NEWSLETTER N. 15
   MARZO – APRILE 2008

 

GIURISPRUDENZA ITALIANA

I provvedimenti giudiziari emanati nell’ambito di un’azione giudiziaria anti-discriminazione ex art. 44 del D.lgs. n. 286/98,  non sono ricorribili per cassazione avendo natura di provvedimenti cautelari. Così afferma la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 6172/2008) in una sentenza attinente all’annosa questione dell’accesso degli stranieri al pubblico impiego.  Una nota a commento dell’avv. Alberto Guariso del Foro di Milano.

 

ATTUALITA’ ITALIANA

 

 LE ORDINANZE E I PROVVEDIMENTI  DISCRIMINATORI DI ENTI LOCALI DEL NORD ITALIA

Il parere dell’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni) relativamente  alla seconda ordinanza del  Sindaco di Cittadella in materia di ospitalità del cittadino straniero e iscrizione anagrafica.

 

La Commissione Europea risponde a quattro interrogazioni sulle iniziative adottate da alcuni comuni italiani in materia di matrimoni misti, iscrizione anagrafica, accesso all’istruzione di cittadini comunitari ed extracomunitari.

 

INTERVENTI DI ADVOCACY

I profili discriminatori degli  annunci di impiego che contengono la previsione di un requisito del possesso della ‘lingua madre italiana’ ai fini dell’assunzione.  Il punto di vista del Servizio di Supporto giuridico contro le discriminazioni razziali dell’ASGI a seguito di una segnalazione della RITA Liguria.

 

Ripristinata all’Università di Bergamo la parità di trattamento tra studenti stranieri e studenti italiani nelle condizioni di eleggibilità alla rappresentanza studentesca in seno agli organi di ateneo.

 

 

ATTUALITA’ INTERNAZIONALE

 

Il CERD, Comitato ONU per l’eliminazione delle discriminazioni razziali, rende pubbliche le proprie raccomandazioni alle autorità italiane per efficaci politiche pubbliche contro il razzismo e la discriminazione razziale. Il lavoro svolto dalle organizzazioni non governative.

 

GIURISPRUDENZA COMUNITARIA

 

Secondo l’Avvocato generale della Corte europea di Giustizia, Poiares Maduro, costituisce discriminazione diretta vietata dalla direttiva europea n. 2000/43/CE, il comportamento di un datore di lavoro che affermi pubblicamente di non voler assumere persone di una certa origine etnica.

 

La Corte di giustizia mette fuorilegge la discriminazione tra convivente registrato e coniuge relativamente ai vantaggi salariali riconosciuti dal datore di lavoro (pensione di reversibilità). Corte di Giustizia, Maruko c. Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen (Causa C‑267/06)

 

AUTONOMIE LOCALI E INTERVENTI CONTRO LA DISCRIMINAZIONE RAZZIALE

 

Il centro regionale e la rete regionale contro le discriminazioni razziali nella Regione Emilia-Romagna.

 

PUBBLICAZIONI, DOCUMENTI E RAPPORTI

 

SITI INTERNET: Newsletter dell’Osservatorio immigrazione della Regione Piemonte dedicato ai Rom e Sinti


 

GIURISPRUDENZA ITALIANA

 

I provvedimenti giudiziari emanati nell’ambito di un’azione giudiziaria anti-discriminazione ex art. 44 del D.lgs. n. 286/98,  non sono ricorribili per cassazione avendo natura di provvedimenti cautelari. Così afferma la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 6172/2008) in una sentenza attinente all’annosa questione dell’accesso degli stranieri extracomunitari al pubblico impiego.

La Suprema  Corte di Cassazione  ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. nei confronti del decreto della Corte d'Appello reso su reclamo avverso l'ordinanza del Tribunale nell'ambito del procedimento (art. 44 del dlgs. n. 286 del 1998) che prevede l'azione civile contro la discriminazione (per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi). Alla base della decisione vi è la ritenuta natura cautelare del procedimento in argomento e la sua sottoponibilità a verifica, sia pure facoltativa, nella sede di merito, con conseguente mancanza del carattere della definitività e decisorietà.

Al di là della sua importanza  per gli aspetti procedurali inerenti all’azione giudiziaria anti-discriminazione ex art. 44 del T.U. immigrazione, sui quali si sofferma la  nota  qui di seguito pubblicata a cura dell’avv. Alberto Guariso del Foro di Milano, la sentenza riveste una sua rilevanza anche in relazione agli aspetti di contenuto cui si riferiva il caso in esame: l’annosa questione dell’accesso degli stranieri di paesi terzi al pubblico impiego. La sentenza della Corte di Cassazione si riferisce infatti al caso di un  medico chirurgo, cittadino albanese, residente regolarmente in Italia, la cui domanda di partecipazione ad un  concorso pubblico per l'assunzione a tempo indeterminato per un posto di  dirigente medico in cardiologia, indetto nel 2004 da un’Azienda Ospedaliera Universitaria, era stata respinta per difetto del requisito della cittadinanza italiana. Il  medico albanese aveva quindi  proposto ricorso al Tribunale di Pistola, sostenuto dal servizio di assistenza legale offerto dal Centro provinciale anti-discriminazione di Pistoia, affermando di esser stato ingiustificatamente discriminato e chiedendo di essere ammesso al pubblico concorso. Il giudice  aveva accolto in parte il ricorso, disponendo l'ammissione del medico albanese al concorso. La Corte d'appello di Firenze, adita dalla Asl,  aveva  rigettato il reclamo. Contro tale rigetto, l’Azienda sanitaria locale aveva proposto il ricorso per cassazione.

La pronuncia della Corte di Appello di Firenze, al pari di diverse altre pronunce delle corti di merito, aveva  ritenuto in violazione dell’art. 2 del T.U. immigrazione il diniego alla partecipazione dei cittadini di paesi non appartenenti all’Unione Europea ai pubblici concorsi ai fini dell’assunzione in un ente pubblico (1) e il diniego di assunzione presso un’amministrazione ospedaliera pubblica in ragione della mancanza del requisito soggettivo della cittadinanza italiana, (2) posto quest’ultimo dal d.p.r. 487 del 1994 tra i requisiti generali di accesso agli impieghi civili nella pubblica amministrazione. Nel caso di specie, la disposizione del decreto del 1994 è stata giudicata implicitamente abrogata con l’entrata in vigore della l. 40 del 1998, così come la disciplina successiva (d.lgs. n. 165/2001), ribadente il principio dell’esclusione dei cittadini di Stati terzi dal pubblico impiego, deve  disapplicarsi in quanto contrastante con il principio di parità di trattamento di cui alla Convenzione OIL n. 143/1975, norma avente valore gerarchicamente sovraordinato in quanto di natura pattizia ai sensi dell’art. 10 comma 2 Costituzione, nonché con i principi di parità di trattamento di cui alla direttiva europea n. 2000/43.  La vincolatività rispetto all’ordinamento interno delle disposizioni della Convenzione OIL sarebbe dunque garantita, secondo la Corte di Appello di Firenze, dall’art 10 Cost., che «impone solo l'adeguamento delle norme sulla condizione giuridica dello straniero alle norme ed ai trattati internazionali, implicitamente legittimando quelle limitazioni che non contrastano con altre norme costituzionali o con i principi e gli atti di diritto internazionale» e vietando le limitazioni con questi ultimi contrastanti.

Da ciò deriva, a giudizio della Corte d’appello, la conseguenza che «che il regolamento approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483, è una limitazione dell’accesso ai concorsi per il personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale maggiore di quella consentita, agli Stati contraenti, dalla convenzione numero 143 dell'Organizzazione internazionale del lavoro».  (3) Da parte governativa, tuttavia, le argomentazioni della citata giurisprudenza di merito non hanno mai trovato accoglimento. Con il  parere del Dipartimento della funzione pubblica – Ufficio per il personale delle pubbliche amministrazioni, è stato argomentato che  poiché  l’art. 51 Cost.  prevede espressamente che «Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici…» , le limitazioni di cui all’art. 2 del d.p.r. 3/1957 (poi trasposto nel d.p.r. 487/94 e nel d.lgs 165/2001) che prescrivono  il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso al pubblico impiego sarebbero legittime, in quanto la norma pattizia internazionale non potrebbe prevalere sulla norma costituzionale. A fianco della posizione governativa si era collocata  l’unica pronuncia emanata finora dalla giurisprudenza di legittimità.  La Corte di Cassazione –Sezione lavoro-, con la  sentenza 19.10-13.11.2006, n. 24170, (pres. Mattone, relatore Picone),  aveva, infatti,  affermato che  il diritto positivo vigente «esprime sicuramente la regola secondo cui la cittadinanza italiana costituisce requisito per l’accesso al lavoro pubblico in tutte le sue forme, con salvezza delle eccezioni previste dalla legge», in quanto la norma regolamentare di cui al dpr 487/94 risulta “legificata” dall’art. 70 del D.lgs. 165/01, il quale peraltro gode di copertura costituzionale in base agli art. 51, 97 e 98 Cost., nell’ambito di una scelta consapevole e legittima che qualifica speciale il lavoro pubblico e lo assoggetta a regolamentazione particolare (4). Peraltro, anche dopo la pronuncia della Cassazione, la giurisprudenza di merito ha confermato il suo orientamento favorevole all’accesso degli stranieri di paesi terzi al pubblico impiego con gli stessi limiti  previsti per i cittadini comunitari, ovvero con l’eccezione degli incarichi che implichino l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri ovvero che attengano alla tutela dell’interesse nazionale (ad es. Tribunale di Bologna, ordinanza 7 settembre 2007, xxx c. Università di Bologna).

E’ evidente, dunque, che la pronuncia attuale della Cassazione, sebbene non intervenga nei meriti della disputa, limitandosi a considerare gli aspetti procedurali inerenti all’azione giudiziaria anti-discriminazione, costituisce pur sempre un elemento favorevole alla causa dell’accesso degli stranieri di paesi terzi al pubblico impiego perché indebolisce la funzione di  nomofilachia, cioè di guida all’uniforme interpretazione della legge pur nella non vincolatività al di là del caso concreto,  che il precedente sfavorevole di cui alla sentenza n. 24170 poteva in sé contenere. Non ammettendosi il ricorso per cassazione nei casi di pronuncia giudiziaria  a seguito di azione giudiziaria anti-discriminazione ex art. 44, avendo il procedimento natura cautelare, è evidente che la giurisprudenza di merito finora acquisita e di segno prevalente all’accesso degli stranieri al pubblico impiego acquista un peso di maggiore rilevanza rispetto al procedente negativo della Cassazione, il quale non costituisce più quel deterrente alla promozione di un’azione giudiziaria anti-discriminazione in caso di diniego all’accesso ad un concorso pubblico nei confronti di un cittadino straniero che fino a questo momento poteva costituire.

 

Note

(1)  Trib. Genova, ord. 21.4.2004, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2004, n.2 e Trib. Pistoia, ord. 6/.5.2005, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2005, n.1; da ultime, Corte di Appello di Firenze, dec. 30.09.2005; Tribunale di Perugia, 29.09.2006, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, 2006, n. 4, pag. 166.

(2)  Corte App. Firenze, ord. 2.7.2002, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2003, n. 2.

(3)  Di parere analogo,  anche: Tribunale di Perugia, ordinanza 6 dicembre 2006, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza  n. 2/2007, pp.  159 ss..

(4)  Per una riflessione critica sulla sentenza della Cassazione si rimanda a F. Di Pietro, Pubblico impiego solo per i cittadini Ue, in "D&G - Diritto e Giustizia", n. 44, 2006, p. 19; oppure a F. Buffa, Dipendenti pubblici extracomunitari ? il No della Cassazione e il sì dei giudici di merito: una questione ancora irrisolta, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 4/2006, pp. 47 ss.

 

 

 

Nota a commento della sentenza della Corte di Cassazione n. 6172/2008 a cura dell’avv. Alberto Guariso di Milano, socio ASGI ed esperto di diritto anti-discriminatorio.

1. La pronuncia della Corte di Cassazione 6172/2008  giunge per la prima vola a fare un po’ di chiarezza sulla interpretazione dell’art. 44 TU immigrazione, che ha   introdotto nel nostro ordinamento la “azione civile contro la discriminazione” dando vita – sia pure  un po’ disordinatamente -  ad un modello processuale che è si è poi rivelato suscettibile di numerose applicazioni.

L’obiettivo, assolutamente condivisibile e meritorio,  del legislatore del 1998 era quello di un procedimento estremamente agile, privo di formalità e di preclusioni (è addirittura prevista la difesa personale in giudizio) con rilevanti poteri d’ufficio del Giudice e con un espresso richiamo al rito camerale che è tradizionalmente proprio dei procedimenti  non contenziosi.

Il punto sul quale il legislatore si era decisamente “impallato” era quello del rapporto tra procedimento cautelare e procedimento di merito, che nella struttura della norma, risultava del tutto oscuro. I Giudici investiti dello speciale procedimento erano così andati in ordine sparso: taluno riteneva di interpretare l’azione come volta a pervenire ad una decisione di merito e pronunciava sentenza (in questo senso una delle prime pronunce in materia emessa in data 21.03.2002 dal Trib. Milano e pubblicata in Foro It., 2003, pp. 3177 ss. ), altri pronunciavano ordinanza con la quale assumevano i necessari provvedimenti cautelari e fissavano successiva udienza di merito (così recentemente una ordinanza ancora del Trib. Milano dd. 11.02.2008, in causa R.E.M. c. Comune di Milano, est. Marangoni).

Anche in dottrina si erano formati due orientamenti contrapposti che sono ben richiamati nella motivazione della sentenza: l’uno riteneva il procedimento necessariamente bifasico (un primo provvedimento cautelare e un successivo giudizio di merito) l’altro come procedimento monofasico se pure a cognizione sommaria (con conseguente emissione di sentenza se pure a seguito di un procedimento estremamente rapido).

La questione ha ovviamente riflessi in ordine alle modalità di impugnazione del provvedimento emesso dal giudice: se infatti si tratta di ordinanza cautelare questa è soggetta a reclamo avanti il tribunale in composizione collegiale ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c.; se si tratta di sentenza questa è inevitabilmente soggetta alla ordinaria impugnazione avanti la Corte d’Appello.

Mentre la disquisizione sul punto sembrava ormai giunta a un punto fermo è intervenuta la L. 80/2005 che ha apportato una radicale modifica al procedimento cautelare: prima di tale modifica il provvedimento cautelare (che può essere richiesto qualora sussistano particolari ragioni di urgenza)  era necessariamente “strumentale” ad una decisione di merito che era destinata ad assorbire tale provvedimento provvisorio;  se la parte vittoriosa non dava inizio al giudizio di merito entro il termine fissato dal Giudice, il provvedimento cautelare perdeva effetto. Era quindi, ad ogni effetto, un provvedimento “a termine”.

Ora, con il  nuovo art. 669 octies c.p.c. le cose non stanno più così. La parte vittoriosa è pienamente libera di “accontentarsi” del provvedimento cautelare e di non iniziare mai il giudizio di merito: il provvedimento resterà comunque in vita e regolerà la questione controversa a tempo indeterminato.

Resta un'unica differenza tra sentenza di merito e ordinanza cautelare: la prima, se non impugnata nei termini, passa in giudicato, diviene definitiva; il secondo non passa mai in giudicato e in qualsiasi momento (anche dopo anni) sia la parte soccombente sia la parte vincitrice sono entrambe abilitate ad introdurre il giudizio di merito, la cui sentenza conclusiva è destinata ad assorbire (in positivo o in negativo) il provvedimento cautelare che solo a quel punto perderà efficacia.

Questa natura ipoteticamente “definitiva” del provvedimento cautelare impone al giudice una maggiore severità nell’esame del materiale probatorio e nell’approfondimento delle questioni, tanto che l’art. 669 sexies impone al giudice di compiere (se pure “omettendo ogni formalità non necessaria al contradditorio”) tutti e solo gli atti indispensabili ai fini del provvedimento richiesto: il  giudizio cautelare si avvicina dunque sempre più  ad un giudizio sì urgente, ma “a cognizione piena” e non soltanto sommaria.

 

2. A questo punto la strada per appianare i contrasti interpretativi sull’art. 44 TU immigrazione si è dunque spianata davanti alla Corte, che infatti l’ha subito imboccata.

Da una serie di spunti letterali (che qui non è necessario ripercorrere giacché la sentenza li enumera con grande chiarezza) la Corte giunge alla conclusione che quello delineato dall’art. 44 è  un procedimento cautelare che quindi si conclude con una ordinanza; ma – come tutti i procedimenti cautelari - non è più necessariamente bifasico ben potendo accadere (in applicazione delle norme generali appena richiamate) che alla decisione cautelare non segua alcuna decisione di merito. Anche il provvedimento in tema di discriminazione emesso dal Giudice ai sensi dell’art. 44 cit. può restare definitivo, qualora non venga introdotto un giudizio di merito.

Resta tuttavia da notare la particolarità della vicenda che ha condotto alla decisione.

Nel caso di specie, per quanto si apprende dalla parte narrativa della pronuncia, la parte soccombente in primo grado aveva proposto non un reclamo al Tribunale collegiale, ma una impugnazione avanti la Corte d’Appello, ritenendo evidentemente di trovarsi già davanti ad una sentenza di merito, o comunque ad un provvedimento avente natura decisoria definitiva.

Rimasta soccombente anche in appello ha proposto ricorso ex art. 111 Cost. per Cassazione, ma la Corte ha dichiarato improcedibile il ricorso perché, dovendosi appunto interpretare la decisione del Tribunale come decisione cautelare, questa è soggetta bensì a reclamo, ma non a ricorso per Cassazione (solo i provvedimenti definitivi possono essere oggetto di ricorso).

Logica conseguenza di ciò è che anche l’appello proposto avanti la Corte d’Appello era irregolare perché, se di provvedimento cautelare si trattava, l’impugnazione, come si è detto, andava proposta al Tribunale in composizione collegiale. Su ciò tuttavia la Corte non si pronuncia (forse perché non investita del problema).

 

3. Venendo al problema concreto della tutela dei diritti, l’assetto processuale che deriva dalla pronuncia appare condivisibile e razionale, anche se lascia aperte (oltre alla questione di dove vada proposta l’impugnazione ) alcune questioni.

La prima è se il giudizio di merito cui la Corte si riferisce è un giudizio di  merito ordinario o se anche il giudizio di merito continua ad essere regolato dalla particolare procedura (semplificata, priva di preclusioni ecc.) prevista dall’art. 44 cit.: la Corte tace sul punto, ma  pare inevitabile concludere nel secondo senso, giacché in caso contrario il discriminato rimasto soccombente nel giudizio cautelare (o anche quello rimasto vittoriosa che decida di introdurre il giudizio di merito) si dovrebbe sobbarcare un procedimento del tutto incompatibile con la natura urgente del diritto leso e con gli obiettivi che il legislatore del ‘98 si proponeva

La seconda considerazione pratica è che, all’interno di questo schema, anche il giudizio cautelare deve assumere tutta la valenza di un giudizio plausibilmente conclusivo, il che pone il problema della completezza della statuizione in particolare in ordine al risarcimento del danno: l’esame della ormai nutrita giurisprudenza segnala già ora una certa timidezza dei Giudici nel liquidare il “danno da discriminazione” ed è inevitabile che tale ritrosìa aumenti se il procedimento viene interpretato come meramente cautelare, sussistendo una storica (per quanto ingiustificata) incompatibilità tra i provvedimenti cautelari e decisioni risarcitorie che normalmente si ritiene debbano essere rimesse alla decisione di merito.

Un terzo è ultimo interrogativo poi è se la interpretazione della Corte sia estensibile al procedimento ex art. 4 D.Lgs 215/03 in tema di discriminazioni per ragioni di razza.

Come è noto l’art. 4 di detto D. Lgs non fa un rinvio totale all’art. 44 ma pesca qua e là alcuni commi, trascurandone altri

Ne è nata in dottrina (in particolare Curcio, in Barbera (a cura di) Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Milano, 2007) l’opinione che   il procedimento ex art. 4 sia, al contrario di quanto risulta ora essere quello ex art. 44, un processo necessariamente monofasico destinato a chiudersi con sentenza impugnabile solo avanti la Corte d’Appello.

Se così fosse assisteremmo all’ennesima proliferazione di modelli processuali antidiscriminatori che già affligge in modo irrazionale il nostro ordinamento: come noto infatti allo stato si possono enumerare oltre ai due modelli di cui si è detto (art. 44 e art. 4 D.lgs 215) quello di cui all’art. 37 Codice Pari opportunità (che si fonda sul diverso schema : decreto del Tribunale monocratico + eventuale opposizione davanti al medesimo giudice monocratico che instaura un ordinario giudizio di merito) quello di cui al nuovo art.55-quinquies del Codice pari opportunità in materia di discriminazione uomo/donna nell’accesso ai servizi (introdotto dal D.Lgs. 196/2007) che ricalca quello dell’art. 4 D. Lgs 215 cit., senza però richiamarlo e, infine, quello di cui all’art. 3 L. 67/2006 in materia di discriminazione degli invalidi, che richiama l’art. 44 TU immigrazione.

Molte cose vanno dunque ancora riordinate, ma la sentenza in esame compie sicuramente un primo passo utile.

  

 

Avv. Alberto Guariso

Foro di Milano  

 

 

 

Pubblichiamo di seguito il testo integrale della sentenza della Corte Suprema di Cassazione, sez. Unite civile, n. 6172 dd. 07-03.2008

 

Corte Suprema di Cassazione civ. Sez. Unite,

Sentenza dd. 07-03-2008, n. 6172

 

Il dott. G.M. è un medico chirurgo, cittadino albanese, residente regolarmente in Italia. La sua domanda di partecipazione al concorso pubblico per l'assunzione a tempo indeterminato di 6 dirigenti medici in cardiologia, indetto nel 2004 dall'Azienda Ospedaliera Universitaria (OMISSIS) di (OMISSIS), è stato respinto per difetto del requisito della cittadinanza italiana.

Il M. ha proposto ricorso al Tribunale di Pistola, depositato il 13 gennaio 2005, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex artt. 43 e 44, affermando di esser stato ingiustificatamente discriminato e chiedendo di essere ammesso al pubblico concorso.

Il giudice adito, rigettata l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in favore di quello amministrativo, proposta dalla Asl, ha accolto in parte il ricorso, disponendo l'ammissione del M. al concorso e rigettando nel merito la domanda di risarcimento danni. La Corte d'appello di Firenze, adita dalla Asl in sede di reclamo (previsto dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, comma 6), con decreto 30 settembre - 31 dicembre 2005, riaffermata la giurisdizione del giudice ordinario, ha rigettato il reclamo.

Quanto alla giurisdizione, ha rilevato che il ricorso del M. era stato proposto ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, il quale attribuisce al tribunale ordinario la competenza a decidere sull'azione diretta a rimuovere gli effetti della discriminazione per motivi razziali, etnici, o religiosi, determinata dal comportamento di un privato o di una pubblica amministrazione.

Nel merito, dopo un'amplissima disamina delle fonti normative internazionali e interne sull'obbligo di parità di trattamento dei lavoratori extracomunitari, ha esaminato il D.Lgs. 10 dicembre 1997, n. 483, art. 1 (Regolamento recante la disciplina concorsuale per il personale dirigenziale del servizio sanitario nazionale), il quale consente che partecipino ai concorsi coloro che possiedono i requisiti generali della cittadinanza italiana o della cittadinanza di uno dei paesi dell'Unione Europea. Ha dichiarato tale norma inapplicabile nella presente fattispecie, nella parte in cui pone una disparità di trattamento tra le due categorie di stranieri - cittadini comunitari ed extracomunitari - perchè in contrasto con la L. 10 aprile 1981, n. 158, attuativa della convenzione Oil 75 - 143, da considerarsi norma di rango superiore. Avverso tale decreto ha proposto ricorso per Cassazione l'Azienda ospedaliera universitaria (OMISSIS), con due motivi, il primo attinente alla giurisdizione, il secondo al merito.

