi in quei
determinati luoghi e le circostanze nelle quali ha luogo l’operazione
evidenzino “riguardo alla sicurezza delle persone e dei beni, un rischio
sufficiente tale da giustificare
il controllo amministrativo
d’identità” (Cass. 2 Civ., 29.06.2000, n. 99-50010).[11]
In Austria, la Corte Costituzionale ha accolto il
ricorso di una cittadina austriaca di colore, nata in Ghana, la quale denunciò
come forma di discriminazione razziale il fatto di aver subito da parte di
diversi ufficiali di polizia due controlli del proprio bagaglio a mano durante
un viaggio in treno, con ulteriore sottoposizione ad un controllo personale ai
raggi X. La Corte Costituzionale austriaca concluse che, sulla base delle
evidenze disponibili, gli ufficiali
di polizia avevano effettuato i
controlli sulla cittadina austriaca
unicamente in ragione del
suo colore della pelle, con ciò sostanziando il reato di discriminazione
razziale.[12]
Particolarmente avanzato in questa direzione l’approccio della giurisprudenza
del Canada, la quale non
solo ha affermato il carattere discriminatorio di un controllo di polizia
fondato unicamente sull’apparenza etnico-razziale della persona, ma ha
stabilito un principio di inversione dell’onere della prova, per cui, in quelle situazioni ove viene
affermata una presunzione di discriminazione, è l’ufficiale di polizia a dover
dimostrare che la ragione del controllo non era arbitraria, ma motivata da
elementi “obiettivamente ragionevoli” e “chiaramente espressi”. [13]
Nei Paesi Bassi, nel caso
1992/876, l’Ombudsman accolse il reclamo di un cittadino olandese il quale si
era visto sottoporre ad un controllo identificativo di polizia, con richiesta
di esibizione della carta di identità, per il solo fatto di essere di colore,
con la conseguente supposizione dell’ufficiale di polizia circa una sua
condizione di straniero irregolarmente residente. Citando una mozione approvata
dal Parlamento olandese nel 1984, l’Ombudsman affermò che l’apparenza esteriore
di una persona e i suoi tratti somatici non possono essere un fattore che deve
guidare l’ufficiale di polizia nella
presunzione del mancato
possesso della cittadinanza olandese.[14]
La questione dei controlli di polizia ai fini della verifica dell’identità e
della situazione amministrativa in relazione alla normativa sull’immigrazione,
e basati su indizi collegati all’appartenenza etnico-razziale della persona, ha
suscitato peraltro pronunce e punti di vista diversi e controversi.[15]
La Corte Costituzionale spagnola ha affermato che “certe caratteristiche fisiche o etniche della persona
possono essere prese in considerazione dalla polizia come indicatori
ragionevoli di una sua possibile appartenenza straniera”. In tal modo, la Corte considerò legittimo il
comportamento degli ufficiali di polizia che avevano fermato e sottoposto a
procedura identificativa una cittadina spagnola di origine africana, mentre il
marito che l’accompagnava, spagnolo per nascita, non venne sottoposto ad alcun
fermo. [16]
Considerazioni per certi aspetti analoghe sono state adottate dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo nel
caso Cissé c. Francia. La
Corte venne investita di un ricorso secondo il quale le autorità di polizia
francesi avrebbero violato il principio di non discriminazione di cui all’art.
14 della Convenzione in collegamento con l’art. 5 della medesima (diritto alla
libertà) nell’aver proceduto ad arresti selettivi, sulla base all’appartenenza etnico-razziale delle
persone, dopo aver installato dei
posti di blocco all’uscita di una chiesa dalla quale venivano fatte evacuare
alcune centinaia di immigrati sans papiers unitamente a volontari di organismi di solidarietà.
La Corte dichiarò inammissibile il ricorso sostenendo che “il sistema messo in
piedi dalla polizia all’uscita della chiesa per il controllo delle identità era
inteso a verificare l’identità delle persone sospette di essere immigrati
illegali e pertanto non si poteva concludere che l’interessato sia stato
soggetto a discriminazione sulla base dell’appartenenza razziale”.[17]
La giurisprudenza del Regno Unito, appare, invece, più incline alla condanna dell’”ethnic profiling”, anche quando siano in gioco questioni
delicate come la politica dell’immigrazione e la lotta al terrorismo; frutto,
questo, anche di una legislazione
che estende espressamente il divieto di discriminazione razziale anche alle
attività delle autorità pubbliche ad ogni livello, incluse le attività della
polizia e dei dipartimenti ministeriali.[18]
Nel caso R (ricorso presentato dall’European Roma Rights Center) v.
Immigration Officer at Prague Airport, l’House of Lords fu chiamato ad esprimersi sul
supposto carattere discriminatorio
nei confronti delle persone di etnia Rom delle procedure seguite dagli
ufficiali dell’immigrazione operanti presso l’aeroporto di Praga in relazione
agli imbarchi su voli diretti nel Regno Unito. L’House of Lord confermò le
risultanze fornite dall’osservazione compiuta dall’ERRC che i potenziali
viaggiatori di etnia rom venivano sottoposti a colloqui molto più lunghi,
intensivi e intrusivi degli altri cittadini cechi di altra etnia, concludendo
che il fatto che nelle settimane precedenti vi fosse stato in Regno Unito un
massiccio afflusso di richiedenti asilo di etnia rom provenienti dalla
Repubblica Ceca, non giustificava un trattamento così palesemente differenziato
da essere “intrinsecamente e
sistematicamente discriminatorio e, dunque, illegale”.[19]
In un’altra più recente decisione, Gillan v Commissioner of Police
for the Metropolis, la House of Lords confermò la legittimità
dell’uso dei poteri di fermo, identificazione e perquisizione previsti dalla
legge sul terrorismo (Terrorist
Act 2000,44).
Tuttavia, vanno annotate le opinioni di due Lords riguardo alla decisione, che
confermano la giurisprudenza espressa nel caso precedente. Così Lord Hope of
Craighead afferma che “un ufficiale di polizia che ferma e controlla una
persona di sembianze asiatiche nell’esercizio dei poteri attribuitegli dalla
sezione 44 deve avere altre ed ulteriori buone ragioni per fare ciò. Non si
deve mai smettere di sottolineare
che il mero fatto dei tratti somatici asiatici di una persona non è di per sé
una legittima ragione per l’uso di tali poteri”.[20]
Lord Brown of Eaton-under-Heywood ritiene che : “una cosa è accettare
che l’origine etnica di una persona sia parte (ed in certi casi una parte
significativa) del profilo: un’altra cosa (e certamente inaccettabile) è
definire un profilo solo con riferimento all’etnicità. Nel decidere se
esercitare o meno i poteri di controllo e perquisizione, gli ufficiali di
polizia devono avere riguardo anche di altri fattori”.[21]
In materia di “ethnic profiling” nelle attività investigative anti-terrorismo, va
segnalata l’interessante decisione della Corte Costituzionale Federale
tedesca del 4 aprile 2006.
La Corte venne investita del ricorso presentato da uno studente universitario
di nazionalità marocchina, che aveva scoperto di essere stato posto sotto
sorveglianza a seguito dell’applicazione di una vasta operazione di definizione
automatizzata di profili chiamata Rasterfahndung attuata dalla polizia tedesca nel periodo 2001-2003,
intersecando dati personali e sensibili provenienti da diversi database
pubblici e privati inerenti tra l’altro all’età, alla nazionalità, al credo
religioso, agli studi compiuti, al possesso di licenze per pilota, a prescindere
da ogni altra considerazione o informazione attinente al proprio comportamento
personale. L’interessato ritenne che tale operazione aveva violato il suo
diritto alla protezione dei dati personali. La Corte Costituzionale federale
tedesca accolse il ricorso sostenendo che un’operazione di definizione
automatizzata di profili fondata sull’uso di dati personali e sensibili al fine
di restringere la cerchia di persone da porre sotto osservazione e cercare così
di identificare potenziali sospetti di attività criminose poteva ritenersi
ammissibile solo qualora le
autorità agiscano in risposta a specifiche minacce all’ordine pubblico e ai diritti individuali e non quindi
come pratica ordinaria e continuativa.[22]
La normativa italiana.
Come è largamente noto, in
Italia, il recepimento della direttiva europea in materia di discriminazione
etnica e razziale (Dir. n. 2000/43/CE) è avvenuto con l’adozione del d.lgs. n.
215/2003. La direttiva europea, tuttavia, ha un ambito di applicazione limitato
ratione materiae. In
particolare essa non estende la
proibizione della discriminazione alle funzioni di pubblica sicurezza
esercitate dall’autorità di polizia. Di conseguenza, il d.lgs. n. 215/2003 non
può essere utilizzato per contrastare eventuali fenomeni o episodi di ‘ethnic
profiling’. Tuttavia, il d.lgs. n. 215/2003 non ha abolito le pre-esistenti norme
anti-discriminatorie contenute nel T.U. sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/98 e
successive modifiche); al contrario, l’art. 2 comma 2 del decreto n. 215/2003
fa salve le disposizioni dell’art. 43 del T.U. che impongono un divieto
generale di non-discriminazione, anche ai pubblici ufficiali, inclusi dunque
gli agenti di polizia, come si evince in particolare dalla lettura del comma 2
: “In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale
o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio
di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta
atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua
condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione,
etnica o nazionalità, lo discriminino ingiustamente”. Tale proibizione protegge dalla discriminazione
non solo i cittadini stranieri, ma anche quelli italiani (comma 3). Alla
mancanza nella normativa attuativa della direttiva europea di una norma
abrogativa o modificativa in peius delle disposizioni preesistenti del T.U. sull’immigrazione, ed anzi
alla previsione di una norma di salvaguardia delle medesime, deve aggiungersi
pure il riferimento alla
previsione contenuta nella direttiva europea di una clausola di non regresso
(punto 25 dei considerando e art. 6.2 del testo): “L’attuazione della
presente normativa non può servire da giustificazione per un regresso rispetto
alla situazione preesistente in ciascuno Stato membro”. Di conseguenza non sussistono dubbi che comportamenti, atti, provvedimenti di “ethnic
profiling” compiuti dalle
autorità di pubblica sicurezza possono essere sanzionati in Italia ai sensi
della normativa anti-discriminazione di cui al T.U. sull’immigrazione ed essere
quindi oggetto di un’azione civile contro la discriminazione prevista dall’art.