Il dott. M. resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

 

Motivi della decisione

 

Si deve preliminarmente esaminare d'ufficio l'ammissibilità del presente ricorso per Cassazione avverso un decreto di Corte d'appello emesso in sede di reclamo in procedimento D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 44. Costituisce jus receptum che il ricorso straordinario per Cassazione ai sensi dell'articolo 111 Cost. è proponibile avverso provvedimenti giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi siano definitivi ed abbiano carattere decisorio, cioè siano in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale (ex plurimis Cass. Sez. un. 8 marzo 2006 n. 4915; Sez. Un. 15 luglio 2003 n. 11026).

Ricorrono tali elementi quando l'ordinanza o il decreto siano emessi a conclusione di un procedimento contenzioso, anche se con rito camerale; incidano su diritti soggettivi; ed il provvedimento non sia opponibile o diversamente impugnabile.

La decisione sull'ammissibilità del presente ricorso dipende perciò dalla qualificazione del procedimento D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 44, come cautelare bifasico, nel quale l'ordinanza sarebbe sottoposta a verifica nel giudizio di merito; o come procedimento monofasico abbreviato di tutela piena, nel quale caso il decreto della Corte d'Appello sarebbe costituirebbe la verifica di secondo grado, conclusiva del procedimento, non diversamente impugnabile.

In questo secondo caso, il ricorso del M. non potrebbe neppure essere convertito in regolamento preventivo di giurisdizione, inammissibile nella fase tra l'emissione del provvedimento cautelare e l'eventuale inizio della causa di merito (ex plurimis Cass. 8 giugno 2007 n. 13396, Cass. 25 maggio 2007 n. 12252).

La L. 6 marzo 1998, n.40, art. 42, ripreso dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), intitolato "Azione civile contro la discriminazione", dispone:

"1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione.

2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell'istante.

3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto". Il comma 5 dispone che nei casi di urgenza il giudice provvede con decreto motivato, assunte sommarie informazioni; il comma 6 prevede il reclamo avanti alla Corte d'Appello; il comma 7: "Con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale".

Sulla natura del procedimento in questione la dottrina dominante è per il carattere cautelare.

In favore di questa tesi sono spesi i seguenti argomenti: sul piano lessicale il procedimento disciplinato dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, commi 2 e 5 ripete la formulazione dell'art. 699 septies c.p.c., che detta la disciplina del procedimento cautelare uniforme; il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, comma 7, nel disporre che il giudice, con la decisione che definisce il giudizio, può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale, prefigurerebbe chiaramente un giudizio di merito.

Una dottrina minoritaria ritiene che gli elementi testuali configurino un procedimento monofasico: il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, non riproduce nè rinvia all'articolo 699 octies c.p.c., che, nel disciplinare il passaggio al giudizio di merito, costituisce la norma cardine per configurare il procedimento previsto dall'art. 699 bis c.p.c. e segg. come rigidamente strumentale al giudizio di merito a cognizione piena, e quindi sommario e cautelare;

la previsione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, comma 7 non avrebbe senso se riferita al giudizio di merito, che implica di per sè la possibilità della condanna al risarcimento del danno; al contrario, essa, consentendo una pronuncia sul risarcimento del danno, configurerebbe il procedimento come a forma semplificata, ma non cautelare.

Un terzo orientamento, pur rilevando la mancanza, nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, di una norma sul passaggio alla fase di merito, solleva dubbi sulla legittimità costituzionale di un modello a struttura monofasica, in relazione al principio del giusto processo, di cui all'art. Ili Cost., e sollecita questa Corte ad intervenire nomofilatticamente sulla questione, dettando una interpretazione costituzionalmente orientata.

Si deve collocare storicamente e dommaticamente il procedimento in esame.

Il precedente remoto è costituito dall'art. 700 c.p.c., che ha introdotto nel codice di procedura del 1942 una tutela cautelare atipica diretta a neutralizzare i danni che possano derivare all'attore della durata del processo a cognizione piena. Il rimedio cautelare viene definito perciò per il suo carattere sommario e necessariamente strumentale al processo a cognizione ordinaria.

La L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 15, apre la stagione delle misure volte a contrastare la discriminazione sindacale e politica. Leggi successive hanno integrato, sul piano sostanziale, cori il sistema della novella, questa norma base con ulteriori previsioni antidiscriminatorie: la L. 9 dicembre 1977, n. 903, art. 13, integra l'art. 15, comma 2, cit. con la discriminazione religiosa, razziale, di lingua o di sesso, e il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, art. 4, con quelle basate su handicap, di età, sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Sul piano processuale, le azioni previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 16, comma 2, dalla L. n. 907 del 1977, art. 15, e dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 28, in favore delle organizzazioni sindacali contro i comportamenti antisindacali, si ispirano ad un modello fondamentale comune, sia dal punto di vista strutturale, sia da quello lessicale: domanda, anche personale, dell'interessato; competenza del giudice ordinario, individuato, dopo la esperienza positiva della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, u.c., nel pretore, quale giudice periferico prossimo al domicilio dell'istante (ora Tribunale ordinario); convocazione urgente delle parti in tempi strettissimi, decreto immediatamente esecutivo, possibilità di opposizione avanti allo stesso giudice monocratico, con il che si apre un giudizio a cognizione piena attraverso i normali tre gradi.

Il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, in esame introduce un diverso modello, che sarà poi seguito dal D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, art. 4, e dalla L. 1 marzo 2006, n. 67, art. 3, per le discriminazioni verso i disabili in qualsiasi ambito dell'esistenza, nonchè del D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 196, art. 1, il quale, nel disciplinare la parità di trattamento tra uomini e donne nell'accesso ai beni e servizi e loro fornitura, ha previsto un procedimento con analoga struttura. Esso abbandona la possibilità dell'opposizione avanti al medesimo giudice monocratico e di una pronta sentenza di merito, con i successivi due gradi; e, seguendo il modello del procedimento cautelare uniforme, nel frattempo introdotto nel nostro ordinamento dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 74 (con effetto dal 1993), ammette il reclamo ad un giudice collegiale.

Queste Sezioni Unite ritengono che il carattere cautelare del procedimento introdotto dall'art. 44 in esame, e seguito dalle leggi successive che ad esso rinviano, si evinca dai seguenti prevalenti elementi testuali, interpretati nel quadro ordinamentale generale:

1.1 D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, commi 3, 4 e 5 riproducono pedissequamente l'art. 699 sexies c.p.c., sul procedimento cautelare uniforme; in particolare il comma 5 ripete la distinzione dell'art. 699 sexies c.p.c., comma 2, tra decreto motivato, in caso di urgenza, sulla base di sommarie informazioni, ed ordinanza sulla base degli atti di istruzione indispensabili; tale struttura conforme preclude la possibilità di considerare l'ordinanza di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, comma 3, in quanto assicura le esigenze costituzionali di parità di difesa con il rispetto del contraddittorio e la pienezza dell'istruttoria con l'assunzione delle prove indispensabili, come l'atto conclusivo di un procedimento a cognizione piena, anche se abbreviata, proprio perchè le stesse garanzie sono proprie del procedimento cautelare uniforme;

2. il comma 6 ammette, contro i provvedimenti del giudice adito, il reclamo al giudice superiore, rimedio tipico contro i provvedimenti cautelari, alternativo all'appello; il passaggio operato dal legislatore dal modello precedente, basato sull'opposizione al medesimo giudice, al reclamo al giudice superiore, si spiega proprio con l'ingresso nel nostro ordinamento del processo cautelare uniforme;

3. il comma 8 prevede che "chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5, e dei provvedimenti del Tribunale di cui al comma 6, è punito ai sensi dell'art. 388 c.p., comma 1".

Così disponendo, il comma 8 adotta non la formulazione dell'art. 388 c.p.c., comma 1, relativo a chi si sottrae agli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, ma quella del comma 2, relativo a chi elude l'esecuzione di un provvedimento del giudice civile (omissis) che prescriva misure cautelari. Il riferimento che l'art. 44 fa all'art. 388 c.p.c., comma 1 è quoad poenam, determinata solo nel primo comma. Con tale formulazione lessicale, il comma 8 presuppone la natura cautelare del provvedimento in esame.

4. Il D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 3, lett. e bis), nn. 2 e 3, convertito, con modificazioni, nella L. 14 maggio 2005, n. 80, ha introdotto all'art. 669 octies c.p.c., un comma 6, che abroga, a partire dal 1 marzo 2006, limitatamente alle misure cautelari anticipatorie, quale quella in esame, l'onere, contenuto nei primi due commi dello stesso art. 699 c.p.c., comma 8, di iniziare l'azione di merito entro un termine perentorio, pena la perdita di efficacia del provvedimento cautelare, ed abroga corrispondentemente l'art. 699 c.p.c., comma 9, per il quale il mancato inizio dell'azione di merito comportava appunto l'inefficacia del provvedimento cautelare. Tale radicale innovazione raccoglie i suggerimenti della dottrina, per evidenti intenti deflattivi, e si sostanzia nel rendere facoltativo l'inizio dei giudizio di merito per le misure cautelari anticipatorie ("idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito"); essa comporta la stabilizzazione dell'" efficacia del provvedimento cautelare, non seguito dalla fase di merito.

Tale innovazione, che avvicina il procedimento cautelare ad uno a cognizione piena eventuale e successiva, attenua il suo carattere strumentale necessario rispetto al giudizio di merito, e depotenzia così l'argomento tratto dalla mancata previsione nell'art. 44 in esame di una norma sul passaggio alla fase di merito.

Gli argomenti testuali riferiti vanno inseriti nel quadro ordinamentale che esige, come sottolineato con forza dalla dottrina, che qualsiasi diritto, anche se oggetto di tutela sommaria o cautelare, possa poi formare, su iniziativa, non più obbligatoria, della parte, oggetto di cognizione piena da parte di un giudice; e sottolinea altresì l'esigenza di una concentrazione e semplificazione, e non dispersione o proliferazione, dei modelli processuali di tutela. Una volta acquisito il carattere cautelare dei procedimento in esame, scatta l'applicazione dell'art. 699 c.p.c., comma 14, secondo cui le norme sul procedimento cautelare uniforme si applicano, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dalle leggi speciali. Trovava così applicazione diretta (non analogica), al tempo dei fatti, l'art. 699 c.p.c., comma 8, comma 1, che imponeva al giudice di fissare, con l'ordinanza di accoglimento del ricorso cautelare, un termine perentorio per l'inizio della causa di merito, ed il comma 2, per cui in difetto di fissazione del termine della causa di merito doveva essere iniziata nel termine perentorio di sessanta giorni.

Alla luce di tale conclusione possono essere risolti altri elementi testuali problematici o contraddittori, quali la mancanza di un rinvio all'art. 699 c.p.c, comma 8, sull'inizio della fase di merito, che come abbiamo visto non costituisce più elemento caratterizzante del procedimento cautelare, o la qualificazione, contenuta nel comma 10, come sentenza del provvedimento che decide sul ricorso collettivo, in contrasto con la qualificazione del comma 5 come ordinanza. Quanto alla previsione dell'art. 7, si deve notare, da una parte, sul (problematico) piano lessicale, che la espressione "decisione che definisce il giudizio" è identica a quella usata dall'art. 279 c.p.c. per definire la conclusione del giudizio di merito; dall'altra, che tale previsione, acquista significato solo se intesa come facoltà aggiuntiva dei giudice cautelare di condannare la parte al risarcimento del danno patrimoniale, biologico e morale, così ottenendosi un rafforzamento ed anticipazione della tutela antidiscriminatoria, secondo l'intenzione del legislatore. La previsione del comma 7 sarebbe viceversa pleonastica se riferita alla sentenza che definisce il giudizio di merito, cui già appartiene tale potere.

Costituendo il decreto della Corte d'Appello ex art. 44 in esame, sia secondo la disciplina del tempo, sia secondo quella attuale, provvedimento sottoponibile a verifica in sede di merito, la relativa fattispecie differisce dagli altri provvedimenti camerali per i quali questa Corte ha ritenuto ammissibile il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. (ad es. decreto, pronunciato in Camera di consiglio ai sensi degli artt. 739 e 742 bis c.p.c., con il quale la Corte d'appello decide in ordine alla domanda di autorizzazione ad entrare o a permanere temporaneamente sul territorio nazionale, proposta, in deroga alle disposizioni generali sull'immigrazione, dal cittadino di uno Stato non appartenente all'Unione europea, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico di un familiare minorenne, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art.31, comma 3, qui in esame (Cass. Sez. 1^, 11 gennaio 2006 n. 396; Cass. Sez. un. 16 ottobre 2006 n. 22216; Cass. 15 gennaio 2007 n. 747); il decreto della Corte d'appello emanato in sede di reclamo, in Camera di consiglio, avverso il provvedimento di radiazione dal ruolo nazionale dei periti assicurativi (Cass. Sez. un. 6 febbraio 2006 n. 2447); il provvedimento di liquidazione di onorari di avvocato, il quale, ai sensi della L. 13 giugno 1942, n. 794, artt. 29 e 30 è emesso a seguito di procedimento in Camera di consiglio, con ordinanza non impugnabile (ex plurimis Cass. 7 febbraio 2007 n. 2623; Cass. 11 maggio 2006 n. 10939); il provvedimento del giudice che abbia deciso sull'opposizione proposta dal custode contro il decreto di liquidazione delle spese emesso dal magistrato che procede al giudizio nell'ambito del quale è stato disposto il sequestro (Cass. Sez. un. 13 luglio 2005 n. 14696); nonchè (non senza contrasti), il decreto pronunciato dalla Corte d'appello in sede di reclamo avverso il provvedimento del tribunale in materia di modifica delle condizioni della separazione dei coniugi concernenti il mantenimento dei figli (Cass. 4 febbraio 2005 n. 2348; Cass. 30 dicembre 2004 n. 24265).

Si deve a questo punto esaminare la questione se la mancanza, nel procedimento cautelare, del passaggio obbligatorio alla fase di merito, e la conseguente stabilizzazione dell'efficacia del provvedimento cautelare anticipatorio, non renda ammissibile il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. o il regolamento preventivo di giurisdizione.

La questione è stata esaminata di recente da queste Sezioni Unite con riferimento alla previsione dell'art. 699 c.p.c., comma 8, comma 6, sopra riferita. La Corte (Cass. Sez. un. 28 dicembre 2007 n. 27187), è pervenuta a conclusione negativa sul rilievo che la novella affida ora alla facoltà di ciascuna parte di iniziare la causa di merito, attenuando così, ma non eliminando, il carattere strumentale del provvedimento cautelare.

Si deve conclusivamente formulare il seguente principio di diritto:

"Il procedimento previsto dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) costituisce un procedimento cautelare, cui si applicano, in forza dell'art. 699 c.p.c., comma 14, le norme sul procedimento cautelare uniforme previsto dal libro 4^, titolo 1^, capo 3^, c.p.c. in quanto compatibili; in particolare si applica l'art. 699 c.p.c., comma 8, sull'inizio della fase di merito. Ne deriva che, non essendo l'ordinanza resa su ricorso o il decreto della Corte d'Appello resa su reclamo provvedimento definitivo con carattere decisorio, è inammissibile contro di essa il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost., nè questo può essere convertito in regolamento preventivo di giurisdizione".

Si deve pertanto dichiarare il ricorso inammissibile. Le spese del presente giudizio sono compensate.

 

P.Q.M.

 

Dichiara il ricorso inammissibile. Compensa le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 18 dicembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo

 

 

 

 

 

 

 

ATTUALITA’ ITALIANA

 

 

LE ORDINANZE E I PROVVEDIMENTI   DISCRIMINATORI DI ENTI LOCALI DEL NORD ITALIA.

 

 

1. Il parere dell’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazioni) relativamente  alla seconda ordinanza del  Sindaco di Cittadella in materia di ospitalità del cittadino straniero e iscrizione anagrafica.

 

In data 11 febbraio scorso, il Sindaco del Comune di Cittadella (Padova) ha emanato un nuova ordinanza (n. 37 R.P. 211) in materia di ospitalità del cittadino straniero ed iscrizione anagrafica, con la quale ha revocato e sostituito la precedente ordinanza n. 258 R.P. 1830 dd. 16 novembre 2007. Con quest’ultima ordinanza, sono stati rimossi i più gravi profili di illegittimità che avevano contrassegnato il primo provvedimento e che erano stati sottolineati, fra l’altro, dagli interventi pubblici dell’ASGI, della CGIL e dell’UNAR, nonché dai ricorsi amministrativi al TAR Veneto depositati dai primi due organismi (in proposito si vedano le precedenti edizioni n. 12 e n. 13 della Newsletter del progetto Leader).  E’ del tutto evidente che la nuova mossa del Sindaco di Cittadella, con la quale egli compie un deciso passo indietro rispetto alle posizioni del precedente provvedimento, è il frutto delle pressioni esercitate dalla società civile e dai livelli istituzionali, anche al livello europeo, che avevano messo in evidenza la portata puramente propagandista e palesemente illegittima del provvedimento.

Si deve peraltro rilevare che anche il nuovo provvedimento non è immune da rilevanti elementi a carattere discriminatorio e vessatorio a danno dei cittadini stranieri, che sembrano profilare profili di contrasto con la normativa nazionale ed europea anti-discriminazione, come opportunamente rilevato dall’UNAR nell’intervento dd. 10 marzo 2008 che di seguito pubblichiamo.

 

 

 

Pubblichiamo di seguito il testo integrale del parere dell’UNAR

 

Presidenza del Consiglio dei Ministri

Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità

 

Ufficio per la promozione della parità di trattamento

e la rimozione delle discriminazioni

fondate sulla razza o l’origine etnica

 

Prot. N. 291/UNAR

 

 

 

 

PARERE UNAR

 

La recente ordinanza del Comune di Cittadella n. 37 R.P. 211 in materia di ospitalità del cittadino straniero ed iscrizione anagrafica, datata 11 febbraio 2008, ha revocato e sostituito la precedente ordinanza n. 258 R.P.  1830 datata 16 novembre 2007.

In relazione alla prima ordinanza, nel quadro delle proprie attribuzioni, questo Ufficio aveva formulato parere prot. 1253/UNAR, del 14 dicembre 2007 con il quale venivano enucleati diversi profili di carattere discriminatorio.

Ad un’attenta analisi del testo della nuova ordinanza, si deve rilevare come, se da un lato, sono stati rimossi gravi profili di illegittimità che avevano contrassegnato il primo provvedimento, dall’altro, residuano ancora rilevanti elementi a carattere discriminatorio che richiederebbero un ulteriore intervento per rendere l’ordinanza coerente con la legislazione comunitaria e nazionale in materia di contrasto alla discriminazione.

Nella nuova ordinanza residuano, infatti, due profili dall’aspetto discriminatorio potenzialmente forieri d “molestie” (ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 comma 3, del decreto legislativo 215/2003), laddove si continua a prevedere una bizzarra ed illegittima competenza investigativa delle autorità  comunali circa la provenienza e la liceità “della fonte da cui derivano le risorse economiche” del soggetto (pag. 5), nonché laddove si prevedono accertamenti inediti (non contemplati dall’art. 4 DPR 22 aprile 1994, n. 425, pur richiamato tra i considerando a pag. 2) circa la “fruibilità dell’alloggi ai fini abitativi” (pag. 8).

 

Sotto il primo profilo, è del tutto evidente che esula nel modo più assoluto dalle competenze delle autorità comunali lo svolgimento di una “adeguata attività di indagine autonoma ed indipendente […] in merito all’individuazione della provenienza  e alla liceità della fonte da cui derivano le risorse economiche”. Una siffatta attività di indagine spetta esclusivamente all’autorità giudiziaria, alla quale è costituzionalmente garantita la indipendenza; attività di indagine che deve essere svolta applicando scrupolosamente le norme del codice di procedura penale, a condizione che sussistano specifiche circostanze atte a giustificare la promozione di una siffatta indagine (ed è chiaro che l’origine etnica di un soggetto non può mai essere circostanza atta a giustificare un’indagine del genere). Pertanto, l,’inserimento nell’ordinanza della previsione di un’indagine di quel tipo demandata agli “uffici comunali”, non soltanto si configura come un vizio dell’atto amministrativo, ma si risolve anche in un comportamento dal carattere discriminatorio costituente “molestia” in quanto posto in essere per motivi di origine etnica, con “lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo”.

Tale argomentazione è ancora più incisiva laddove si osservi che anche nel nuovo testo del decreto legislativo 28 febbraio 2008, n. 32 (che ha modificato il d.lgs. n. 30/2007),  approvato pochi giorni fa dal governo, è scomparso legittimamente qualsiasi riferimento alla liceità e provenienza delle fonti di reddito come da più parti richiesto.

Per quanto riguarda il secondo profilo riguardante gli accertamenti circa la “fruibilità dell’alloggio ai fini abitativi”, la situazione appare per certi versi analoga.

Il richiamo all’art. 4 del DPR 22 aprile 1994, n. 425, operato nei considerando in apertura dell’Ordinanza, è inconferente, posto che tale articolo (relativo al “Rilascio del certificato di abitabilità”) attiene agli immobili di nuova costruzione per cui sia stato effettuato il collaudo, e stabilisce che il Sindaco rilascia il certificato di abitabilità “entro trenta giorni dalla data di presentazione della domanda”, e che entro questo stesso termine  egli “può disporre una ispezione […] che verifichi l’esistenza dei requisiti richiesti alla costruzione per essere dichiarata abitabile” (comma 2). Nei commi successivi si prevede la possibilità che questi tempi si allunghino, ma al massimo per alcuni mesi dalla presentazione della domanda.

Tale essendo la situazione normativa, si deve ritenere che l’inserimento nell’ordinanza della previsione di non ben precisati –  quindi fortemente discrezionali – accertamenti circa la “fruibilità dell’alloggio ai fini abitativi” (da eseguire “contestualmente all’accertamento della dimora abituale”) si risolva in un comportamento discriminatorio potenzialmente foriero di “molestie” – in quanto posto in essere evidentemente per motivi etnico-razziali – ed in particolare idoneo a determinare possibili iniziative vessatorie nei confronti di soggetti che, pur avendo diritto all’iscrizione anagrafica, risultassero vivere in condizioni abitative obbiettivamente carenti.

A ciò si aggiungono alcune perplessità riguardanti un inedito collegamento fra le richiamate esigenze di pubblica sicurezza e le esigenze del servizio di nettezza urbana così come previste dal paragrafo  n. 1 dell’ordinanza relativamente alla “Comunicazione di ospitalità del cittadino straniero”.

Vero è che tale paragrafo si base sulla disposizione di cui all’art. 7, comma 1, del decreto legislativo 286/98 (“Chiunque, a qualsiasi titolo, dà alloggio ovvero ospita uno straniero o apolide, anche se parente o affine […], è tenuto a darne comunicazione scritta, entro quarantotto ore, all’autorità locale di pubblica sicurezza”) – norma peraltro che non prevede nessuna sanzione in caso di violazione – Ma ciò che lascia perplessi è il fatto che l’ordinanza modifica sostanzialmente i termini di tale comunicazione, aggiungendo che essa deve indicare anche la “capienza abitativa dell’alloggio formatasi a seguito dell’ospitalità denunciata, allo scopo dell’adeguamento della tassa asporto rifiuti urbani”, indicazione ovviamente non richiesta dal citata art. 7. In tal modo l’ordinanza prevede una singolare comunicazione ibrida, da trasmettere sia alla Questura che all’Ufficio Tributi del Comune.

Sul punto, preme sottolineare che il Regolamento tariffario per lo smaltimento dei rifiuti del Comune prevede tale obbligo di comunicazione per tutti gli ospiti temporanei indiscriminatamente e non soltanto per quelli stranieri, sempre che la permanenza superi i 90 giorni.

 

Roma, 10 marzo 2008

 

                                                                                             Cons. Marco De Giorgi

                                                    

 

 

 

2.

 

 

La Commissione Europea risponde a quattro interrogazioni sulle iniziative adottate da alcuni comuni italiani in materia di matrimoni misti, iscrizione anagrafica, accesso all’istruzione di cittadini comunitari ed extracomunitari.

 

 

Pubblichiamo di seguito il testo integrale delle interrogazioni presentate al Parlamento europeo relativamente alle ordinanze discriminatorie promosse da enti locali del Nord Italia e delle risposte del Vice Commissario europeo Franco Frattini.

 

1.               Matrimoni fra cittadini italiani e stranieri a Caravaggio



Interrogazione di Giusto Catania (GUE/NGL), Roberto Musacchio (GUE/NGL), Vittorio Agnoletto (GUE/NGL), Vincenzo Aita (GUE/NGL), Luisa Morgantini (GUE/NGL), Umberto Guidoni (GUE/NGL), Giovanni Berlinguer (PSE), Giulietto Chiesa (PSE), Claudio Fava (PSE), Pasqualina Napoletano (PSE), Monica Frassoni (Verts/ALE), Donata Gottardi (PSE), Alfonso Andria (ALDE), Donato Tommaso Veraldi (ALDE), Pier Antonio Panzeri (PSE), Gianni Pittella (PSE), Lapo Pistelli (ALDE), Andrea Losco (ALDE), Gianluca Susta (ALDE), Francesco Ferrari (ALDE), Nicola Zingaretti (PSE), Mauro Zani (PSE) e Luciana Sbarbati (ALDE).


18 dicembre 2007

 

Nei giorni scorsi, il comune di Caravaggio, in provincia di Bergamo, ha approvato una delibera per cui lo straniero che desidera sposarsi con un cittadino italiano nel suddetto Comune deve presentare, fra l'insieme dei documenti necessari, anche il permesso di soggiorno. La legge italiana non prevede che gli ufficiali di stato civile, responsabili delle pratiche matrimoniali, possano richiedere il permesso di soggiorno per le pubblicazioni di matrimonio.

Inoltre, la legge italiana in materia di matrimoni con stranieri impone una serie di requisiti fra cui il nulla-osta, documento che necessita la convalida da parte dell'ambasciata o consolato italiano nel paese d'origine, se la richiesta è fatta all'estero, oppure, se la richiesta è fatta in Italia, viene emessa dal consolato del Paese d'origine, con legalizzazione della firma del Console presso la Prefettura italiana competente.
La normativa italiana sul matrimonio prevede anche la possibilità del matrimonio per procura, e quindi non presuppone nemmeno sempre che entrambi sposi trovino nel territorio dello stato.
Le nuove disposizioni del Comune di Caravaggio impongono quindi ulteriori e inutili passaggi burocratici che ostacolano per i cittadini comunitari il diritto a sposarsi e a costituire una famiglia, come definito nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Non ritiene la Commissione europea che la delibera applicata indebitamente dall'autorità comunale di Caravaggio sia in contrasto con l'articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea?


Risposta di Franco Frattini a nome della Commissione

(15 febbraio 2008)


In base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, le condizioni per la celebrazione del matrimonio non devono restringere o ridurre il diritto di sposarsi in un modo o ad un grado che attenterebbero alla stessa sostanza del diritto .

Tuttavia, poiché il diritto sostanziale in materia di matrimonio rientra interamente nell'ambito delle competenze degli Stati membri e non riguarda la legislazione comunitaria, la Commissione non può approfondire nei dettagli la questione. Spetta perciò alle competenti autorità italiane valutare la decisione del comune di Caravaggio alla luce del diritto nazionale e della convenzione europea dei diritti dell'uomo e stabilire se essa attenti alla stessa sostanza del diritto di sposarsi e se possa essere giustificata come necessaria e commisurata all'interesse pubblico. (Cfr. sentenza Rees contro Regno Unito del 17 ottobre 1986, Serie A n. 106, paragrafo 50; sentenza F. contro Svizzera, del 18 dicembre 1987, Serie A n. 128, paragrafo 32).





2. Bettio, metodi nazisti contro gli extracomunitari



Interrogazione scritta di Giusto Catania (GUE/NGL), Roberto Musacchio (GUE/NGL), Vittorio Agnoletto (GUE/NGL), Vincenzo Aita (GUE/NGL), Luisa Morgantini (GUE/NGL), Umberto Guidoni (GUE/NGL), Giovanni Berlinguer (PSE), Giulietto Chiesa (PSE), Claudio Fava (PSE), Pasqualina Napoletano (PSE), Monica Frassoni (Verts/ALE), Donata Gottardi (PSE), Alfonso Andria (ALDE), Donato Tommaso Veraldi (ALDE), Pier Antonio Panzeri (PSE), Gianni Pittella (PSE), Lapo Pistelli (ALDE), Andrea Losco (ALDE), Gianluca Susta (ALDE), Francesco Ferrari (ALDE), Nicola Zingaretti (PSE), Mauro Zani (PSE), Luciana Sbarbati (ALDE) e Patrizia Toia (ALDE)

(18 dicembre 2007)



Durante un dibattito del Consiglio Comunale di Treviso su sicurezza, immigrazione e modalità di ottenimento della residenza da parte di cittadini comunitari e extracomunitari, il Consigliere comunale Giorgio Bettio, rappresentante del partito della Lega Nord, ha affermato che: “Sarebbe giusto fargli capire (ai cittadini stranieri) come ci si comporta usando gli stessi metodi dei nazisti. Per ogni trevigiano a cui recano danno o disturbo, vengano puniti dieci extra-comunitari”.

Il tenore delle dichiarazioni del consigliere Bettio, rappresentante di un'istituzione pubblica dello Stato italiano, ha sollevato molte reazioni nella stampa nazionale e nell'opinione pubblica, che condannano le affermazioni del consigliere trevigiano.

Non ritiene la Commissione che le esternazioni del consigliere Bettio, rappresentante di un'istituzione pubblica di uno stato membro, rappresentino un attentato ai principi di democrazia e ai diritti fondamentali tutelati dal diritto comunitario?

Nel momento in cui l'Unione europea s'appresta ad adottare la decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia, non ritiene la Commissione che tale esternazioni si oppongano allo spirito del nuovo strumento europeo, che condanna ogni atto istigante al razzismo e all'odio, in questo caso contro cittadini non italiani che vogliono risiedere nel Comune di Treviso?

Come intende attivarsi la Commissione europea nei confronti del Governo italiano affinché i principi del diritto comunitario vengano applicati?



Risposta di Franco Frattini a nome della Commissione

(6 febbraio 2008)


La Commissione respinge e condanna la glorificazione dei regimi totalitari e tutte le manifestazioni di razzismo e xenofobia, di qualsiasi provenienza, in quanto incompatibili con i valori dell'UE, primi fra tutti la democrazia, lo stato di diritto e il rispetto e la promozione dei diritti fondamentali. La dichiarazione citata dagli onorevoli Parlamentari contrasta con questi valori.

Nella lotta contro il razzismo e la xenofobia la Commissione è determinata ad avvalersi di tutti i poteri che le conferiscono i trattati: tra questi non rientra però la possibilità di agire in casi individuali, neppure quando le dichiarazioni sono particolarmente gravi.

La Commissione ha comunque fatto e continuerà a fare il possibile affinché sia presto formalmente adottata la proposta di decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia .
In mancanza di una normativa comunitaria e là dove non sussista la competenza dell'UE, gli Stati membri hanno la responsabilità di assicurare, attraverso l'attuazione della legge nazionale e degli obblighi internazionali, che i principi su cui si fonda l'UE e che sono comuni a tutti gli Stati membri siano effettivamente rispettati.



3. Verona, nuovi criteri per residenza


Interrogazione scritta di Giusto Catania (GUE/NGL), Roberto Musacchio (GUE/NGL), Vittorio Agnoletto (GUE/NGL), Vincenzo Aita (GUE/NGL), Luisa Morgantini (GUE/NGL), Umberto Guidoni (GUE/NGL), Giovanni Berlinguer (PSE), Giulietto Chiesa (PSE), Claudio Fava (PSE), Pasqualina Napoletano (PSE), Monica Frassoni (Verts/ALE), Donata Gottardi (PSE), Alfonso Andria (ALDE), Donato Tommaso Veraldi (ALDE), Pier Antonio Panzeri (PSE), Gianni Pittella (PSE), Lapo Pistelli (ALDE), Andrea Losco (ALDE), Gianluca Susta (ALDE), Francesco Ferrari (ALDE), Nicola Zingaretti (PSE), Mauro Zani (PSE), Luciana Sbarbati (ALDE) e Patrizia Toia (ALDE)


(10 dicembre 2007)



Recentemente la giunta comunale di Verona, su proposta del sindaco Flavio Tosi, ha definito nuovi criteri per l’accettazione delle richieste di residenza di cittadini stranieri, anche se comunitari. In particolare, le nuove norme di assegnazione degli alloggi di edilizia popolare pongono condizioni svantaggiose nei confronti di cittadini stranieri, comunitari ed extracomunitari residenti nel comune scaligero. In materia di assegnazioni relative ai bandi di concorso di cui alla Legge regionale 10/96 é stata introdotta una maggioranza di punteggio -fino a 4 punti- a favore dei cittadini italiani residenti nel Comune di Verona da almeno 20 anni. Un ulteriore sbarramento é stato posto anche in tema di assegnazione di alloggi a canone convenzionato, laddove si prevede quale criterio di accesso la residenza nel Comune di Verona da almeno 10 anni.

Conviene la Commissione che il provvedimento adottato dal Comune di Verona rappresenta una forma di discriminazione in contrasto con lo spirito dei trattati, in particolare dell'Art. 12 del Trattato CE e dell'Art. 6 del Trattato sull'Unione Europea?

Non ritiene la Commissione che il provvedimento adottato dal Comune di Verona sia in contraddizione con la Direttiva 2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, e in particolare dell'Art. 11 par. 1 lettera f)?

Può attivarsi la Commissione presso le autorità italiane affinché sia garantito il pieno rispetto del diritto europeo?


Risposta di Franco Frattini a nome della Commissione

(20 febbraio 2008)


Per quanto attiene ai diritti concessi ai cittadini dell'UE e ai loro familiari, l'articolo 24 della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri stabilisce che, fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal trattato CE e dal diritto derivato, ogni cittadino dell'Unione che risiede, in base alla direttiva stessa, nel territorio di uno Stato membro gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai familiari non aventi la cittadinanza dello Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno. permanente. Le deroghe previste al paragrafo 2 dello stesso articolo non riguardano l'accesso agli alloggi sociali.

Le norme della direttiva sopra citate impediscono qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità per la concessione dell'accesso a benefici sociali, come ad esempio ad alloggi sociali, che rientrano nel campo di applicazione del trattato CE.

La direttiva 2004/38/CE è stata recepita nella legislazione italiana mediante il decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, che traspone correttamente l'articolo 24 della direttiva.

La situazione dei cittadini di paesi terzi che risiedono in uno Stato membro del quale hanno acquisito lo status di soggiornanti di lungo periodo è disciplinata dalla direttiva 2003/109/CE. La direttiva in questione avrebbe dovuto essere recepita da tutti gli Stati membri interessati, inclusa l'Italia, entro il 23 gennaio 2006. L'Italia ha comunicato alla Commissione le disposizioni che, a parere dello stesso Stato membro, attuano pienamente la direttiva in questione. Ai sensi dell'articolo 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva, “il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: (…) l'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all'erogazione degli stessi, nonché alla procedura per l'ottenimento di un alloggio.” Inoltre, nel quadro della mobilità intra-comunitaria dei soggiornanti di lungo periodo garantita dalla direttiva in oggetto, l'articolo 21, paragrafo 1, stabilisce che “quando abbia ottenuto nel secondo Stato membro il titolo di soggiorno di cui all'articolo 19, il soggiornante di lungo periodo gode in questo Stato membro dello stesso trattamento nei settori e alle condizioni di cui all'articolo 11”.

Per quanto attiene al loro campo di applicazione, tali disposizioni escludono qualunque possibilità per uno Stato membro di attribuire particolari privilegi ai propri cittadini senza attribuire i medesimi privilegi anche ai soggiornanti di lungo periodo residenti in quello Stato membro.

La Commissione intende contattare le autorità italiane al fine di ricevere maggiori informazioni sulla questione e circa l'osservanza delle direttive sopra citate.




4. Bonus istruzione del Comune di Romano d'Ezzelino



Interrogazione scritta di Giusto Catania (GUE/NGL), Roberto Musacchio (GUE/NGL), Vittorio Agnoletto (GUE/NGL), Vincenzo Aita (GUE/NGL), Luisa Morgantini (GUE/NGL), Umberto Guidoni (GUE/NGL), Giovanni Berlinguer (PSE), Giulietto Chiesa (PSE), Claudio Fava (PSE), Pasqualina Napoletano (PSE), Monica Frassoni (Verts/ALE), Donata Gottardi (PSE), Alfonso Andria (ALDE), Donato Tommaso Veraldi (ALDE), Pier Antonio Panzeri (PSE), Gianni Pittella (PSE), Lapo Pistelli (ALDE), Andrea Losco (ALDE), Gianluca Susta (ALDE), Francesco Ferrari (ALDE), Nicola Zingaretti (PSE), Mauro Zani (PSE), Luciana Sbarbati (ALDE) e Patrizia Toia (ALDE)


(10 dicembre 2007)



Il Comune di Romano d'Ezzelino, in Provincia di Ferrara, ha recentemente cambiato il regolamento per l'assegnazione dei bonus istruzione emessi dal Comune.

I bonus istruzione del Comune -contributi economici che sostituiscono le vecchie borse di studio- saranno assegnati, indipendentemente dal reddito, ad alunni di terza media, delle scuole superiori e ai laureati che avranno ottenuto il massimo dei voti, purché siano residenti da almeno tre anni a Romano d'Ezzelino e posseggano la cittadinanza italiana o di uno dei Paesi della Comunità europea. Si escludono quindi a priori tutti i residenti di Paesi extra europei, anche soggiornanti di lungo periodo.
Non ritiene la Commissione europea che tale norma sia in contraddizione con l'articolo 11 della direttiva 2003/109/CE , nel quale si dice che il cittadino di paesi terzi soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quel che concerne l'istruzione, compresi assegni scolastici e borse di studio?

Come intende attivarsi la Commissione europea presso le autorità italiane per garantire l'applicazione corretta del diritto comunitario?



Risposta di Franco Frattini a nome della Commissione

(20 febbraio 2008)


La situazione dei cittadini di paesi terzi residenti in uno Stato membro che abbiano acquisito lo status di soggiornanti di lungo periodo è regolata dalla direttiva 2003/109/CE . La direttiva doveva essere recepita entro il 23 gennaio 2006 da tutti gli Stati membri interessati, compresa l'Italia che ha notificato alla Commissione le disposizioni adottate nell'ordinamento giuridico nazionale per dare piena attuazione alla direttiva.

Ai sensi dell'articolo 11, paragrafo 1, lettera b), della direttiva: “Il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: (…) l'istruzione e la formazione professionale, compresi gli assegni scolastici e le borse di studio secondo il diritto nazionale”.
L'articolo 11, paragrafo 3, lettera b), stabilisce che gli Stati membri “possono esigere una prova del possesso delle adeguate conoscenze linguistiche per l'accesso all'istruzione e alla formazione. L'accesso all'università può essere subordinato all'adempimento di specifiche condizioni riguardanti la formazione scolastica”.

Inoltre, riguardo alla mobilità intracomunitaria dei soggiornanti di lungo periodo garantita dalla direttiva, l'articolo 21, paragrafo 1, stabilisce che: “quando abbia ottenuto nel secondo Stato membro il titolo di soggiorno di cui all'articolo 19, il soggiornante di lungo periodo gode in questo Stato membro dello stesso trattamento nei settori e alle condizioni di cui all'articolo 11”.

Le disposizioni summenzionate escludono – relativamente al loro campo di applicazione e sempre che i soggiornanti di lungo periodo soddisfino le condizioni di cui all'articolo 11, paragrafo 3, lettera b), della direttiva – ogni possibilità per uno Stato membro di assegnare borse di studio ai propri cittadini senza concederle anche ai soggiornanti di lungo periodo che risiedono nel suo territorio.
La Commissione intende contattare le autorità italiane al fine di ricevere informazioni più dettagliate sulla questione.

 

 



 

 

 

 

INTERVENTI DI ADVOCACY

 

 

1. I profili discriminatori degli  annunci di impiego che contengono la previsione di un requisito del possesso della ‘lingua madre italiana’ ai fini dell’assunzione.

Il punto di vista del Servizio di Supporto giuridico contro le discriminazioni razziali dell’ASGI a seguito di una segnalazione della RITA Liguria.

 

 

 

 

  Servizio di Supporto Giuridico contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose

  Viale XX Settembre 16

  34125 Trieste

  Tel. Fax. 040 368463

 

  Sede legale:

  Via Gerdil, 7

  10100 Torino

  Tel. Fax: 011 4369158

  www.asgi.it

 

Nel corso del mese di marzo 2008, il Servizio di Supporto Giuridico contro le discriminazioni razziali dell’ASGI, nell’ambito del progetto LEADER, ha  ricevuto una segnalazione dall’ARCI Liguria, partner del menzionato progetto LEADER e capofila della RITA Liguria, secondo la quale nel sito web del servizio  "Match Aziende e Lavoro", predisposto dalla Provincia di Genova- Centri per l’Impiego, [1] nella parte relativa alle  offerte di lavoro inviate  direttamente dalle aziende e relative al personale di cui queste manifestano il bisogno, comparivano numerose schede/annunci in cui alla casella “conoscenze linguistiche” veniva menzionato il requisito: “ITALIANO madrelingua”.

In data 3 marzo abbiamo personalmente visitato il sito web e abbiamo constatato la veridicità di quanto affermato dal rappresentante dell’ARCI Liguria. [2]

Il presente Servizio esprime la propria perplessità e contrarietà a tale prassi e ritiene che essa sia illegittima ed in contrasto con precise norme di leggi nazionali e comunitarie in materia di parità di trattamento nell’accesso e condizioni di  lavoro, senza discriminazioni legate alla razza, origine etnica e nazionale.

Il riferimento alla lingua materna  rinvia necessariamente alla lingua del paese di origine del candidato ad una posizione lavorativa, riservando di conseguenza quelle posizioni lavorative ove tale requisito venga  menzionato ai soli candidati i cui genitori siano  di ceppo etnico- linguistico italiano e di conseguenza abbiano trasmesso tale competenza linguistica ovvero a quelle persone che siano state socializzate in ambito familiare e scolastico nella lingua italiana. Avendo in considerazione, inoltre, come nel nostro paese l’attribuzione della cittadinanza italiana  per nascita avvenga innanzitutto per discendenza  da almeno uno dei genitori di cittadinanza italiana (principio dello jus sanguinis), mentre il principio dello jus soli ha natura meramente residuale, è del tutto evidente che un requisito di lingua materna italiana ai fini dell’accesso a determinate posizioni lavorative, oltre ad introdurre un criterio di selezione fondato sull’origine etnico-linguistica, finisce per sovrapporre anche un criterio di selezione fondato sulla cittadinanza, venendo ad escludere in misura nettamente prevalente  lavoratori di cittadinanza straniera.

Siamo consapevoli che in relazione alle caratteristiche di determinate mansioni occupazionali, il requisito di un’adeguata   conoscenza della lingua italiana possa risultare giustificato, mediante una valutazione da operarsi caso per caso secondo  criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Tuttavia tale esigenza deve essere espressa facendo riferimento a criteri obiettivi, univoci e neutrali,  quali “la conoscenza ‘avanzata’  o ‘professionale’ della lingua italiana” tali da non richiamare profili discriminatori su basi etnico-razziali o di nazionalità che sono invece insiti nella definizione di “lingua materna”.

In sintesi, il criterio della lingua materna rinvia alla lingua del paese di origine del lavoratore e lascia intendere che la posizione lavorativa è riservata ai candidati di origine etnica e di cittadinanza italiana,  escludendo i candidati di origine etnico-nazionale straniera, i quali tuttavia possono avere acquisito una conoscenza equivalente della lingua italiana in altri modi (studi, soggiorno prolungato in Italia, esperienze professionali,….). In tale modo si realizza una discriminazione proibita dalla legislazione in vigore.[3]

Nell’ordinamento italiano esistono precise norme che vietano e sanzionano pratiche discriminatorie fondate su criteri quali l’appartenenza etnico-razziale, ovvero la nazionalità intesa quale cittadinanza o status civitatis nell’accesso al lavoro, ivi compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione.

Innanzitutto, l’art. 2 del d.lgs 25.7.1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, nel comma 3, prevede espressamente che:

 La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell'OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani.

Rispetto a quest’ultima previsione, a giudizio della Corte Costituzionale (interrogata in merito ad una presunta lacuna normativa riguardo alla assenza di un’espressa previsione del diritto dei lavoratori extracomunitari invalidi civili di ottenere anch’essi l’iscrizione nell’elenco degli invalidi civili disoccupati aspiranti al collocamento obbligatorio[4]), il legislatore sembra aver voluto assicurare ai lavoratori stranieri il medesimo trattamento riservato ai lavoratori italiani, non solo allorché sia già stato instaurato un rapporto di lavoro, ma anche nell’ipotesi astratta di instaurarne uno in futuro.

L’art. 43 del Testo Unico sull’immigrazione, al 1° comma, introduce una sorta di clausola generale di non discriminazione, riprendendo quanto contenuto nell’art. 1 della Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, firmata a New York in 7 marzo 1966 e ratificata dall’Italia con la legge 1.5.1975, n. 654.

Costituisce una discriminazione:

ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose e abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.

- È pertanto innanzitutto da considerarsi discriminatoria la condotta che comporti un trattamento differenziato per i motivi appena menzionati, sia quando essa sia attuata in modo diretto (vale a dire quando una persona viene trattata meno favorevolmente di quanto lo sarebbe in una situazione analoga), sia quando la differenziazione che causa pregiudizio sia conseguenza dell’applicazione di criteri formalmente “neutri”, o “indiretti”.

-  La menzione dello “scopo o (dell’) effetto” contribuisce a ricomprendere nella definizione in esame non solo le condotte poste in essere con la specifica intenzione di nuocere, ma anche quelle che, prive di intento lesivo, comportino comunque un effetto pregiudizievole.

Il legislatore ha poi formulato, nel secondo comma della disposizione, una tipizzazione delle condotte aventi sicuramente una valenza discriminatoria.

L’articolo prevede infatti che compia “in ogni caso” una discriminazione:

 

a)il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente;

 

[…]

c)chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

[…]

e)il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza.

Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.

 

Al D.lgs. n. 286/98 si è aggiunto successivamente il d.lgs. n. 215/2003, di recepimento della direttiva europea 2000/43/CE che disciplina il principio di non discriminazione in ragione della razza e dell’origine etnica ed il d.lgs. n. 216/2003, di recepimento della direttiva europea n. 2000/78/CE, che disciplina il divieto  di  discriminazioni in ragione del credo religioso o delle convinzioni personali, dell’handicap, dell’età o delle tendenze sessuali, nell’ambito dell’occupazione e delle condizioni di lavoro.

Sulla base di una lettura congiunta delle norme di recepimento delle citate direttive europee, sussiste una   discriminazione diretta ”quando, per la razza o l’origine etnica, per religione, convinzioni personali, per handicap, per età o orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga” (artt. 2 d.lgs. n. 215 e 216/2003);  una discriminazione indiretta sussiste invece “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente  neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica, che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale, in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (art. 2.1 b) d. lgs. nn. 215 e 216/2003).

Sulla base di tali norme di fonte comunitario, le discriminazioni dirette  sono vietate in maniera assoluta, con l’unica eccezione delle differenze di trattamento fondate sul criterio del requisito essenziale e determinate per lo svolgimento dell’attività lavorativa, mentre una maggiore flessibilità viene lasciata nella valutazione dei casi di presunta discriminazione indiretta, che non sono tali   quando una differenza di trattamento pur risultando indirettamente discriminatoria, è giustificata oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari”(art. 2.2 b) dir. n. 2000/43/CE)

Il divieto di discriminazioni basate sui fattori  sopraindicati si applica espressamente anche alle aree dell’«accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente,  compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione» (Art. 3 c. 1 lett. a) d.lgs. n. 215/20003  e n. 216/2003).[5]

Alla luce di quanto sopra, si ritiene che la definizione e lo svolgimento di procedure di selezione di personale fondate tra l’altro sul requisito della “lingua materna italiana” costituisca inequivocabilmente una discriminazione diretta fondata sull’origine etnico-nazionale ed in secondo luogo, una discriminazione “dissimulata” fondata sul criterio di cittadinanza e volta ad escludere di fatto i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti in Italia dalle procedure di assunzione; in entrambi i casi trattasi di comportamenti discriminatori vietati dal quadro normativo sopraccitato. 