44 del D.lgs. n. 286/98.
“Ethnic profiling”,
“ronde” notturne leghiste e norme anti-discriminazione.
Tali considerazioni, peraltro, sono valide anche in quelle situazioni in
cui gruppi privati, più o meno organizzati, e politicamente sponsorizzati, predispongono attività
“volontarie” di vigilanza e controllo del territorio, con l’asserita motivazione
di contribuire in questo modo
al contrasto delle attività criminose quali furti o rapine
nelle ville. Dai resoconti pubblicati sulla stampa nazionale relativamente al
concreto svolgimento di tali “ronde” notturne organizzate e praticate in particolar modo da appartenenti ed
affiliati alla Lega Nord, emerge chiaramente come tali gruppi
individuino come target individui o persone etnicamente caratterizzate
(stranieri di colore, appartenenti a gruppi Rom), le cui attività e movimenti
vengono spiati e monitorati sulla base di un’
evidente operazione di ‘ethnic profiling’. [23]
Appare ragionevole concludere dunque che
tali condotte determinino un’interferenza arbitraria con il diritto alla
privacy e al rispetto delle vita privata
degli individui in
quanto non sono regolate ovviamente da alcuna norma di legge e vengono
applicate in maniera discriminatoria, avendo come fondamento del loro concreto svolgimento
stereotipi e pregiudizi etnico-razziali. Si potrebbe dunque affermare che tali
“ronde notturne” fondino una
presunzione di comportamento discriminatorio su basi etnico-razziali , che
probabilmente giustificherebbe l’attivazione di azioni giudiziarie civili
contro la discriminazione ex artt. 43 e
44 del T.U.
Come si vede, non mancano spazi e riflessioni per l’avvio nel nostro
paese anche sulla questione dell’”ethnic profiling” di possibili cause pilota o forme di strategic
litigation. Un’opportunità
che la società civile anti-razzista e le organizzazioni in difesa dei diritti
dei migranti dovrebbero
cogliere, consapevoli dei
gravi rischi per la democrazia e la coesione sociale che il quotidiano stillicidio di comportamenti e episodi di ethnic
profiling vengono a
comportare, creando
risentimenti e sentimenti di esclusione sociale, alimentando e diffondendo la
criminalizzazione sociale di intere
categorie di persone mediante stereotipi e pregiudizi fondati su
presunte associazioni tra attività criminose e appartenenze etnico-razziali,
senza per questo condurre ad una più efficacia azione di repressione e
prevenzione del crimine, che anzi richiede innanzitutto
una maggiore co-operazione da parte delle comunità etniche con
l’apparato giudiziario e di sicurezza e dunque un atteggiamento di reciproca fiducia e rispetto, che invece
l’ethnic profiling non
contribuisce certo a
generare.
Walter Citti
POSSIBILI ESEMPI PRATICI DI ETHNIC-PROFILING
|
2.
Mass-media, discriminazioni e xenofobia.
Una riflessione sull’uso degli
stereotipi etnici da parte degli organi di informazione.
E’ con grave preoccupazione e sconcerto che stiamo assistendo da tempo,
ma in particolare nell’ultimo periodo, ad un inquietante aumento di espressioni
ed atteggiamenti xenofobi e discriminatori negli organi di informazione.
Significativo è il racconto relativo al
drammatico fatto di cronaca avvenuto a Roma allorché all’interno della metropolitana
una ragazza è morta a seguito di un colpo di ombrello infertole in un occhio da
parte di una delle due ragazze con le quali era scoppiato un diverbio. Le due
ragazze, dileguatesi dopo il fatto, sono state rintracciate e arrestate con
l’accusa di omicidio. Pochi giorni dopo in occasione dei funerali dei funerali
della ragazza, molti dei presenti,
hanno pronunciato dure invettive nei confronti non solo delle due
ragazze coinvolte, ma dell’intera popolazione romena (le due ragazze accusate
di omicidio sono rumene) e di quella straniera in genere.
Alla luce di quanto è accaduto, l’atteggiamento tenuto dagli organi di
informazione che hanno dato notizia di questi fatti risulta sconcertante. E’
infatti evidente che dell’accadimento si sarebbe potuta dare una versione
corretta e veritiera senza
rimarcare ed evidenziare a più riprese l’origine nazionale delle due ragazze.
Già nei giorni immediatamente seguenti
all’incidente, ancora prima che le persone venissero arrestate dalla polizia, i
mezzi di informazione parlavano della probabile nazionalità delle due (indicate
prima come Rom, poi come donne dell’Est Europa, forse Rumene), come se si
trattasse di un dato necessario per una migliore rappresentazione di quanto
accaduto.
Si deve dire che così non era: è infatti
innegabile che per un avere corretto “identikit”
fosse necessario evidenziare genere, età, corporatura, capigliatura,
abbigliamento, perfino il colore della pelle, delle fuggitive; altrettanto non
può dirsi però per quanto riguarda la nazionalità, trattandosi di un
elemento palesemente privo di una sua configurazione somatica “visibile”,
perciò del tutto superfluo per la descrizione delle ragazze, e assolutamente
non inerente alla modalità tragica secondo la quale si erano svolti i fatti.
Si è tratto spunto da uno degli ultimi fatti
di cronaca, perchè risulti evidente la prassi, tipica ormai di gran parte degli
organi di informazione nostrani, di presentare ogni fatto rientrante nella
cosiddetta “cronaca nera” rimarcando in modo
ossessivo l’origine nazionale delle persone coinvolte in quei casi in cui
l’autore del crimine non sia un italiano.
Tale atteggiamento giornalistico è contrario
al Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali
nell'esercizio dell'attività giornalistica, in particolare all’articolo
5, in quanto è evidente che il principio di essenzialità
dell’informazione non viene rispettato in tutti quei
casi in cui per descrivere un fatto si tiene conto di elementi non solo
superflui, ma del tutto estranei, secondo un punto di vista
logico-consequenziale, rispetto al fatto stesso.
In secondo luogo, la normativa antirazzista
(sulla quale peraltro si basa l’art. 9 del Codice dell’Ordine, relativo
al divieto di discriminazione), non esclude certo
dall’ambito dei dati sensibili oggetto di tutela l’elemento della origine
nazionale, quando la pratica di classificare secondo la loro appartenenza
nazionale gli individui, per di più accostandoli in maniera sistematica ed
automatica ad eventi negativi, divenga il viatico per la diffusione in seno
alla società di pensieri, comportamenti ed atteggiamenti fondati sulla
discriminazione e l’intolleranza.
Si considera infatti razzismo quel fenomeno
per cui una persona, prima ancora che per i suoi meriti e demeriti, viene
giudicata per lo Stato da cui proviene, per la sua razza o per l’etnia a cui
appartiene.
E’ del tutto evidente la sempre maggiore
importanza dei media nel processo di formazione delle persone ai concetti di
tolleranza e di non discriminazione.
E’ infatti innegabile (alla luce di una
purtroppo sempre più diffusa mentalità popolare, che peraltro subisce
un’indubbia influenza proprio da parte dei mass media) che l’origine razziale, la provenienza nazionale, etnica, religiosa,
da molti non sono più considerate come elementi propri di culture diverse, che
in quanto tali non andrebbero considerati né migliori, né peggiori rispetto a
quelli tipici della propria, bensì
come segni distintivi dei due grandi sottoinsiemi “qualitativi” in cui
dividere l’intera società: gli Italiani e gli immigrati, o, più semplicemente,
i “nostri” e i “loro”.
In altri termini, la prassi di
caratterizzare i soggetti coinvolti in fatti delinquenziali tramite il ricorso
alla loro origine nazionale sortisce progressivamente l’effetto di far
percepire come negativo un dato che invece dovrebbe sempre più, in una ottica
di progressiva convivenza dei popoli, rivestire carattere del tutto neutro.
C’è da chiedersi se è proprio questo che si
vuole ottenere: che il semplice fatto di non essere cittadino italiano divenga
nell’immaginario collettivo sinonimo di disvalore.
Si sottolinea come la Commissione Europea contro il Razzismo e
l’Intolleranza (ECRI), nel suo terzo Rapporto sull’Italia, esaminando i vari
ambiti di applicazione della normativa antidiscriminazione, avendo già preso atto in precedenza che alcuni
settori dei media hanno continuato a riferire episodi riguardanti immigrati utilizzando stereotipi e
titoli sensazionali, abbia adottato le seguenti specifiche “RACCOMANDAZIONI”: “L’ ECRI incoraggia le autorità italiane a
rendere partecipi i media, senza interferire con la loro indipendenza
redazionale, della necessità di garantire che quanto riferiscono non
contribuisca a creare un’ atmosfera di ostilità e di rifiuto nei confronti di
membri di qualsiasi minoranza, ivi compresi gli extracomunitari, i Rom, i Sinti
e i mussulmani. L’ECRI raccomanda alle autorità italiane di avviare un
dibattito con i media e con membri degli altri gruppi interessati della società
civile sulle migliori modalità per
ottenere risultati positivi in questo campo”.