Tali comportamenti discriminatori espongono tanto le aziende e i datori di lavoro che danno origine a tali “offerte di lavoro”, quanto i centri per l’impiego e i servizi, pubblici e privati, di mediazione tra domanda ed offerta di lavoro, che diffondono tali “offerte di lavoro” ed effettuano di conseguenza la selezione delle candidature,  alle   procedure sanzionatorie previste a seguito dell’eventuale attivazione da parte di soggetti passivi della discriminazione o associazioni legittimate ad agire dell’azione giudiziaria anti-discriminazione di cui all’art. 44 del TU sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/98 come integrato dal d.lgs. n. 215/2003).[6]

A tale riguardo,  i responsabili dei servizi di intermediazione per l’impiego, tanto pubblici che privati, così come tutti coloro che a qualsiasi titolo si trovano a pubblicare o diffondere “annunci di lavoro” ( giornali e periodici,  riviste di annunci, siti web,…)  dovrebbero scrupolosamente conformarsi  alle seguenti raccomandazioni:

 

-  non  compilare o  diffondere in alcun modo  schede/annunci di “offerte di lavoro” che contengano elementi e requisiti discriminatori tra cui l’indicazione dell’Italiano quale ‘lingua madre’, informando i fruitori del servizio (datori di lavoro) delle normative anti-discriminatorie in vigore e delle sanzioni da esse previste;

 

 - rifiutarsi di operare la preselezione dei candidati a determinate posizioni lavorative sulla base di criteri e requisiti discriminatori richiesti dai datori di lavoro, ma vietati dalla legge.

 

           

 

p. l’ASGI
      Servizio di supporto giuridico

contro le discriminazioni etniche, razziali e religiose

Progetto Leader

Dott. Walter Citti

 

 

 

 

 

 

 

2.

 

Ripristinata all’Università di Bergamo la parità di trattamento tra studenti stranieri e studenti italiani nelle condizioni di eleggibilità alla rappresentanza studentesca in seno agli organi di ateneo.

Lo scorso 18 febbraio, il Rettore dell’Università di Bergamo ha modificato con proprio decreto, a seguito di apposita deliberazione del Senato  Accademico, il regolamento degli studenti che conteneva una clausola discriminatoria suscettibile di privare  gli studenti stranieri del diritto all’’eleggibilità passiva   per le elezioni dei rappresentanti degli studenti in seno  agli organi accademici. La questione era stata sollevata dall’ASGI ed in seguito anche dall’UNAR dopo le polemiche suscitate  in occasione delle elezioni universitarie del 16-17 maggio 2007.

Con il nuovo regolamento degli studenti, viene ripristinata la parità di trattamento tra  studenti stranieri e italiani nella condizione di eleggibilità agli organi di rappresentanza dell’Ateneo.

 

Per un esame della vicenda, nonché per il testo integrale delle prese di posizione dell’ASGI e dell’UNAR si rimanda alle edizioni n. 6 e n. 9 della Newsletter del Servizio di Supporto Giuridico contro le discriminazioni razziali del progetto Leader.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ATTUALITA’ INTERNAZIONALE

 

 

Il CERD, Comitato ONU per l’eliminazione delle discriminazioni razziali, rende pubbliche le proprie raccomandazioni alle autorità italiane per efficaci politiche pubbliche contro il razzismo e la discriminazione razziale. Il lavoro svolto dalle organizzazioni non governative.

 

Al termine della sua 72a. sessione, svoltasi tra il 18 febbraio ed il 7 marzo 2008, il CERD – Comitato ONU per l’eliminazione della discriminazione razziale, organo di monitoraggio delle Nazioni Unite previsto dalla Convenzione ONU per l’eliminazione  di tutte le forme di  discriminazione razziale, adottata il 21 dicembre 1965 e cui l’Italia ha aderito nel 1966, ratificandola nel 1971, ha reso pubbliche le sue Osservazioni conclusive, emanate a seguito dell’esame e della discussione da parte della delegazione italiana del quattordicesimo e quindicesimo Rapporto sulla Convenzione ONU  riguardante il nostro paese.

Il rapporto, edito nel marzo del 2006, è stato fatto infatti oggetto di discussione con la delegazione governativa italiana nel corso della sessione organizzata dal CERD gli scorsi 27 e 28 febbraio. Alla discussione hanno preso parte anche numerose organizzazioni non governative italiane, le quali hanno presentato per iscritto le loro osservazioni sulla situazione italiane. Vanno segnalati in particolare i contributi della sezione italiana dell’European Roma Rights Center – OsservAzione, del Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza coordinato da Save the Children Italia,  dell’Unione Forense per la tutela dei diritti dell’Uomo, e del Comitato per la promozione e protezione dei diritti umani, un coordinamento ad hoc di ONG, cui anche l’ASGI ha fatto parte.

In vista della sessione del CERD, il Comitato interministeriale dei diritti umani presso il Ministero per gli Affari Esteri italiano aveva  inviato una proprio rapporto inerente alle questioni sollevate dal 14° e 15° rapporto del comitato ONU riguardante l’Italia.

Nel documento conclusivo, il Comitato ha evidenziato i punti che destano maggiore apprensione, rivolgendo al nostro Paese talune raccomandazioni finalizzate ad adottare tutte le misure necessarie per contrastare efficacemente nei prossimi anni razzismo ed intolleranza. In particolare, il Comitato ONU ha espresso  grande preoccupazione per la grave situazione di degrado ed emarginazione sociale che caratterizza le popolazioni Rom e Sinti presenti nel nostro Paese. A tale riguardo, il Comitato ONU ha raccomandato allo Stato italiano di riconoscere ufficialmente le popolazioni Rom e Sinti come minoranze nazionali autoctone, al fine di rendere loro accessibili  le disposizioni volte a tutelare le lingue e culture minoritarie di cui alla legge n. 482/1999. Il Comitato ONU raccomanda inoltre alle autorità italiane di attuare politiche e progetti al fine di evitare la situazione di segregazione abitativa delle comunità Rom nei campi ove non sono disponibili i più essenziali servizi di base. Vengono inoltre sollecitate le autorità nazionali a non tollerare provvedimenti  di amministrazioni locali che abbiano contenuti e finalità discriminatorie nei confronti di appartenenti alle popolazioni Rom e Sinti. Viene inoltre rivolto un appello alle autorità italiane competenti affinché rafforzino il loro impegno nel favorire l’inclusione dei minori di origine Rom nel sistema scolastico e nell’affrontare le cause dei tassi di abbandono scolastico, così come a prevenire l’uso illecito della forza da parte delle forze dell’ordine nei confronti dei Rom.

Il Comitato ONU ha espresso la propria apprensione anche rispetto alle situazioni di grave sfruttamento sociale e lavorativo cui sono vittime molti immigrati privi di documenti, nonché alle precarie condizioni di tutela e di vita degli stranieri nei centri di assistenza e di permanenza temporanea (CPTA) ed in particolare in quello di Lampedusa.

Nelle sue osservazioni conclusive, il Comitato ONU nota anche lo scarso numero di procedimenti giudiziari in materia di discriminazione razziale in Italia, ritenendo che tale dato non debba essere necessariamente interpretato in  termini positivi, bensì come il frutto di un’informazione inadeguata delle vittime circa i loro diritti, di un insufficiente livello di conoscenza da parte delle autorità dei reati di natura razzista, di insufficienti misure volta ad agevolare l’accesso delle vittime di discriminazione razziale ad efficaci strumenti giudiziari.

Il CERD inoltra raccomanda alle autorità italiane di sollecitare i mezzi di informazione  ad assumere un ruolo attivo nella lotta ai pregiudizi e agli stereotipi negativi e chiede a tal fine alle autorità competenti di adottare rapidamente il codice di condotta dei giornalisti predisposto in collaborazione con l’UNAR, l’ACNUR e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana.

Infine, il CERD raccomanda alle autorità italiane di emendare le proprie disposizioni in materia di censimento della popolazione in modo da poter disporre di statistiche relative alla composizione etnica della popolazione, utili ad una migliore azione preventiva e repressiva delle situazioni e dei comportamenti discriminatori.

 

Si pubblica di seguito il testo non ufficiale delle conclusioni del CERD, mentre tutti i documenti e rapporti preparatori e quelli presentati dalle autorità governative italiane e dalle ONG che hanno partecipato ai lavori della 72a. sessione dell’organismo ONU sono reperibili sul sito:

http://www2.ohchr.org/english/bodies/cerd/cerds72.htm

 

 

Traduzione non ufficiale

a cura del Comitato per la Promozione e Protezione dei Diritti Umani

 

COMITATO per L’ELIMINAZIONE DELLA DISCRIMINAZIONE RAZIALE

Settantaduesima sessione

18 febbraio-7 marzo 2008

Distr.

GENERAL

CERD/C/ITA/CO/15
 Marzo 2008

Originale: Inglese

                                                          VERSIONE INEDITA

 

 

ESAME DEI RAPPORTI PRESENTATI DAGLI STATI PARTE AI SENSI DELL’ARTICOLO 19 DELLA CONVENZIONE

Conclusioni e raccomandazioni del Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale

ITALIA

 

 

1.         Il Comitato nel corso delle sue 1851ma e 1852ma sessioni (CERD/C/SR.1851 e 1852) tenutesi il 20 e 21 febbraio 2008 ha esaminato i Rapporti Periodici XIV e XV dell'Italia (CAT/C/67/Add.3). Nel corso delle sue 1867ma e 1868ma sessioni (CERD/C/SR/1867 e 1868), tenutesi il 3 e 4 marzo 2008, ha adottato le seguenti conclusioni e raccomandazioni.

 

A.        Introduzione

2.             Il Comitato accoglie con favore la presentazione dei Rapporti Periodici XIV e XV dell'Italia che sono stati compilati in conformità con le linee guida per la stesura dei rapporti. Ed esprime l’apprezzamento per il dialogo franco avuto con la delegazione e per le esaustive e approfondite risposte scritte alla lista delle questioni, fornite nei tempi opportuni prima della sessione. Apprezza inoltre la partecipazione di una delegazione composta di esperti provenienti da vari ministeri incluso l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali e riconosce i loro sforzi nel rispondere alle questioni orali sollevate dal Comitato.

 

 

B.        Aspetti positivi

3.             Il Comitato accoglie favorevolmente l’adozione del decreto legislativo 215 del 9 luglio 2033 che attua la direttiva del Consiglio d’Europa 2000/43/EC riconoscendo il principio di pari trattamento di tutte le persone senza riguardo alla loro razza o origine etnica.

4.             Il Comitato accoglie favorevolmente l’aver promosso una Conferenza Europea sui Rom a gennaio 2008 tenutasi a Roma con lo scopo di identificare possibili soluzioni ai problemi vissuti dai Rom.

5.             Il Comitato accoglie favorevolmente l’entrata in vigore a gennaio 2008 del decreto legge 249/07 per una maggiore protezione dei migranti in materia di misure di espulsione.

6.             Il Comitato accoglie favorevolmente il memorandum di intesa per la protezione dei minori degli “gypsyi, nomadi e camminanti” firmata dalla Associazione Nomadi e il Ministero della Pubblica Istruzione a giugno 2005.

7.             Il Comitato accoglie favorevolmente la creazione a novembre 2004 all’interno del Ministero per le Pari Opportunità dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali per la promozione dell’uguaglianza e la lotta contro la discriminazione razziale o l’origine etnica.

8.             Il Comitato accoglie favorevolmente l’informazione fornita dallo Stato parte in base alla quale la Corte di Cassazione ha stabilito che qualsiasi atto giudiziario concernente un imputato sarebbe stato dichiarato nullo ed inefficace qualora non fosse stato tradotto nella lingua madre dell’imputato. Accoglie inoltre favorevolmente la nomina di mediatori culturali e linguistici per fornire informazioni, guida e supporto ai carcerati stranieri nel corso dei procedimenti giudiziari.

9.             Il Comitato prende nota con soddisfazione della promulgazione il 22 giugno 2007 di una legge che prevede sanzioni penali contro i datori di lavoro che impiegano migranti privi di documenti al fine di combattere lo sfruttamento sul lavoro.

10.          Il Comitato accoglie favorevolmente l’adozione del Decreto Legge 162/2005 che fornisce nuove misure atte a prevenire e sanzionare atti di violenza razziale nel corso di eventi sportivi compresa la istituzione di un Osservatorio Nazionale sugli Eventi Sportivi.

 

C.        Motivi di preoccupazione e raccomandazioni

 

11.          Nel prendere atto delle spiegazioni fornite dalla delegazione in base alle quali la legislazione dello Stato parte non permette un censimento per identificare i gruppi etnici e non fa distinzione fra i cittadini in base a gruppi etnici, linguistici o religiosi, il Comitato esprime preoccupazione circa la mancanza di dati statistici nel rapporto dello Stato parte sulla composizione etnica della sua popolazione.

 

Il Comitato raccomanda che, in linea con il paragrafo 11 delle sue linee guida così come modificate (CERD/C/2007/1) lo Stato parte dovrebbe fornire indicazioni circa l’uso delle lingue madre, dei linguaggi comunemente parlati o altri indicatori della diversità etnica insieme a qualsiasi informazione estrapolata da ricerche sociali mirate ed effettuate su base volontaria con il rispetto completo della privacy e dell’anonimato degli individui coinvolti.

 

12.          Nel prendere atto delle rassicurazioni fornite dalla delegazione che lo Stato parte avrebbe considerato il riconoscimento dei Rom e Sinti come minoranze all’interno della legge nazionale, su una base di uguaglianza come per le minoranze linguistiche storiche protette dall’Atto n. 482/1999, il Comitato esprime preoccupazione per il fatto che nessuna legge quadro nazionale nè politiche mirate alla specificità e ai bisogni dei Rom e Sinti siano state adottate (art.2)

 

Il Comitato richiama la sua raccomandazione generale n. 27 sulla discriminazione contro i Rom e raccomanda allo Stato parte di adottare e realizzare una politica nazionale integrata e una legislazione per i Rom e Sinti con l’intento di riconoscerli come minoranza nazionale e di proteggerne e promuoverne la lingua e la cultura

 

13.          Il Comitato prende nota del fatto che lo Stato parte non ha ancora costituito una istituzione nazionale indipendente per i diritti umani. Prende altresì nota dell’impegno solenne di creare una istituzione nazionale per i diritti umani assunto in sede di elezione al Consiglio Diritti Umani e della approvazione da parte della Camera dei Deputati il 4 aprile 2007 del Disegno di Legge per la creazione di tale istituzione in linea con i Principi di Parigi del 1991 (Risoluzione n. A/RES/48/134 del 20 dicembre 1993 della Assemblea Generale delle Nazioni Unite) (art. 2).

 

Il Comitato raccomanda allo Stato parte di intraprendere in consultazione con una ampia base di rappresentanti della società civile e con il supporto dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, le procedure necessarie per la costituzione di una istituzione nazionale indipendente per i diritti umani in linea con i Principi di Parigi del 1991 (Risoluzione n. A/RES/48/134 del 20 dicembre 1993 della Assemblea Generale delle Nazioni Unite)

 

14.           Nel accogliere con soddisfazione la nuova politica per combattere la marginalizzazione di Rom e Sinti in materia di alloggi e per facilitare il loro inserimento sociale, il Comitato esprime preoccupazione per il fatto che Rom e Sinti ancora vivano in condizioni de facto di segregazione in campi in cui non hanno accesso ai più basilari servizi (art. 3 e art. 5(e) (iii)).

Il Comitato richiama la sua raccomandazione generale n. 27 e raccomanda che lo Stato parte sviluppi ed realizzi politiche e programmi finalizzati a evitare la segregazione delle comunità Rom in materia di alloggi, e a sostenere la partecipazione delle comunità e associazioni Rom insieme alle altre persone nei progetti di costruzione, riabilitazione e manutenzione delle abitazioni. Il Comitato inoltre raccomanda che lo Stato parte agisca fermamente contro le misure adottate dalle autorità locali per negare la residenza ai Rom e la loro illegittima espulsione, evitando di confinare i Rom in campi fuori dalle aeree residenziali, isolati e senza accesso all’assistenza sanitaria e ad altri servizi di base.

 

15.          Il Comitato mentre prende nota delle iniziative adottate dallo Stato parte per combattere la discriminazione ed intolleranza razziale, esprime preoccupazione per i casi segnalati di discorsi di odio razziale, incluse dichiarazioni contro cittadini stranieri e Rom attribuite a politici (art.4).

 

Il Comitato raccomanda allo Stato parte di aumentare i suoi sforzi per prevenire offese razziali e discorsi di odio razziale e garantire la piena applicazione delle norme del diritto penale rilevanti in materia. Il Comitato ricorda che l’esercizio del diritto alla libertà d’espressione implica speciali doveri e responsabilità, in particolare l’obbligo di non diffondere idee razziste. Raccomanda anche che lo Stato parte prenda azione decisa per contrastare qualsiasi tendenza in speciale modo da parte dei politici di prendere di mira, stigmatizzare, stereotipare o descrivere gli individui sulla base della razza, del colore, della discendenza e della origine nazionale o etnica o di usare propaganda razzista per fini politici.

 

16.          Il Comitato è seriamente preoccupato per il prevalere di atteggiamenti e stereotipi negativi riguardo ai Rom da parte delle municipalità e dell’opinione pubblica che risultano in ordinanze discriminatorie e segnali stradali e altre misure adottate dalle autorità municipali rivolte alla popolazione nomade (art. 5 e 7).

 

Il Comitato, ricordando la sua raccomandazione generale n. 27, richiede allo Stato parte di assicurarsi che le municipalità rimuovano le ordinanze discriminatorie e rispettino gli obblighi dello Stato parte previsti dalla Convenzione. Il Comitato inoltre richiede allo Stato parte di intraprendere incoraggiando un dialogo genuino, consultazioni o qualsiasi altra modalità appropriata, affinché i rapporti fra Rom e comunità non- Rom migliorino, in particolare a livello locale, con l’obbiettivo di porre fine alla discriminazione contro i Rom.

 

17.          Il Comitato è preoccupato circa i rapporti sulla situazione dei lavoratori migranti privi di documenti provenienti da varie parti del mondo, in particolare dall’Africa, dall’Europa dell’Est e dall’Asia e attira l’attenzione sul problema delle violazioni dei loro diritti umani, in particolare dei loro diritti economici, sociali e culturali, inclusi asseriti maltrattamenti, il pagamento dei loro salari effettuati con considerevole ritardo e al di sotto delle tariffe regolari, i lunghi orari di lavoro e le condizioni di lavoro “forzato” per cui parte dei loro salari vengono tenuti dai datori di lavoro per pagare la loro sistemazioni in alloggi sovraffollati senza elettricità o acqua corrente. (art.5).

 

Il Comitato nel richiamare la sua raccomandazione generale n. 30 sui non-cittadini, sollecita lo Stato parte ad adottare misure per eliminare la discriminazione contro i non-cittadini in materia di condizioni di lavoro, incluse le regole per l’impiego e pratiche con scopi o effetti discriminatori. Inoltre, raccomanda allo Stato parte di adottare misure efficaci per prevenire e ri-indirizzare i problemi gravi comunemente incontrati dai lavoratori non-cittadini, incluso il vincolo per debito, il trattenimento del passaporto, la reclusione illegale e l’aggressione fisica

 

18.          Il Comitato esprime preoccupazione per asserzioni che gli stranieri trattenuti nel centro di accoglienza e assistenza temporanea (CPTA) di Lampedusa non sono informati in modo adeguato dei loro diritti, non hanno accesso all’assistenza legale e sono soggetti a espulsioni collettive. E’ inoltre preoccupato per i rapporti da cui emerge che le condizioni di detenzione in questo centro non sono soddisfacenti in termini di sovrappopolamento, igiene, nutrizione, assistenza sanitaria e che alcuni dei migranti hanno subito maltrattamenti. (art.5)

 

Lo Stato parte è incoraggiato a migliorare le condizioni degli CPTA e dei centri di accoglienza e di identificazione per garantire una adeguata assistenza sanitaria e migliori condizioni di vita. Ricorda anche l’obbligo dello Stato parte di adottare misure per garantire che le condizioni dei centri per i rifugiati e per i richiedenti asilo siano conformi agli standard internazionali. Inoltre, il Comitato raccomanda allo Stato parte di intraprendere le misure necessarie per garantire che i non-cittadini non siano rimandati o portati in un paese o territorio dove possono essere soggetti a serie violazioni dei diritti umani, compresa la tortura o trattamenti o punizioni inumani o degradanti

 

19.          Il Comitato è preoccupato per i rapporti su maltrattamenti dei Rom, in particolare i Rom di origine Rumena, da parte di membri delle forze di polizia durante i raids nei campi Rom a seguito del decreto presidenziale del novembre 2007, Decreto Legge 181/07 sulla espulsione di stranieri. (art.5(b)).

 

Il Comitato raccomanda allo Stato parte di adottare misure di prevenzione dell’uso della forza illegale da parte della polizia nei riguardi dei Rom e che le autorità locali prendano misure più risolute per prevenire e punire gli atti di violenza contro i Rom e altre persone di origine straniera motivati da razzismo. A tale proposito, il Comitato richiama l’attenzione dello Stato parte alla sua raccomandazione generale n. 27 e lo sollecita a garantire la protezione della sicurezza e integrità dei Rom, senza alcuna discriminazione, attraverso l’adozione di misure per prevenire atti di violenza motivati da razzismo contro di loro

 

20.          Nell’accogliere con piacere le iniziative intraprese dal Ministero della Pubblica Istruzione sia a livello centrale che a livello locale per garantire l’integrazione e l’effettiva scolarizzazione dei minori Rom come anche per combattere il fallimento e gli abbandoni scolastici, il Comitato rimane preoccupato per la bassa presenza a scuola dei minori Rom (art.5 (e)(v)).

 

Il Comitato richiama l’attenzione dello Stato parte ancora una volta sulla sua raccomandazione generale n. 27 e raccomanda allo Stato parte di rafforzare i propri sforzi a sostegno della inclusione nel sistema scolastico di tutti i minori Rom e di lavorare sulle cause che incidono sulle percentuali di abbandono, incluso i matrimoni in età precoce, in particolare delle ragazze Rom e a tal fine cooperare attivamente con i genitori Rom, le associazioni e le comunità locali. Raccomanda inoltre che operi per migliorare il dialogo e la comunicazione fra il personale docente ed i minori Rom, le comunità Rom ed i genitori, compreso l’impiego più frequente di assistenti scolastici scelti fra i Rom

 

21.          Il Comitato nota il basso numero di casi giudiziari per discriminazione razziale nello Stato parte (art.6).

 

Il Comitato richiamando la sua raccomandazione generale n. 31 sulla prevenzione della discriminazione razziale nella amministrazione e nel funzionamento del sistema della giustizia penale, ricorda allo Stato parte che il basso numero di ricorsi, procedimenti e condanne in materia di atti di discriminazione razziale non dovrebbero essere considerati necessariamente come dati positivi. Lo Stato parte dovrebbe accertare se tale situazione sia il risultato di una informazione inadeguata fornita alle vittime circa i propri diritti, un livello insufficiente di consapevolezza da parte delle autorità dei reati di razzismo. Lo Stato parte dovrebbe prendere tutte le misure necessarie, in particolare sulla base di tale verifica, per garantire che le vittime di discriminazione razziale abbiano accesso a rimedi effettivi.

 

22.          Il Comitato esprime preoccupazione per il fatto che i mass media continuino a giocare un ruolo nel proiettare una immagine negativa delle comunità Rom e Sinti e che lo Stato parte ha intrapreso misure insufficienti per modificare questa situazione. (art.7).

 

Il Comitato raccomanda allo Stato parte di incoraggiare i media a ricoprire un ruolo attivo nel combattere pregiudizi e stereotipi negativi che portano alla discriminazione razziale e di adottare tutte le misure necessari per combattere il razzismo nei media. Inoltre richiede allo Stato parte di adottare con urgenza un codice di condotta per i giornalisti steso in collaborazione con l’UNAR, l’UNHCR e la Federazione Nazionale Italiana per la Stampa.

 

23.          Il Comitato incoraggia lo Stato parte a considerare di ratificare la Convenzione internazionale per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie del 1990 (adottata dalla Assemblea Generale con Risoluzione A/RES/45/158 il 18 dicembre 1990).

24.          Il Comitato raccomanda allo Stato parte di prendere in considerazione le parti rilevanti della Dichiarazione e Programma di Azione di Durban, adottati a settembre del 2001 dalla Conferenza Mondiale contro il Razzismo, la Discriminazione Razziale, la Xenofobia e relative intolleranze (A/CONF.189/12, capitolo 1), nel dare attuazione alla Convenzione nel suo ordinamento legislativo interno, in particolare per quanto concerne gli articoli 2 e 7 della Convenzione. Il Comitato inoltre sollecita lo Stato parte ad includere nel suo prossimo rapporto periodico informazioni circa un Programma di Azione a livello nazionale. Il Comitato incoraggia lo Stato parte a partecipare attivamente al Comitato Preparatorio per la Conferenza per la Revisione di Durban e anche alla Conferenza per la Revisione di Durban nel 2009.

25.          Il Comitato raccomanda allo Stato parte di ratificare la modifica all’articolo 8, paragrafo 6, della Convenzione adottato il 15 gennaio 1992 alla XIV meeting degli Stati parte della Convenzione e ratificato dalla Assemblea Generale il 16 dicembre 1992 (Risoluzione A/RES/47/111). In tale senso il Comitato cita la Risoluzione della Assemblea Generale del 19 dicembre 2006 (A/RES/61/148) in cui l’Assemblea esorta fortemente con urgenza gli Stati parte di accelerare le procedure per la ratifica negli ordinamenti interni dell’emendamento e a notificare al Segretario Generale tempestivamente per iscritto la propria accettazione dell’emendamento.

26.          Il Comitato raccomanda che i rapporti dello Stato parte siano velocemente resi disponibili al pubblico al momento della presentazione e che le osservazioni del Comitato in merito a questi rapporti siano similarmente pubblicizzati nelle lingue ufficiali e nazionali.

27.          Il Comitato raccomanda allo Stato parte di consultarsi ampiamente con le organizzazioni della società civile che operano nel settore della protezione dei diritti umani, in particolare contro la discriminazione razziale, nella preparazione del prossimo rapporto periodico. 

28.          Lo Stato parte deve entro un anno, fornire informazioni sulle misure intraprese per dar seguito alle raccomandazioni del Comitato contenute nei paragrafi 13, 18 e 22 sopra indicati, in base al paragrafo 1 della norma 65 delle norme di procedura del Comitato.

29.          Il Comitato invita lo Stato parte ad aggiornare il suo rapporto generale  in accordo con le linee guida armonizzate per presentare rapporti in base ai trattati internazionali sui diritti umani, in particolare quelli sul rapporto generale comune, come adottato dalla V riunione Inter-Comitati basati sui trattati dei diritti umani tenutasi a giugno 2006 (HRI/GEN/2/Rev.4)

30.          Il Comitato raccomanda allo Stato parte di presentare i suoi rapporti periodici congiunti,dal XVI al XVIII in un unico rapporto entro il 18 febbraio 2011, tenendo conto delle linee guida per la preparazione del rapporto specifico inerente la Convenzione adottato dal Comitato nel corso della sua settantunesima sessione (CERD/C/2007/1). Tale rapporto dovrebbe essere un documento che aggiorna e risponde a tutti i punti sollevati nelle presenti Osservazioni Conclusive.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIURISPRUDENZA COMUNITARIA

 

1.

 

Secondo l’Avvocato generale della Corte europea di Giustizia, Poiares Maduro, costituisce discriminazione diretta vietata dalla direttiva europea n. 2000/43/CE, il comportamento di un datore di lavoro che affermi pubblicamente di non voler assumere persone di una certa origine etnica.

Conclusioni Avvocato Generale, Centrum voor Gelijkheid van Kansen en voor Racismebestrijding c. Firma Feryn NV (Causa C‑54/07), 15 marzo 2008; Campagna di assunzione – candidature - dichiarazione resa pubblicamente da un datore di lavoro - discriminazione diretta  - direttiva 2000/43/CE.

              

 

Secondo l’Avvocato generale della Corte di Giustizia Europea, la dichiarazione resa pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una campagna di assunzione, secondo cui non saranno accettate le candidature di persone di una determinata origine etnica, costituisce una discriminazione diretta vietata ai sensi dell’art. 2, n. 2 lett. a) della direttiva europea n. 2000/43/CE.

Queste sono le conclusioni tratte dall’organo della Corte Europea, adìto nell’ambito di una domanda pregiudiziale proposta dall’organo giurisdizionale di appello per le cause di lavoro di Bruxelles (Belgio).

La vicenda è sorta a seguito delle dichiarazioni rese nel corso di una trasmissione televisiva dal titolare di una ditta di impianti di allarme, con le quali annunziava che non avrebbe proceduto all’assunzione di personale di nazionalità marocchina, perché ciò non rassicurava i clienti e dunque danneggiava gli affari dell’azienda. A seguito di tali dichiarazioni, il Centro belga per le pari opportunità e per la lotta contro il razzismo, l’Autorità indipendente  belga contro le discriminazioni razziali, istituita dalle norme di recepimento della direttiva europea n. 2000/43, aveva presentato un ricorso all’autorità giurisdizionale belga di primo grado per le cause di lavoro, chiedendo che quest’ultima affermi l’avvenuta violazione delle norme anti-discriminatorie . L’autorità giurisdizionale belga di primo grado aveva respinto il ricorso sostenendo  che le dichiarazioni pubbliche in questione non costituivano atti discriminatori effettivi, ma potevano tutt’al più  dare luogo ad una discriminazione potenziale, non essendoci invece alcuna evidenza che persone di etnia marocchina si fossero effettivamente presentate per essere assunte dall’impresa e fossero state respinte. Il Centro belga per le pari opportunità aveva dunque presentato un ricorso all’istanza giurisdizionale di secondo grado, che ha effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte Europea di Giustizia.

L’avvocato generale della Corte europea premette che le norma della direttiva europea debbono essere interpretate alla luce de più ampi valori sottesi alle disposizioni, nonché delle funzioni e obiettivi della direttiva, tra i quali vanno citati quelli dello sviluppo di società democratiche e tolleranti, nonché l’attiva partecipazione sul mercato del mercato.

Di conseguenza, l’avvocato generale respinge un’interpretazione restrittiva –proposta  dal giudice belga di primo grado e sostenuta in giudizio dai governi del Regno Unito e dell’Irlanda – secondo cui la direttiva andrebbe applicata ai soli casi di denuncianti identificabili, che siano candidati effettivi ad un determinato posto di lavoro. Secondo l’Avvocato generale, infatti, una dichiarazione pubblica a carattere discriminatorio in materia di selezione di candidati ad un posto di lavoro,  ha un effetto discriminatorio non solo potenziale ed  ipotetico, bensì reale ed effettivo, perché  finisce per scoraggiare, demoralizzare ed umiliare le persone aventi l’origine etnica presa di mira, spingendole dunque a non presentarsi per la selezione. Usando un’argomentazione logica pienamente condivisibile, l’Avvocato Generale  afferma che escludere dall’ambito di applicazione della direttiva atti di discriminazione “verbale” di tale natura equivarrebbe ad autorizzare i datori di lavoro a discriminare in materia di assunzione di personale semplicemente rendendo pubblico in anticipo, in maniera palese, il carattere discriminatorio della loro politica di assunzione, con ciò rendendo la più impudente strategia di assunzione discriminatoria quella più “premiante” .

Interessanti e pienamente condivisibili anche le considerazioni dell’Avvocato Generale in merito alle giustificazioni avanzate dal titolare dell’impresa, secondo cui i clienti sarebbero maldisposti nei confronti dei lavoratori marocchini, per cui la loro assunzione danneggerebbe gli interessi “di mercato”; giustificazioni respinte dall’Avvocato Generale, secondo il quale ciò dimostrerebbe soltanto la legittimità della normativa comunitaria volta a contrastare  un fenomeno, quello delle discriminazioni, che l’economia di mercato di per sé soltanto non solo non riesce a risolvere, ma può anche  alimentare. Inoltre la normativa comunitaria è volta così a impedire quelle  distorsioni nella libera  concorrenza che altrimenti si verificherebbero a danno dei soggetti economici che, non attuando discriminazioni nelle politiche di assunzione, si vedrebbero maggiormente danneggiati nelle strategie di mercato in ragione della diffusione di stereotipi e pregiudizi etnici tra la popolazione.

Importanti anche le considerazioni svolte dall’Avvocato Generale della Corte europea di Giustizia in materia di onere della prova e di rimedi appropriati.

Sul primo punto, l’Avvocato Generale ritiene che le dichiarazioni di un datore di lavoro in merito alla propria politica di assunzione improntata a criteri discriminatori equivalgono ad una presunzione di un comportamento concretamente discriminatorio nei confronti di lavoratori di quella determinata origine etnica, con ciò imponendo l’attivazione del principio dell’inversione dell’onere della prova, per cui debba incombere al datore di lavoro confutare tale presunzione, in base all’art. 8 della direttiva europea n. 2000/43/CE.

Sui rimedi applicabili, le conclusioni dell’Avvocato Generale, sebbene succinte,  sono ugualmente significative in quanto egli si spinge ad affermare che le sanzioni applicabili nei confronti del datore di lavoro,  per conformarsi ai requisiti richiesti dalla direttiva europea di effettività, proporzionalità e dissuasività, debbono avere un carattere non meramente simbolico.

Conclusioni dunque importanti quelle dell’Avvocato Generale anche in relazione a questi due profili, spostamento dell’onere della prova e sanzioni effettive aventi una portata dissuasiva, sulle quali la legislazione italiana di recepimento della direttiva europea n. 2000/43/CE (D.lgs. n. 215/2003) presenta elementi di indubbia debolezza più volte richiamati dalla dottrina.

 

Pubblichiamo di seguito il testo integrale delle conclusioni dell’Avvocato Generale della Corte Europea di Giustizia sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Arbeidhof de Brussel (Belgio). Causa C-54/07.

 

 

 

 

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

POIARES MADURO

presentate il 12 marzo 2008 1(1)

Causa C‑54/07

Centrum voor Gelijkheid van Kansen en voor Racismebestrijding

contro

Firma Feryn NV

(domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Arbeidshof te Brussel (Belgio))

 

1.        Contrariamente al senso comune, le parole possono far male. Ma possono costituire una discriminazione? È questa, in sostanza, la principale questione sollevata dal caso di specie. L’Arbeidshof te Brussel (Belgio) ha chiesto alla Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione della direttiva del Consiglio 29 giugno 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (2). Esso chiede chiarimenti in ordine a varie questioni sorte nell’ambito di una causa tra un ente per la promozione della parità di trattamento e un datore di lavoro, che avrebbe dichiarato di non volere assumere persone di origine marocchina.

I –    Fatti e questione pregiudiziale

2.        La NV Firma Feryn (in prosieguo: la «Feryn») è un’impresa specializzata nella vendita e nell’installazione di porte basculanti e sezionali. All’inizio del 2005 la Feryn cercava operai per l’installazione di porte basculanti presso la clientela. A tale scopo, essa collocava sul terreno aziendale lungo l’autostrada Bruxelles‑Anversa un grande cartellone per la ricerca di personale.

3.        Il 28 aprile 2005, il quotidiano De Standaard pubblicava un’intervista con il sig. Pascal Feryn, uno degli amministratori dell’impresa, con il titolo «I clienti non vogliono marocchini», in cui si riportava che il sig. Feryn aveva dichiarato che la sua impresa non avrebbe assunto persone di origine marocchina:

«A parte quei marocchini, in quattordici giorni nessun altro ha risposto alla nostra offerta di lavoro (…). Ma noi non cerchiamo marocchini, i nostri clienti non li vogliono. Gli operai devono collocare porte basculanti in abitazioni private, spesso ville, e quei clienti non vogliono vederseli in giro per casa».

Articoli analoghi apparivano sui quotidiani Het Nieuwsblad e Het Volk.

Il sig. Feryn contesta i resoconti apparsi sui quotidiani.

4.        La sera del 28 aprile 2005, il sig. Feryn partecipava a un colloquio su un canale televisivo belga, durante il quale dichiarava:

«[N]oi abbiamo molti rappresentanti che vanno dai clienti (…) Tutti ormai installano sistemi di allarme e evidentemente al giorno d’oggi tutti hanno paura. Non sono solo immigrati quelli che si introducono illecitamente nelle case, non dico questo, non sono razzista. Ci sono anche belgi che lo fanno. Ma è evidente che la gente ha paura, quindi spesso dice: “niente immigrati”. (…) Devo soddisfare le condizioni poste dai miei clienti. Se lei dice: “Voglio quel tale prodotto o lo voglio così e così”, e io dico: “Non lo faccio, faccio venire lo stesso quelle persone”, allora lei dice: “Non voglio più comprare quella porta”. Così io devo chiudere il mio negozio. Dobbiamo venire incontro alle esigenze dei nostri clienti. E questo problema non è mio, non ho creato io il problema del comportamento dei belgi. Io voglio solo che la società vada avanti e che alla fine dell’anno raggiungiamo il nostro fatturato. Come lo raggiungiamo... devo raggiungerlo come vuole il cliente!».

5.        Il Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding (Centro per le pari opportunità e per la lotta contro il razzismo; in prosieguo: il «CGKR») è un ente per la promozione della parità di trattamento, istituito con legge 15 febbraio 1993. Tale legge è stata modificata dalla legge 25 febbraio 2003 (in prosieguo: la «legge contro le discriminazioni»). La legge contro le discriminazioni ha recepito nell’ordinamento giuridico belga la direttiva 2000/43.

6.        Il 31 marzo 2006, dopo uno scambio di comunicazioni con la Feryn, il CGKR presentava un’istanza al presidente dell’Arbeidsrechtbank Brussels chiedendogli, inter alia, di dichiarare che la Feryn aveva violato la legge contro le discriminazioni e di ingiungerle di porre fine alla sua politica di assunzione discriminatoria. Tuttavia, il presidente dell’Arbeidsrechtbank statuiva che le dichiarazioni pubbliche in questione non costituivano atti discriminatori; esse potevano tutt’al più dare luogo a una discriminazione potenziale, in quanto dalle stesse risultava che le persone di una certa origine etnica non sarebbero state assunte dalla Feryn nel caso in cui si fossero presentate. Il CGKR non aveva né sostenuto né dimostrato che la Feryn avesse mai effettivamente rifiutato di assumere qualcuno in ragione della sua origine etnica. Per tali motivi, l’istanza del CGKR veniva respinta con ordinanza 26 giugno 2006. Il CGKR ha interposto appello dinanzi all’Arbeidshof te Brussel, che ha effettuato il presente rinvio pregiudiziale alla Corte.

7.        L’Arbeidshof te Brussel pone varie questioni precise relative alla direttiva e alle specifiche circostanze in discussione nella causa principale (3). Tali questioni vertono sostanzialmente sul concetto di discriminazione diretta (questioni prima e seconda), sull’onere della prova (questioni terza, quarta e quinta) e sul problema dei rimedi appropriati (sesta questione). Esaminerò tali questioni tenendo presente che, ai sensi dell’art. 234 CE, la Corte non è competente ad applicare le norme comunitarie a una fattispecie concreta, ma solo a fornire indicazioni al giudice nazionale in merito all’interpretazione del diritto comunitario che possano essergli utili per valutare gli effetti di una disposizione di diritto nazionale.

II – Analisi

 Sulla nozione di discriminazione diretta

8.        La direttiva mira a «stabilire un quadro per la lotta alle discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento» (4). La direttiva si applica sia nel settore pubblico che in quello privato, per quanto attiene, inter alia, «alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro (…) compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, indipendentemente dal ramo d’attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale (…) (5). Ai sensi dell’art. 2, n. 1, della direttiva, «il principio della parità di trattamento comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica». L’art. 2, n. 2, lett. a), dispone che «sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga».

9.        La prima questione che la Corte deve risolvere è in sostanza la seguente: se costituisca discriminazione diretta ai sensi della direttiva il fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente, nell’ambito di una campagna di assunzione, che non saranno accettate le candidature delle persone di una determinata origine etnica.

10.      Secondo il giudice nazionale adito in primo grado, fintantoché il datore di lavoro non abbia dato seguito alle proprie dichiarazioni discriminatorie, la discriminazione è solo ipotetica e non ricade nell’ambito di applicazione della direttiva. Il Regno Unito e l’Irlanda hanno concluso nello stesso senso. Essi sostengono che la direttiva non sia applicabile in mancanza di un denunciante identificabile che sia stato vittima di una discriminazione. Di conseguenza, enti come il CGKR non possono, in tali circostanze, adire i giudici nazionali lamentando una discriminazione diretta ai sensi della direttiva.

11.      Il CGKR sostiene il contrario e afferma che il divieto di discriminazione diretta riguarda sia la procedura di assunzione che l’eventuale decisione sull’assunzione. Secondo il CGKR, l’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva va determinato a prescindere dalla questione dei soggetti legittimati ad agire in giudizio. In altre parole, la questione della legittimazione ad agire del CGKR non avrebbe nulla a che vedere con la questione se vi sia stata una discriminazione diretta. La Commissione e il governo belga concordano con il CGKR.

12.      Esiste un certo grado di confusione sul rapporto tra la nozione di discriminazione diretta e la questione se un ente d’interesse pubblico sia legittimato ad agire in giudizio in caso di violazione del principio della parità di trattamento. Come hanno sottolineato il Regno Unito e l’Irlanda, la direttiva non era intesa a rendere possibile per gli enti d’interesse pubblico, ai sensi delle leggi degli Stati membri, esercitare un’azione avente natura di actio popularis. In proposito, essi fanno riferimento all’art. 7 della direttiva. Tale disposizione impone agli Stati membri di garantire che le procedure giurisdizionali siano accessibili a «tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento» (6) e agli enti d’interesse pubblico che agiscano «per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa» (7).

13.      Tuttavia, da tale disposizione non discende che gli Stati membri non possano concedere ulteriori mezzi giuridici di esecuzione o di ricorso. Anzi, la direttiva prevede espressamente che «[g]li Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate nella presente direttiva» (8) e che «[l]’attuazione della presente direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della presente direttiva» (9). Pertanto, in linea di principio, la questione se un ente per la promozione della parità di trattamento, quale il CGKR, possa proporre ricorso nel caso in cui non agisca per conto di uno specifico denunciante va risolta in base al diritto nazionale. La direttiva consente agli Stati membri di scegliere fra diversi metodi di esecuzione, purché le persone che si ritengono discriminate e gli enti d’interesse pubblico che le rappresentano possano accedere alle appropriate procedure giurisdizionali o amministrative. A tale riguardo, concordo con il Regno Unito e l’Irlanda che la direttiva non obbliga gli Stati membri a garantire il riconoscimento della legittimazione ad agire agli enti d’interesse pubblico in mancanza di un denunciante che lamenti di essere stato vittima di discriminazione.

14.      Ciò non significa però che la direttiva si applichi solo nei casi in vi siano vittime‑denuncianti identificabili. Le forme di discriminazione coperte dalla direttiva vanno desunte, in via principale, dal tenore letterale e dallo scopo della stessa, e non dai rimedi minimi che gli Stati membri sono tenuti a garantire. L’ambito del comportamento discriminatorio vietato dalla direttiva è una cosa; altra cosa è la portata dei meccanismi di esecuzione e dei rimedi specificamente prescritti dalla direttiva. Infatti, la direttiva va interpretata nel contesto di una politica più ampia, volta a «promuovere le condizioni per una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro» (10) e ad «assicurare lo sviluppo di società democratiche e tolleranti che consentono la partecipazione di tutte le persone a prescindere dalla razza o dall’origine etnica» (11). Inoltre, come ho sostenuto nelle mie recenti conclusioni nella causa Coleman, una direttiva, quando viene adottata sulla base dell’art. 13 CE, dev’essere interpretata alla luce dei più ampi valori sottesi a tale disposizione (12). È vero che la direttiva prevede misure minime, ma non vi è ragione di attribuirle una portata inferiore a quella che emerge dalla lettura alla luce dei suddetti valori. Uno standard minimo di protezione non equivale a uno standard di protezione minima. Le norme comunitarie in materia di tutela contro le discriminazioni possono lasciare un margine agli Stati membri per garantire una protezione ancora maggiore, ma ciò non autorizza a concludere che il livello di protezione offerto dalla normativa comunitaria sia il minore possibile (13).

15.      In tale contesto, ritengo che un’interpretazione che limiti la portata della direttiva ai casi di denuncianti identificabili, che si siano candidati a un determinato posto lavoro, rischi di compromettere l’effettività del principio della parità di trattamento in materia di lavoro. In tutte le procedure di assunzione, la principale «selezione» ha luogo tra coloro che si presentano e coloro che non lo fanno. Non ci si può legittimamente aspettare che qualcuno si candidi a un posto di lavoro se sa in anticipo che, a causa della sua origine razziale o etnica, non ha alcuna possibilità di essere assunto. Pertanto, la dichiarazione pubblica di un datore di lavoro, secondo cui le persone di una determinata origine razziale o etnica non devono presentarsi, ha un effetto tutt’altro che ipotetico. Ignorare che ciò costituisce un atto discriminatorio significherebbe ignorare la realtà sociale, in cui siffatte dichiarazioni hanno inevitabilmente un impatto umiliante e demoralizzante sulle persone aventi quell’origine che intendano accedere al mercato del lavoro e, in particolare, su quelle che sarebbero state interessate ad essere assunte presso il datore di lavoro in questione.

16.      Tuttavia, in casi come questi può essere molto difficile individuare le singole vittime, dato che, in primo luogo, gli interessati potrebbero non candidarsi neppure a un posto presso tale datore di lavoro. In udienza, il Regno Unito e l’Irlanda hanno ammesso che dovrebbero rientrare nella nozione di vittima le persone che siano interessate a candidarsi e siano qualificate per il posto lavoro in questione. Questo però non risolve il problema, viste la difficoltà di individuare singolarmente tali persone e la circostanza che esse sono scarsamente incentivate a presentarsi. Infatti, il datore di lavoro, manifestando pubblicamente la propria intenzione di non assumere persone di una determinata origine razziale o etnica, esclude tali persone dalla procedura di assunzione e dall’occupazione presso la propria azienda. Egli non si limita a parlare di discriminazione, bensì discrimina. Non si limita a pronunciare parole, bensì compie un «atto linguistico» («speech act») (14). L’annuncio secondo cui le persone di una determinata origine razziale o etnica non sono bene accette come candidati a un posto di lavoro costituisce quindi di per sé una forma di discriminazione.

17.      Si perverrebbe a risultati imbarazzanti se, per qualche motivo, una discriminazione di questo tipo fosse del tutto esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva, in quanto gli Stati membri sarebbero implicitamente autorizzati, in forza della stessa, a consentire ai datori di lavoro di distinguere effettivamente i candidati in ragione dell’origine razziale o etnica, semplicemente rendendo pubblico in anticipo, nel modo più chiaro possibile, il carattere discriminatorio della loro politica di assunzione. In tal modo, la più impudente strategia di assunzione discriminatoria potrebbe anche trasformarsi nella più «premiante». È evidente che ciò comprometterebbe – anziché promuoverle – le condizioni per un mercato del lavoro favorevole all’integrazione sociale. In breve, verrebbe vanificato lo scopo stesso della direttiva se le dichiarazioni rese pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una campagna di assunzione, secondo cui non sarebbero accettate le candidature delle persone di una determinata origine etnica, esulassero dalla nozione di discriminazione diretta.

18.      L’affermazione del sig. Feryn secondo cui i clienti sarebbero maldisposti nei confronti dei lavoratori di una determinata origine etnica è del tutto irrilevante rispetto alla questione dell’applicabilità della direttiva. Quand’anche tale affermazione corrispondesse al vero, essa dimostrerebbe solo che «i mercati non cureranno la discriminazione» (15) e che l’intervento del legislatore è essenziale. Inoltre, l’adozione di misure normative a livello comunitario contribuisce a risolvere il problema dell’azione collettiva dei lavoratori, impedendo la distorsione di concorrenza che potrebbe verificarsi, proprio a causa di tale incapacità del mercato, qualora esistessero norme diverse di tutela contro le discriminazioni a livello nazionale.

19.      Pertanto, suggerisco alla Corte di risolvere come segue la seconda e la terza questione poste dal giudice nazionale: la dichiarazione resa pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una campagna di assunzione, secondo cui non saranno accettate le candidature delle persone di una determinata origine etnica, costituisce una discriminazione diretta ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva.