E’ assolutamente prioritario che la stessa categoria dei giornalisti,
proprio in funzione del compito così vitale da loro svolto, recuperi immediatamente e con vigore quei valori di correttezza
informativa e di non discriminazione che sono il fulcro portante e
irrinunciabile della loro attività. In questo senso un nuovo e più pregnante
codice deontologico risulta non solo fortemente auspicabile ma necessario,
proprio al fine di rendere effettiva la salvaguardia di tali principi.
Ma è tutta la società civile che deve trovare la forza di opporsi e
reagire con ogni mezzo a questa deriva informativa che, ben oltre il dato di
violazione normativa, rappresenta una ferita gravissima inferta ai principi di
uguaglianza e rispetto della dignità della persona umana che sono
imprescindibili in una società democratica.
a cura di Alessandro Maiorca, collaboratore ASGI
I riferimenti normativi ORDINE DEI GIORNALISTI Codice
deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio
dell'attività giornalistica ai sensi dell'art. 25 della legge 31 dicembre
1996, n. 675 Articolo 5 1. Nel raccogliere dati personali atti a rivelare origine
razziale ed etnica, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere,
opinioni politiche, adesioni a partiti, sindacati, associazioni o
organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale,
nonché dati atti a rivelare le condizioni di salute e la sfera sessuale, il
giornalista garantisce il diritto all'informazione su fatti di interesse
pubblico, nel rispetto dell'essenzialità dell'informazione, evitando riferimenti a
congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti. Articolo 9 1. Nell'esercitare il diritto-dovere di cronaca, il
giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona alla non
discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni personali,
fisiche o mentali. |
3.
No alla discriminazione degli studenti stranieri
nelle elezioni universitarie. L’ASGI scrive al Rettore dell’Università di
Bergamo.
In occasione delle elezioni universitarie del
16-17 maggio, sulla base di una norma del Regolamento Studenti dell’Università
di Bergamo, gli studenti stranieri sono stati inizialmente esclusi dalla
condizione di eleggibilità alla posizione di rappresentante degli studenti
negli organi di ateneo. L’esclusione dei candidati è successivamente rientrata
dopo un intervento del Ministro per la Ricerca e l’Università. L’ASGI chiede la
modifica della norma con la cancellazione di ogni clausola discriminatoria e
segnala il caso all’UNAR.
Di
seguito il testo della lettera dell’ASGI.
Servizio di Supporto Giuridico contro
le discriminazione etnico-razziali e religiose
Chiar.mo Prof. Alberto Castoldi
Rettore dell’Università di Bergamo
Università di Bergamo
OGGETTO: Elezione dei rappresentanti degli studenti negli organi
di ateneo. Contenuti discriminatori della norma contenuta nel Regolamento
Studenti.
Chiar.mo Prof. Castoldi,
Le scrivo a nome dell’A.S.G.I. (Associazione per gli
Studi Giuridici sull’immigrazione), un network di circa 200 tra avvocati e
consulenti legali che in tutta Italia si occupano dello studio delle problematiche giuridiche attinenti alla
condizione degli immigrati e dei richiedenti asilo nel nostro Paese.
Il nostro Servizio per il contrasto alle discriminazioni etniche, razziali
e religiose è sorto per monitorare
l’attuazione nel nostro paese della normativa antidiscriminatoria di cui agli
art. 43 e 44 del T.U. delle norme sulla condizione giuridica dello straniero
(D. lgs.n. 286/98 e successive modificazioni) e ai d. lgs. nn. 215 e 216/2003,
attuativi delle direttive comunitarie, rispettivamente n. 43/2000/CE e n. 78/2000/CE. Il Servizio partecipa al progetto europeo LEADER
nell’ambito del programma europeo EQUAL II.
Abbiamo appreso dalla stampa nazionale che, in vista
delle elezioni dei rappresentanti
degli studenti in seno agli organi di autogoverno dell’Università di Bergamo, i
candidati di nazionalità straniera, benché regolarmente iscritti all’Università di Bergamo, sono stati
inizialmente esclusi dalla competizione, per decisione del competente ufficio
elettorale. Questo in applicazione della norma contenuta nel Regolamento degli
Studenti, entrato in vigore con del Decreto rettoriale dd. 27 marzo 2007, e poi confermata nel
decreto rettoriale di indizione delle elezioni dd. 6 aprile 2007, la quale, subordinando lo stato di
eleggibilità ad apposita dichiarazione dello studente candidato che attesti il
godimento dei diritti politici, è
di fatto suscettibile di escludere gli studenti stranieri dal corpo degli eleggibili,
essendo noto che i cittadini stranieri non godono nel nostro paese dei diritti
politici in virtù della limitazione costituzionale di cui all’art. 48 della
Cost.
Il nostro Servizio esprime perplessità e serie riserve giuridiche circa
la legittimità della norma in oggetto, ritenendo che essa fondi una
discriminazione basata
sull’origine nazionale in
contrasto con l’ art. 2 c. 2, l’art. 39 c. 1 e l’art. 43 del d.lgs. n. 286/98 (art. 2 c. 2: “Lo
straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti
in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni
internazionali in vigore per l’Italia e il presente testo unico dispongano
diversamente […]”; art. 39
c. 1: “In materia di accesso all’istruzione universitaria e di relativi
interventi per il diritto allo studio è assicurata la parità di trattamento tra
lo straniero e il cittadino italiano, […]; art. 43 c. 1: “Ai fini del presente capo, costituisce
discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti
una distinzione, esclusione, restrizione, o preferenza basata sulla razza, il
colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le
pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di
compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di
parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico,
economico , sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.)
Si rileva, infatti, che le istituzioni nelle quali si esprime
l’autogoverno e l’autonomia universitaria (Consiglio di amministrazione, Senato
accademico, Consigli di Facoltà,…) non partecipano all’esercizio della
sovranità politica e, dunque, della rappresentanza politica. Di conseguenza, non
sussiste alcuna ragione per invocare le norme costituzionali sui rapporti
politici (art. 48 e seguenti
Cost.) ai fini della determinazione del requisito di eleggibilità dei
rappresentanti degli studenti in seno a tali organismi, e, dunque, potenzialmente escludere l’eleggibilità degli studenti
stranieri.1
D’altro canto, in nessuna delle norme riferite all’autonomia degli
Atenei italiani e all’organizzazione del Ministero dell’Università e della
Ricerca Scientifica (L. 168/1989) viene precisato un requisito di cittadinanza
per la rappresentanza degli studenti negli organi di ateneo, ma si fa soltanto
riferimento alla categoria di “studenti” in generale.
Si ravvisa, pertanto, come non sussista alcuna norma nell’ordinamento
italiano su cui possa fondarsi l’esclusione degli studenti stranieri dalla
condizione di eleggibilità alla posizione di rappresentante degli studenti in
seno agli organi di autogoverno universitari .
Al contrario, si rammentano le norme già citate all’inizio che
equiparano pienamente i cittadini
stranieri regolarmente soggiornati (e dunque anche gli studenti stranieri) ai
cittadini italiani con riferimento ai diritti in materia civile (art. 2 c. 2
d.lgs. n. 286/98), così come all’accesso all’istruzione universitaria e al
diritto allo studio, nonché impongono a tutti, soggetti pubblici e privati, il
rispetto di una clausola generale di non–discriminazione, diretta o
indiretta, per ragioni di razza, colore, ascendenza o origine nazionale
o etnica, convinzioni o pratiche religiose, nei confronti di cittadini
stranieri, ma anche italiani o apolidi (art. 43 d.lgs. n. 286/98).
Per quanto concerne gli studenti di Stati membri dell’Unione Europea
soltanto, va aggiunto che la loro
potenziale esclusione dalla condizione di eleggibilità dalla posizione di
rappresentanti degli studenti
appare in violazione del
divieto generale di non-discriminazione contenuto nell’art. 12 del Trattato
sulla Comunità Europea.
E’ evidente, a nostro avviso, che la norma contenuta nel Regolamento
Studenti dell’Università di Bergamo viola le disposizioni citate, introducendo
una illegittima discriminazione diretta a danno degli studenti stranieri
regolarmente iscritti all’Università di Bergamo, ma impossibilitati, almeno
sulla base di un’interpretazione letterale della norma, ad essere eleggibili alla posizione di
rappresentanti degli studenti in senso agli organi di autogoverno
dell’Università.
A nulla varrebbe l’eventuale richiamo all’autonomia ordinamentale ed
organizzativa dell’Università, in quanto la legislazione statuale, e
dunque il principio di eguaglianza
di trattamento e non discriminazione contenuto nel d.lgs. n. 286/98,
costituisce un limite insuperabile a detta autonomia universitaria, in virtù
del precetto costituzionale di cui all’art. 33 della Costituzione, ultimo
comma: “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il
diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello
Stato”2 (sottolineatura nostra).
L’ASGI con la presente rammenta, inoltre, che la Corte Costituzionale con sentenza n.