 Sull’onere della prova

20.      Il giudice a quo chiede chiarimenti anche in merito all’onere della prova. Tali questioni sono pertinenti in relazione alla tesi dedotta dal CGKR dinanzi al giudice nazionale, secondo cui la Feryn continua ad applicare una politica di assunzione discriminatoria.

21.      La disposizione pertinente è l’art. 8 della direttiva. Discende da tale disposizione che, allorché siano stati esposti fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incombe alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento. Pertanto, quando sussista una situazione evidente di discriminazione, incombe al datore di lavoro dimostrare che tale principio non è stato leso.

22.      Tale inversione dell’onere della prova è coerente con la normativa comunitaria e con la giurisprudenza della Corte in materia di discriminazione fondata sul sesso. La Corte ha infatti dichiarato: «di fronte ad una situazione di discriminazione evidente, è il datore di lavoro che deve provare l’esistenza di motivi obiettivi che giustifichino l’accertata differenza di retribuzione [tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile]. I lavoratori, infatti, non avrebbero modo di far rispettare il principio della parità delle retribuzioni dinanzi al giudice nazionale, se il fornire elementi che consentono di presumere una discriminazione non avesse la conseguenza d’imporre al datore di lavoro l’onere di provare che la disparità salariale non è in realtà discriminatoria» (16). Sotto questo aspetto, ciò che vale per i casi di discriminazione basata sul sesso vale anche per quelli di discriminazione in base all’origine etnica. Infatti, l’art. 8 della direttiva riproduce parola per parola il testo dell’art. 4 della direttiva del Consiglio 15 dicembre 1997, 97/80/CE, riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso (17).

23.      Spetta al giudice nazionale applicare tali regole in materia di onere della prova alle specifiche circostanze del caso di specie. Nondimeno, come osserva giustamente la Commissione, qualora si accerti che un datore di lavoro ha reso pubblicamente dichiarazioni in merito alla propria politica di assunzione come quelle in discussione nella causa principale, e, inoltre, la prassi concretamente adottata dal datore di lavoro in materia di assunzioni rimanga poco chiara e non sia stata assunta nessuna persona avente l’origine etnica in questione, si presume che sussista una discriminazione ai sensi dell’art. 8 della direttiva. Incombe al datore di lavoro confutare tale presunzione.

24.      Per quanto riguarda le modalità con cui il giudice nazionale dovrebbe valutare le prove a discarico prodotte dal datore di lavoro, si deve ritenere che detto giudice debba applicare le pertinenti modalità procedurali nazionali, purché tali modalità, da un lato, non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né, dall’altro, rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (18).

25.      Propongo quindi alla Corte di risolvere come segue la terza, quarta e quinta questione poste dal giudice nazionale: qualora si accerti una situazione di discriminazione evidente basata sull’origine razziale o etnica, incombe alla parte convenuta dimostrare di non avere violato il principio della parità di trattamento.

 Sui rimedi appropriati

26.      Infine, il giudice nazionale chiede quali siano i rimedi appropriati nel caso in cui sia stata accertata una discriminazione basata sulla razza o sull’origine etnica. Più specificamente, il giudice a quo chiede se la sentenza dichiarativa di tale discriminazione costituisca un rimedio appropriato oppure se, in circostanze come quelle del caso di specie, il giudice nazionale debba intimare al datore di lavoro di cessare la sua politica di assunzione discriminatoria.

27.      Per quanto riguarda le sanzioni, l’art. 15 della direttiva dispone che «[g]li Stati membri determinano le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della presente direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione. Le sanzioni che possono prevedere un risarcimento dei danni devono essere effettive, proporzionate e dissuasive (…)». Inoltre, la Corte ha dichiarato nella sentenza Von Colson e Kamann che i giudici nazionali devono adottare tutti i provvedimenti atti a garantire l’adempimento dell’obbligo degli Stati membri di conseguire il risultato contemplato dalla direttiva (19).

28.      Spetta al giudice del rinvio stabilire, in base alle disposizioni pertinenti di diritto interno, quale sia il rimedio appropriato nelle circostanze del caso di specie. Tuttavia, generalmente le sanzioni meramente simboliche non sono dotate di un’efficacia dissuasiva sufficiente a garantire il rispetto del divieto di discriminazione (20). Ritengo pertanto che un ordine con cui l’autorità giudiziaria vieti tale comportamento costituisca un rimedio più appropriato.

29.      Riassumendo, il giudice nazionale, qualora accerti una violazione del principio della parità di trattamento, deve concedere rimedi effettivi, proporzionati e dissuasivi.

III – Conclusione

30.      Per i motivi sopra indicati, ritengo che le questioni sollevate dall’Arbeidshof te Brussel debbano essere risolte come segue:

1)         La dichiarazione resa pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una campagna di assunzione, secondo cui non saranno accettate le candidature delle persone di una determinata origine razziale o etnica, costituisce una discriminazione diretta ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva del Consiglio 29 giugno 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

2)         Qualora si accerti una situazione di discriminazione evidente basata sull’origine razziale o etnica, incombe alla parte convenuta dimostrare di non avere violato il principio della parità di trattamento.

3)         Il giudice nazionale, qualora accerti una violazione del principio della parità di trattamento, deve concedere rimedi efficaci, proporzionati e dissuasivi.

 

Note


1 – Lingua originale: l’inglese.


2 – GU L 180, pag. 22.


3 – GU 2007, C 82, pag. 21.


4 – Art. 1 della direttiva.


5 – Art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva.


6 – Art. 7, n. 1, della direttiva (il corsivo è mio).


7 – Art. 7, n. 2, della direttiva (il corsivo è mio).


8 – Art. 6, n. 1, della direttiva.


9 – Art. 6, n. 2, della direttiva.


10 – Ottavo ‘considerando’ della direttiva.


11 – Dodicesimo ‘considerando’ della direttiva.


12 – V. le mie conclusioni nella causa C‑303/06, Coleman, ancora pendente dinanzi alla Corte, paragrafi 7 e segg.. Tale causa verte sulla direttiva 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16).


13 – Ibid. (paragrafo 24).


14 – John Searle, Speech Acts, Cambridge University Press 1969., John Langshaw Austin, How to Do Things With Words, Cambridge (Mass.) 1962.


15 – C. Sunstein, «Why markets don’t stop discrimination», in Free markets and social justice, Oxford University Press, Oxford, 1997, pag. 165.


16 – Sentenze 30 marzo 2000, causa C‑236/98, JämO (Racc. pag. I‑2189, punto 53), e 10 marzo 2005, causa C‑196/02, Nikoloudi (Racc. pag. I‑1789, punto 74).


17 – GU 1998, L 14, pag. 6, modificata con direttiva del Consiglio 13 luglio 1998, 98/52/CE (GU L 205, pag. 66). V. anche art. 10, n. 1, della direttiva 2000/78.


18 – V, in tal senso, sentenze 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe (Racc. pag. 1989); 14 dicembre 1995, cause riunite C‑430/93 e C‑431/93, Van Schijndel e van Veen (Racc. pag. I‑4705, punto 17), e 7 giugno 2007, cause riunite da C‑222/05 a C‑225/05, Van der Weerd e a. (Racc. pag. 4233, punto 28).


19 – Sentenze 10 aprile 1984, causa 14/83 (Racc. pag. 1891, punto 26), e causa 79/83, Harz (Racc. pag. 1921, punto 26).


20 – V. per analogia, sentenza Von Colson e Kamann, cit. (punti 23 e 24).

 

 

 

 

 

 

2.

 

La Corte di giustizia mette fuorilegge la discriminazione tra convivente registrato e coniuge relativamente ai vantaggi salariali riconosciuti dal datore di lavoro (pensione di reversibilità)

Corte di Giustizia, Maruko c. Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen (Causa C‑267/06)

 

La Corte di giustizia delle Comunità europee ha stabilito, in una storica sentenza adottata il 1 aprile 2008, che gli artt. 1 e 2 della Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento nell’impiego e nell’occupazione precludono norme nazionali secondo le quali, alla morte del partner registrato dello stesso sesso, il partner sopravvissuto non sia ammesso a godere della pensione di reversibilità su un piede di parità rispetto al coniuge.

 

Con un’importante sentenza, la Corte di Giustizia Europea ha dichiarato che una prestazione ai superstiti (pensione di reversibilità) è assimilabile ad una retribuzione, secondo l’autonoma definizione di cui al diritto comunitario  e pertanto rientra nell’ambito di applicazione della direttiva europea n. 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale di parità di trattamento e di divieto di discriminazioni anche in base all’orientamento sessuale in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Ne consegue, secondo la Corte di Giustizia europea, che viene a violare detto principio di parità di trattamento una normativa in base alla quale, dopo il decesso del suo partner con il quale ha contratto un’unione solidale, il partner superstite non percepisce detta prestazione, quando essa è invece concessa ad un coniuge superstite, mentre nel diritto nazionale, l’unione solidale porrebbe le persone dello stesso sesso in una posizione analoga a quella dei coniugi con riferimento a tali prestazioni.

In parte, la sentenza della Corte di Giustizia europea ha una portata non immediatamente ed automaticamente estensibile oltre  al contesto nazionale della causa che ne ha dato origine, quello tedesco, caratterizzato  innanzitutto, dopo la riforma pensionistica del 1993,  da una maggiore pluralità di fondi pensionistici (krankenkasse) in competizione tra loro e rivolti a specifiche categorie di lavoratori; fattore questo suscettibile in parte di influenzare l’interpretazione se una determinata pensione di reversibilità debba essere interpretata quale retribuzione secondo l’autonomo significato nel diritto comunitario ovvero quale  prestazione di sicurezza sociale, sottratta invece  all’applicazione della direttiva n. 2000/78 (vedasi dal paragrafo  n. 40 al n. 57 della sentenza). In secondo luogo, la Repubblica Federale Tedesca già nel 2001 si è data una normativa sulle unioni solidali registrate, indirizzata esclusivamente  alle persone dello stesso sesso, che prevede fra l’altro il principio generale di equiparazione tra celebrazione di un’unione solidale e  celebrazione del matrimonio ai fini della  determinazione del diritto ad una pensione di vedovo o di vedova, con conseguente equiparazione  della posizione del partner superstite di un unione solidale a quella del coniuge  superstite; principio contro il quale veniva a configgere la norma del fondo pensionistico oggetto della causa in esame.

Tuttavia, nella sentenza, la Corte di Giustizia non rinuncia a sviluppare alcune considerazioni di portata più generale, potenzialmente in grado di avere un impatto anche sul sistema giuridico vigente nel nostro Paese, in cui l’estensione anche al partner convivente more uxorio del diritto alla pensione di reversibilità goduta dal coniuge superstite costituisce una storica rivendicazione del movimento per i  diritti civili delle persone omosessuali e lesbiche.

Nella sentenza, infatti, la Corte di Giustizia europea si sofferma sulla portata del ventiduesimo “considerando” della direttiva 2000/78, in cui si afferma che la direttiva lascia impregiudicate le legislazioni nazionali in materia di stato civile e le prestazioni che ne derivano, e che rimangono entro la competenza degli Stati membri. Tuttavia, la Corte di giustizia opportunamente sottolinea  che gli «Stati membri, nell’esercizio di tale competenza,   devono rispettare il diritto comunitario, in particolare le disposizioni relative al principio di non discriminazione» (paragrafo 59). Pertanto, se la pensione di reversibilità può essere qualificata come forma di retribuzione secondo l’autonomo significato del diritto comunitario e perciò rientrante nella sfera di applicazione della direttiva n. 2000/78 che vieta discriminazioni basate, fra l’altro,  sull’orientamento sessuale, l’impossibilità per il convivente more uxorio superstite  di percepire tale prestazione potrebbe costituire un’ingiustificata  forma di discriminazione indiretta a danno delle persone omossessuali e lesbiche, in quanto queste ultime sono proporzionalmente maggiormente colpite dalla disparità di trattamento rispetto alle  persone di orientamento  eterossessuale- non avendo le prime al contrario delle seconde alcuna possibilità di accedere allo status di coniuge, il solo che consente attualmente l’accesso alla prestazione.

In un caso precedente,  la Corte di Giustizia europea aveva già  ritenuto sussistere un’indebita discriminazione indiretta nella legislazione di uno Stato membro (il Regno Unito) che non consentendo il matrimonio tra una transgender, divenuta donna, ed il proprio partner di sesso maschile, perché al transessuale veniva impedita la rettifica dell’atto di nascita una volta cambiato sesso,  impediva al partner sopravvissuto di percepire  la pensione di reversibilità (KB c. National Health Service Pensions Agency, Secretary of State for Health, in Raccolta, 2004, I, p. 541 ss.). La Corte, infatti, accolse il ricorso affermando che la legislazione inglese determinava un’illegittima discriminazione indiretta in quanto non  concernente il godimento di un diritto tutelato dall’ordinamento comunitario, quanto incidente su  una delle condizioni per la sua concessione.

In tale direzione, utile il riferimento  all’orientamento espresso dal Comitato dei diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite,  competente a controllare il rispetto delle norme contenute nel Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici . Il Comitato ha compiuto un’attività ermeneutica rispetto agli artt. 17, 23 e 26 del Patto, relativi rispettivamente al rispetto della vita privata e familiare, ai soggetti titolari del diritto al matrimonio e al divieto di discriminazione,  nel caso Joslin et al. C. Nuova Zelanda, sottoposto da due coppie di donne  che asserivano la contrarietà al Patto della normativa della Nuova Zelanda che non riconosceva alle coppie omosessuali il diritto al matrimonio; il Comitato, basandosi sulla disposizione dell’art. 23, par. 2, in cui si fa riferimento a “uomini e donne” come titolari del diritto al matrimonio, ha affermato che l’obbligo degli Stati parti è di “riconoscere il matrimonio soltanto come l’unione tra un uomo  ed una donna desiderosi di sposarsi”. Purtuttavia, il Comitato ha sottolineato la possibilità di far valere i diritti delle coppie omosessuali, anche ai sensi dell’art. 26 del Patto, con riguardo agli ordinamenti entro i quali le unioni o i matrimoni non sono alle stesse accessibili. Tale argomento ha trovato un’applicazione positiva nel  successivo caso Young, proprio con riferimento alla richiesta pensione di reversibilità da parte di un convivente omosessuale (Communication n. 941/2000: Australia, d. 18.09.2003 – CCPR/C/78/D/941/2000).

La progressiva estensione  dell’istituto matrimoniale anche alle coppie omosessuali, realizzatasi in Spagna, Paesi Bassi, Belgio, ovvero il riconoscimento e regolamentazione  delle convivenze nelle forme delle unioni civili o partenariati registrati, quali istituti aperti solo alle coppie omosessuali (come ad es. in Germania e Danimarca) oppure anche  a quelle eterosessuali, delinea una realtà in cui, a livello europeo, sono oramai una stretta minoranza quei paesi ove l’istituto della convivenza  sia privo di codificazione normativa, tra cui si annoverano ad es. l’Italia, l’Austria e la Grecia.. Ne consegue, pertanto, che sia lecito attendersi anche un mutamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo in merito alla mancata attribuzione della pensione di reversibilità alla morte del compagno, rispetto al precedente negativo rappresentato finora dalla sentenza  Mata Estevez  (sentenza 10 maggio 2001 Mata Estevez c.  Spagna). All’epoca la Corte  non aveva ravvisato una violazione del divieto di discriminazione (art. 14) in relazione  al diritto al rispetto della vita privata e familiare  (art. 8).

Una mutazione dell’atteggiamento della Corte di Strasburgo potrebbe essere attesa e sollecitata  sulla base dei criteri interpretativi prefigurati dalla sentenza Cossey, (sentenza 27 settembre 1990, Cossey c Regno Unito, par. 46), secondo cui vi sarebbe una relazione circolare tra normativa convenzionale e leggi nazionali, alla luce della quale ad un esteso mutamento delle seconde dovrebbe far seguito un’interpretazione evolutiva della prima.

Alla luce di tutte queste considerazioni, non si può pertanto escludere che la sentenza della Corte di Giustizia europea possa avere interessanti ripercussioni giurisprudenziali anche  nella realtà italiana.

Ad ogni modo, è certo che tale sentenza sottolinea una volta di più  l’arretratezza  e l’illiberalità del nostro sistema giuridico in materia di diritti civili delle persone di orientamento omosessuale rispetto alla realtà e alla coscienza giuridica europea.

 

A cura di Walter Citti

 

 

Per un approfondimento sul tema delle unioni civili nel diritto internazionale e comunitario e le problematiche attinenti il diritto internazionale privato si rimanda, tra l’altro ,  al pregevole volume  di Sara Tonolo, Le Unioni civili nel diritto internazionale privato, Giuffrè editore, collana della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi dell’Insubria, 2007.

 

 

Pubblichiamo di seguito il testo integrale della sentenza della Corte di Giustizia europea dd. 1 aprile 2008, Tadao Maruko c. Versorgungsanstalt der deutschen Buhnen (Causa C-267/06).

 

 

 

 

SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione)

1° aprile 2008 (*)

«Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Direttiva 2000/78/CE – Prestazioni ai superstiti previste da un regime obbligatorio previdenziale di categoria – Nozione di “retribuzione”– Diniego di concessione per mancanza di matrimonio – Partner dello stesso sesso – Discriminazione fondata sull’orientamento sessuale»

Nel procedimento C‑267/06,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Bayerisches Verwaltungsgericht München (Germania) con decisione 1° giugno 2006, pervenuta in cancelleria il 20 giugno 2006, nella causa tra

Tadao Maruko

e

Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen,

LA CORTE (Grande Sezione),

composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. P. Jann, C.W.A. Timmermans, A. Rosas, K. Lenaerts e L. Bay Larsen, presidenti di sezione, dai sigg. K. Schiemann, J. Makarczyk, P. Kūris, J. Klučka (relatore), A. Ó Caoimh, dalla sig.ra P. Lindh e dal sig. J.-C. Bonichot, giudici,

avvocato generale: sig. D. Ruiz-Jarabo Colomer

cancelliere: sig. J. Swedenborg, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 19 giugno 2007,

considerate le osservazioni presentate:

–        per il sig. Maruko, dagli avv.ti H. Graupner, R. Wintemute e M. Bruns, Rechtsanwälte;

–        per la Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen, dalla sig.ra C. Draws e dal sig. P. Rammert, in qualità di agenti, assistiti dagli avv.ti A. Bartosch e T. Grupp, Rechtsanwälte;

–        per il governo dei Paesi Bassi, dalla sig.ra C. Wissels, in qualità di agente;

–        per il governo del Regno Unito, dalla sig.ra V. Jackson, in qualità di agente, assistita dal sig. T. Ward, barrister;

–        per la Commissione delle Comunità europee, dal sig. J. Enegren e dalla sig.ra I. Kaufmann-Bühler, in qualità di agenti,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 6 settembre 2007,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 1, 2, n. 2, lett. a) e b), sub i), nonché 3, nn. 1, lett. c), e 3, della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16).

2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sig. Maruko e la Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen (ente di previdenza dei lavoratori dei teatri tedeschi; in prosieguo: la «VddB») in merito al diniego di quest’ultima di riconoscergli una pensione di vedovo a titolo delle prestazioni ai superstiti previste dal regime previdenziale obbligatorio di categoria al quale era iscritto il suo partner, poi deceduto, con il quale aveva contratto un’unione solidale.

 Contesto normativo

 La normativa comunitaria

3        Il tredicesimo e il ventiduesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/78 recitano:

«(13)  La presente direttiva non si applica ai regimi di sicurezza sociale e di protezione sociale le cui prestazioni non sono assimilate ad una retribuzione, nell’accezione data a tale termine ai fini dell’applicazione dall’articolo 141 del trattato CE, e nemmeno ai pagamenti di qualsiasi genere, effettuati dallo Stato allo scopo di dare accesso al lavoro o di salvaguardare posti di lavoro.

(…)

(22)      La presente direttiva lascia impregiudicate le legislazioni nazionali in materia di stato civile e le prestazioni che ne derivano.

4        L’art. 1 della direttiva 2000/78 così dispone:

«La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».

5        Ai sensi dell’art. 2 della detta direttiva:

«1.      Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.

2.      Ai fini del paragrafo 1:

a)      sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

b)      sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:

i)      tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; (...)

(…)».

6        L’art. 3 della stessa direttiva è formulato come segue:

«1.      Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

(…)

c)      all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;

(…)

3.      La presente direttiva non si applica ai pagamenti di qualsiasi genere, effettuati dai regimi statali o da regimi assimilabili, ivi inclusi i regimi statali di sicurezza sociale o di protezione sociale.

(…)».

7        A norma dell’art. 18, primo comma, della direttiva 2000/78, gli Stati membri dovevano adottare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi a quest’ultima entro il 2 dicembre 2003 o potevano affidare alle parti sociali il compito di mettere in atto tale direttiva per quanto riguarda le disposizioni che rientravano nella sfera dei contratti collettivi. Tuttavia, in tal caso, essi dovevano assicurarsi che, entro il 2 dicembre 2003, le parti sociali avessero stabilito mediante accordo le necessarie disposizioni, fermo restando che gli Stati membri dovevano prendere le misure necessarie per permettere loro di garantire in qualsiasi momento i risultati imposti dalla direttiva. Inoltre, essi dovevano informare immediatamente la Commissione delle Comunità europee delle dette disposizioni.

 La normativa nazionale

 La legge relativa all’unione solidale registrata

8        L’art. 1 della legge relativa all’unione solidale registrata (Gesetz über die Eingetragene Lebenspartnerschaft) 16 febbraio 2001 (BGBl. 2001 I, pag. 266), come modificata dalla legge 15 dicembre 2004 (BGBl. 2004 I, pag. 3396; in prosieguo: il «LPartG»), recita:

«1)      Due persone dello stesso sesso costituiscono un’unione solidale quando dichiarano reciprocamente, personalmente e in presenza l’uno dell’altro che intendono fondare insieme un’unione solidale (partner di unione solidale). Le dichiarazioni non possono essere rese a condizione o a termine. Le dichiarazioni producono i loro effetti quando sono rese dinanzi all’autorità competente.

2)      Un’unione solidale non può essere validamente costituita:

1.      con una persona minore o coniugata o che ha già in atto un’unione solidale con una terza persona;

2.      tra ascendenti e discendenti;

3.      tra fratelli o sorelle germani, uterini o consaguinei;

4.      quando al momento della costituzione dell’unione solidale i partner rifiutano di contrarre obblighi ai sensi dell’art. 2.

(…)».

9        L’art. 2 del LPartG dispone quanto segue:

«I partner di unione solidale sono tenuti a prestarsi reciprocamente soccorso e assistenza e si impegnano reciprocamente ad una comunione di vita. Essi assumono responsabilità l’uno nei confronti dell’altro».

10      Ai sensi dell’art. 5 della detta legge:

«I partner di unione solidale sono reciprocamente tenuti a contribuire adeguatamente ai bisogni di tale comunione con il loro lavoro e il loro patrimonio. Gli artt. 1360, seconda frase, 1360 a e 1360 b del codice civile nonché l’art. 16, secondo comma, si applicano per analogia».

11      L’art. 11, n. 1, della stessa legge recita:

«Salvo disposizione contraria, il partner di unione solidale è considerato come un familiare dell’altro partner».

 La normativa relativa alle pensioni di vedova o di vedovo

12      Con il LPartG, il legislatore tedesco ha apportato alcune modifiche al libro VI del codice della previdenza sociale – Regime legale di assicurazione vecchiaia (Sozialgesetzbuch VI – Gesetzliche Rentenversicherung).

13      L’art. 46, figurante nel libro VI del detto codice, nella sua versione vigente a partire dal 1° gennaio 2005 (in prosieguo: il «codice della previdenza sociale»), così dispone:

«1)      Le vedove o i vedovi non risposati hanno diritto, dopo il decesso del coniuge assicurato, ad una piccola pensione di vedova o di vedovo, a condizione che il coniuge assicurato abbia maturato la durata minima di assicurazione generalmente richiesta. Tale diritto è limitato a un periodo massimo di 24 mesi civili a decorrere dal mese successivo a quello del decesso dell’assicurato.

(…)

4)      Resta inteso, per la determinazione del diritto ad una pensione di vedova o di vedovo, che la celebrazione di un’unione solidale è equiparata alla celebrazione di un matrimonio, che l’unione solidale è equiparata ad un matrimonio, che un partner superstite è equiparato ad una vedova ed a un vedovo e che un partner di unione solidale è equiparato a un coniuge. Allo scioglimento o alla dichiarazione di nullità di un nuovo matrimonio corrispondono rispettivamente la risoluzione o lo scioglimento di una nuova unione solidale».

14      Lo stesso libro VI contiene altre disposizioni simili concernenti l’equiparazione dell’unione solidale al matrimonio, in particolare gli artt. 47, n. 4, 90, n. 3, 107, n. 3, e 120 d), n. 1.

 Il contratto collettivo dei teatri tedeschi

15      L’art. 1 del contratto collettivo dei teatri tedeschi (Tarifordnung für die deutschen Theater) 27 ottobre 1937 (Reichsarbeitsblatt 1937 VI, pag. 1080; in prosieguo: il «contratto collettivo»), recita:

«1)      Ogni persona giuridica che esercisce nel Reich un teatro (impresario teatrale) è tenuta a sottoscrivere per il personale artistico occupato nella sua impresa teatrale un’assicurazione vecchiaia e superstiti, conformemente alle seguenti disposizioni, e a comunicare per iscritto a ciascun lavoratore facente parte del personale artistico l’assicurazione sottoscritta.

2)      Di concerto con i Ministri del Reich interessati, il Ministro dell’Informazione e della Propaganda designa l’ente previdenziale e stabilisce le condizioni di assicurazione (statuto). Esso fissa anche la data a partire dalla quale l’assicurazione deve essere sottoscritta conformemente al presente contratto.

3)      Ai sensi del presente contratto, si intende per personale artistico l’insieme delle persone che, in forza della legge sulla Camera della cultura del Reich e dei regolamenti di applicazione relativi a tale legge, sono obbligatoriamente iscritte alla Camera teatrale del Reich (sezione palcoscenico), in particolare: i registi, gli attori, i direttori d’orchestra, i direttori di scena, i consulenti artistici, i direttori di coro, i responsabili delle prove, gli ispettori, i suggeritori e le persone che occupano una posizione analoga, i responsabili tecnici (quali i capomacchinisti, gli scenografi, i costumisti e le persone che occupano una posizione analoga, nella misura in cui sono responsabili del loro settore), nonché i consulenti, i coristi, i ballerini e i parrucchieri».

16      Ai termini dell’art. 4 del contratto collettivo:

«I premi assicurativi sono per metà a carico dell’impresario teatrale e per metà a carico del lavoratore facente parte del personale artistico. L’impresario teatrale è tenuto a riversare i premi assicurativi all’ente assicuratore».

 Lo statuto della VddB

17      Gli artt. 27, 32 e 34 dello statuto della VddB dispongono:

«Art. 27 – Natura della previdenza e condizioni generali

1)      Gli eventi che danno diritto alla prestazione sono il verificarsi di una incapacità lavorativa o di un’invalidità, l’ammissione alla pensione anticipata, il compimento della normale età pensionabile e il decesso.

2)      Dietro domanda, l’ente eroga (…) a titolo di prestazioni ai superstiti (…) una pensione di vedova (artt. 32 e 33), una pensione di vedovo (art. 34) (…) se, immediatamente prima del verificarsi dell’evento che dà diritto alla prestazione, l’assicurato era assicurato a titolo obbligatorio, volontario, o aveva continuato l’assicurazione, e se il periodo di attesa è rispettato (…).

(…)

Art. 32 – Pensione di vedova

1)      Ha diritto ad una pensione di vedova la moglie dell’assicurato o del pensionato, se il matrimonio è continuato fino al giorno del decesso di quest’ultimo.

(…)

Art. 34 – Pensione di vedovo

1)      Ha diritto a una pensione di vedovo il marito dell’assicurata o della pensionata, se il matrimonio è continuato fino al giorno del decesso di quest’ultima.

(…)».

18      L’art. 30, n. 5, dello stesso statuto stabilisce le modalità per determinare l’importo della pensione di vecchiaia sulla base della quale viene calcolata la prestazione ai superstiti.

 Causa principale e questioni pregiudiziali

19      L’8 novembre 2001 il sig. Maruko ha costituito, in forza dell’art. 1 del LPartG nella sua versione iniziale, un’unione solidale con un costumista teatrale.

20      Quest’ultimo era iscritto alla VddB dal 1° settembre 1959 e ha continuato a versare i contributi a tale ente previdenziale a titolo volontario durante i periodi nel corso dei quali non vi è stato iscritto a titolo obbligatorio.

21      Il partner di unione solidale del sig. Maruko è deceduto il 12 gennaio 2005.

22      Con lettera datata 17 febbraio 2005 il sig. Maruko chiedeva il beneficio di una pensione di vedovo presso la VddB. Quest’ultima, con decisione 28 febbraio 2005, ha respinto la domanda in quanto il suo statuto non prevedeva tale beneficio per i partner di unione solidale superstiti.

23      Il sig. Maruko ha proposto ricorso dinanzi al giudice a quo. A suo avviso, il diniego opposto dalla VddB viola il principio della parità di trattamento, in quanto il legislatore tedesco, a partire dal 1° gennaio 2005, ha attuato una tale parità tra l’unione solidale e il matrimonio, introducendo in particolare l’art. 46, n. 4, nel codice della previdenza sociale. Il fatto di non accordare ad una persona, dopo il decesso del suo partner di unione solidale, il beneficio di prestazioni ai superstiti così come ad un coniuge superstite costituirebbe una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale della detta persona. Secondo il sig. Maruko, i partner di unione solidale sono trattati in modo meno favorevole dei coniugi, mentre, al pari di questi ultimi, essi sono tenuti a prestarsi soccorso e assistenza, si impegnano reciprocamente ad una comunione di vita e assumono responsabilità l’uno nei confronti dell’altro. Il regime patrimoniale dei partner di unione solidale sarebbe in Germania equivalente a quello dei coniugi.

24      Chiedendosi, in primo luogo, se il regime previdenziale gestito dalla VddB sia assimilabile ad un regime statale di sicurezza sociale ai sensi dell’art. 3, n. 3, della direttiva 2000/78 e se il detto regime si trovi al di fuori dell’ambito di applicazione della detta direttiva, il giudice a quo rileva che il fatto che l’iscrizione presso la VddB sia obbligatoria per legge e che nessuna concertazione relativa all’iscrizione di cui trattasi possa essere presa in considerazione in seno alle imprese teatrali depone a favore di tale assimilazione. Esso aggiunge tuttavia che, al di fuori dei periodi lavorati, il personale dei teatri ha la possibilità di continuare volontariamente ad essere iscritto al regime previdenziale controverso nella causa principale, che quest’ultimo è basato sul principio della capitalizzazione, che i contributi sono pagati per metà dalle imprese teatrali, da un lato, e dagli assicurati, dall’altro, e che la VddB gestisce e disciplina le sue attività autonomamente, senza l’intervento del legislatore federale.

25      Tenuto conto della struttura della VddB e dell’influenza decisiva esercitata dalle imprese teatrali e dagli assicurati sul suo funzionamento, il giudice a quo asserisce di essere incline a ritenere che detto ente previdenziale non gestisca un regime assimilabile a un regime statale di sicurezza sociale, ai sensi dell’art. 3, n. 3, della direttiva 2000/78.

26      Il giudice a quo si chiede, in secondo luogo, se la prestazione ai superstiti controversa nella causa principale possa essere considerata come una «retribuzione», ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78, il che giustificherebbe un’applicazione di quest’ultima. Il giudice a quo asserisce che, in via di principio, alla luce della giurisprudenza della Corte le prestazioni ai superstiti rientrano nella sfera di applicazione di detta nozione di «retribuzione». A suo avviso, tale interpretazione non è inficiata dal fatto che la prestazione ai superstiti controversa nella causa principale è versata non al lavoratore, bensì al suo coniuge superstite, poiché il diritto a tale prestazione costituisce un beneficio che trova la sua origine nell’iscrizione del lavoratore al regime previdenziale gestito dalla VddB, di modo che la detta prestazione è ottenuta dal coniuge superstite di quest’ultimo nel contesto del rapporto di lavoro tra il datore di lavoro e il detto lavoratore.

27      Il giudice a quo mira, in terzo luogo, a stabilire se il combinato disposto degli artt. 1 e 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/78 osti alle disposizioni di uno statuto come quello della VddB in base alle quali, dopo il decesso del suo partner di unione solidale, una persona non percepisce prestazioni ai superstiti equivalenti a quelle offerte al coniuge superstite, mentre, così come le persone coniugate, i partner di unione solidale hanno vissuto in seno ad una comunione fondata sull’assistenza e sull’aiuto reciproco, formalmente costituita per tutta la durata della vita.

28      Secondo il giudice a quo, qualora la presente causa rientri nella sfera di applicazione della direttiva 2000/78 e sussista una discriminazione, il sig. Maruko potrebbe invocare le disposizioni di tale direttiva.

29      Il giudice a quo aggiunge che, contrariamente alle coppie eterosessuali che possono contrarre matrimonio ed eventualmente beneficiare di una prestazione ai superstiti, l’assicurato e il ricorrente nella causa principale non potevano in nessun caso, dato il loro orientamento sessuale, soddisfare la condizione di matrimonio cui il regime previdenziale gestito dalla VddB subordina detta prestazione. Orbene, secondo il giudice a quo, il combinato disposto degli artt. 1 e 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/78 può ostare a che disposizioni, come quelle dello statuto della VddB, limitino il beneficio della detta prestazione ai coniugi superstiti.

30      Qualora il combinato disposto degli artt. 1 e 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/78 osti alle disposizioni di uno statuto come quello della VddB, il giudice a quo si chiede, in quarto luogo, se una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale sia autorizzata, alla luce del ventiduesimo ‘considerando’ di tale direttiva.

31      Esso rileva che questo ‘considerando’ non è stato riprodotto nel testo della detta direttiva. Esso si chiede se il ‘considerando’ in questione sia tale da restringere la sfera di applicazione della direttiva 2000/78. Il giudice a quo considera che, alla luce dell’importanza del principio comunitario della parità di trattamento, occorre non interpretare estensivamente i ‘considerando’ di tale direttiva. Esso chiede a questo proposito se, nella causa principale, il diniego della VddB di concedere una prestazione ai superstiti ad una persona il cui partner di unione solidale è deceduto costituisca una discriminazione autorizzata benché fondata sull’orientamento sessuale.

32      In quinto luogo, il giudice a quo mira ad appurare se, in forza della sentenza 17 maggio 1990, causa C‑262/88, Barber (Racc. pag. I‑1889), il beneficio delle prestazioni ai superstiti sia limitato ai periodi successivi al 17 maggio 1990. Esso asserisce che le disposizioni nazionali controverse nella causa principale rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 141 CE e che l’effetto diretto di tale articolo può essere invocato soltanto per le prestazioni dovute in base ai periodi lavorativi successivi al 17 maggio 1990. A questo proposito, esso cita la sentenza 28 settembre 1994, causa C‑200/91, Coloroll Pension Trustees (Racc. pag. I‑4389).

33      In questo contesto, il Bayerisches Verwaltungsgericht München ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se un regime previdenziale obbligatorio di categoria – come nella fattispecie quello gestito dalla VddB – costituisca un regime assimilabile ad un regime statale ai sensi dell’art. 3, n. 3, della direttiva 2000/78 (…).

2)      Se costituiscano una retribuzione ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78 (...) le prestazioni ai superstiti in forma di assegno vedovile erogate da un ente previdenziale obbligatorio.

3)      Se il combinato disposto degli artt. 1 e 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/78 (...) osti alle disposizioni dello statuto di un regime previdenziale integrativo del tipo di cui alla presente fattispecie, ai sensi delle quali il partner di unione solidale registrata non ha diritto a ricevere, alla morte del suo partner, alcuna prestazione ai superstiti analoga a quelle previste per i coniugi, malgrado il fatto che, come i coniugi, anche il partner di unione solidale viva in una comunione fondata sull’assistenza e sull’aiuto reciproco, formalmente costituita per tutta la durata della vita.

4)      In caso di soluzione affermativa della questione precedente, se sia lecita una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, alla luce del ventiduesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/78 (...).

5)      Se il beneficio delle prestazioni ai superstiti sia limitato ai periodi successivi al 17 maggio 1990 in base alla sentenza Barber [cit.]».

 Sulle questioni pregiudiziali

 Sulla prima, sulla seconda e sulla quarta questione

34      Con la prima, la seconda e la quarta questione, che vanno risolte congiuntamente, il giudice a quo chiede, in sostanza, se una prestazione ai superstiti concessa nell’ambito di un regime previdenziale di categoria come quello gestito dalla VddB rientri nella sfera di applicazione della direttiva 2000/78.

 Osservazioni presentate alla Corte

35      Per quanto riguarda la prima e la seconda delle questioni sollevate, la VddB considera che il regime da essa gestito è un regime legale di previdenza sociale e che la prestazione ai superstiti controversa nella causa principale non può essere considerata come una «retribuzione» ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78. Tale prestazione esulerebbe quindi dalla sfera di applicazione della detta direttiva.

36      A sostegno di tale tesi, la VddB sottolinea, in particolare, che essa è un ente di diritto pubblico facente parte dell’amministrazione federale e che il regime previdenziale controverso nella causa principale è un regime obbligatorio, fondato sulla legge. Essa aggiunge che il contratto collettivo ha valore di legge ed è stato integrato, con lo statuto della VddB, nel trattato di unificazione del 31 agosto 1990 e che l’obbligo di iscrizione vale per categorie di lavoratori definite in modo generale. La prestazione ai superstiti controversa nella causa principale sarebbe legata non direttamente ad un impiego determinato, ma a considerazioni generali di ordine sociale. Essa non dipenderebbe direttamente dai periodi lavorativi compiuti e il suo importo non sarebbe calcolato in relazione all’ultima restribuzione.

37      La Commissione considera, per contro, che la prestazione ai superstiti controversa nella causa principale rientra nella sfera di applicazione della direttiva 2000/78 in quanto è concessa in base al rapporto di lavoro instaurato tra una persona e il suo datore di lavoro, rapporto da cui discende l’iscrizione obbligatoria del lavoratore presso la VddB. L’importo della detta prestazione sarebbe determinato in relazione alla durata del rapporto di assicurazione e ai contributi versati.

38      Per quanto riguarda la quarta questione sollevata, tanto il sig. Maruko quanto la Commissione sottolineano che il ventiduesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/78 non è riprodotto in nessuno degli articoli di tale direttiva. Secondo il sig. Maruko, se il legislatore comunitario avesse voluto sottrarre alla sfera di applicazione della detta direttiva tutte le prestazioni legate allo stato civile, la formulazione di detto ‘considerando’ sarebbe stato oggetto di un’apposita disposizione nel testo della detta direttiva. Secondo la Commissione, lo stesso ‘considerando’ riflette soltanto la mancanza di competenza dell’Unione europea in materia di stato civile.

39      La VddB e il governo del Regno Unito considerano, in particolare, che il ventiduesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/78 contiene un’esclusione chiara e generale e che esso fissa la sfera di applicazione di tale direttiva. Quest’ultima non si applicherebbe alle disposizioni del diritto nazionale relative allo stato civile né alle prestazioni che ne derivano, il che varrebbe per la prestazione ai superstiti controversa nella causa principale.

 Risposta della Corte

40      Dall’art. 3, nn. 1, lett. c), e 3, della direttiva 2000/78 risulta che quest’ultima si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico sia del settore privato, compresi gli enti pubblici, per quanto concerne, in particolare, le condizioni di retribuzione e che essa non si applica ai pagamenti di qualsiasi genere effettuati dai regimi statali o da regimi assimilabili, ivi inclusi i regimi statali di sicurezza sociale o di protezione sociale.

41      La sfera di applicazione della direttiva 2000/78 deve intendersi, alla luce di dette disposizioni in combinato disposto con il tredicesimo ‘considerando’ della stessa direttiva, nel senso che non si estende ai regimi di sicurezza sociale e di protezione sociale le cui prestazioni non siano assimilate ad una retribuzione, nell’accezione data a tale termine ai fini dell’applicazione dell’art. 141 CE, e nemmeno ai pagamenti di qualsiasi genere, effettuati dallo Stato allo scopo di dare accesso al lavoro o di salvaguardare posti di lavoro.

42      Occorre pertanto stabilire se una prestazione ai superstiti concessa in base a un regime previdenziale di categoria come quello gestito dalla VddB possa essere assimilata ad una «retribuzione» ai sensi dell’art. 141 CE.

43      Tale articolo stabilisce che per retribuzione debbono intendersi il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo.

44      Come la Corte ha già affermato (v. sentenze 6 ottobre 1993, causa C‑109/91, Ten Oever, Racc. pag. I‑4879, punto 8, e 28 settembre 1994, causa C‑7/93, Beune, Racc. pag. I‑4471, punto 21), la circostanza che talune prestazioni siano corrisposte dopo la cessazione del rapporto di lavoro non esclude che esse possano avere carattere di «retribuzione» ai sensi dell’art. 141 CE.

45      La Corte ha così riconosciuto che una pensione superstiti prevista da un regime pensionistico di categoria, creata con contratto collettivo, rientra nella sfera di applicazione di detto articolo. Essa ha precisato al riguardo che la circostanza che la suddetta pensione, per definizione, sia corrisposta non al lavoratore, ma al suo coniuge superstite, non è tale da infirmare questa interpretazione, in quanto tale prestazione è un vantaggio che trae origine dall’iscrizione al regime del coniuge del superstite, di modo che la pensione spetta a quest’ultimo nell’ambito del rapporto di lavoro tra il datore di lavoro e il suddetto coniuge e gli è corrisposta in conseguenza dell’attività lavorativa svolta da questo (v. sentenze Ten Oever, cit., punti 12 e 13; Coloroll Pension Trustees, cit., punto 18; 17 aprile 1997, causa C‑147/95, Evrenopoulos, Racc. pag. I‑2057, punto 22, e 9 ottobre 2001, causa C‑379/99, Menauer, Racc. pag. I‑7275, punto 18).

46      Peraltro, per valutare se una pensione di vecchiaia, in base alla quale è calcolata se del caso la prestazione ai superstiti come nella causa principale, rientri nella sfera di applicazione dell’art. 141 CE, la Corte ha precisato che, fra i criteri da essa adottati a seconda delle situazioni di cui è stata investita per qualificare un regime pensionistico, soltanto il criterio relativo alla constatazione che la pensione di vecchiaia è corrisposta al lavoratore in ragione del rapporto di lavoro che lo lega al suo ex datore di lavoro, vale a dire il criterio dell’impiego, desunto dalla lettera stessa del detto articolo, può avere carattere determinante (v., in tal senso, sentenze Beune, cit., punto 43; Evrenopoulos, cit., punto 19; 29 novembre 2001, causa C‑366/99, Griesmar, Racc. pag. I‑9383, punto 28; 12 settembre 2002, causa C‑351/00, Niemi, Racc. pag. I‑7007, punti 44 e 45, nonché 23 ottobre 2003, cause riunite C‑4/02 e C‑5/02, Schönheit e Becker, Racc. pag. I‑12575, punto 56).

47      È vero che a tale criterio non si può attribuire carattere esclusivo, dato che le pensioni corrisposte dai regimi legali previdenziali possono, in tutto o in parte, tener conto della retribuzione dell’attività lavorativa (citate sentenze Beune, punto 44; Evrenopoulos, punto 20; Griesmar, punto 29; Niemi, punto 46, nonché Schönheit e Becker, punto 57).

48      Tuttavia, le considerazioni di politica sociale, di organizzazione dello Stato, di etica, o anche le preoccupazioni di bilancio che hanno avuto o hanno potuto avere un ruolo nella determinazione di un regime da parte del legislatore nazionale, non possono considerarsi prevalenti se la pensione interessa soltanto una categoria particolare di lavoratori, se è direttamente proporzionale agli anni di servizio prestati e se il suo importo è calcolato in base all’ultima retribuzione (citate sentenze Beune, punto 45; Evrenopoulos, punto 21; Griesmar, punto 30; Niemi, punto 47, nonché Schönheit e Becker, punto 58).

49      Per quanto attiene al regime obbligatorio previdenziale di categoria gestito dalla VddB, si deve rilevare, in primo luogo, che esso trova la sua fonte in un contratto collettivo di lavoro, mirante, secondo gli elementi forniti dal giudice a quo, a costituire un supplemento alle prestazioni previdenziali dovute in forza della normativa nazionale di applicazione generale.

50      In secondo luogo, è pacifico che il detto regime è finanziato esclusivamente dai lavoratori e dai datori di lavoro del settore considerato, con esclusione di qualsiasi intervento finanziario pubblico.

51      In terzo luogo, dal fascicolo risulta che lo stesso regime è destinato, ai sensi dell’art. 1 del contratto collettivo, al personale artistico occupato in uno dei teatri eserciti in Germania.

52      Come l’avvocato generale ha rilevato al paragrafo 70 delle sue conclusioni, perché il diritto alla prestazione ai superstiti sia riconosciuto, si richiede che il coniuge del beneficiario di tale prestazione sia stato iscritto alla VddB prima del suo decesso. Tale iscrizione concerne obbligatoriamente il personale artistico dipendente dai teatri tedeschi. Essa riguarda anche un certo numero di persone che decidono di iscriversi volontariamente al VddB, iscrizione possibile qualora le persone di cui trattasi possano provare di essere state in precedenza, per un certo numero di mesi, dipendenti da un teatro tedesco.

53      I detti iscritti a titolo obbligatorio e a titolo volontario formano quindi una categoria particolare di lavoratori.

54      Peraltro, quanto al criterio secondo il quale la pensione deve essere direttamente proporzionale agli anni di servizio prestati, occorre rilevare che, ai sensi dell’art. 30, n. 5, dello statuto della VddB, l’importo della pensione di vecchiaia sulla base della quale è calcolata la prestazione ai superstiti è determinato in relazione alla durata dell’iscrizione del lavoratore, soluzione questa che è una logica conseguenza della struttura del regime previdenziale di categoria di cui trattasi che comprende due tipi di iscrizione, come è stato sottolineato ai punti 52 e 53 della presente sentenza.

55      Per quanto concerne del pari l’importo della stessa pensione di vecchiaia, esso non è fissato dalla legge, ma, in applicazione dell’art. 30, n. 5, dello statuto della VddB, è calcolato sulla base dell’importo di tutti i contributi versati durante tutto il periodo di iscrizione dal lavoratore e ai quali si applica un fattore di rivalutazione.

56      Ne consegue – come l’avvocato generale ha rilevato al paragrafo 72 delle sue conclusioni – che la prestazione ai superstiti controversa nella causa principale dipende dal rapporto di lavoro del partner di unione solidale del sig. Maruko e che essa, di conseguenza, deve essere qualificata come «retribuzione» ai sensi dell’art. 141 CE.

57      Tale conclusione non è rimessa in discussione dalla qualità di ente pubblico della VddB (v., in tal senso, sentenza Evrenopoulos, cit., punti 16 e 23), né dal carattere obbligatorio dell’iscrizione al regime che dà diritto alla prestazione ai superstiti controversa nella causa principale (v., in tal senso, sentenza 25 maggio 2000, causa C‑50/99, Podesta, Racc. pag. I‑4039, punto 32).

58      Per quanto concerne la portata del ventiduesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/78, in esso si afferma che la detta direttiva lascia impregiudicate le legislazioni nazionali in materia di stato civile e le prestazioni che ne derivano.

59      È vero che lo stato civile e le prestazioni che ne derivano costituiscono materie che rientrano nella competenza degli Stati membri e il diritto comunitario non pregiudica tale competenza. Tuttavia, occorre ricordare che gli Stati membri, nell’esercizio di detta competenza, devono rispettare il diritto comunitario, in particolare le disposizioni relative al principio di non discriminazione (v., per analogia, sentenze 16 maggio 2006, causa C‑372/04, Watts, Racc. pag. I‑4325, punto 92, e 19 aprile 2007, causa C‑444/05, Stamatelaki, Racc. pag. I‑3185, punto 23).