432/2005 ha avuto già modo di
chiarire che ogni trattamento differenziato tra italiani e stranieri che una
norma voglia introdurre ai fini
dell’ammissione ad un beneficio deve rispondere a criteri di ragionevolezza da
valutarsi in relazione alle finalità e funzioni della norma medesima e degli
istituti cui essa si riferisce. 3
Nel caso in questione, gli organi di autogoverno dell’Università non
esercitano competenze che incidano sulla rappresentanza politica e la sovranità
popolare, bensì quelle collegate
alla programmazione e al coordinamento delle attività didattiche e di ricerca
(Senato accademico), alla gestione amministrativa, finanziaria e patrimoniale
dell’Ateneo (Consiglio di Amministrazione), cioè funzioni che incidono sulla
vita quotidiana e l’attività formativa di tutti gli studenti iscritti e,
per tale ragione, gli studenti sono chiamati a partecipare a tali organismi
eleggendo i propri rappresentanti. L’istituto della rappresentanza studentesca
ha lo scopo dunque di consentire agli studenti di disporre degli strumenti per
difendere e rappresentare i propri interessi e non si vede dunque una ragione
logica e razionale per introdurre una limitazione alla loro eleggibilità
passiva fondata sul criterio di nazionalità, che finirebbe per escludere gli
studenti stranieri da una tale prerogativa, nel momento in cui essi sono parte
integrante del corpo degli
studenti iscritti, in condizioni di parità di diritti e di doveri con gli
studenti italiani. Tale irragionevolezza della distinzione tra studenti
stranieri e italiani in merito alle regole sulla rappresentanza si palesa anche con riferimento all’elezione del rappresentante
degli studenti nel Comitato Regionale per il Diritto allo Studio, organo
consultivo per l’attuazione a livello universitario del diritto allo studio e
degli interventi regionali in materia (L. R. Regione Lombardia n. 33, art. 6) .
La normativa nazionale sulla condizione giuridica dello straniero ha, infatti, stabilito
esplicitamente il principio della
parità di trattamento tra lo straniero ed il cittadino italiano in materia di
accesso all’istruzione universitaria e di relativi interventi per il diritto
allo studio (art. 39 c. 1 D.lgs. n. 286/98). Non si vede pertanto come ci possa
essere un nesso logico di
ragionevolezza tra il godimento dello studente straniero di una piena
eguaglianza di trattamento in materia di diritto allo studio e la sua
esclusione dall’eleggibilità negli organi aventi poteri e funzioni consultive
nella medesima materia.
L’istituto della rappresentanza studentesca in seno agli organi di
ateneo - per essere ragionevole e coerente rispetto i propri scopi e funzioni
ed in relazione anche agli scopi e le funzioni di tali organi medesimi –
deve essere dunque necessariamente collegato a principi
universalistici fondati sul concetto della “cittadinanza studentesca”. La
rappresentanza studentesca, dunque, non può che essere estesa a tutti gli studenti regolarmente
iscritti, senza distinzione di nazionalità, pena la violazione, oltrechè della
citata normativa anti-discriminatoria, anche dei principi
costituzionali di eguaglianza e di
ragionevolezza richiamati dalla citata sentenza dalla Corte Costituzionale.4 Si desume da tale sentenza che tali
principi di eguaglianza a ragionevolezza assurgono al ruolo di criterio
interpretativo valido innanzi ad ogni norma che preveda una disparità di
trattamento, anche in ambiti non necessariamente correlati ai diritti
fondamentali, divenendo ulteriore metro in base al quale misurare l’ammissibilità
o meno di provvedimenti od iniziative pubbliche.
Si è
peraltro appreso che, probabilmente anche a seguito del parere espresso
dal Ministero per la Ricerca e l’Università, gli studenti stranieri candidati alle elezioni per gli
organi di autogoverno universitari sono stati alla fine riammessi alla competizione elettorale
sulla base di un’interpretazione della norma in oggetto del Regolamento
Studenti per cui il requisito del
godimento dei diritti politici verrebbe per loro interpretato come riferito al
paese di origine anzichè all’Italia. Si riconosce come una tale “creativa”
soluzione interpretativa possa
nell’immediato ovviare ai problemi che si erano posti e consentire,
probabilmente, un normale svolgimento della competizione elettorale. Tuttavia,
si ritiene che essa, sotto un profilo prettamente giuridico, non appaia
soddisfacente per le seguenti ragioni:
a)
trattandosi di
un intervento meramente interpretativo della norma contestata, che rimane
pertanto inalterata, la discriminazione posta da quest’ultima potrebbe
ripresentarsi in futuro in presenza di una difforme volontà “politica” degli
organi accademici;
b)
l’interpretazione
fornita è, peraltro, ancora suscettibile di determinare una discriminazione per
origine nazionale a danno di talune categorie di studenti non in possesso dello
status civitatis italiano
e, specificatamente, gli apolidi, cioè coloro che non sono in possesso di
alcuna cittadinanza, e dunque non godono dei diritti politici né in Italia né
in un altro paese, e i rifugiati politici ai sensi della Convenzione di Ginevra
del 1951, i quali non possono rivolgersi alle autorità consolari del proprio
paese di origine in Italia per ottenere la dichiarazione di godimento dei
diritti politici per un evidente
timore di persecuzione per sé o per i propri familiari eventualmente rimasti
nel paese di origine; né possono rilasciare un’autocertificazione in ragione
di quanto previsto dall’art. 2 c.
1 e 2 del d.P.R. 31.08.1999, n. 394, per cui i cittadini stranieri regolarmente
soggiornanti in Italia possono rilasciare dichiarazioni sostitutive solo per i
fatti, stati e qualità certificabili o attestabili da parte di soggetti
pubblici o privati italiani.
c)
la norma, anche
così interpretata, rimane priva di un contenuto di ragionevolezza perché
subordina il diritto alla rappresentanza e all’eleggibilità negli organi di
autogoverno universitario e in quelli consultivi in materia di diritto allo
studio al requisito del godimento dei diritti politici in un paese estero,
senza che vi siano un nesso logico e razionale tra tale requisito e gli
obiettivi e le funzioni tanto
dell’istituto della rappresentanza studentesca quanto degli organi medesimi.
Per tali ragioni, si raccomanda alle autorità
accademiche competenti (Senato Accademico) dell’Università di Bergamo di
addivenire quanto prima ad una modifica del Regolamento Studenti che determini
il venire meno di qualsiasi forma di discriminazione in base alla cittadinanza
per quanto concerne la rappresentanza e l’ eleggibilità degli studenti negli organi
di ateneo e per il diritto allo studio, mediante l’affermazione del principio
consolidato della “cittadinanza studentesca”, spettante a tutti gli studenti iscritti regolarmente
iscritti senza distinzione di nazionalità.
Si trasmette la presente segnalazione
all’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni), presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri- Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità
affinché anch’esso possa, eventualmente e se lo ritiene opportuno, formulare
una raccomandazione ed un parere in merito, avvalendosi delle prerogative
assegnateli dall’art. 7 c. 2 lett. b) e e) del D.lgs. n. 215/2003.
Certi dell’attenzione che Vorrà
porre alla presente, cogliamo l’occasione per porgerLe i nostri più cordiali
saluti.
p. l’ASGI
Servizio di Supporto Giuridico
Contro le Discriminazioni
Dott. Walter Citti
GIURISPRUDENZA NAZIONALE
Suprema Corte di Cassazione,
Sezione Terza Penale, sentenza 8 marzo 2007, n. 9793: "Manifestazioni
agonistiche ed esibizione di emblemi o simboli di organizzazioni razziste o
nazionaliste".
Con
la sentenza n. 9793 dd. 8 marzo 2007, la Corte di Cassazione ha confermato come
sussista il reato di cui all'art. 2, comma 2, della legge 25 giugno 1993 n.
205, laddove chi accede a luoghi dove si svolgano manifestazioni agonistiche
rechi con se emblemi o simboli di gruppi o associazioni razziste, nazionaliste
e simili, sebbene non iscritto a tali gruppi o associazioni, perché anche in
quest'ultimo caso ricorre lesione del bene penalmente tutelato.
Il testo dell’art. 2 commi 1 e 2 della legge n. 205/1993: 1.
Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti
emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni,
movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre
1975, n. 654 , è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e
con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila . 2.
È vietato l'accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle
persone che vi si recano con emblemi o simboli di cui al comma 1. Il
contravventore è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno. Nota: Art. 3 L. 13.10.1975, n.654: “È vietata ogni
organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi
l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali,
etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni,
associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è
punito, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza, con la reclusione
da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali
organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo,
con la reclusione da uno a sei anni”. |
Il testo della
sentenza
LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Signori:
Dott. Enrico PAPA Presidente
Dott. Pierluigi ONORATO (est.) Consigliere
Dott. Alfredo TERESI Consigliere
Dott. Margherita MARMO Consigliere
Dott. Antonio IANNIELLO Consigliere
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto per L.G. nato a Tivoli il 4.9.1972, avverso la ordinanza
resa il 12.2.2006 dal g.i.p. del tribunale di Roma.
Visto il provvedimento denunciato e il ricorso,
Udita la relazione svolta in camera di consiglio dal consigliere Pierluigi
Onorato,
Letta la requisitoria del pubblico ministero in persona del sostituto
procuratore generale Vito D'Ambrosio, che ha concluso chiedendo il rigetto del
ricorso,
Osserva:
Svolgimento del procedimento
1- Con ordinanza del 12.2.2006 il g.i.p. del tribunale di Roma ha convalidato
il provvedimento emesso dal questore romano in data 6.2.2006, nella parte in
cui, ai sensi dell'art. 6 della legge 13.12.1989 n. 401, imponeva a G. L. di
comparire personalmente innanzi al Commissariato PS di Tivoli trenta minuti
dopo l'inizio del primo tempo, trenta minuti dopo l'inizio del secondo tempo e
venti minuti dopo il termine di ogni incontro di calcio disputato dalla squadra
della Roma per la durata di tre anni (così ridotta la durata di cinque anni
stabilita nel provvedimento questorile).
In particolare, il giudice ha osservato che – secondo gli atti trasmessi
al suo ufficio – il L. era stato denunciato nel corso degli ultimi cinque
anni (e precisamente il 3.2.2006) per il reato di cui all'art. 5 legge 22.5.1975
n. 152 (uso in luogo pubblico o aperto al pubblico di caschi protettivi e di
qualsiasi altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della
persona) e per quello di cui all'art. 2, comma 2, della legge 25.6.1993 n. 205
(uso di simboli propri delle organizzazioni razziste o nazionaliste), perché
aveva assistito alla partita di calcio disputata il 29.1.2006 tra le squadre di
Roma e Livorno, parzialmente travisato ed esponendo una bandiera con l'effige
di Benito Mussolini e col fascio littorio.
2 – Il difensore di L. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre
motivi a sostegno.
In particolare lamenta:
2.1 – Violazione del diritto di difesa, giacché l'interessato aveva avuto
a disposizione un lasso di tempo troppo ristretto per poterlo esercitare.
Infatti, il provvedimento questorile gli era stato notificato il giorno
10.2.2006 alle ore 11.30, il pubblico ministero ne aveva chiesto la convalida
il giorno 11.2.2006 e il g.i.p. aveva provveduto il giorno 12.2.2006
(domenica), senza far certificare l'ora del deposito, che peraltro era
anteriore alle 15.26 (ora in cui era stato spedito alla questura il fax per la
notifica del provvedimento stesso);
2.2 – violazione e falsa applicazione dell'art. 2, comma 2, della legge
25.6.1993 n. 205, perché il reato previsto in questa norma – secondo la
giurisprudenza – presuppone che chi fa uso degli emblemi e simboli
vietati appartenga concretamente a un'organizzazione dedita allo incitamento
alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali. Poiché questo
presupposto non emergeva dal fascicolo, il giudice non poteva convalidare la
misura di prevenzione;
2.3 – violazione dell'art. 6 commi 1 e 2, legge 401/1989. Sostiene il
difensore che l'obbligo di presentarsi all'autorità di PS: a) è illegittimo
perché, facendo riferimento anche alle partite amichevoli giocate dalla Roma,
manca del necessario requisito di specificità, posto che non esiste un
calendario ufficiale delle partite amichevoli; b) è inoltre eccessivamente
vessatorio laddove impone un "triplo" obbligo di firma (cioè durante
il primo tempo, durante il secondo e dopo la fine della partita) anche per le
partite giocate dalla Roma fuori sede.
Motivi della decisione
3 – In ordine alla prima censura (n. 21), va osservato che il
provvedimento questorile era stato effettivamente notificato alle ore 11.30 del
10.02.2006 e che l'ordinanza di convalida è stata emessa verosimilmente nelle
ore antimeridiane del 12.2.2006, comunque molto oltre il termine di 24 ore, che
la costante giurisprudenza di questa corte ritiene ormai sufficiente per
consentire all'interessato l'esercizio del diritto di difesa.
La censura è quindi infondata.
4 – Neppure la seconda doglianza (n. 2,2) può essere accolta.
Premesso che un presupposto della misura di prevenzione di cui trattasi è la
denuncia o la condanna per uno dei reati elencati nell'art. 6 comma 1, legge
401/1989, tra i quali è compreso sia il reato previsto dall'art. 5 della legge
22.5.1975 n. 152, sia il reato previsto dall'art. 2, comma 2, della legge 25.6.1993
n. 205, è evidente che basta la denuncia o la condanna per uno di questi ultimi
reati per giustificare la misura stessa.
Orbene, neppure il difensore ricorrente contesta che il L. sia stato denunciato
per il reato di uso in luogo pubblico o aperto al pubblico di caschi protettivi
e di qualsiasi altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della
persona (art. 5 cit. della legge 152/1975). Sotto questo profilo, quindi, la
misura prevenzionale è indubbiamente legittima.
Si può però aggiungere che, secondo una interpretazione corretta del citato
art. 2, comma 2, della legge 205/1993, il reato ivi previsto sussiste quando
chi accede ai luoghi dove si svolgono manifestazioni agonistiche reca con se
emblemi o simboli di gruppi o associazioni razziste, nazionaliste e simili,
anche se non è iscritto a tali gruppi o associazioni, perché anche in
quest'ultimo caso ricorre evidentemente la lesione del bene penalmente
tutelato.
5 – Va infine disatteso l'ultimo motivo di ricorso (n. 2.3).
Citando una pronuncia di questa corte (Sez. III, n. 680 del 18.5.2005,
Sernicoli) il ricorrente sostiene che quando il questore vieta l'accesso alle
partite di calcio e prescrive l'obbligo di presentarsi all'autorità di P.S. in
concomitanza con dette partite, queste devono essere specificamente indicate
(ex art. 6, comma 1, ultimo periodo, legge 401/1989), ma non sono specificate
se il questore fa riferimento a tutte le partite amichevoli, posto che in tal
caso esse sono decise dalle stesse società calcistiche e non dalla F.I.G.C.
Conviene quindi tener presente l'argomentazione adottata sul punto della
sentenza Sernicoli, la quale ha osservato quanto segue:
"Al riguardo, occorre premettere che quando la norma di legge fa
riferimento alle manifestazioni sportive "specificamente indicate"
intende richiedere che queste siano non tanto individuate nominatim (cosa
normalmente impossibile) quanto piuttosto determinabili dal destinatario in
modo certo sulla base degli elementi di identificazione forniti nel provvedimento
e di elementi di fatto esterni al provvedimento ma generalmente noti, quali ad
esempio i calendari ufficiali dei campionati e dei tornei. In tal modo infatti
è ugualmente garantito lo scopo del legislatore, che è quello di rendere
determinato il divieto comportamentale per non esporre il destinatario a
divieti indeterminati che non sarebbe in grado di rispettare.
Alla luce di questo principio, si deve concludere che nel provvedimento
questorile de quo è legittimamente specificata l'indicazione delle manifestazioni
sportive laddove queste sono individuate negli incontri di calcio disputate (in
Italia o all'estero) dalle squadre della Roma e della Lazio nell'ambito dei
campionati e tornei nazionali e internazionali.
Manca invece una idonea specificazione laddove il provvedimento richiama anche
gli incontri di calcio amichevoli delle due squadre, giacché in tal caso i
destinatari dell'obbligo, pur essendo "tifosi" appassionati e
informati, possono non essere a conoscenza di tutti gli incontri amichevoli
disputati dalla squadra del cuore. Sottolinea sintomaticamente il ricorrente
che "il tribunale di Roma è intasato di sentenze di assoluzione perché i
sottoposti all'obbligo non si presentano a firmare in occasione delle
competizioni estive, organizzate all'ultimo istante contro sconosciute
rappresentative di categoria".
Insomma per gli incontri amichevoli, genericamente indicati, manca il requisito
della sicura determinabilità da parte del destinatario dell'obbligo; come anche
fa difetto quella esigibilità dell'obbligo, che la menzionata sentenza n.
512/2002 della Corte costituzionale impone al giudice di controllare in sede di
convalida del provvedimento questorile".
Orbene, re melius perpensa, osserva il collegio che: a ) va sicuramente
confermato il principio secondo cui la specifica indicazione delle
manifestazioni sportive deve essere intesa come sicura determinabilità della
stessa: b) il requisito della determinabilità delle manifestazioni vietate,
tuttavia, va verificato in concreto, caso per caso, e non può essere valutato
aprioristicamente in astratto.
Ciò significa che il divieto di accedere alle manifestazioni sportive, e
soprattutto l'obbligo strumentale (che interessa in questa sede) di presentarsi
a un ufficio di pubblica sicurezza in concomitanza con tali manifestazioni,
resta valido anche per le manifestazioni sportive amichevoli, quando queste
siano preventivamente e adeguatamente pubblicizzate, ferma sempre la
possibilità che nel processo di merito per la violazione dell'obbligo, prevista
come delitto dall'art. 6, comma 6, legge 401/1989, risulti che la
manifestazione sportiva amichevole non era concretamente conosciuta e
conoscibile dall'interessato, con la conseguente mancanza di responsabilità per
difetto di dolo.
In questo senso, il controllo sulla "esigibilità" dell'obbligo di
presentazione, menzionato dalla Consulta nelle sentenze 136/1998 e 512/2002, e
affidato al giudice della convalida, si traduce in un controllo sulla
"conoscibilità" dell'obbligo, in relazione alla concreta
manifestazione sportiva amichevole, affidato al giudice di merito.
In conclusione, anche le manifestazioni amichevoli sono predeterminabili, a
meno che si effettuino senza adeguata pubblicità e restino perciò ignote alla
sfera della tifoseria locale alla quale generalmente appartiene il destinatario
della misura di prevenzione.
Per conseguenza, il provvedimento restrittivo della libertà emesso nei
confronti del L. deve ritenersi legittimo anche sotto questo profilo.
6 – La ulteriore doglianza circa il carattere eccessivamente vessatorio
del triplo obbligo di presentazione e di firma per ogni partita di calcio,
attiene alla cennata esigibilità dell'obbligo . Ma deve essere disattesa,
giacché è la stessa legge, con il secondo comma del citato art. 6, a prevedere
l'obbligo di comparire personalmente "una o piu' volte negli orari
indicati" in relazione allo svolgimento della manifestazione sportiva.
Evidentemente il legislatore ha avuto presente la necessità di evitare facili
elusioni del divieto di accesso alle manifestazioni sportive, dove si può
esprimere la pericolosità del destinatario della misura, prevedendo la
possibilità che l'obbligo di presentazione, che è strumentale a quel divieto,
possa essere plurimo al fine di assicurare il raggiungimento del suo scopo.
7 – In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p. consegue la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali . Considerato il contenuto del ricorso, non si ritiene
di irrogare anche la sanzione pecuniaria che detta norma consente.
In conclusione , il ricorso deve essere respinto.
P.Q.M.
La Corte suprema di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 29.11.2006
Il Presidente
(Enrico Papa)
Il consigliere estensore
(Pierluigi Onorato)
DEPOSITATO IN CANCELLERIA l'8 marzo 2007
RAPPORTI E DOCUMENTI
Il Rapporto del Direttore Generale
dell’OIL, con sede a Ginevra, reso noto
e diffuso il 10 maggio scorso, fornisce un quadro su scala globale delle
discriminazioni nel mondo del lavoro, citando i progressi, ma anche i
fallimenti registrati nella lotta contro le discriminazioni, tanto quelle
tradizionali, di genere, fondate sulla razza, la religione, quanto quelle che
hanno messo piede più di recente, basate sull’età, l’orientamento sessuale, le
invalidità e le patologia da AIDS. Il Rapporto illustra molti casi concreti di
discriminazione fondate sulla razza, la religione, le origini sociali, così
come le discriminazioni che interessano i lavoratori migranti.
Il Rapporto può essere scaricato in lingua inglese, francese,
spagnola, tedesca o russa dal sito web:
SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE
1.
Rolla Giancarlo, Eguali, ma
diversi. Identita' ed autonomia secondo la giurisprudenza della Corte Suprema del Canada,
Giuffrè editore, 2006.
INDICE
|
2.
Marchei
Natascia, "Sentimento religioso" e bene giuridico. Tra
giurisprudenza costituzionale e novella legislativa, Giuffrè
editore, Milano, 2006.
INDICE |
SITI INTERNET
Sito internet
dell’Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose
L'Osservatorio delle libertà
ed istituzioni religiose (OLIR) contiene dati, informazioni,
riflessioni e idee su tutto ciò che riguarda il diritto e le religioni: in
Italia innanzitutto, ma anche in altri paesi. Esso non intende fornire soltanto
materiali giuridici, ma anche organizzare questi materiali in pagine dove essi
sono accompagnati da riflessioni, indicazioni bibliografiche, riferimenti per
ulteriori approfondimenti. L'obiettivo di OLIR è dunque quello di costituire
qualcosa di più di una semplice banca-dati: le leggi, le sentenze, i documenti
contenuti in questo sito costituiscono infatti il punto di partenza per un
percorso che consenta al lettore di ottenere un'informazione, sintetica ma
completa, sulla tematica a cui è interessato.
[1]
E.U. Network of Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling, Brussels, dec. 2006, pag. 9-10.
[2]
Tale definizione è proposta da J.
Goldston, Direttore esecutivo dell’Open Society Justice Initiative in Ethnic
profiling and counter-Terrorism: Trends, Dangers and Alternatives,
June 2006. L’organizzazione
Open Society Justice Initiative, con sede europea a Budapest, ha lanciato negli ultimi anni una serie di
iniziative e ricerche in diversi paesi europei, ed in particolare in Ungheria,
Spagna, Bulgaria e Regno Unito, per promuovere un dibattito ed un’azione di
contrasto verso tale fenomeno in Europa. Si veda in proposito il sito: www.justiceinitiative.org
[3] Per una discussione sull’ethnic
profiling
tratta dalla giurisprudenza canadese: “La definizione di profili etnici o
razziali si riferisce a quel fenomeno
per cui certe attività criminali sono associate ad un gruppo identificato nella società
in base al colore della pelle o all’appartenenza etnica, ciò risultando in una
pressione sproporzionata esercitata nei confronti degli appartenenti a tale
gruppo. In questo contesto, la razza è usata impropriamente ed
illegittimamente come fattore associato all’attività criminale o ad una
supposta propensione al crimine di
un intero gruppo etnico-razziale”; in R. v. Richards (1999), 26 C.R. (5th) 286
(Ontario, Canada), in E.U. Network on Indipendente Experts…, Ethnic
Profiling,
op. cit. , page 14. Ad esempio,
ricerche statistiche del Ministero dell’Interno della Gran Bretagna sulle
attività delle forze di polizia relativamente al fermo e
controllo delle persone nel periodo 2003-2004 mostrano che persone di
colore (Blacks) hanno una probabilità di sei volte maggiore di essere fermate e
controllate dalla polizia rispetto a persone di razza bianca, mentre le persone
di origine asiatica hanno una probabilità doppia rispetto ai ‘bianchi’, cfr. in
B. Hayes, A Failure to Regulate: Data Protection and Ethnic Profiling in the
Police Sector in Europe, in Justice Initiatives, June 2005, page 36. In Ungheria e
Bulgaria, una ricerca ha dimostrato che un passante di etnia Roma ha una
probabilità tre volte maggiore di essere sottoposto ad un controllo di polizia
di un passante di etnia non Rom; cfr. Open Society Justice Iniziative, I can
stop and search whoever I want. Police stops and ethnic
minorities in Bulgaria, Hungary and Spain, New Yord,
2007, disponibile sul web-site: www.justiceinitiative.org
[4] Marco Wong, Dove c’è il
confronto i problemi si superano, in La Repubblica/Metropoli, edizione del 6 maggio 2007,
pag. 11. L’esempio fornito dagli
studenti di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano mette in evidenza
ancora una volta la decisiva importanza dei “test situazionali” come strumento
di raccolta delle evidenze probatorie nei casi di discriminazione
etnico-razziale; importanza che è stata
di recente riconosciuta ed enfatizzata anche dall’UNAR nel suo rapporto
annuale, cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per i Diritti
e le Pari Opportunità, L’efficacia degli strumenti di tutela nel contrasto
alle discriminazioni razziali. Relazione 2006, Roma, pp. 42-48. Sull’uso e le caratteristiche dei test
situazionali si rimanda a W. Citti, I test situazionali come strumento di
prova delle discriminazioni. Esperienze europee a confronto, working paper a cura dell’ASGI, novembre
2006, scaricabile dal sito: http://www.leadernodiscriminazione.it/modules/contenuti/contents.php?id=75
[5] Si veda al riguardo la
testimonianza di Richard Keenan, ispettore di polizia del Regno Unito,
sull’esperienza nella stazione di
polizia del distretto di Leicestershire: “Era chiaro che la persistente molestia degli appartenenti
alle minoranze etniche da parte degli agenti di polizia avrebbe esacerbato le relazioni tra la
polizia e le comunità etniche senza risolvere le cause di fondo delle attività
criminali nel Leicester. Di conseguenza, il fermo ed il controllo delle persone
è usato di rado ed entro determinati parametri, nel quadro ed in base alle
concrete informazioni di intelligence
disponibili. La dimensione etnica, in altre parole, non è mai usata per
definire profili di intervento in Leicester […] Così facendo abbiamo sviluppato
un circolo virtuoso. Poiché abbiamo agito secondo le preoccupazioni della
comunità e abbiamo usato gli strumenti del fermo e del controllo delle persone
(stop and search) con intelligenza, abbiamo conquistato la fiducia di molti. Così la
comunità locale si è resa più disponibile ad impegnarsi con noi e fornirci
maggiori informazioni. Le informazioni di intelligence provenienti dalle
comunità etniche rappresentano il
30% delle informazioni di intelligence disponibili ai miei ufficiali di
polizia”, cfr. R. Keenan, Stop and Search: The Leicestershire Experience, in Justice Initiatives, op. cit., pagg. 82-87.
Altri esempi vengono citati nelle pubblicazioni specializzate sull’argomento.
Così nel 1999, il servizio doganale degli Stati Uniti rispose alle critiche di ethnic
profiling
nello svolgimento delle proprie attività, introducendo riforme nelle proprie direttive operazionali.
L’appartenenza razziale venne eliminata tra i fattori da considerare
nell’individuazione delle persone sospette, mentre maggiore enfasi venne posta
sui comportamenti tali da suscitare sospetto. L’anno successivo, i dati
dimostrarono che i controlli (perquisizione dei bagagli) erano diminuiti del
70%, ma il tasso di individuazione degli illeciti era cresciuto del 15%; cfr.
Ramirez Jennifer and Quinlan, Defining Racial Profiling in a Post- September
11 World, in
American Criminal Law Review 40, n. 3, pp. 1206.
Una pubblicazione dello
stesso Ministero dell’Interno del
Regno Unito (Home Office) suggerisce come “appaia sufficientemente comprovato
che lo studio del comportamento delle persone, unito ad una particolare enfasi
sulla raccolta di informazioni confidenziali (intelligence), fornisce maggiori
indicazioni ad un ufficiale di polizia sul probabile coinvolgimento di una
persona in attività criminali che concentrarsi soltanto sull’appartenenza
etnica”, cfr. Miller Bland Quinton, The Impact of Stops and Searches on
Crime and the Community, Home Office, Police Reasearch Series Paper , 127, 2000,
cit. in Open Society Justice
Iniziative, I can stop and search whoever I want, op. cit. p. 80.
[6] Per quanto concerne la
legislazione italiana, occorre citare l’art. 4 della legge di Pubblica
Sicurezza (T.U.L.P.S. . 773/1931: “L’autorità di pubblica sicurezza ha la
facoltà di ordinare che le persone pericolose o sospette e coloro che non sono
in grado o si rifiutano di provare la loro identità siano sottoposti a rilievi
segnaletici”, così come l’art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152: “In casi
eccezionali di necessità ed urgenza, che non consentono un tempestivo
provvedimento dell’autorità giudiziaria, gli ufficiali ed agenti della polizia
giudiziaria e della forza pubblica nel corso di operazioni di polizia possono
procedere, oltre che all’identificazione, all’immediata perquisizione sul
posto, al solo fine di accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi e
strumenti di effrazione, di persone il cui atteggiamento o la cui presenza, in
relazione a specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo non appaiono
giustificabili”. Per quanto
concerne la perquisizione dei locali e dei domicili privati durante operazioni
di polizia si veda anche quanto previsto dall’art. 25 bis d.l. 8.6.1992, n. 306
(conv. In l. 7.8.1992, n. 356), in base al quale, fermo restando quanto
previsto dalle disposizioni antimafia, gli ufficiali di polizia giudiziaria
possono procedere nei confronti di interi edifici o blocchi di edifici qualora
abbiano fondato motivo di ritenere che si trovino armi, munizioni od esplosivi
ovvero che sia rifugiato un latitante o un evaso in relazione a taluno dei
delitti indicati nell’art. 51 comma 3 bis c.p.p. ovvero a delitti con finalità
di terrorismo.
[7] Da citare anche il Codice
Etico Europeo del Consiglio d’Europa per le attività degli organi di polizia
che esplicitamente raccomanda che “la polizia svolga le sue funzioni in maniera
equa, guidata in particolare dai principi di imparzialità e non
discriminazione” , Raccomandazione
REC (2001) del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sul Codice Etico
Europeo di Polizia.
[8] Timishev v. Russia (Appl. N. 55762/00 e
55974/00), sentenza del 13 dicembre 2005 (depositata il 13 marzo 2006,
paragrafi 54-57).
[9] Corte Costituzionale della
Repubblica di Slovenia, sentenza U-I-152/03, 30 marzo 2006, pubblicata in
appendice a E.U. Network
of Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling, Brussels, dec. 2006, pp. 84-96. La decisione della Corte
Costituzionale slovena venne adottata sulla base del ricorso presentato
dall’Ombudsman sloveno, nel quale si specificava tra l’altro che “condurre una
procedura per l’identificazione di una persona in ragione soltanto della sua
apparenza esteriore implica spesso un’immotivata interferenza con la libertà di
un individuo che rispetta l’ordine legale, e tale interferenza non è
necessariamente efficace dal punto
di vista della prevenzione e dell’individuazione di attività criminose […] il
sospetto che una persona perpetrerà, sta perpetuando, o ha perpetuato un
crimine o un delitto deve basarsi su circostanze obiettive, deve avere un
fondamento concreto e non deve essere invece basato soltanto sulle
caratteristiche esteriori di un individuo, o su opinioni condizionate da
stereotipi per cui appartenenti a determinati gruppi sarebbero maggiormente
inclini ad attività criminali”.
[10] Conseil
Constitutionnel , Décision 5.8.1993, AJDA 1993 p. 815, note Wachsman) ;
cit. in cfr. Université de Rouen, Cours en matière de libertés
fondamentales 2006-2007, pag.
144, disponibile sul sito: www.univ-rouen.fr
[11] Decisione
sull’illegalità degli accertamenti effettuati su un tunisino in un caffébar ,
giustificato dagli ufficiali di polizia
in ragione degli atti di vandalismo e le aggressioni verificatesi in
quel quartiere e i cui autori sarebbero soliti trovare rifugio negli esercizi
pubblici somministranti bevande
posti nelle vicinanze, cit. in Université de Rouen, Cours en matière de
libertés fondamentales 2006-2007, pag. 144, disponibile sul
sito: www.univ-rouen.fr
[12] No. B1128/02, del 9 ottobre 2003,
Raccolta n. 17017, cit. in E.U. Network of Independent Experts on Fundamental
Rights, Ethnic Profiling, op.cit., pp. 45-46. Nell’esperienza austriaca in materia di ‘ethnic
profiling’,
va segnalato pure il caso
riportato dai media nella primavera dal 2005, quando, a seguito di una seria di
brutali rapine compiute ai danni di postini da due uomini di colore, il
Dipartimento per le investigazioni criminali del Ministero dell’Interno
diramò una direttiva interna
indirizzata a tutti gli ufficiali di polizia, con la quale veniva data
istruzione di fermare per accertamenti ed identificazione tutti i neri africani
che venissero trovati in luogo pubblico in coppia. A seguito di una critica
pubblica espressa in particolare da Hanz Meyer, un rispettabile professore di
diritto pubblico all’Università di Vienna, che affermò il carattere
discriminatorio del provvedimento, la direttiva venne ritirata e sostituita con
un’altra, in cui si precisò che il fermo non doveva riguardare tutte le coppie
di neri africani, bensì solo quelle che rispondevano ad un più circostanziato
identikit in termini di età, altezza, corporatura, abbigliamento, cfr. Kurier of 9 March 2005, p. 12; Falter
volume
11/05, p. 15, cit in E.U. Network of Independent Experts on Fundamental Rights,
Ethnic Profiling, op.cit., pp. 48.
[13] The Queen v. Campbell, Court of Quebec (Criminal
Division) (n. 500-01-004657-042-001, sentenza del 27 gennaio 2005, para 34; R.
v Brown, 173
CCC (3rd) 23, para.44; cit in E.U. Network of Independent Experts on Fundamental
Rights, Ethnic Profiling, Brussels, dec. 2006, pp. 23-24.
[14]
Caso 1992/876 del 21 Novembre 1992, cit. in in E.U. Network of Independent
Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling, op.cit., pp. 46.
[15] Si ricorda in proposito
quanto prevede la legislazione italiana sull’immigrazione: art. 6 c. 3 D.lgs.
n. 286/98: “Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica
sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro
documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno è
punito con l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda fino a € 413”; c. 4: “Qualora
vi sia motivo di dubitare della identità personale dello straniero, questi è
sottoposto a rilievi fotodattiloscopici e segnaletici”. Inoltre, ai sensi del comma 7 dell'art. 12 d.lgs. n. 286/98, nel corso
di operazioni di polizia finalizzate al contrasto delle immigrazioni
clandestine, disposte nell’ambito delle direttive di cui all’art. 11 comma 3 del medesimo decreto, gli
ufficiali ed agenti di PS operanti nelle zone di confine e nelle acque
territoriali possono procedere al controllo e alle ispezioni dei mezzi di
trasporto e delle cose trasportate, quando, anche in relazione a specifiche
circostanze di tempo e luogo sussistono fondati motivi di ritenere che
possano essere utilizzati per uno dei reati previsti dal medesimo articolo,
purchè venga trasmesso processo verbale al Procuratore della Repubblica entro 48 ore e quest’ultimo lo
convalidi entro le 48 ore successive. Nelle medesime circostanze gli ufficiali
di polizia giudiziaria possono altresì procedere a perquisizioni, con
l'osservanza delle disposizioni di cui all'art. 352, commi 3 e 4 del codice di
procedura penale.
Si segnala in proposito un interessante caso di giurisprudenza, con il quale il Tribunale di Trieste ha disposto l’annullamento di un provvedimento espulsivo emanato nei confronti di un cittadino straniero per irregolarità del soggiorno, accertato dopo che ufficiali di squadra mobile avevano fatto accesso ad un domicilio privato fuori dalle condizioni e senza le autorizzazioni previste dalla legge. Il Tribunale affermò di conseguenza che il decreto di espulsione era stato emanato in conseguenza di un accertamento di polizia illegittimo, effettuato in violazione dei diritti costituzionalmente garantiti all’inviolabilità del domicilio privato e alla non interferenza nella vita familiare e, pertanto, risultava anch’esso viziato da illegittimità (Tribunale di Trieste, ordinanza 24.07.2004, est. Ozbic, pubblicato sulla rivista “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza”, Franco Angeli editore, n. 3/2005, pp. 129-132). Tale orientamento di giurisprudenza è suscettibile di estendersi a tutti quei casi in cui l’accertamento della condizione di irregolarità ed il conseguente provvedimeno espulsivo hanno avuto quale presupposto un accertamento amministrativo di polizia fondato unicamente sulla presunzione della condizione di straniero basata sull’appartenenza etnico-razziale e, dunque su criteri di ethnic profiling. Si veda in proposito la sentenza del Tribunale amministrativo di Lyon (Francia), 19 aprile 1994 (JCP 1995.II.22414 note Blanc), con la quale è stato annullato il provvedimento espulsivo emanato a carico di un cittadino marocchino, il cui soggiorno irregolare in Francia era stato evidenziato a seguito di un accertamento di polizia che il giudice aveva ritenuto illegittimo in quanto l’autorità di polizia non aveva fornito argomenti tali da convincere che il controllo non fosse avvenuto sulla base soltanto di una presunzione della condizione di straniero della persona interessata fondata sulla sua appartenenza etnico- razziale, bensì sul carattere sospetto del suo comportamento; cfr. Université de Rouen, Cours en matière de libertés fondamentales 2006-2007, pag. 144, op. cit.
[16] Tribunal Constitutionl, Sala
Segunda, Sentenzia 13/2001 de 29 Ene 2001, rec. 490/1997, Rosalind Williams
Lecraft. Nel
settembre 2006, una coalizione di ONG per la tutela dei diritti umani ha impugnato tale controversa sentenza
dinanzi al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, chiedendo che
quest’ultimo si esprima per l’esclusione dell’appartenenza razziale quale
criterio regolativo delle attività di controllo e perquisizione da parte delle
autorità di polizia.
[17] Cissé c. Francia, Appl. N. 51346/99, decisione
sull’ammissibilità del 16 gennaio 2001.
[18] Sezione 19 B(1) della Legge
sulle Relazioni Razziali (Race Relations Act), come emendato nel 2000, così
prevede:
“E’ illegale per l’autorità pubblica
nel compimento delle proprie funzioni compiere qualsiasi atto che possa
costituire una discriminazione”. Il Preambolo chiarisce che lo scopo
dell’emendamento del 2000 è quello di “estendere l’applicazione della legge
sulle relazioni interrazziali del 1976 alla polizia e alle altre autorità
pubbliche […]”. Al fine di consentire un effettivo monitoraggio e controllo
interno sul rispetto dei principi di non discriminazione da parte degli
ufficiali di polizia, la legge
inglese prevede che, in occasione
di ogni controllo personale e perquisizione effettuata (stop and search), l’ufficiale di
polizia debba motivare alla
persona interessata le ragioni del controllo e riportare sul verbale il dato
dell’ appartenenza etnica della medesima (Code A on Stop and Search, Police
and Criminal Evidence Act 1984). Questo consente al Ministero dell’Interno del Regno
Unito di disporre di statistiche etniche tali da evidenziare possibili casi di ethnic
profiling
nelle attività compiute da determinati commissariati di polizia e reagire di
conseguenza. Per maggiori e più dettagliate indicazioni sulle linee guida della
polizia del Regno Unito in materia di ethnic profiling, si veda: Home Office, Stop
and Search Action Team Interim Guidance, 2004 scaricabile dal sito: http://police.homeoffice.gov.uk/news-and-publications/publication/operational-policing/Guidance26July.pdf;
Home Office’s Policing and Reducing Crime Unit, Police Stops and Searches:
lessons from a Programme of Research, 2006, disponibile sul sito: http://www.homeoffice.gov.uk/rds/prgpdfs/polstop.pdf
[19] R
(on the application of European Roma Rights Centre) v Immigration Officer at Prague
Airport [2004]UKHL, 55, 9 December 2004.
[20] Lord Hope of Craighead così continua: “Età,
comportamento, apparenza generale al di fuori dell’appartenenza razziale o
etnica giocheranno un ruolo nel
suggerire se una determinata
persona potrebbe essere in possesso di materiale da usare in connessione
ad atti di terrorismo. Fattezze che indicano che una persona è di origini
asiatiche potrebbero attrarre inizialmente l’attenzione dell’ufficiale di polizia. Tuttavia, un ulteriore processo di selezione deve
essere intrapreso, certo nell’immediatezza del momento, altrimenti
l’opportunità viene meno, prima che il potere di controllo venga esercitato. E’
tale ulteriore processo di selezione che differenzia ciò che intrinsecamente
discriminatorio da ciò che non lo è” (UKHL 12, par. 43-46); cit. in E.U. Network of Independent Experts on
Fundamental Rights, Ethnic Profiling, op.cit., pp. 43-44.
[21]
Ibidem, par. 91.
[22]
Decisione del 4 aprile 2006 – 1BvR 518/02, Neue Juristiche
Wochernschrift 2006, N. 27, page 1939; cit in E.U. Network of
Independent Experts on Fundamental Rights, Ethnic Profiling, op.cit., pp. 47-48.
Per quanto riguarda la legislazione
italiana sul trattamento la
protezione dei dati personali, va citato innanzitutto l’art 14 del Codice sulla protezione dei dati personali
(D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196):
“1. Nessun atto o provvedimento giudiziario o amministrativo che
implichi una valutazione del
comportamento umano può essere fondato unicamente su un trattamento
automatizzato di dati personali volto a definire il profilo o la personalità
dell’interessato”, che risulta applicabile anche in relazione alle attività dei
servizi di informazione e sicurezza (CESIS, SISMI, SISDE) (art. 58 c. 1).
[23] Si veda a titolo di esempio
i resoconti sulle ronde leghiste pubblicati su “La Repubblica” (edizione del 5 aprile
2007).
1 A tale riguardo si richiama un
precedente giurisprudenziale, il quale sebbene riferito ad una realtà estera,
nella fattispecie la Francia, è fonte di utili osservazioni comparative, per
l’evidente analogia con il caso in oggetto.
Con decreto dd. 27 agosto 2004 (artt.
2 e 5) vennero modificate le
condizioni per l’eleggibilità alla Camera dei Mestieri dell’Alsazia e della
Mosella, un organo di rappresentanza degli interessi degli artigiani di quelle
regioni, con l’esclusione degli artigiani che non fossero titolari della
cittadinanza francese o di uno degli Stati membri dell’Unione Europeo o dello
Spazio Economico Europeo . L’HALDE (Haute Autorité pour la Lutte contre les
Discriminations et pour l’Egalité), l’Authority indipendente contro le
discriminazioni, costituita al fine di recepire in Francia la direttiva europea
anti-discriminazioni (n. 2000/43), investita della questione, si espresse per
il carattere illegittimamente discriminatorio della disposizione, sostenendo
fra l’altro che l’istituto della Camera dei Mestieri “non partecipa all’esercizio della sovranità
nazionale” e anche per tale ragione, così come in ragione dei suoi scopi e delle
sue funzioni, non possono trovare giustificazione le restrizioni nelle
condizioni di eleggibilità. Di conseguenza, l’HALDE si espresse per la
soppressione della discriminazione contenuta nel citato decreto, cfr. HALDE, Delibération
n. 2005-17 del 4 luglio 2005 (caso n. 35), scaricabile dal sito: http://www.halde.fr/haute-autorite-1/avis-recommandations-25/discrimination-resultant-regimes-droit-84/discrimination-resultant-regimes-droit-9031.html.
A causa dell’inerzia
dell’autorità legislativa, la
norma venne poi effettivamente soppressa per effetto della sentenza del Conseil
d’Etat
(Consiglio di Stato) n. 272638, n. 273639 dd. 31 marzo 2006; cfr. la sentenza è
scaricabile dal sito: http://www.legifrance.gouv.fr/WAspad/UnDocument?base=JADE&nod=JGXAX2006X05X000000273638
2 A tale proposito, si veda la recente ordinanza del Tribunale di
Bologna (Jing Jing Huang c. Università Bocconi, dd. 28.12.2006, scaricabile dal sito: www.meltingpot.org/IMG/pdf/ordinanza_tribunalebologna.pdf),
che ha condannato come discriminatoria la pratica dell’Università privata
Bocconi di Milano, che
prevedeva per l’immatricolazione
degli studenti extracomunitari l’applicazione automatica della retta annuale di costo più alto, indipendentemente
dal reddito. Una studentessa cinese ricorse al Tribunale di Bologna, dove
risiede, chiedendo che il comportamento della Università privata fosse
dichiarato "discriminatorio" per gli effetti dell’art. 43 TU
immigrazione, D. Lgs. n. 286/1998, e dell’art. 2 del D.lgs. n. 215/2003, e
quindi di essere ammessa alla Università alle stesse condizioni richieste ai
cittadini italiani in ragione del reddito familiare, per quanto concerne il
pagamento delle tasse scolastiche.
Con ordinanza immediatamente esecutiva del 23 dicembre 2006, il Tribunale di Bologna, ha condannato
l’Università ad ammettere la ricorrente cinese al corso di laurea a parità di
condizioni con i cittadini italiani con riferimento al pagamento delle tasse
scolastiche. Il Tribunale di Bologna ha accolto il ricorso, affermando che il
comportamento dell’Università è discriminatorio in quanto prevede un
trattamento differenziato nei confronti degli stranieri di paesi terzi privo di
una specifica, trasparente e razionale causa giustificatrice, e, pertanto ,
irragionevole in base ai criteri indicati dalla Corte Costituzionale, nella
sentenza n. 432/2005. A nulla valse il richiamo dell’Università ai principi
dell’autonomia finanziaria ed ordinamentale, in quanto la Corte precisò che
detti principi debbono esplicarsi
nei limiti e nel rispetto delle leggi dello Stato e, dunque, pure della
normativa antidiscriminatoria e per la parità di trattamento.
3 La pronuncia della Corte (Corte
Costituzionale, sent. 28.11-2.12.2005, n. 432) ha riguardato la legittimità
costituzionale di una legge della Regione Lombardia nella parte in cui non
includeva le persone, di nazionalità straniera e regolarmente residenti nella
regione, totalmente invalide per cause civili, fra gli aventi diritto alla
circolazione gratuita sui mezzi pubblici, diritto di norma riconosciuto agli
invalidi cittadini italiani.
4 Si richiama, per uno spunto
comparativo, alla già citata vicenda francese della normativa discriminatoria
in materia di elezione dei rappresentanti degli artigiani presso la Camera dei
Mestieri della Regione dell’Alsazia e Mosella. L’HALDE, auspicando la soppressione della norma,
affermò tra l’altro: “Il ritiro del diritto di voto alle elezioni della Camera
dei Mestieri a una parte importante degli artigiani esercitanti la loro
attività in Francia, allorché
queste elezioni mirano a designare i membri di un’istituzione avente per scopo
quello di rappresentare e difendere gli interessi collettivi degli artigiani,
in ragione unicamente di un criterio di nazionalità, non sembra fondarsi su
giustificazioni obiettive e ragionevoli collegate con tali finalità”, cit. ;
così nella sentenza del Conseil d’Etat che poi venne a sopprimere la norma
discriminatoria si legge: “Avendo al riguardo le funzioni delle Camere dei Mestieri,
che sono chiamate presso i poteri
pubblici a rappresentare gli interessi generali dell’artigianato, non esiste
differenza di situazione tra gli artigiani derivante dalla loro nazionalità che
giustifichi una differenza di trattamento
nell’attribuzione del diritto di voto alle elezioni dei membri delle
Camere dei mestieri. […], par. 335, cit. vedi sopra nota n. 1.