60      Poiché una prestazione ai superstiti come quella controversa nella causa principale è stata qualificata come «retribuzione» ai sensi dell’art. 141 CE e rientra nella sfera di applicazione della direttiva 2000/78, per i motivi esposti ai punti 49‑57 della presente sentenza il ventiduesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/78 non può essere tale da rimettere in discussione l’applicazione di detta direttiva.

61      Di conseguenza, la prima, la seconda e la quarta questione devono essere risolte nel senso che una prestazione ai superstiti concessa nell’ambito di un regime previdenziale di categoria come quello gestito dalla VddB rientra nella sfera d’applicazione della direttiva 2000/78.

 Sulla terza questione

62      Con la terza questione, il giudice a quo chiede se il combinato disposto degli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78 osti ad una normativa come quella controversa nella causa principale in base alla quale, dopo il decesso del suo partner di unione solidale, il partner superstite non percepisce una prestazione ai superstiti equivalente a quella concessa ad un coniuge superstite, mentre, al pari dei coniugi, i partner di unione solidale sono vissuti in seno ad una comunione fondata sull’assistenza e sull’aiuto reciproco, formalmente costituita per tutta la durata della vita.

 Osservazioni presentate alla Corte

63      Il sig. Maruko e la Commissione sostengono che il diniego di concedere la prestazione ai superstiti controversa nella causa principale ai partner di unione solidale superstiti costituisce una discriminazione indiretta ai sensi della direttiva 2000/78, in quanto due persone dello stesso sesso non possono contrarre matrimonio in Germania e, pertanto, non possono beneficiare di detta prestazione il cui beneficio è riservato ai coniugi superstiti. A loro avviso, i coniugi e i partner di unione solidale si trovano in una situazione di diritto analoga che giustifica la concessione della detta prestazione ai partner superstiti.

64      Secondo la VddB, non vi è alcun obbligo di carattere costituzionale di trattare in modo identico, dal punto di vista del diritto del lavoro o della previdenza sociale, il matrimonio e l’unione solidale. Quest’ultima costituirebbe un istituto sui generis e un nuovo stato delle persone. Non sarebbe possibile dedurre dalla normativa tedesca un qualsivoglia obbligo di parità di trattamento dei partner di unione solidale e dei coniugi.

 Risposta della Corte

65      Ai sensi del suo art. 1, la direttiva 2000/78 mira a contrastare, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, alcuni tipi di discriminazioni, tra le quali figura quella fondata sull’orientamento sessuale, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.

66      Ai termini dell’art. 2 della detta direttiva, si intende per «principio della parità di trattamento» l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’art. 1 della stessa direttiva. Ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/78 sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’art. 1 di tale direttiva, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Il n. 2, lett. b), sub i), dello stesso art. 2 dispone che sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

67      Dalle informazioni contenute nella decisione di rinvio risulta che, a partire dal 2001, anno di entrata in vigore del LPartG, nella sua versione iniziale, la Repubblica federale di Germania ha adeguato il suo ordinamento giuridico per consentire alle persone dello stesso sesso di vivere in seno ad una comunione fondata sull’assistenza e sull’aiuto reciproco, formalmente costituita per tutta la durata della vita. Avendo scelto di non consentire a tali persone il matrimonio, che è rimasto riservato alle sole persone di sesso diverso, il detto Stato membro ha istituito per le persone dello stesso sesso un regime distinto, l’unione solidale, le cui condizioni sono state progressivamente equiparate a quelle applicabili al matrimonio.

68      Il giudice a quo rileva al riguardo che la legge 15 dicembre 2004 ha contribuito al ravvicinamento progressivo del regime istituito per l’unione solidale a quello applicabile al matrimonio. Con questa legge il legislatore tedesco ha apportato modifiche al libro VI del codice della previdenza sociale – Regime legale di assicurazione vecchiaia, aggiungendo in particolare un paragrafo 4 all’art. 46 figurante nel detto libro, dal quale risulta che l’unione solidale è equiparata al matrimonio per quanto concerne la pensione di vedova o di vedovo di cui a tale disposizione. Modifiche analoghe sono state apportate ad altre disposizioni dello stesso libro VI.

69      Il giudice a quo ritiene che, tenuto conto di tale ravvicinamento tra matrimonio e unione solidale, che esso considera come un’equiparazione progressiva e che risulta, a suo avviso, dal regime stabilito dal LPartG, in particolare dalle modifiche intervenute con la legge 15 dicembre 2004, l’unione solidale, senza essere identica al matrimonio, ponga le persone dello stesso sesso in una posizione analoga a quella dei coniugi per quanto concerne la prestazione ai superstiti controversa nella causa principale.

70      Orbene, esso constata che il beneficio di tale prestazione ai superstiti è limitato, in base alle disposizioni dello statuto della VddB, ai soli coniugi superstiti ed è negato ai partner di unione solidale superstiti.

71      In questo caso, tali partner di unione solidale si vedono quindi trattati in modo meno favorevole rispetto ai coniugi superstiti per quanto riguarda il beneficio della detta prestazione ai superstiti.

72      Ammesso che il giudice a quo decida che i coniugi superstiti e i partner di unione solidale superstiti siano in una posizione analoga per quanto concerne questa stessa prestazione ai superstiti, una normativa come quella controversa nella causa principale deve di conseguenza essere considerata costitutiva di una discriminazione diretta fondata sull’orientamento sessuale, ai sensi degli artt. 1 e 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/78.

73      Da quanto precede risulta che la terza questione dev’essere risolta nel senso che il combinato disposto degli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78 osta ad una normativa come quella controversa nella causa principale in base alla quale, dopo il decesso del suo partner con il quale ha contratto un’unione solidale, il partner superstite non percepisce una prestazione ai superstiti equivalente a quella concessa ad un coniuge superstite, mentre, nel diritto nazionale, l’unione solidale porrebbe le persone dello stesso sesso in una posizione analoga a quella dei coniugi per quanto riguarda la detta prestazione ai superstiti. È compito del giudice a quo verificare se il partner di unione solidale superstite sia in una posizione analoga a quella di un coniuge beneficiario della prestazione ai superstiti prevista dal regime previdenziale di categoria gestito dalla VddB.

 Sulla quinta questione

74      Con la quinta questione il giudice a quo chiede, nel caso in cui la Corte dovesse dichiarare che la direttiva 2000/78 osta ad una normativa come quella controversa nella causa principale, se si debba limitare nel tempo il beneficio della prestazione ai superstiti controversa nella causa principale e in particolare ai periodi successivi al 17 maggio 1990 sulla base della citata giurisprudenza Barber.

 Osservazioni presentate alla Corte

75      La VddB osserva che la causa che ha dato luogo alla citata sentenza Barber è diversa, in fatto e in diritto, dalla causa principale e che non può darsi alla direttiva 2000/78 un effetto retroattivo decidendo l’applicazione di tale direttiva ad una data anteriore alla data di scadenza del termine impartito agli Stati membri per recepirla.

76      La Commissione ritiene che la quinta questione non debba essere risolta. A suo parere, la causa che ha dato luogo alla citata sentenza Barber è diversa, in fatto e in diritto, dalla causa principale ed essa sottolinea che la direttiva 2000/78 non contiene alcuna disposizione di deroga al divieto di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. Essa precisa che, a differenza della causa principale, l’attenzione era stata attirata, nella causa che ha dato luogo alla citata sentenza Barber, sulle conseguenze finanziarie che avrebbe potuto avere una nuova interpretazione dell’art. 141 CE. Essa asserisce al riguardo che, poiché il LPartG è entrato in vigore soltanto il 1° agosto 2001 e il legislatore tedesco, a partire dal 1° gennaio 2005, ha attuato in materia di regime previdenziale una parità di trattamento tra unione solidale e matrimonio, la presa in considerazione di tale parità nei regimi previdenziali di categoria non pone questi ultimi in difficoltà finanziaria.

 Risposta della Corte

77      Risulta dalla giurisprudenza che la Corte può decidere, in via eccezionale e tenendo conto dei gravi inconvenienti che la sua sentenza potrebbe provocare per il passato, di limitare la possibilità degli interessati di avvalersi dell’interpretazione di una disposizione fornita dalla Corte in via pregiudiziale. Siffatta limitazione può essere ammessa solo dalla Corte nella sentenza stessa che statuisce sull’interpretazione richiesta (v., in particolare, sentenze Barber, cit., punto 41, e 6 marzo 2007, causa C‑292/04, Meilicke e a., Racc. pag. I‑1835, punto 36).

78      Non risulta dal fascicolo che l’equilibrio finanziario di un regime come quello gestito dalla VddB rischi di essere retroattivamente perturbato dalla mancanza di limitazione nel tempo degli effetti della presente sentenza.

79      Da quanto precede discende che la quinta questione dev’essere risolta nel senso che non si devono limitare nel tempo gli effetti della presente sentenza.

 Sulle spese

80      Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:

1)      Una prestazione ai superstiti concessa nell’ambito di un regime previdenziale di categoria come quello gestito dalla Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen rientra nella sfera di applicazione della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

2)      Il combinato disposto degli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78 osta ad una normativa come quella controversa nella causa principale in base alla quale, dopo il decesso del partner con il quale ha contratto un’unione solidale, il partner superstite non percepisce una prestazione ai superstiti equivalente a quella concessa ad un coniuge superstite, mentre, nel diritto nazionale, l’unione solidale porrebbe le persone dello stesso sesso in una posizione analoga a quella dei coniugi per quanto riguarda la detta prestazione ai superstiti. È compito del giudice a quo verificare se, nell’ambito di un’unione solidale, il partner superstite sia in una posizione analoga a quella di un coniuge beneficiario della prestazione ai superstiti prevista dal regime previdenziale di categoria gestito dalla Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen.

Firme

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AUTONOMIE LOCALI E INTERVENTI CONTRO LA DISCRIMINAZIONE RAZZIALE

 

Il centro regionale e la rete regionale contro le discriminazioni razziali nella Regione Emilia-Romagna.

 

Nell’ambito di quanto previsto dalla normativa vigente, la Regione Emilia-Romagna ha deciso di avviare un Centro regionale sulle discriminazioni che si occupi di consulenza e orientamento, di prevenzione delle potenziali situazioni di disparità, di monitoraggio e di sostegno ai progetti e alle azioni volte ad eliminare le situazioni di svantaggio ai danni in particolare di persone straniere.

Il Centro regionale nasce da quanto disposto dall’art. 44 del T.U. Immigrazione e successivamente recepito dall’art. 9 della L.r. 5/2004 “Norme per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati. Modifiche alle leggi regionali 21.02.2990, n. 14 e  12 marzo 2003, n. 2”; le sue funzioni sono state quindi precisate all’art. 17 del Programma triennale 2006-2008 per l’integrazione dei cittadini stranieri, approvato con deliberazione dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna n. 45 del 7 febbraio 2006.

 

Il Protocollo regionale contro le discriminazioni.

L’avvio ufficiale delle azioni tese alla costituzione di un Centro regionale contro le discriminazioni è stata la firma del Protocollo regionale d’intesa in materia di iniziative contro la discriminazione avvenuta a Bologna il 26 gennaio 2007. Il documento (sottoscritto tra Regione Emilia Romagna, Dipartimento Diritti e Pari Opportunità – Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentanze regionali degli Enti locali, Organizzazioni datoriali e Sindacali, terzo settore, Consulta regionale per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri, Difensore Civico e Consigliere di parità della Regione Emilia Romagna, Ufficio scolastico regionale per l’Emilia Romagna) è il risultato di una serie di incontri realizzati a partire da metà 2006 con i diversi soggetti regionali attivi o comunque con un ruolo significativo nell’ambito della lotta alle discriminazioni.

Il protocollo inoltre definisce competenze e ruoli dei diversi soggetti coinvolti nel processo di costituzione del Centro regionale individuando nel contempo azioni e fasi del progetto stesso.

 

Com’è organizzato il Centro regionale contro le discriminazioni: la rete e i nodi territoriali.

Il Centro regionale contro le discriminazioni è stato concepito sotto forma di sistema di rete territoriale caratterizzato da un nodo centrale (nodo di raccordo), che è punto di riferimento per la zona sociale, e una serie di nodi antenna, alcuni anche con funzioni di sportello per la raccolta e il trattamento dei casi di discriminazione, altri con funzioni informative e di orientamento. Sia i nodi di raccordo che le antenne non necessariamente debbono essere creati ex novo ma, più opportunamente, possono coincidere con le significative risorse ed esperienze già esistenti (ad esempio gli sportelli informativi per stranieri o quelli sui diritti di patronati e organizzazioni sindacali, le numerose associazioni, le consigliere di parità ecc) valorizzandone ruolo e funzioni e fornendo a queste strutture, laddove necessario, un supporto strumentale e formativo.

Il modello di centro regionale è basato quindi su valorizzazione e potenziamento delle tante risorse già presenti, speso con forte radicamento locale e che sono soprattutto  un punto di riferimento per i cittadini stranieri e non.

 

76 nodi e antenne: la rete regionale prende forma

Il 31 gennaio scorso è scaduto il primo termine per la presentazione delle candidature da parte di soggetti pubblici e privati della regione intenzionati a diventare punti di riferimento della rete regionale contro le discriminazioni. A quella data sono pervenute 76 domande di cui 18 nodi di raccordo, 19 antenne con funzioni di sportello e  39 antenne informative e di orientamento. Entro breve la Regione dovrebbe riconoscere questi punti e poi partiranno i moduli formativi di base per le persone che operano entro tali nodi e antenne. Una prossima scadenza di un nuovo bando per nuovi nodi e antenne anti-discriminazione verrà lanciata tra maggio e giugno di quest’anno.

 

Per informazioni sugli interventi della Regione Emilia-Romagna in materia di contrasto alle discriminazioni razziali, si può consultare il sito web:

http://www.emiliaromagnasociale.it/wcm/emiliaromagnasociale/home/antidiscriminazioni.htm

 

 

 

 

 

 

DOCUMENTI, RAPPORTI E RICERCHE

 

1.

 

 

OSCE- ODIHR Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani, Countering Terrorism, Protecting Human Rights: A Manual, nov. 2007.

 

Il libro, edito dall’ufficio dell’OSCE, mira  a sensibilizzare il personale politico sugli standard internazionali dei diritti umani che debbono essere rispettati e protetti anche nell’ambito degli sforzi e delle azioni volte a combattere il terrorismo e l’estremismo.

Il libro fa riferimento  approfonditamente alla casistica della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e degli organi che fanno riferimento alle convenzioni delle Nazioni Unite. Tra i temi specifici trattati,  l’applicazione extra-territoriale degli obblighi internazionali in materia di diritti umani, il diritto alla vita, alla libertà, all’equo procedimento giudiziario, alla privacy e alla libertà di espressione nel contesto del contrasto al terrorismo internazionale. Oggetto di attenzione anche la proibizione assoluta ai trattamenti inumani e degradanti e alla tortura, anche con riferimento ai procedimenti di estradizione ed espulsione.

 

Il testo integrale della pubblicazione può essere scaricato dal sito web: www.osce.org/odihr/item_11_28294.html

 

 

2.

 

 

 

ENAR European Network against Racism, Policing and ethnic & Religious minorities, ENARGY, January 2008.

 

Dopo l’11 settembre 2001  e i successivi  attentati terroristici di Madrid e Londra, il rapporto tra attività di polizia e comunità immigrate e minoranze etniche è divenuto una questione spinosa in molti Stati dell’Unione Europea.  In questo contesto, l’ultima edizione della rivista on-line “ENARGY” si concentra sui risultati e sulle raccomandazioni proposte da diverse ricerche e progetti condotti da organizzazioni internazionali ed europee su argomenti quali la condotta delle attività di polizia  di fronte a crimini a sfondo razziale, le condotte degli organi di polizia ispirate a forme di “ethnic profiling” , in particolare nelle attività di contrasto a forme e atti di terrorismo internazionale. Vengono analizzati casi nazionali, quali quello tedesco e francese, il rapporto problematico tra polizia e popolazioni Rom in Repubblica Ceca, le buone prassi in materia di prevenzione del fenomeno dell’”ethnic profiling” in Europa, ed in particolare nel Regno Unito.

 

L’edizione della rivista “ENARGY” può essere scaricata dal sito web:

http://www.enar-eu.org/Page_Generale.asp?DocID=15292&la=1&langue=EN

 

 

 

 

 





 

 

 

SITI INTERNET

 

Numero speciale della Newsletter dell'Osservatorio sull'Immigrazione della regione Piemonte (aprile 2008 )   dedicato ai "ROM e SINTI".

 

 

L'Osservatorio sull'Immigrazione in Piemonte e l'ASGI hanno colto l'appello, espresso da più Enti e Associazioni, di creare un archivio che raccolga il materiale esistente riguardo alle popolazioni rom e sinti. Spesso abbiamo avuto modo di riscontrare che la cultura, le condizioni di vita, i problemi giuridici dei rom e dei sinti sono conosciuti in modo approssimativo, quando non del tutto sconosciuti o travisati in base a pregiudizi e notizie fantasiose lette sui giornali. Riteniamo che solo una informazione obbiettiva, eticamente corretta, che porti a una maggiore conoscenza dell'insieme di norme, progetti, provvedimenti e iniziative esistenti possa garantire lo sviluppo di buone prassi finalizzate al miglioramento delle condizioni di vita dei rom e dei sinti. Il progetto è ambizioso, in quanto vorrebbe raccogliere la normativa, locale, europea e internazionale posta a tutela dei rom e dei sinti, i progetti a loro destinati, i rapporti delle organizzazioni internazionali ed europee sul trattamento ad essi riservato dagli Stati, le pubblicazioni in materia.

Per il momento siamo solo all'inizio del lavoro, ma abbiamo ritenuto opportuno renderlo già visibile e consultabile perché crediamo che solo grazie alle osservazioni e ai suggerimenti di chi è interessato all'argomento, e grazie al contributo che queste persone vorranno fornire all'iniziativa, sarà possibile ambire

a una maggiore completezza dell'archivio che stiamo costruendo.

Nell'ambito di questo progetto l'Osservatorio ha creato sul proprio sito, accessibile dalla home page, una sezione dedicata al tema che verrà costantemente aggiornata.

La Newsletter di questo mese assume la veste di un numero speciale per dar spazio e risalto a questa nuova iniziativa.

 

Per consultare la nuova sezione - http://www.piemonteimmigrazione.it/romesinti.htm

 

 



[1] http://www.provincia.genova.it/portal/template/viewTemplate?templateId=9usjzn96d3_layout_0bqa9c96dm.psml

 

[2] Si vedano ad esempio le  schede/annunci di offerta di lavoro per le seguenti posizioni: a)   impiegato tecnico termomeccanico con funzioni di capo cantiere (numero protocollo Ge-2008-9532); b) consulente assicurativo senior (n. Ge-2008-9575); c) ingegnere meccanico/navale (Ge-2008-9411); d) operaio idraulico ambito civile (n. Ge-2008-9480); e) cuoco (cod. istat 522105); f) operatore reparto confezionamento detersivi (cod. istat: 812208).

 

[3]  Ad ulteriore conferma della validità di quanto argomentato, si possono citare esempi provenienti dalla vicina Francia, ove l’HALDE (Haute Autorité  de Lutte  contre les discriminations et pour l’Egalité), l’Authority o Garante  indipendente francese contro le discriminazioni, ha avuto modo  più volte di prendere posizione ufficiale contro casi di discriminazione etnico-razziale nell’accesso all’impiego fondati sulla richiesta del datore di lavoro del requisito della lingua materna francese.  Si veda a titolo di esempio  la deliberazione dell’HALDE n. 31 del 12 febbraio 2007 originata da un reclamo di una cittadina di nazionalità malgascia, respinta in una procedura di selezione per una posizione lavorativa di “formatore di lingua francese quale lingua 2” per la ragione che la lingua francese non era la sua lingua madre come invece richiesto dal datore di lavoro: “Il criterio della lingua materna rinvia alla lingua del paese di origine. Questa caratteristica lascia intendere che il posto da coprire sia riservato a una certa categoria di candidati, in ragione della loro origine nazionale, escludendo i candidati che hanno acquisito una competenza linguistica equivalente in altro modo. Tale pratica costituisce una forma di discriminazione vietata” (par. 13)[…] “L’Alta Autorità ha già avuto modo di adottare due delibere (n. 2006-252 e 2006-253 del 27 novembre 2006) di principio, in base alle quali ha raccomandato l’abbandono della menzione relativa alla ‘lingua materna’ nelle offerte di impiego e la sua sostituzione con l’esigenza non equivoca della competenza linguistica” (par. 15). “Alla luce di tale giurisprudenza, e degli elementi raccolti, il collegio raccomanda al direttore dell’istituto di formazione di abbandonare il requisito della ‘lingua materna’ sostituendolo con criteri di natura obiettiva quali la ‘conoscenza approfondita’, che diano la possibilità di tenere conto, come criteri preferenziali, quando il livello della lingua è un requisito determinante nell’impiego da coprire, altri elementi quali il soggiorno, gli studi nel paese ove la lingua è parlata, l’esigenza di un accento neutro, a condizione che queste esigenze siano obiettivamente giustificate e proporzionate in relazione all’obiettivo perseguito” (par. 16; sottolineatura nostra), altrimenti lo stesso requisito della conoscenza “avanzata” o “approfondita” della lingua, pur neutro rispetto a quello della ‘lingua materna’ finirebbe comunque per costituire  un pretesto discriminatorio di natura indiretta.   I testi in lingua originale delle delibere dell’HALDE sono disponibili sul sito: www.halde.fr

 

[4] Corte Cost. , sentenza n. 454, dd. 30.12.1998.

[5] A tale riguardo, utile il richiamo alle recenti conclusioni adottate il 12 marzo scorso dall’Avvocato generale della Corte di Giustizia Europea, in risposta alla domanda di decisione pregiudiziale proposta da un Tribunale belga (Causa C-54/07). Secondo l’Avvocato generale della Corte di Giustizia Europea, la dichiarazione resa pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una campagna di assunzione, secondo cui non saranno accettate le candidature di persone di una determinata origine etnica, costituisce una discriminazione diretta vietata ai sensi dell’art. 2, n. 2 lett. a) della direttiva europea n. 2000/43/CE. Secondo l’Avvocato generale, infatti, una dichiarazione pubblica a carattere discriminatorio in materia di selezione di candidati ad un posti di lavoro,  ha un effetto discriminatorio non solo potenziale ed  ipotetico, bensì reale ed effettivo, perché  finisce per scoraggiare, demoralizzare ed umiliare le persone aventi l’origine etnica presa di mira, spingendole dunque a non presentarsi per la selezione. A nulla valgono, sempre secondo l’Avvocato generale della corte europea,  le giustificazioni avanzate dal titolare dell’impresa, secondo cui i clienti sarebbero maldisposti nei confronti dei lavoratori marocchini, per cui la loro assunzione danneggerebbe gli interessi “di mercato”; Secondo l’Avvocato generale, tali giustificazioni   dimostrerebbero soltanto la legittimità della normativa comunitaria volta a contrastare  un fenomeno, quello delle discriminazioni, che l’economia di mercato di per sé soltanto non solo non riesce a risolvere, ma può anche  alimentare. Inoltre la normativa comunitaria anti-discriminazione è volta così a impedire quelle  distorsioni nella libera  concorrenza che altrimenti si verificherebbero a danno dei soggetti economici che, non attuando discriminazioni nelle politiche di assunzione, si vedrebbero maggiormente danneggiati nelle strategie di mercato in ragione della diffusione di stereotipi e pregiudizi etnici tra la popolazione. Per una più accurata analisi delle conclusioni dell’organo di giustizia europeo, si rimanda al prosieguo della presente newsletter (sezione giurisprudenza comunitaria).

 

 

[6] A tale riguardo, si sottolinea come i servizi privati di mediazione tra domanda ed offerta di lavoro (agenzie interinali e o di somministrazione di lavoro) sono tenuti esplicitamente al rispetto del principio di parità di trattamento e al divieto di ogni pratica discriminatoria basata sul sesso, le condizioni familiari, sulla razza, sulla cittadinanza, sull’origine territoriale, sull’opinione o affiliazione politica, religiosa o sindacale dei lavoratori (art. 10 D.lgs. 23.12.1997 n. 469). Ciò vale anche maggiormente per i servizi pubblici di intermediazione ed incontro tra domanda e offerta di lavoro, quali i centri provinciali per l’impiego, in virtù dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost).