GIURISPRUDENZA ITALIANA
I provvedimenti giudiziari emanati nell’ambito di
un’azione giudiziaria anti-discriminazione ex art. 44 del D.lgs. n.
286/98, non sono ricorribili per
cassazione avendo natura di provvedimenti cautelari. Così afferma la Suprema
Corte di Cassazione (sentenza n. 6172/2008) in una sentenza attinente
all’annosa questione dell’accesso degli stranieri al pubblico impiego. Una nota a commento dell’avv. Alberto
Guariso del Foro di Milano.
ATTUALITA’ ITALIANA
LE ORDINANZE E I PROVVEDIMENTI DISCRIMINATORI DI ENTI LOCALI DEL NORD
ITALIA
Il parere dell’UNAR (Ufficio Nazionale
Anti-Discriminazioni) relativamente
alla seconda ordinanza del
Sindaco di Cittadella in materia di ospitalità del cittadino straniero e
iscrizione anagrafica.
La Commissione Europea risponde a quattro
interrogazioni sulle iniziative adottate da alcuni comuni italiani in materia
di matrimoni misti, iscrizione anagrafica, accesso all’istruzione di cittadini
comunitari ed extracomunitari.
INTERVENTI DI ADVOCACY
I profili discriminatori degli annunci di impiego che contengono la
previsione di un requisito del possesso della ‘lingua madre italiana’ ai fini
dell’assunzione. Il punto di vista
del Servizio di Supporto giuridico contro le discriminazioni razziali dell’ASGI
a seguito di una segnalazione della RITA Liguria.
Ripristinata all’Università di Bergamo la parità di
trattamento tra studenti stranieri e studenti italiani nelle condizioni di
eleggibilità alla rappresentanza studentesca in seno agli organi di ateneo.
ATTUALITA’
INTERNAZIONALE
Il CERD, Comitato ONU per l’eliminazione delle
discriminazioni razziali, rende pubbliche le proprie raccomandazioni alle
autorità italiane per efficaci politiche pubbliche contro il razzismo e la
discriminazione razziale. Il lavoro svolto dalle organizzazioni non
governative.
GIURISPRUDENZA
COMUNITARIA
Secondo l’Avvocato generale
della Corte europea di Giustizia, Poiares Maduro, costituisce discriminazione
diretta vietata dalla direttiva europea n. 2000/43/CE, il comportamento di un
datore di lavoro che affermi pubblicamente di non voler assumere persone di una
certa origine etnica.
La Corte di giustizia
mette fuorilegge la discriminazione tra convivente registrato e coniuge relativamente
ai vantaggi salariali riconosciuti dal datore di lavoro (pensione di
reversibilità). Corte di Giustizia, Maruko c. Versorgungsanstalt der
deutschen Bühnen (Causa C‑267/06)
AUTONOMIE LOCALI E INTERVENTI CONTRO LA
DISCRIMINAZIONE RAZZIALE
Il centro regionale e la rete regionale contro le
discriminazioni razziali nella Regione Emilia-Romagna.
PUBBLICAZIONI,
DOCUMENTI E RAPPORTI
SITI
INTERNET:
Newsletter dell’Osservatorio immigrazione della Regione Piemonte dedicato ai
Rom e Sinti
GIURISPRUDENZA
ITALIANA
I provvedimenti giudiziari emanati nell’ambito di
un’azione giudiziaria anti-discriminazione ex art. 44 del D.lgs. n.
286/98, non sono ricorribili per
cassazione avendo natura di provvedimenti cautelari. Così afferma la Suprema
Corte di Cassazione (sentenza n. 6172/2008) in una sentenza attinente
all’annosa questione dell’accesso degli stranieri extracomunitari al pubblico
impiego.
La
Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso
per cassazione ex art. 111 Cost. nei confronti del decreto della Corte
d'Appello reso su reclamo avverso l'ordinanza del Tribunale nell'ambito del
procedimento (art. 44 del dlgs. n. 286 del 1998) che prevede l'azione civile
contro la discriminazione (per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi).
Alla base della decisione vi è la ritenuta natura cautelare del procedimento in
argomento e la sua sottoponibilità a verifica, sia pure facoltativa, nella sede
di merito, con conseguente mancanza del carattere della definitività e
decisorietà.
Al
di là della sua importanza per gli
aspetti procedurali inerenti all’azione giudiziaria anti-discriminazione ex
art. 44 del T.U. immigrazione, sui quali si sofferma la nota qui di seguito pubblicata a cura dell’avv. Alberto Guariso
del Foro di Milano, la sentenza riveste una sua rilevanza anche in relazione
agli aspetti di contenuto cui si riferiva il caso in esame: l’annosa questione
dell’accesso degli stranieri di paesi terzi al pubblico impiego. La sentenza
della Corte di Cassazione si riferisce infatti al caso di un medico chirurgo, cittadino albanese, residente
regolarmente in Italia, la cui domanda di partecipazione ad un concorso pubblico per l'assunzione a
tempo indeterminato per un posto di
dirigente medico in cardiologia, indetto nel 2004 da un’Azienda
Ospedaliera Universitaria, era stata respinta per difetto del requisito della
cittadinanza italiana. Il medico
albanese aveva quindi proposto
ricorso al Tribunale di Pistola, sostenuto dal servizio di assistenza legale
offerto dal Centro provinciale anti-discriminazione di Pistoia, affermando di
esser stato ingiustificatamente discriminato e chiedendo di essere ammesso al
pubblico concorso. Il giudice
aveva accolto in parte il ricorso, disponendo l'ammissione del medico
albanese al concorso. La Corte d'appello di Firenze, adita dalla Asl, aveva rigettato il reclamo. Contro tale rigetto, l’Azienda
sanitaria locale aveva proposto il ricorso per cassazione.
La pronuncia della Corte di Appello di
Firenze, al pari di diverse altre pronunce delle corti di merito, aveva ritenuto in violazione dell’art. 2 del
T.U. immigrazione il diniego alla partecipazione dei cittadini di paesi non
appartenenti all’Unione Europea ai pubblici concorsi ai fini dell’assunzione in
un ente pubblico (1) e il diniego di assunzione presso un’amministrazione
ospedaliera pubblica in ragione della mancanza del requisito soggettivo della
cittadinanza italiana, (2) posto quest’ultimo dal d.p.r. 487 del 1994 tra i
requisiti generali di accesso agli impieghi civili nella pubblica amministrazione.
Nel caso di specie, la disposizione del decreto del 1994 è stata giudicata
implicitamente abrogata con l’entrata in vigore della l. 40 del 1998, così come
la disciplina successiva (d.lgs. n. 165/2001), ribadente il principio
dell’esclusione dei cittadini di Stati terzi dal pubblico impiego, deve disapplicarsi in quanto contrastante
con il principio di parità di trattamento di cui alla Convenzione OIL n.
143/1975, norma avente valore gerarchicamente sovraordinato in quanto di natura
pattizia ai sensi dell’art. 10 comma 2 Costituzione, nonché con i principi di
parità di trattamento di cui alla direttiva europea n. 2000/43. La vincolatività rispetto
all’ordinamento interno delle disposizioni della Convenzione OIL sarebbe dunque
garantita, secondo la Corte di Appello di Firenze, dall’art 10 Cost., che «impone
solo l'adeguamento delle norme sulla condizione giuridica dello straniero alle
norme ed ai trattati internazionali, implicitamente legittimando quelle
limitazioni che non contrastano con altre norme costituzionali o con i principi
e gli atti di diritto internazionale» e vietando le limitazioni con questi
ultimi contrastanti.
Da ciò deriva, a giudizio della Corte
d’appello, la conseguenza che «che il regolamento approvato con decreto del
Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483, è una limitazione
dell’accesso ai concorsi per il personale dirigenziale del Servizio sanitario
nazionale maggiore di quella consentita, agli Stati contraenti, dalla
convenzione numero 143 dell'Organizzazione internazionale del lavoro». (3) Da parte governativa, tuttavia, le
argomentazioni della citata giurisprudenza di merito non hanno mai trovato
accoglimento. Con il parere del
Dipartimento della funzione pubblica – Ufficio per il personale delle
pubbliche amministrazioni, è stato argomentato che poiché l’art.
51 Cost. prevede espressamente che
«Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici
pubblici…» , le limitazioni di cui all’art. 2 del d.p.r. 3/1957 (poi trasposto
nel d.p.r. 487/94 e nel d.lgs 165/2001) che prescrivono il requisito della cittadinanza
italiana per l’accesso al pubblico impiego sarebbero legittime, in quanto la
norma pattizia internazionale
non potrebbe prevalere sulla norma costituzionale. A fianco della posizione
governativa si era collocata
l’unica pronuncia emanata finora dalla giurisprudenza di
legittimità. La Corte di
Cassazione –Sezione lavoro-, con la
sentenza 19.10-13.11.2006, n. 24170, (pres. Mattone, relatore
Picone), aveva, infatti, affermato che il diritto positivo vigente «esprime sicuramente la regola
secondo cui la cittadinanza italiana costituisce requisito per l’accesso al
lavoro pubblico in tutte le sue forme, con salvezza delle eccezioni previste
dalla legge», in quanto la norma regolamentare di cui al dpr 487/94 risulta
“legificata” dall’art. 70 del D.lgs. 165/01, il quale peraltro gode di
copertura costituzionale in base agli art. 51, 97 e 98 Cost., nell’ambito di
una scelta consapevole e legittima che qualifica speciale il lavoro pubblico e
lo assoggetta a regolamentazione particolare (4). Peraltro, anche dopo la
pronuncia della Cassazione, la giurisprudenza di merito ha confermato il suo
orientamento favorevole all’accesso degli stranieri di paesi terzi al pubblico
impiego con gli stessi limiti
previsti per i cittadini comunitari, ovvero con l’eccezione degli
incarichi che implichino l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri
ovvero che attengano alla tutela dell’interesse nazionale (ad es. Tribunale di
Bologna, ordinanza 7 settembre 2007, xxx c. Università di Bologna).
E’ evidente, dunque, che la pronuncia
attuale della Cassazione, sebbene non intervenga nei meriti della disputa,
limitandosi a considerare gli aspetti procedurali inerenti all’azione
giudiziaria anti-discriminazione, costituisce pur sempre un elemento favorevole
alla causa dell’accesso degli stranieri di paesi terzi al pubblico impiego
perché indebolisce la funzione di
nomofilachia, cioè di guida all’uniforme interpretazione della legge pur
nella non vincolatività al di là del caso concreto, che il precedente sfavorevole di cui alla sentenza n. 24170
poteva in sé contenere. Non ammettendosi il ricorso per cassazione nei casi di
pronuncia giudiziaria a seguito di
azione giudiziaria anti-discriminazione ex art. 44, avendo il procedimento
natura cautelare, è evidente che la giurisprudenza di merito finora acquisita e
di segno prevalente all’accesso degli stranieri al pubblico impiego acquista un
peso di maggiore rilevanza rispetto al procedente negativo della Cassazione, il
quale non costituisce più quel deterrente alla promozione di un’azione
giudiziaria anti-discriminazione in caso di diniego all’accesso ad un concorso
pubblico nei confronti di un cittadino straniero che fino a questo momento
poteva costituire.
Note
(1)
Trib. Genova, ord. 21.4.2004, in Diritto, Immigrazione e
Cittadinanza,
2004, n.2 e Trib. Pistoia, ord. 6/.5.2005, in Diritto, Immigrazione e
Cittadinanza,
2005, n.1; da ultime, Corte di Appello di Firenze, dec. 30.09.2005; Tribunale
di Perugia, 29.09.2006, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, 2006, n. 4, pag. 166.
(2)
Corte
App. Firenze, ord. 2.7.2002, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2003, n. 2.
(3)
Di
parere analogo, anche: Tribunale di Perugia,
ordinanza 6 dicembre 2006, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza n. 2/2007, pp. 159 ss..
(4)
Per
una riflessione critica sulla sentenza della Cassazione si rimanda a F. Di Pietro, Pubblico
impiego solo per i cittadini Ue, in "D&G - Diritto e Giustizia", n. 44, 2006, p. 19; oppure a
F. Buffa, Dipendenti pubblici extracomunitari ? il No della Cassazione e il
sì dei giudici di merito: una questione ancora irrisolta, in Diritto, Immigrazione
e Cittadinanza,
n. 4/2006, pp. 47 ss.
Nota
a commento della sentenza della Corte di Cassazione n. 6172/2008 a cura
dell’avv. Alberto Guariso di Milano, socio ASGI ed esperto di diritto
anti-discriminatorio. 1. La pronuncia della Corte di Cassazione
6172/2008 giunge per la prima
vola a fare un po’ di chiarezza sulla interpretazione dell’art. 44 TU
immigrazione, che ha
introdotto nel nostro ordinamento la “azione civile contro la
discriminazione” dando vita – sia pure un po’ disordinatamente - ad un modello processuale che è si è poi rivelato
suscettibile di numerose applicazioni. L’obiettivo, assolutamente condivisibile e meritorio, del legislatore del 1998 era quello
di un procedimento estremamente agile, privo di formalità e di preclusioni (è
addirittura prevista la difesa personale in giudizio) con rilevanti poteri
d’ufficio del Giudice e con un espresso richiamo al rito camerale che è
tradizionalmente proprio dei procedimenti non contenziosi. Il punto sul quale il legislatore si era decisamente “impallato” era
quello del rapporto tra procedimento cautelare e procedimento di merito, che
nella struttura della norma, risultava del tutto oscuro. I Giudici investiti
dello speciale procedimento erano così andati in ordine sparso: taluno
riteneva di interpretare l’azione come volta a pervenire ad una decisione di
merito e pronunciava sentenza (in questo senso una delle prime pronunce in
materia emessa in data 21.03.2002 dal Trib. Milano e pubblicata in Foro It., 2003, pp. 3177 ss. ), altri
pronunciavano ordinanza con la quale assumevano i necessari provvedimenti
cautelari e fissavano successiva udienza di merito (così recentemente una
ordinanza ancora del Trib. Milano dd. 11.02.2008, in causa R.E.M. c. Comune
di Milano, est. Marangoni). Anche in dottrina si erano formati due orientamenti contrapposti che
sono ben richiamati nella motivazione della sentenza: l’uno riteneva il procedimento
necessariamente bifasico (un primo provvedimento cautelare e un successivo
giudizio di merito) l’altro come procedimento monofasico se pure a cognizione
sommaria (con conseguente emissione di sentenza se pure a seguito di un
procedimento estremamente rapido). La questione ha ovviamente riflessi in ordine alle modalità di
impugnazione del provvedimento emesso dal giudice: se infatti si tratta di
ordinanza cautelare questa è soggetta a reclamo avanti il tribunale in
composizione collegiale ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c.; se si tratta di sentenza questa è
inevitabilmente soggetta alla ordinaria impugnazione avanti la Corte
d’Appello. Mentre la disquisizione sul punto sembrava ormai giunta a un punto
fermo è intervenuta la L. 80/2005 che ha apportato una radicale modifica al
procedimento cautelare: prima di tale modifica il provvedimento cautelare
(che può essere richiesto qualora sussistano particolari ragioni di
urgenza) era necessariamente
“strumentale” ad una decisione di merito che era destinata ad assorbire tale
provvedimento provvisorio; se la
parte vittoriosa non dava inizio al giudizio di merito entro il termine
fissato dal Giudice, il provvedimento cautelare perdeva effetto. Era quindi,
ad ogni effetto, un provvedimento “a termine”. Ora, con il nuovo art.
669 octies c.p.c. le
cose non stanno più così. La parte vittoriosa è pienamente libera di
“accontentarsi” del provvedimento cautelare e di non iniziare mai il giudizio
di merito: il provvedimento resterà comunque in vita e regolerà la questione
controversa a tempo indeterminato. Resta un'unica differenza tra sentenza di merito e ordinanza
cautelare: la prima, se non impugnata nei termini, passa in giudicato,
diviene definitiva; il secondo non passa mai in giudicato e in qualsiasi momento
(anche dopo anni) sia la parte soccombente sia la parte vincitrice sono
entrambe abilitate ad introdurre il giudizio di merito, la cui sentenza
conclusiva è destinata ad assorbire (in positivo o in negativo) il
provvedimento cautelare che solo a quel punto perderà efficacia. Questa natura ipoteticamente “definitiva” del provvedimento cautelare
impone al giudice una maggiore severità nell’esame del materiale probatorio e
nell’approfondimento delle questioni, tanto che l’art. 669 sexies impone al giudice di compiere (se pure “omettendo
ogni formalità non necessaria al contradditorio”) tutti e solo gli atti indispensabili ai fini del
provvedimento richiesto: il
giudizio cautelare si avvicina dunque sempre più ad un giudizio sì urgente, ma “a cognizione
piena” e non soltanto sommaria. 2. A questo punto la strada per appianare i contrasti interpretativi
sull’art. 44 TU immigrazione si è dunque spianata davanti alla Corte, che
infatti l’ha subito imboccata. Da una serie di spunti letterali (che qui non è necessario
ripercorrere giacché la sentenza li enumera con grande chiarezza) la Corte
giunge alla conclusione che quello delineato dall’art. 44 è un procedimento cautelare che quindi
si conclude con una ordinanza; ma – come tutti i procedimenti cautelari
- non è più necessariamente bifasico ben potendo accadere (in applicazione
delle norme generali appena richiamate) che alla decisione cautelare non
segua alcuna decisione di merito. Anche il provvedimento in tema di
discriminazione emesso dal Giudice ai sensi dell’art. 44 cit. può restare
definitivo, qualora non venga introdotto un giudizio di merito. Resta tuttavia da notare la particolarità della vicenda che ha
condotto alla decisione. Nel caso di specie, per quanto si apprende dalla parte narrativa della
pronuncia, la parte soccombente in primo grado aveva proposto non un reclamo
al Tribunale collegiale, ma una impugnazione avanti la Corte d’Appello,
ritenendo evidentemente di trovarsi già davanti ad una sentenza di merito, o
comunque ad un provvedimento avente natura decisoria definitiva. Rimasta soccombente anche in appello ha proposto ricorso ex art. 111
Cost. per Cassazione, ma la Corte ha dichiarato improcedibile il ricorso
perché, dovendosi appunto interpretare la decisione del Tribunale come
decisione cautelare, questa è soggetta bensì a reclamo, ma non a ricorso per
Cassazione (solo i provvedimenti definitivi possono essere oggetto di
ricorso). Logica conseguenza di ciò è che anche l’appello proposto avanti la
Corte d’Appello era irregolare perché, se di provvedimento cautelare si
trattava, l’impugnazione, come si è detto, andava proposta al Tribunale in
composizione collegiale. Su ciò tuttavia la Corte non si pronuncia (forse
perché non investita del problema). 3. Venendo al problema concreto della tutela dei diritti, l’assetto
processuale che deriva dalla pronuncia appare condivisibile e razionale,
anche se lascia aperte (oltre alla questione di dove vada proposta
l’impugnazione ) alcune questioni. La prima è se il giudizio di merito cui la Corte si riferisce è un
giudizio di merito ordinario o
se anche il giudizio di merito continua ad essere regolato dalla particolare
procedura (semplificata, priva di preclusioni ecc.) prevista dall’art. 44
cit.: la Corte tace sul punto, ma
pare inevitabile concludere nel secondo senso, giacché in caso
contrario il discriminato rimasto soccombente nel giudizio cautelare (o anche
quello rimasto vittoriosa che decida di introdurre il giudizio di merito) si
dovrebbe sobbarcare un procedimento del tutto incompatibile con la natura
urgente del diritto leso e con gli obiettivi che il legislatore del ‘98 si
proponeva La seconda considerazione pratica è che, all’interno di questo schema,
anche il giudizio cautelare deve assumere tutta la valenza di un giudizio
plausibilmente conclusivo, il che pone il problema della completezza della
statuizione in particolare in ordine al risarcimento del danno: l’esame della
ormai nutrita giurisprudenza segnala già ora una certa timidezza dei Giudici
nel liquidare il “danno da discriminazione” ed è inevitabile che tale
ritrosìa aumenti se il procedimento viene interpretato come meramente
cautelare, sussistendo una storica (per quanto ingiustificata)
incompatibilità tra i provvedimenti cautelari e decisioni risarcitorie che
normalmente si ritiene debbano essere rimesse alla decisione di merito. Un terzo è ultimo interrogativo poi è se la interpretazione della
Corte sia estensibile al procedimento ex art. 4 D.Lgs 215/03 in tema di
discriminazioni per ragioni di razza. Come è noto l’art. 4 di detto D. Lgs non fa un rinvio totale all’art.
44 ma pesca qua e là alcuni commi, trascurandone altri Ne è nata in dottrina (in particolare Curcio, in Barbera (a cura di) Il
nuovo diritto antidiscriminatorio, Milano, 2007) l’opinione che il procedimento ex art. 4 sia, al contrario di
quanto risulta ora essere quello ex art. 44, un processo necessariamente
monofasico destinato a chiudersi con sentenza impugnabile solo avanti la
Corte d’Appello. Se così fosse assisteremmo all’ennesima proliferazione di modelli
processuali antidiscriminatori che già affligge in modo irrazionale il nostro
ordinamento: come noto infatti allo stato si possono enumerare oltre ai due
modelli di cui si è detto (art. 44 e art. 4 D.lgs 215) quello di cui all’art.
37 Codice Pari opportunità (che si fonda sul diverso schema : decreto del
Tribunale monocratico + eventuale opposizione davanti al medesimo giudice
monocratico che instaura un ordinario giudizio di merito) quello di cui al
nuovo art.55-quinquies del
Codice pari opportunità in materia di discriminazione uomo/donna nell’accesso
ai servizi (introdotto dal D.Lgs. 196/2007) che ricalca quello dell’art. 4 D.
Lgs 215 cit., senza però richiamarlo e, infine, quello di cui all’art. 3 L.
67/2006 in materia di discriminazione degli invalidi, che richiama l’art. 44
TU immigrazione. Molte cose vanno dunque ancora riordinate, ma la sentenza in esame
compie sicuramente un primo passo utile. Avv. Alberto Guariso Foro di Milano |
Pubblichiamo di seguito il testo
integrale della sentenza della Corte Suprema di Cassazione, sez. Unite civile,
n. 6172 dd. 07-03.2008
Corte Suprema di Cassazione civ. Sez. Unite, Sentenza dd. 07-03-2008, n. 6172 Il dott. G.M. è un
medico chirurgo, cittadino albanese, residente regolarmente in Italia. La sua
domanda di partecipazione al concorso pubblico per l'assunzione a tempo
indeterminato di 6 dirigenti medici in cardiologia, indetto nel 2004
dall'Azienda Ospedaliera Universitaria (OMISSIS) di (OMISSIS), è stato
respinto per difetto del requisito della cittadinanza italiana. Il M. ha proposto
ricorso al Tribunale di Pistola, depositato il 13 gennaio 2005, D.Lgs. 25
luglio 1998, n. 286, ex
artt. 43 e 44, affermando di esser stato ingiustificatamente discriminato e
chiedendo di essere ammesso al pubblico concorso. Il giudice adito,
rigettata l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in
favore di quello amministrativo, proposta dalla Asl, ha accolto in parte il
ricorso, disponendo l'ammissione del M. al concorso e rigettando nel merito
la domanda di risarcimento danni. La Corte d'appello di Firenze, adita dalla
Asl in sede di reclamo (previsto dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art.
44, comma 6), con decreto
30 settembre - 31 dicembre 2005, riaffermata la giurisdizione del giudice
ordinario, ha rigettato il reclamo. Quanto alla
giurisdizione, ha rilevato che il ricorso del M. era stato proposto ai sensi
del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, il quale attribuisce al tribunale ordinario la
competenza a decidere sull'azione diretta a rimuovere gli effetti della
discriminazione per motivi razziali, etnici, o religiosi, determinata dal
comportamento di un privato o di una pubblica amministrazione. Nel merito, dopo
un'amplissima disamina delle fonti normative internazionali e interne
sull'obbligo di parità di trattamento dei lavoratori extracomunitari, ha
esaminato il D.Lgs. 10 dicembre 1997, n. 483, art. 1 (Regolamento recante la
disciplina concorsuale per il personale dirigenziale del servizio sanitario
nazionale), il quale consente che partecipino ai concorsi coloro che
possiedono i requisiti generali della cittadinanza italiana o della
cittadinanza di uno dei paesi dell'Unione Europea. Ha dichiarato tale norma
inapplicabile nella presente fattispecie, nella parte in cui pone una
disparità di trattamento tra le due categorie di stranieri - cittadini
comunitari ed extracomunitari - perchè in contrasto con la L. 10 aprile
1981, n. 158, attuativa
della convenzione Oil 75 - 143, da considerarsi norma di rango superiore.
Avverso tale decreto ha proposto ricorso per Cassazione l'Azienda ospedaliera
universitaria (OMISSIS), con due motivi, il primo attinente alla
giurisdizione, il secondo al merito. Il dott. M.
resiste con controricorso. Entrambe le parti
hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.. Motivi della decisione
Si deve
preliminarmente esaminare d'ufficio l'ammissibilità del presente ricorso per
Cassazione avverso un decreto di Corte d'appello emesso in sede di reclamo in
procedimento D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 44. Costituisce jus receptum che il
ricorso straordinario per Cassazione ai sensi dell'articolo 111 Cost. è proponibile avverso provvedimenti
giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi
siano definitivi ed abbiano carattere decisorio, cioè siano in grado di
incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura
sostanziale (ex plurimis Cass. Sez. un. 8 marzo 2006 n. 4915; Sez. Un. 15
luglio 2003 n. 11026). Ricorrono tali
elementi quando l'ordinanza o il decreto siano emessi a conclusione di un
procedimento contenzioso, anche se con rito camerale; incidano su diritti
soggettivi; ed il provvedimento non sia opponibile o diversamente
impugnabile. La decisione
sull'ammissibilità del presente ricorso dipende perciò dalla qualificazione
del procedimento D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 44, come cautelare bifasico, nel quale
l'ordinanza sarebbe sottoposta a verifica nel giudizio di merito; o come
procedimento monofasico abbreviato di tutela piena, nel quale caso il decreto
della Corte d'Appello sarebbe costituirebbe la verifica di secondo grado,
conclusiva del procedimento, non diversamente impugnabile. In questo secondo
caso, il ricorso del M. non potrebbe neppure essere convertito in regolamento
preventivo di giurisdizione, inammissibile nella fase tra l'emissione del
provvedimento cautelare e l'eventuale inizio della causa di merito (ex
plurimis Cass. 8 giugno 2007 n. 13396, Cass. 25 maggio 2007 n. 12252). La L. 6 marzo
1998, n.40, art. 42,
ripreso dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 (Testo unico delle disposizioni concernenti
la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero),
intitolato "Azione civile contro la discriminazione", dispone: "1. Quando il
comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una
discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il
giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento
pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le
circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. 2. La domanda si
propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella
cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell'istante. 3. Il pretore,
sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio,
procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione
indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento
richiesto". Il comma 5 dispone che nei casi di urgenza il giudice
provvede con decreto motivato, assunte sommarie informazioni; il comma 6
prevede il reclamo avanti alla Corte d'Appello; il comma 7: "Con la
decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il
convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale". Sulla natura del
procedimento in questione la dottrina dominante è per il carattere cautelare. In favore di
questa tesi sono spesi i seguenti argomenti: sul piano lessicale il
procedimento disciplinato dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44,
commi 2 e 5 ripete la
formulazione dell'art. 699 septies c.p.c., che detta la disciplina del
procedimento cautelare uniforme; il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art.
44, comma 7, nel disporre
che il giudice, con la decisione che definisce il giudizio, può altresì
condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale,
prefigurerebbe chiaramente un giudizio di merito. Una dottrina
minoritaria ritiene che gli elementi testuali configurino un procedimento
monofasico: il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44, non riproduce nè rinvia all'articolo 699
octies c.p.c., che, nel disciplinare il passaggio al giudizio di merito,
costituisce la norma cardine per configurare il procedimento previsto
dall'art. 699 bis c.p.c. e segg. come rigidamente strumentale al giudizio di
merito a cognizione piena, e quindi sommario e cautelare; la previsione del D.Lgs. 25
luglio 1998, n. 286, art. 44, comma 7 non avrebbe senso se riferita al giudizio di
merito, che implica di per sè la possibilità della condanna al risarcimento
del danno; al contrario, essa, consentendo una pronuncia sul risarcimento del
danno, configurerebbe il procedimento come a forma semplificata, ma non
cautelare. Un terzo
orientamento, pur rilevando la mancanza, nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n.
286, art. 44, di una norma
sul passaggio alla fase di merito, solleva dubbi sulla legittimità
costituzionale di un modello a struttura monofasica, in relazione al
principio del giusto processo, di cui all'art. Ili Cost., e sollecita questa
Corte ad intervenire nomofilatticamente sulla questione, dettando una
interpretazione costituzionalmente orientata. Si deve collocare
storicamente e dommaticamente il procedimento in esame. Il precedente
remoto è costituito dall'art. 700 c.p.c., che ha introdotto nel codice di procedura del 1942
una tutela cautelare atipica diretta a neutralizzare i danni che possano
derivare all'attore della durata del processo a cognizione piena. Il rimedio
cautelare viene definito perciò per il suo carattere sommario e
necessariamente strumentale al processo a cognizione ordinaria. La L. 20 maggio
1970, n. 300, art. 15, apre
la stagione delle misure volte a contrastare la discriminazione sindacale e
politica. Leggi successive hanno integrato, sul piano sostanziale, cori il
sistema della novella, questa norma base con ulteriori previsioni
antidiscriminatorie: la L. 9 dicembre 1977, n. 903, art. 13, integra l'art. 15, comma 2, cit. con la
discriminazione religiosa, razziale, di lingua o di sesso, e il D.Lgs. 9
luglio 2003, n. 216, art. 4,
con quelle basate su handicap, di età, sull'orientamento sessuale o sulle
convinzioni personali. Sul piano
processuale, le azioni previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 16, comma 2, dalla L. n. 907 del 1977, art. 15, e dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art.
28, in favore delle organizzazioni sindacali
contro i comportamenti antisindacali, si ispirano ad un modello fondamentale
comune, sia dal punto di vista strutturale, sia da quello lessicale: domanda,
anche personale, dell'interessato; competenza del giudice ordinario,
individuato, dopo la esperienza positiva della L. 15 luglio 1966, n. 604,
art. 6, u.c., nel pretore,
quale giudice periferico prossimo al domicilio dell'istante (ora Tribunale
ordinario); convocazione urgente delle parti in tempi strettissimi, decreto
immediatamente esecutivo, possibilità di opposizione avanti allo stesso
giudice monocratico, con il che si apre un giudizio a cognizione piena
attraverso i normali tre gradi. Il D.Lgs. 25
luglio 1998, n. 286, art. 44,
in esame introduce un diverso modello, che sarà poi seguito dal D.Lgs. 9
luglio 2003, n. 216, art. 4, e dalla L. 1 marzo 2006, n. 67, art. 3, per le discriminazioni verso i disabili in
qualsiasi ambito dell'esistenza, nonchè del D.Lgs. 6 novembre 2007, n.
196, art. 1, il quale, nel
disciplinare la parità di trattamento tra uomini e donne nell'accesso ai beni
e servizi e loro fornitura, ha previsto un procedimento con analoga
struttura. Esso abbandona la possibilità dell'opposizione avanti al medesimo
giudice monocratico e di una pronta sentenza di merito, con i successivi due
gradi; e, seguendo il modello del procedimento cautelare uniforme, nel
frattempo introdotto nel nostro ordinamento dalla L. 26 novembre 1990, n.
353, art. 74 (con effetto
dal 1993), ammette il reclamo ad un giudice collegiale. Queste Sezioni
Unite ritengono che il carattere cautelare del procedimento introdotto
dall'art. 44 in esame, e seguito dalle leggi successive che ad esso rinviano,
si evinca dai seguenti prevalenti elementi testuali, interpretati nel quadro
ordinamentale generale: 1.1 D.Lgs. 25
luglio 1998, n. 286, art. 44, commi 3, 4 e 5 riproducono pedissequamente l'art. 699 sexies
c.p.c., sul procedimento cautelare uniforme; in particolare il comma 5 ripete
la distinzione dell'art. 699 sexies c.p.c., comma 2, tra decreto motivato, in
caso di urgenza, sulla base di sommarie informazioni, ed ordinanza sulla base
degli atti di istruzione indispensabili; tale struttura conforme preclude la
possibilità di considerare l'ordinanza di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n.
286, art. 44, comma 3, in
quanto assicura le esigenze costituzionali di parità di difesa con il
rispetto del contraddittorio e la pienezza dell'istruttoria con l'assunzione
delle prove indispensabili, come l'atto conclusivo di un procedimento a
cognizione piena, anche se abbreviata, proprio perchè le stesse garanzie sono
proprie del procedimento cautelare uniforme; 2. il comma 6
ammette, contro i provvedimenti del giudice adito, il reclamo al giudice
superiore, rimedio tipico contro i provvedimenti cautelari, alternativo
all'appello; il passaggio operato dal legislatore dal modello precedente,
basato sull'opposizione al medesimo giudice, al reclamo al giudice superiore,
si spiega proprio con l'ingresso nel nostro ordinamento del processo
cautelare uniforme; 3. il comma 8
prevede che "chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di
cui ai commi 4 e 5, e dei provvedimenti del Tribunale di cui al comma 6, è
punito ai sensi dell'art. 388 c.p., comma 1". Così disponendo,
il comma 8 adotta non la formulazione dell'art. 388 c.p.c., comma 1, relativo a chi si sottrae agli
obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, ma quella del comma 2,
relativo a chi elude l'esecuzione di un provvedimento del giudice civile
(omissis) che prescriva misure cautelari. Il riferimento che l'art. 44 fa all'art.
388 c.p.c., comma 1 è quoad
poenam, determinata solo nel primo comma. Con tale formulazione lessicale, il
comma 8 presuppone la natura cautelare del provvedimento in esame. 4. Il D.L. 14
marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 3, lett. e bis), nn. 2 e 3, convertito, con modificazioni,
nella L. 14 maggio 2005, n. 80, ha introdotto all'art. 669 octies c.p.c., un comma 6, che abroga, a
partire dal 1 marzo 2006, limitatamente alle misure cautelari anticipatorie,
quale quella in esame, l'onere, contenuto nei primi due commi dello stesso art.
699 c.p.c., comma 8, di
iniziare l'azione di merito entro un termine perentorio, pena la perdita di
efficacia del provvedimento cautelare, ed abroga corrispondentemente l'art.
699 c.p.c., comma 9, per il
quale il mancato inizio dell'azione di merito comportava appunto
l'inefficacia del provvedimento cautelare. Tale radicale innovazione
raccoglie i suggerimenti della dottrina, per evidenti intenti deflattivi, e
si sostanzia nel rendere facoltativo l'inizio dei giudizio di merito per le
misure cautelari anticipatorie ("idonei ad anticipare gli effetti della
sentenza di merito"); essa comporta la stabilizzazione dell'"
efficacia del provvedimento cautelare, non seguito dalla fase di merito. Tale innovazione,
che avvicina il procedimento cautelare ad uno a cognizione piena eventuale e
successiva, attenua il suo carattere strumentale necessario rispetto al
giudizio di merito, e depotenzia così l'argomento tratto dalla mancata
previsione nell'art. 44 in esame di una norma sul passaggio alla fase di
merito. Gli argomenti
testuali riferiti vanno inseriti nel quadro ordinamentale che esige, come
sottolineato con forza dalla dottrina, che qualsiasi diritto, anche se
oggetto di tutela sommaria o cautelare, possa poi formare, su iniziativa, non
più obbligatoria, della parte, oggetto di cognizione piena da parte di un
giudice; e sottolinea altresì l'esigenza di una concentrazione e
semplificazione, e non dispersione o proliferazione, dei modelli processuali
di tutela. Una volta acquisito il carattere cautelare dei procedimento in
esame, scatta l'applicazione dell'art. 699 c.p.c., comma 14, secondo cui le norme sul procedimento
cautelare uniforme si applicano, in quanto compatibili, agli altri
provvedimenti cautelari previsti dalle leggi speciali. Trovava così
applicazione diretta (non analogica), al tempo dei fatti, l'art. 699
c.p.c., comma 8, comma 1,
che imponeva al giudice di fissare, con l'ordinanza di accoglimento del
ricorso cautelare, un termine perentorio per l'inizio della causa di merito,
ed il comma 2, per cui in difetto di fissazione del termine della causa di
merito doveva essere iniziata nel termine perentorio di sessanta giorni. Alla luce di tale
conclusione possono essere risolti altri elementi testuali problematici o
contraddittori, quali la mancanza di un rinvio all'art. 699 c.p.c, comma 8,
sull'inizio della fase di merito, che come abbiamo visto non costituisce più
elemento caratterizzante del procedimento cautelare, o la qualificazione,
contenuta nel comma 10, come sentenza del provvedimento che decide sul
ricorso collettivo, in contrasto con la qualificazione del comma 5 come ordinanza.
Quanto alla previsione dell'art. 7, si deve notare, da una parte, sul
(problematico) piano lessicale, che la espressione "decisione che
definisce il giudizio" è identica a quella usata dall'art. 279 c.p.c. per definire la conclusione del giudizio di
merito; dall'altra, che tale previsione, acquista significato solo se intesa
come facoltà aggiuntiva dei giudice cautelare di condannare la parte al
risarcimento del danno patrimoniale, biologico e morale, così ottenendosi un
rafforzamento ed anticipazione della tutela antidiscriminatoria, secondo
l'intenzione del legislatore. La previsione del comma 7 sarebbe viceversa
pleonastica se riferita alla sentenza che definisce il giudizio di merito,
cui già appartiene tale potere. Costituendo il
decreto della Corte d'Appello ex art. 44 in esame, sia secondo la disciplina
del tempo, sia secondo quella attuale, provvedimento sottoponibile a verifica
in sede di merito, la relativa fattispecie differisce dagli altri
provvedimenti camerali per i quali questa Corte ha ritenuto ammissibile il
ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. (ad es. decreto, pronunciato in Camera di consiglio
ai sensi degli artt. 739 e 742 bis c.p.c., con il quale la Corte d'appello
decide in ordine alla domanda di autorizzazione ad entrare o a permanere
temporaneamente sul territorio nazionale, proposta, in deroga alle
disposizioni generali sull'immigrazione, dal cittadino di uno Stato non
appartenente all'Unione europea, per gravi motivi connessi con lo sviluppo
psico-fisico di un familiare minorenne, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del
1998, art.31, comma 3, qui
in esame (Cass. Sez. 1^, 11 gennaio 2006 n. 396; Cass. Sez. un. 16 ottobre
2006 n. 22216; Cass. 15 gennaio 2007 n. 747); il decreto della Corte
d'appello emanato in sede di reclamo, in Camera di consiglio, avverso il
provvedimento di radiazione dal ruolo nazionale dei periti assicurativi
(Cass. Sez. un. 6 febbraio 2006 n. 2447); il provvedimento di liquidazione di
onorari di avvocato, il quale, ai sensi della L. 13 giugno 1942, n. 794,
artt. 29 e 30 è emesso a
seguito di procedimento in Camera di consiglio, con ordinanza non impugnabile
(ex plurimis Cass. 7 febbraio 2007 n. 2623; Cass. 11 maggio 2006 n. 10939);
il provvedimento del giudice che abbia deciso sull'opposizione proposta dal
custode contro il decreto di liquidazione delle spese emesso dal magistrato
che procede al giudizio nell'ambito del quale è stato disposto il sequestro
(Cass. Sez. un. 13 luglio 2005 n. 14696); nonchè (non senza contrasti), il
decreto pronunciato dalla Corte d'appello in sede di reclamo avverso il
provvedimento del tribunale in materia di modifica delle condizioni della
separazione dei coniugi concernenti il mantenimento dei figli (Cass. 4
febbraio 2005 n. 2348; Cass. 30 dicembre 2004 n. 24265). Si deve a questo
punto esaminare la questione se la mancanza, nel procedimento cautelare, del
passaggio obbligatorio alla fase di merito, e la conseguente stabilizzazione
dell'efficacia del provvedimento cautelare anticipatorio, non renda
ammissibile il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. o il regolamento preventivo di
giurisdizione. La questione è
stata esaminata di recente da queste Sezioni Unite con riferimento alla
previsione dell'art. 699 c.p.c., comma 8, comma 6, sopra riferita. La Corte (Cass. Sez. un. 28 dicembre
2007 n. 27187), è pervenuta a conclusione negativa sul rilievo che la novella
affida ora alla facoltà di ciascuna parte di iniziare la causa di merito,
attenuando così, ma non eliminando, il carattere strumentale del
provvedimento cautelare. Si deve conclusivamente
formulare il seguente principio di diritto: "Il
procedimento previsto dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 (Testo unico delle disposizioni concernenti
la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero)
costituisce un procedimento cautelare, cui si applicano, in forza dell'art.
699 c.p.c., comma 14, le
norme sul procedimento cautelare uniforme previsto dal libro 4^, titolo 1^,
capo 3^, c.p.c. in quanto compatibili; in particolare si applica l'art. 699
c.p.c., comma 8,
sull'inizio della fase di merito. Ne deriva che, non essendo l'ordinanza resa
su ricorso o il decreto della Corte d'Appello resa su reclamo provvedimento
definitivo con carattere decisorio, è inammissibile contro di essa il ricorso
per Cassazione ex art. 111 Cost., nè questo può essere convertito in regolamento preventivo di
giurisdizione". Si deve pertanto
dichiarare il ricorso inammissibile. Le spese del presente giudizio sono
compensate. P.Q.M.
Dichiara il
ricorso inammissibile. Compensa le spese del presente giudizio. Così deciso in
Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 18 dicembre
2007. Depositato in Cancelleria il 7 marzo |
ATTUALITA’ ITALIANA
LE ORDINANZE E I PROVVEDIMENTI DISCRIMINATORI DI ENTI LOCALI DEL
NORD ITALIA.
1. Il parere dell’UNAR (Ufficio Nazionale
Anti-Discriminazioni) relativamente
alla seconda ordinanza del
Sindaco di Cittadella in materia di ospitalità del cittadino straniero e
iscrizione anagrafica.
In data 11 febbraio scorso, il Sindaco del Comune di Cittadella
(Padova) ha emanato un nuova ordinanza (n. 37 R.P. 211) in materia di
ospitalità del cittadino straniero ed iscrizione anagrafica, con la quale ha
revocato e sostituito la precedente ordinanza n. 258 R.P. 1830 dd. 16 novembre
2007. Con quest’ultima ordinanza, sono stati rimossi i più gravi profili di
illegittimità che avevano contrassegnato il primo provvedimento e che erano
stati sottolineati, fra l’altro, dagli interventi pubblici dell’ASGI, della
CGIL e dell’UNAR, nonché dai ricorsi amministrativi al TAR Veneto depositati
dai primi due organismi (in proposito si vedano le precedenti edizioni n. 12 e
n. 13 della Newsletter del progetto Leader). E’ del tutto evidente che la nuova mossa del Sindaco di
Cittadella, con la quale egli compie un deciso passo indietro rispetto alle
posizioni del precedente provvedimento, è il frutto delle pressioni esercitate
dalla società civile e dai livelli istituzionali, anche al livello europeo, che
avevano messo in evidenza la portata puramente propagandista e palesemente
illegittima del provvedimento.
Si deve peraltro rilevare che anche il nuovo provvedimento non è
immune da rilevanti elementi a carattere discriminatorio e vessatorio a danno
dei cittadini stranieri, che sembrano profilare profili di contrasto con la
normativa nazionale ed europea anti-discriminazione, come opportunamente
rilevato dall’UNAR nell’intervento dd. 10 marzo 2008 che di seguito
pubblichiamo.
Pubblichiamo
di seguito il testo integrale del parere dell’UNAR
Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità Ufficio per la promozione della parità di
trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica Prot. N. 291/UNAR PARERE UNAR La recente ordinanza del Comune di
Cittadella n. 37 R.P. 211 in materia di ospitalità del cittadino straniero ed
iscrizione anagrafica, datata 11 febbraio 2008, ha revocato e sostituito la
precedente ordinanza n. 258 R.P.
1830 datata 16 novembre 2007. In relazione alla prima ordinanza, nel
quadro delle proprie attribuzioni, questo Ufficio aveva formulato parere
prot. 1253/UNAR, del 14 dicembre 2007 con il quale venivano enucleati diversi
profili di carattere discriminatorio. Ad un’attenta analisi del testo della nuova
ordinanza, si deve rilevare come, se da un lato, sono stati rimossi gravi
profili di illegittimità che avevano contrassegnato il primo provvedimento,
dall’altro, residuano ancora rilevanti elementi a carattere discriminatorio
che richiederebbero un ulteriore intervento per rendere l’ordinanza coerente
con la legislazione comunitaria e nazionale in materia di contrasto alla
discriminazione. Nella nuova ordinanza residuano, infatti, due profili dall’aspetto
discriminatorio potenzialmente forieri d “molestie” (ai sensi e per gli
effetti dell’art. 2 comma 3, del decreto legislativo 215/2003), laddove si
continua a prevedere una bizzarra ed illegittima competenza investigativa
delle autorità comunali circa la
provenienza e la liceità “della fonte da cui derivano le risorse economiche”
del soggetto (pag. 5), nonché laddove si prevedono accertamenti inediti (non
contemplati dall’art. 4 DPR 22 aprile 1994, n. 425, pur richiamato tra i
considerando a pag. 2) circa la “fruibilità dell’alloggi ai fini abitativi”
(pag. 8). Sotto il primo profilo, è del tutto
evidente che esula nel modo più assoluto dalle competenze delle autorità
comunali lo svolgimento di una “adeguata attività di indagine autonoma ed
indipendente […] in merito all’individuazione della provenienza e alla liceità della fonte da cui
derivano le risorse economiche”. Una siffatta attività di indagine spetta
esclusivamente all’autorità giudiziaria, alla quale è costituzionalmente
garantita la indipendenza; attività di indagine che deve essere svolta
applicando scrupolosamente le norme del codice di procedura penale, a
condizione che sussistano specifiche circostanze atte a giustificare la
promozione di una siffatta indagine (ed è chiaro che l’origine etnica di un
soggetto non può mai essere circostanza atta a giustificare un’indagine del
genere). Pertanto, l,’inserimento nell’ordinanza della previsione di
un’indagine di quel tipo demandata agli “uffici comunali”, non soltanto si
configura come un vizio dell’atto amministrativo, ma si risolve anche in un
comportamento dal carattere discriminatorio costituente “molestia” in quanto
posto in essere per motivi di origine etnica, con “lo scopo o l’effetto di
violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile,
degradante, umiliante e offensivo”. Tale argomentazione è ancora più incisiva
laddove si osservi che anche nel nuovo testo del decreto legislativo 28
febbraio 2008, n. 32 (che ha modificato il d.lgs. n. 30/2007), approvato pochi giorni fa dal governo,
è scomparso legittimamente qualsiasi riferimento alla liceità e provenienza
delle fonti di reddito come da più parti richiesto. Per quanto riguarda il secondo profilo
riguardante gli accertamenti circa la “fruibilità dell’alloggio ai fini
abitativi”, la situazione appare per certi versi analoga. Il richiamo all’art. 4 del DPR 22 aprile
1994, n. 425, operato nei considerando in apertura dell’Ordinanza, è
inconferente, posto che tale articolo (relativo al “Rilascio del certificato
di abitabilità”) attiene agli immobili di nuova costruzione per cui sia stato
effettuato il collaudo, e stabilisce che il Sindaco rilascia il certificato
di abitabilità “entro trenta giorni dalla data di presentazione della
domanda”, e che entro questo stesso termine egli “può disporre una ispezione […] che verifichi l’esistenza
dei requisiti richiesti alla costruzione per essere dichiarata abitabile”
(comma 2). Nei commi successivi si prevede la possibilità che questi tempi si
allunghino, ma al massimo per alcuni mesi dalla presentazione della domanda. Tale essendo la situazione normativa, si
deve ritenere che l’inserimento nell’ordinanza della previsione di non ben
precisati – quindi
fortemente discrezionali – accertamenti circa la “fruibilità
dell’alloggio ai fini abitativi” (da eseguire “contestualmente all’accertamento
della dimora abituale”) si risolva in un comportamento discriminatorio
potenzialmente foriero di “molestie” – in quanto posto in essere
evidentemente per motivi etnico-razziali – ed in particolare idoneo a
determinare possibili iniziative vessatorie nei confronti di soggetti che,
pur avendo diritto all’iscrizione anagrafica, risultassero vivere in
condizioni abitative obbiettivamente carenti. A ciò si aggiungono alcune perplessità
riguardanti un inedito collegamento fra le richiamate esigenze di pubblica
sicurezza e le esigenze del servizio di nettezza urbana così come previste
dal paragrafo n. 1
dell’ordinanza relativamente alla “Comunicazione di ospitalità del cittadino
straniero”. Vero è che tale paragrafo si base sulla
disposizione di cui all’art. 7, comma 1, del decreto legislativo 286/98
(“Chiunque, a qualsiasi titolo, dà alloggio ovvero ospita uno straniero o
apolide, anche se parente o affine […], è tenuto a darne comunicazione
scritta, entro quarantotto ore, all’autorità locale di pubblica sicurezza”)
– norma peraltro che non prevede nessuna sanzione in caso di violazione
– Ma ciò che lascia perplessi è il fatto che l’ordinanza modifica
sostanzialmente i termini di tale comunicazione, aggiungendo che essa deve
indicare anche la “capienza abitativa dell’alloggio formatasi a seguito dell’ospitalità
denunciata, allo scopo dell’adeguamento della tassa asporto rifiuti urbani”,
indicazione ovviamente non richiesta dal citata art. 7. In tal modo
l’ordinanza prevede una singolare comunicazione ibrida, da trasmettere sia
alla Questura che all’Ufficio Tributi del Comune. Sul punto, preme sottolineare che il
Regolamento tariffario per lo smaltimento dei rifiuti del Comune prevede tale
obbligo di comunicazione per tutti gli ospiti temporanei indiscriminatamente
e non soltanto per quelli stranieri, sempre che la permanenza superi i 90
giorni. Roma, 10 marzo 2008 Cons.
Marco De Giorgi
|
2.
La Commissione Europea risponde a quattro
interrogazioni sulle iniziative adottate da alcuni comuni italiani in materia
di matrimoni misti, iscrizione anagrafica, accesso all’istruzione di cittadini
comunitari ed extracomunitari.
Pubblichiamo di seguito il testo integrale
delle interrogazioni presentate al Parlamento europeo relativamente alle
ordinanze discriminatorie promosse da enti locali del Nord Italia e delle
risposte del Vice Commissario europeo Franco Frattini.
1.
Matrimoni
fra cittadini italiani e stranieri a Caravaggio
Interrogazione di Giusto Catania
(GUE/NGL), Roberto Musacchio (GUE/NGL), Vittorio Agnoletto (GUE/NGL),
Vincenzo Aita (GUE/NGL), Luisa Morgantini (GUE/NGL), Umberto Guidoni
(GUE/NGL), Giovanni Berlinguer (PSE), Giulietto Chiesa (PSE), Claudio Fava
(PSE), Pasqualina Napoletano (PSE), Monica Frassoni (Verts/ALE), Donata
Gottardi (PSE), Alfonso Andria (ALDE), Donato Tommaso Veraldi (ALDE), Pier
Antonio Panzeri (PSE), Gianni Pittella (PSE), Lapo Pistelli (ALDE), Andrea
Losco (ALDE), Gianluca Susta (ALDE), Francesco Ferrari (ALDE), Nicola Zingaretti
(PSE), Mauro Zani (PSE) e Luciana Sbarbati (ALDE).
Nei giorni scorsi, il comune di Caravaggio,
in provincia di Bergamo, ha approvato una delibera per cui lo straniero che
desidera sposarsi con un cittadino italiano nel suddetto Comune deve
presentare, fra l'insieme dei documenti necessari, anche il permesso di
soggiorno. La legge italiana non prevede che gli ufficiali di stato civile,
responsabili delle pratiche matrimoniali, possano richiedere il permesso di
soggiorno per le pubblicazioni di matrimonio. Inoltre, la legge italiana in materia di
matrimoni con stranieri impone una serie di requisiti fra cui il nulla-osta,
documento che necessita la convalida da parte dell'ambasciata o consolato
italiano nel paese d'origine, se la richiesta è fatta all'estero, oppure, se
la richiesta è fatta in Italia, viene emessa dal consolato del Paese
d'origine, con legalizzazione della firma del Console presso la Prefettura
italiana competente. Non ritiene la Commissione europea che la
delibera applicata indebitamente dall'autorità comunale di Caravaggio sia in
contrasto con l'articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea? (15 febbraio 2008)
Tuttavia, poiché il diritto sostanziale in
materia di matrimonio rientra interamente nell'ambito delle competenze degli
Stati membri e non riguarda la legislazione comunitaria, la Commissione non
può approfondire nei dettagli la questione. Spetta perciò alle competenti
autorità italiane valutare la decisione del comune di Caravaggio alla luce
del diritto nazionale e della convenzione europea dei diritti dell'uomo e
stabilire se essa attenti alla stessa sostanza del diritto di sposarsi e se
possa essere giustificata come necessaria e commisurata all'interesse
pubblico. (Cfr. sentenza Rees contro Regno Unito del 17 ottobre 1986, Serie A
n. 106, paragrafo 50; sentenza F. contro Svizzera, del 18 dicembre 1987,
Serie A n. 128, paragrafo 32).
2. Bettio, metodi nazisti contro gli
extracomunitari
(18 dicembre 2007)
Il tenore delle dichiarazioni del
consigliere Bettio, rappresentante di un'istituzione pubblica dello Stato
italiano, ha sollevato molte reazioni nella stampa nazionale e nell'opinione
pubblica, che condannano le affermazioni del consigliere trevigiano. Non ritiene la Commissione che le
esternazioni del consigliere Bettio, rappresentante di un'istituzione
pubblica di uno stato membro, rappresentino un attentato ai principi di
democrazia e ai diritti fondamentali tutelati dal diritto comunitario? Nel momento in cui l'Unione europea
s'appresta ad adottare la decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e
la xenofobia, non ritiene la Commissione che tale esternazioni si oppongano
allo spirito del nuovo strumento europeo, che condanna ogni atto istigante al
razzismo e all'odio, in questo caso contro cittadini non italiani che
vogliono risiedere nel Comune di Treviso? Come intende attivarsi la Commissione
europea nei confronti del Governo italiano affinché i principi del diritto
comunitario vengano applicati?
(6 febbraio 2008)
Nella lotta contro il razzismo e la
xenofobia la Commissione è determinata ad avvalersi di tutti i poteri che le
conferiscono i trattati: tra questi non rientra però la possibilità di agire
in casi individuali, neppure quando le dichiarazioni sono particolarmente
gravi. La Commissione ha comunque fatto e
continuerà a fare il possibile affinché sia presto formalmente adottata la
proposta di decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia .
Conviene la Commissione che il
provvedimento adottato dal Comune di Verona rappresenta una forma di
discriminazione in contrasto con lo spirito dei trattati, in particolare
dell'Art. 12 del Trattato CE e dell'Art. 6 del Trattato sull'Unione Europea? Non ritiene la Commissione che il
provvedimento adottato dal Comune di Verona sia in contraddizione con la
Direttiva 2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che
siano soggiornanti di lungo periodo, e in particolare dell'Art. 11 par. 1
lettera f)? Può attivarsi la Commissione presso le
autorità italiane affinché sia garantito il pieno rispetto del diritto
europeo? (20 febbraio 2008)
Le norme della direttiva sopra citate
impediscono qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità per la
concessione dell'accesso a benefici sociali, come ad esempio ad alloggi
sociali, che rientrano nel campo di applicazione del trattato CE. La direttiva 2004/38/CE è stata recepita
nella legislazione italiana mediante il decreto legislativo 6 febbraio 2007,
n. 30, che traspone correttamente l'articolo 24 della direttiva. La situazione dei cittadini di paesi terzi
che risiedono in uno Stato membro del quale hanno acquisito lo status di
soggiornanti di lungo periodo è disciplinata dalla direttiva 2003/109/CE. La
direttiva in questione avrebbe dovuto essere recepita da tutti gli Stati
membri interessati, inclusa l'Italia, entro il 23 gennaio 2006. L'Italia ha
comunicato alla Commissione le disposizioni che, a parere dello stesso Stato
membro, attuano pienamente la direttiva in questione. Ai sensi dell'articolo
11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva, “il soggiornante di lungo
periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto
riguarda: (…) l'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e
all'erogazione degli stessi, nonché alla procedura per l'ottenimento di un
alloggio.” Inoltre, nel quadro della mobilità intra-comunitaria dei
soggiornanti di lungo periodo garantita dalla direttiva in oggetto,
l'articolo 21, paragrafo 1, stabilisce che “quando abbia ottenuto nel secondo
Stato membro il titolo di soggiorno di cui all'articolo 19, il soggiornante
di lungo periodo gode in questo Stato membro dello stesso trattamento nei
settori e alle condizioni di cui all'articolo 11”. Per quanto attiene al loro campo di
applicazione, tali disposizioni escludono qualunque possibilità per uno Stato
membro di attribuire particolari privilegi ai propri cittadini senza
attribuire i medesimi privilegi anche ai soggiornanti di lungo periodo
residenti in quello Stato membro. La Commissione intende contattare le
autorità italiane al fine di ricevere maggiori informazioni sulla questione e
circa l'osservanza delle direttive sopra citate.
I bonus istruzione del Comune -contributi
economici che sostituiscono le vecchie borse di studio- saranno assegnati,
indipendentemente dal reddito, ad alunni di terza media, delle scuole
superiori e ai laureati che avranno ottenuto il massimo dei voti, purché
siano residenti da almeno tre anni a Romano d'Ezzelino e posseggano la
cittadinanza italiana o di uno dei Paesi della Comunità europea. Si escludono
quindi a priori tutti i residenti di Paesi extra europei, anche soggiornanti
di lungo periodo. Come intende attivarsi la Commissione
europea presso le autorità italiane per garantire l'applicazione corretta del
diritto comunitario?
(20 febbraio 2008)
Ai sensi dell'articolo 11, paragrafo 1,
lettera b), della direttiva: “Il soggiornante di lungo periodo gode dello
stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: (…)
l'istruzione e la formazione professionale, compresi gli assegni scolastici e
le borse di studio secondo il diritto nazionale”. Inoltre, riguardo alla mobilità
intracomunitaria dei soggiornanti di lungo periodo garantita dalla direttiva,
l'articolo 21, paragrafo 1, stabilisce che: “quando abbia ottenuto nel
secondo Stato membro il titolo di soggiorno di cui all'articolo 19, il
soggiornante di lungo periodo gode in questo Stato membro dello stesso
trattamento nei settori e alle condizioni di cui all'articolo 11”. Le disposizioni summenzionate escludono
– relativamente al loro campo di applicazione e sempre che i
soggiornanti di lungo periodo soddisfino le condizioni di cui all'articolo
11, paragrafo 3, lettera b), della direttiva – ogni possibilità per uno
Stato membro di assegnare borse di studio ai propri cittadini senza concederle
anche ai soggiornanti di lungo periodo che risiedono nel suo territorio. |
INTERVENTI
DI ADVOCACY
1. I profili discriminatori degli annunci di impiego che contengono la
previsione di un requisito del possesso della ‘lingua madre italiana’ ai fini
dell’assunzione.
Il punto di vista del Servizio di Supporto giuridico contro le
discriminazioni razziali dell’ASGI a seguito di una segnalazione della RITA
Liguria.
Servizio di
Supporto Giuridico contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose
Viale XX
Settembre 16
34125
Trieste
Tel. Fax.
040 368463
Sede
legale:
Via Gerdil,
7
10100
Torino
Tel. Fax:
011 4369158
Nel
corso del mese di marzo 2008, il Servizio di Supporto Giuridico contro le
discriminazioni razziali dell’ASGI, nell’ambito del progetto LEADER, ha ricevuto una segnalazione dall’ARCI Liguria,
partner del menzionato progetto LEADER e capofila della RITA Liguria, secondo
la quale nel sito web del servizio "Match Aziende e Lavoro",
predisposto dalla Provincia di Genova- Centri per l’Impiego, [1]
nella parte relativa alle offerte
di lavoro inviate direttamente
dalle aziende e relative al personale di cui queste manifestano il bisogno,
comparivano numerose schede/annunci in cui alla casella “conoscenze
linguistiche” veniva menzionato il requisito: “ITALIANO madrelingua”.
In data 3 marzo abbiamo
personalmente visitato il sito web e abbiamo constatato la veridicità di quanto
affermato dal rappresentante dell’ARCI Liguria. [2]
Il presente Servizio esprime la propria
perplessità e contrarietà a tale prassi e ritiene che essa sia illegittima ed
in contrasto con precise norme di leggi nazionali e comunitarie in materia di
parità di trattamento nell’accesso e condizioni di lavoro, senza discriminazioni legate alla razza, origine
etnica e nazionale.
Il riferimento alla lingua materna rinvia necessariamente alla lingua del
paese di origine del candidato ad una posizione lavorativa, riservando di
conseguenza quelle posizioni lavorative ove tale requisito venga menzionato ai soli candidati i cui
genitori siano di ceppo etnico-
linguistico italiano e di conseguenza abbiano trasmesso tale competenza
linguistica ovvero a quelle persone che siano state socializzate in ambito
familiare e scolastico nella lingua italiana. Avendo in considerazione,
inoltre, come nel nostro paese l’attribuzione della cittadinanza italiana per nascita avvenga innanzitutto per
discendenza da almeno uno dei
genitori di cittadinanza italiana (principio dello jus sanguinis), mentre il principio dello jus soli ha natura meramente residuale, è del tutto
evidente che un requisito di lingua materna italiana ai fini dell’accesso a
determinate posizioni lavorative, oltre ad introdurre un criterio di selezione
fondato sull’origine etnico-linguistica, finisce per sovrapporre anche un
criterio di selezione fondato sulla cittadinanza, venendo ad escludere in
misura nettamente prevalente
lavoratori di cittadinanza straniera.
Siamo consapevoli che in relazione alle
caratteristiche di determinate mansioni occupazionali, il requisito di
un’adeguata conoscenza della
lingua italiana possa risultare giustificato, mediante una valutazione da
operarsi caso per caso secondo
criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Tuttavia tale esigenza deve
essere espressa facendo riferimento a criteri obiettivi, univoci e
neutrali, quali “la conoscenza
‘avanzata’ o ‘professionale’ della
lingua italiana” tali da non richiamare profili discriminatori su basi
etnico-razziali o di nazionalità che sono invece insiti nella definizione di
“lingua materna”.
In sintesi, il criterio della lingua materna
rinvia alla lingua del paese di origine del lavoratore e lascia intendere che
la posizione lavorativa è riservata ai candidati di origine etnica e di
cittadinanza italiana, escludendo
i candidati di origine etnico-nazionale straniera, i quali tuttavia possono
avere acquisito una conoscenza equivalente della lingua italiana in altri modi
(studi, soggiorno prolungato in Italia, esperienze professionali,….). In tale
modo si realizza una discriminazione proibita dalla legislazione in vigore.[3]
Nell’ordinamento italiano esistono precise
norme che vietano e sanzionano pratiche discriminatorie fondate su criteri
quali l’appartenenza etnico-razziale, ovvero la nazionalità intesa quale
cittadinanza o status civitatis nell’accesso al lavoro, ivi compresi i criteri di selezione e le condizioni
di assunzione.
Innanzitutto, l’art. 2 del d.lgs 25.7.1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, nel comma 3,
prevede espressamente che:
“La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione
dell'OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981, n.
158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel
suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza
di diritti rispetto ai lavoratori italiani.”
Rispetto a quest’ultima previsione, a
giudizio della Corte Costituzionale (interrogata in merito ad una presunta
lacuna normativa riguardo alla assenza di un’espressa previsione del diritto
dei lavoratori extracomunitari invalidi civili di ottenere anch’essi
l’iscrizione nell’elenco degli invalidi civili disoccupati aspiranti al
collocamento obbligatorio[4]),
il legislatore sembra aver voluto assicurare ai lavoratori stranieri il
medesimo trattamento riservato ai lavoratori italiani, non solo allorché sia
già stato instaurato un rapporto di lavoro, ma anche nell’ipotesi astratta di
instaurarne uno in futuro.
L’art. 43 del Testo Unico sull’immigrazione, al 1°
comma, introduce una sorta di clausola generale di non discriminazione, riprendendo quanto contenuto nell’art. 1
della Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte
le forme di discriminazione razziale, firmata a New York in 7 marzo 1966 e
ratificata dall’Italia con la legge 1.5.1975, n. 654.
Costituisce una discriminazione:
“ogni comportamento che, direttamente o
indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza
basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le
convinzioni e le pratiche religiose e abbia lo scopo o l’effetto di distruggere
o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni
di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico,
economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.
- È pertanto innanzitutto da
considerarsi discriminatoria la condotta che comporti un trattamento
differenziato per i motivi appena menzionati, sia quando essa sia attuata in
modo diretto (vale a dire quando una persona viene trattata meno favorevolmente
di quanto lo sarebbe in una situazione analoga), sia quando la differenziazione
che causa pregiudizio sia conseguenza dell’applicazione di criteri formalmente
“neutri”, o “indiretti”.
- La menzione dello “scopo o (dell’) effetto” contribuisce a
ricomprendere nella definizione in esame non solo le condotte poste in essere
con la specifica intenzione di nuocere, ma anche quelle che, prive di intento
lesivo, comportino comunque un effetto pregiudizievole.
Il legislatore ha poi formulato, nel secondo
comma della disposizione, una tipizzazione delle condotte aventi sicuramente una valenza discriminatoria.
L’articolo prevede infatti che compia “in
ogni caso” una
discriminazione:
a) “il pubblico ufficiale o la persona
incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica
necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei
riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione
di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o
nazionalità, lo discriminino ingiustamente;”
[…]
c) “chiunque illegittimamente imponga
condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione,
all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e
socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto
in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una
determinata razza, religione, etnia o nazionalità;”
[…]
e) “il datore di lavoro o i suoi preposti i
quali, ai sensi dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come
modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11
maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un
effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in
ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o
linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza.
Costituisce
discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente
all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i
lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo
etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una
cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento
dell’attività lavorativa.”
Al D.lgs. n. 286/98
si è aggiunto successivamente il d.lgs. n. 215/2003, di recepimento della direttiva
europea 2000/43/CE
che disciplina il principio di non discriminazione in ragione della razza e
dell’origine etnica ed il d.lgs. n. 216/2003, di recepimento della direttiva
europea n. 2000/78/CE, che disciplina il divieto
di discriminazioni in
ragione del credo religioso o delle convinzioni personali, dell’handicap,
dell’età o delle tendenze sessuali, nell’ambito dell’occupazione e delle
condizioni di lavoro.
Sulla base di una lettura congiunta delle norme di recepimento delle
citate direttive europee, sussiste una discriminazione diretta ”quando, per la razza o l’origine etnica, per
religione, convinzioni personali, per handicap, per età o orientamento
sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o
sarebbe trattata un’altra in situazione analoga” (artt. 2 d.lgs. n. 215 e
216/2003); una discriminazione
indiretta sussiste invece
“quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un
comportamento apparentemente
neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine
etnica, che professano una determinata religione o ideologia di altra natura,
le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un
orientamento sessuale, in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad
altre persone” (art. 2.1 b) d. lgs. nn. 215 e 216/2003).
Sulla base di tali norme di fonte comunitario, le
discriminazioni dirette sono
vietate in maniera assoluta, con l’unica eccezione delle differenze di
trattamento fondate sul criterio del requisito essenziale e determinate per lo
svolgimento dell’attività lavorativa, mentre una maggiore flessibilità viene
lasciata nella valutazione dei casi di presunta discriminazione indiretta, che
non sono tali quando una
differenza di trattamento pur risultando indirettamente discriminatoria, è
giustificata oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi
appropriati e necessari”(art. 2.2 b) dir. n. 2000/43/CE)
Il divieto di discriminazioni basate sui fattori sopraindicati si applica espressamente
anche alle aree dell’«accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che
dipendente, compresi i criteri di
selezione e le condizioni di assunzione» (Art. 3 c. 1 lett. a) d.lgs. n.
215/20003 e n. 216/2003).[5]
Alla luce di quanto
sopra, si ritiene che la definizione e lo svolgimento di procedure di selezione
di personale fondate tra l’altro sul requisito della “lingua materna italiana”
costituisca inequivocabilmente una discriminazione diretta fondata sull’origine
etnico-nazionale ed in secondo luogo, una discriminazione “dissimulata” fondata
sul criterio di cittadinanza e volta ad escludere di fatto i lavoratori
stranieri regolarmente soggiornanti in Italia dalle procedure di assunzione; in
entrambi i casi trattasi di comportamenti discriminatori vietati dal quadro
normativo sopraccitato.
Tali comportamenti
discriminatori espongono tanto le aziende e i datori di lavoro che danno
origine a tali “offerte di lavoro”, quanto i centri per l’impiego e i servizi,
pubblici e privati, di mediazione tra domanda ed offerta di lavoro, che
diffondono tali “offerte di lavoro” ed effettuano di conseguenza la selezione
delle candidature, alle procedure sanzionatorie previste
a seguito dell’eventuale attivazione da parte di soggetti passivi della
discriminazione o associazioni legittimate ad agire dell’azione giudiziaria
anti-discriminazione di cui all’art. 44 del TU sull’immigrazione (d.lgs. n.
286/98 come integrato dal d.lgs. n. 215/2003).[6]
A tale riguardo, i responsabili dei servizi di
intermediazione per l’impiego, tanto pubblici che privati, così come tutti
coloro che a qualsiasi titolo si trovano a pubblicare o diffondere “annunci di
lavoro” ( giornali e periodici,
riviste di annunci, siti web,…)
dovrebbero scrupolosamente conformarsi alle seguenti raccomandazioni:
-
non compilare o diffondere in alcun modo schede/annunci di “offerte di lavoro”
che contengano elementi e requisiti discriminatori tra cui l’indicazione
dell’Italiano quale ‘lingua madre’, informando i fruitori del servizio (datori
di lavoro) delle normative anti-discriminatorie in vigore e delle sanzioni da
esse previste;
- rifiutarsi di operare la preselezione dei candidati a
determinate posizioni lavorative sulla base di criteri e requisiti
discriminatori richiesti dai datori di lavoro, ma vietati dalla legge.
p. l’ASGI
Servizio
di supporto giuridico
contro le discriminazioni etniche, razziali e religiose
Progetto Leader
Dott. Walter Citti
2.
Ripristinata all’Università di Bergamo la parità
di trattamento tra studenti stranieri e studenti italiani nelle condizioni di
eleggibilità alla rappresentanza studentesca in seno agli organi di ateneo.
Lo scorso 18 febbraio, il Rettore dell’Università
di Bergamo ha modificato con proprio decreto, a seguito di apposita
deliberazione del Senato
Accademico, il regolamento degli studenti che conteneva una clausola
discriminatoria suscettibile di privare
gli studenti stranieri del diritto all’’eleggibilità passiva per le elezioni dei
rappresentanti degli studenti in seno
agli organi accademici. La questione era stata sollevata dall’ASGI ed in
seguito anche dall’UNAR dopo le polemiche suscitate in occasione delle elezioni universitarie del 16-17 maggio
2007.
Con il nuovo regolamento degli studenti, viene
ripristinata la parità di trattamento tra
studenti stranieri e italiani nella condizione di eleggibilità agli
organi di rappresentanza dell’Ateneo.
Per un esame della vicenda, nonché per il testo
integrale delle prese di posizione dell’ASGI e dell’UNAR si rimanda alle
edizioni n. 6 e n. 9 della Newsletter del Servizio di Supporto Giuridico contro
le discriminazioni razziali del progetto Leader.
ATTUALITA’
INTERNAZIONALE
Il CERD, Comitato ONU per l’eliminazione delle
discriminazioni razziali, rende pubbliche le proprie raccomandazioni alle
autorità italiane per efficaci politiche pubbliche contro il razzismo e la
discriminazione razziale. Il lavoro svolto dalle organizzazioni non
governative.
Al termine della sua 72a. sessione, svoltasi tra il 18 febbraio ed il
7 marzo 2008, il CERD – Comitato ONU per l’eliminazione della
discriminazione razziale, organo di monitoraggio delle Nazioni Unite previsto
dalla Convenzione ONU per l’eliminazione
di tutte le forme di discriminazione razziale, adottata il 21 dicembre 1965 e cui
l’Italia ha aderito nel 1966, ratificandola nel 1971, ha reso pubbliche le sue
Osservazioni conclusive, emanate a seguito dell’esame e della discussione da
parte della delegazione italiana del quattordicesimo e quindicesimo Rapporto sulla
Convenzione ONU riguardante il
nostro paese.
Il rapporto, edito nel marzo del 2006, è stato fatto infatti oggetto
di discussione con la delegazione governativa italiana nel corso della sessione
organizzata dal CERD gli scorsi 27 e 28 febbraio. Alla discussione hanno preso
parte anche numerose organizzazioni non governative italiane, le quali hanno
presentato per iscritto le loro osservazioni sulla situazione italiane. Vanno
segnalati in particolare i contributi della sezione italiana dell’European Roma
Rights Center – OsservAzione, del Gruppo di lavoro per la Convenzione sui
diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza coordinato da Save the Children
Italia, dell’Unione Forense per la
tutela dei diritti dell’Uomo, e del Comitato per la promozione e protezione dei
diritti umani, un coordinamento ad hoc di ONG, cui anche l’ASGI ha fatto parte.
In vista della sessione del CERD, il Comitato interministeriale dei
diritti umani presso il Ministero per gli Affari Esteri italiano aveva inviato una proprio rapporto inerente
alle questioni sollevate dal 14° e 15° rapporto del comitato ONU riguardante
l’Italia.
Nel documento conclusivo, il Comitato ha evidenziato i punti che
destano maggiore apprensione, rivolgendo al nostro Paese talune raccomandazioni
finalizzate ad adottare tutte le misure necessarie per contrastare
efficacemente nei prossimi anni razzismo ed intolleranza. In particolare, il
Comitato ONU ha espresso grande
preoccupazione per la grave situazione di degrado ed emarginazione sociale che
caratterizza le popolazioni Rom e Sinti presenti nel nostro Paese. A tale
riguardo, il Comitato ONU ha raccomandato allo Stato italiano di riconoscere
ufficialmente le popolazioni Rom e Sinti come minoranze nazionali autoctone, al
fine di rendere loro accessibili
le disposizioni volte a tutelare le lingue e culture minoritarie di cui
alla legge n. 482/1999. Il Comitato ONU raccomanda inoltre alle autorità
italiane di attuare politiche e progetti al fine di evitare la situazione di
segregazione abitativa delle comunità Rom nei campi ove non sono disponibili i
più essenziali servizi di base. Vengono inoltre sollecitate le autorità
nazionali a non tollerare provvedimenti
di amministrazioni locali che abbiano contenuti e finalità
discriminatorie nei confronti di appartenenti alle popolazioni Rom e Sinti.
Viene inoltre rivolto un appello alle autorità italiane competenti affinché
rafforzino il loro impegno nel favorire l’inclusione dei minori di origine Rom
nel sistema scolastico e nell’affrontare le cause dei tassi di abbandono
scolastico, così come a prevenire l’uso illecito della forza da parte delle
forze dell’ordine nei confronti dei Rom.
Il Comitato ONU ha espresso la propria apprensione anche rispetto
alle situazioni di grave sfruttamento sociale e lavorativo cui sono vittime
molti immigrati privi di documenti, nonché alle precarie condizioni di tutela e
di vita degli stranieri nei centri di assistenza e di permanenza temporanea
(CPTA) ed in particolare in quello di Lampedusa.
Nelle sue osservazioni conclusive, il Comitato ONU nota anche lo
scarso numero di procedimenti giudiziari in materia di discriminazione razziale
in Italia, ritenendo che tale dato non debba essere necessariamente
interpretato in termini positivi,
bensì come il frutto di un’informazione inadeguata delle vittime circa i loro
diritti, di un insufficiente livello di conoscenza da parte delle autorità dei
reati di natura razzista, di insufficienti misure volta ad agevolare l’accesso
delle vittime di discriminazione razziale ad efficaci strumenti giudiziari.
Il CERD inoltra raccomanda alle autorità italiane di sollecitare i
mezzi di informazione ad assumere
un ruolo attivo nella lotta ai pregiudizi e agli stereotipi negativi e chiede a
tal fine alle autorità competenti di adottare rapidamente il codice di condotta
dei giornalisti predisposto in collaborazione con l’UNAR, l’ACNUR e la
Federazione Nazionale della Stampa Italiana.
Infine, il CERD raccomanda alle autorità italiane di emendare le
proprie disposizioni in materia di censimento della popolazione in modo da
poter disporre di statistiche relative alla composizione etnica della
popolazione, utili ad una migliore azione preventiva e repressiva delle
situazioni e dei comportamenti discriminatori.
Si pubblica di seguito il testo non ufficiale delle conclusioni
del CERD, mentre tutti i documenti e rapporti preparatori e quelli presentati
dalle autorità governative italiane e dalle ONG che hanno partecipato ai lavori
della 72a. sessione dell’organismo ONU sono reperibili sul sito:
http://www2.ohchr.org/english/bodies/cerd/cerds72.htm
Traduzione non ufficiale a cura del Comitato per la Promozione e
Protezione dei Diritti Umani COMITATO per L’ELIMINAZIONE
DELLA DISCRIMINAZIONE RAZIALE Settantaduesima sessione 18 febbraio-7 marzo 2008 Distr.
GENERAL
CERD/C/ITA/CO/15
|
GIURISPRUDENZA
COMUNITARIA
1.
Secondo l’Avvocato generale della
Corte europea di Giustizia, Poiares Maduro, costituisce discriminazione diretta
vietata dalla direttiva europea n. 2000/43/CE, il comportamento di un datore di
lavoro che affermi pubblicamente di non voler assumere persone di una certa
origine etnica.
Conclusioni
Avvocato Generale, Centrum voor Gelijkheid van Kansen en voor
Racismebestrijding c. Firma Feryn NV (Causa C‑54/07),
15 marzo 2008; Campagna
di assunzione – candidature - dichiarazione resa pubblicamente da un
datore di lavoro - discriminazione diretta - direttiva 2000/43/CE.
Secondo l’Avvocato generale della Corte di Giustizia Europea, la
dichiarazione resa pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una
campagna di assunzione, secondo cui non saranno accettate le candidature di
persone di una determinata origine etnica, costituisce una discriminazione
diretta vietata ai sensi dell’art. 2, n. 2 lett. a) della direttiva europea n.
2000/43/CE.
Queste sono le conclusioni tratte dall’organo della Corte Europea,
adìto nell’ambito di una domanda pregiudiziale proposta dall’organo
giurisdizionale di appello per le cause di lavoro di Bruxelles (Belgio).
La vicenda è sorta a seguito delle dichiarazioni rese nel corso di
una trasmissione televisiva dal titolare di una ditta di impianti di allarme,
con le quali annunziava che non avrebbe proceduto all’assunzione di personale
di nazionalità marocchina, perché ciò non rassicurava i clienti e dunque
danneggiava gli affari dell’azienda. A seguito di tali dichiarazioni, il Centro
belga per le pari opportunità e per la lotta contro il razzismo, l’Autorità
indipendente belga contro le
discriminazioni razziali, istituita dalle norme di recepimento della direttiva
europea n. 2000/43, aveva presentato un ricorso all’autorità giurisdizionale
belga di primo grado per le cause di lavoro, chiedendo che quest’ultima affermi
l’avvenuta violazione delle norme anti-discriminatorie . L’autorità
giurisdizionale belga di primo grado aveva respinto il ricorso sostenendo che le dichiarazioni pubbliche in
questione non costituivano atti discriminatori effettivi, ma potevano tutt’al
più dare luogo ad una
discriminazione potenziale, non essendoci invece alcuna evidenza che persone di
etnia marocchina si fossero effettivamente presentate per essere assunte
dall’impresa e fossero state respinte. Il Centro belga per le pari opportunità
aveva dunque presentato un ricorso all’istanza giurisdizionale di secondo
grado, che ha effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte Europea di
Giustizia.
L’avvocato generale della Corte europea premette che le norma della
direttiva europea debbono essere interpretate alla luce de più ampi valori
sottesi alle disposizioni, nonché delle funzioni e obiettivi della direttiva,
tra i quali vanno citati quelli dello sviluppo di società democratiche e
tolleranti, nonché l’attiva partecipazione sul mercato del mercato.
Di conseguenza, l’avvocato generale respinge un’interpretazione
restrittiva –proposta dal
giudice belga di primo grado e sostenuta in giudizio dai governi del Regno
Unito e dell’Irlanda – secondo cui la direttiva andrebbe applicata ai
soli casi di denuncianti identificabili, che siano candidati effettivi ad un
determinato posto di lavoro. Secondo l’Avvocato generale, infatti, una dichiarazione
pubblica a carattere discriminatorio in materia di selezione di candidati ad un
posto di lavoro, ha un effetto
discriminatorio non solo potenziale ed
ipotetico, bensì reale ed effettivo, perché finisce per scoraggiare, demoralizzare ed umiliare le
persone aventi l’origine etnica presa di mira, spingendole dunque a non
presentarsi per la selezione. Usando un’argomentazione logica pienamente
condivisibile, l’Avvocato Generale
afferma che escludere dall’ambito di applicazione della direttiva atti
di discriminazione “verbale” di tale natura equivarrebbe ad autorizzare i
datori di lavoro a discriminare in materia di assunzione di personale
semplicemente rendendo pubblico in anticipo, in maniera palese, il carattere
discriminatorio della loro politica di assunzione, con ciò rendendo la più
impudente strategia di assunzione discriminatoria quella più “premiante” .
Interessanti e pienamente condivisibili anche le considerazioni
dell’Avvocato Generale in merito alle giustificazioni avanzate dal titolare
dell’impresa, secondo cui i clienti sarebbero maldisposti nei confronti dei
lavoratori marocchini, per cui la loro assunzione danneggerebbe gli interessi
“di mercato”; giustificazioni respinte dall’Avvocato Generale, secondo il quale
ciò dimostrerebbe soltanto la legittimità della normativa comunitaria volta a
contrastare un fenomeno, quello
delle discriminazioni, che l’economia di mercato di per sé soltanto non solo
non riesce a risolvere, ma può anche
alimentare. Inoltre la normativa comunitaria è volta così a impedire
quelle distorsioni nella
libera concorrenza che altrimenti
si verificherebbero a danno dei soggetti economici che, non attuando
discriminazioni nelle politiche di assunzione, si vedrebbero maggiormente
danneggiati nelle strategie di mercato in ragione della diffusione di
stereotipi e pregiudizi etnici tra la popolazione.
Importanti anche le considerazioni svolte dall’Avvocato Generale
della Corte europea di Giustizia in materia di onere della prova e di rimedi
appropriati.
Sul primo punto, l’Avvocato Generale ritiene che le dichiarazioni di
un datore di lavoro in merito alla propria politica di assunzione improntata a
criteri discriminatori equivalgono ad una presunzione di un comportamento
concretamente discriminatorio nei confronti di lavoratori di quella determinata
origine etnica, con ciò imponendo l’attivazione del principio dell’inversione
dell’onere della prova, per cui debba incombere al datore di lavoro confutare
tale presunzione, in base all’art. 8 della direttiva europea n. 2000/43/CE.
Sui rimedi applicabili, le conclusioni dell’Avvocato Generale,
sebbene succinte, sono ugualmente
significative in quanto egli si spinge ad affermare che le sanzioni applicabili
nei confronti del datore di lavoro,
per conformarsi ai requisiti richiesti dalla direttiva europea di
effettività, proporzionalità e dissuasività, debbono avere un carattere non
meramente simbolico.
Conclusioni dunque importanti quelle dell’Avvocato Generale anche in
relazione a questi due profili, spostamento dell’onere della prova e sanzioni
effettive aventi una portata dissuasiva, sulle quali la legislazione italiana
di recepimento della direttiva europea n. 2000/43/CE (D.lgs. n. 215/2003)
presenta elementi di indubbia debolezza più volte richiamati dalla dottrina.
Pubblichiamo di seguito il testo integrale delle conclusioni
dell’Avvocato Generale della Corte Europea di Giustizia sulla domanda di
pronuncia pregiudiziale proposta dall’Arbeidhof de Brussel (Belgio). Causa
C-54/07.
CONCLUSIONI
DELL’AVVOCATO GENERALE POIARES
MADURO presentate
il 12 marzo 2008 1(1) Causa C‑54/07 Centrum voor Gelijkheid van Kansen en voor
Racismebestrijding contro Firma
Feryn NV (domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Arbeidshof te
Brussel (Belgio)) 1. Contrariamente
al senso comune, le parole possono far male. Ma possono costituire una
discriminazione? È questa, in sostanza, la principale questione sollevata dal
caso di specie. L’Arbeidshof te Brussel (Belgio) ha chiesto alla Corte di
pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione della direttiva del
Consiglio 29 giugno 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della
parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e
dall’origine etnica (2).
Esso chiede chiarimenti in ordine a varie questioni sorte nell’ambito di una
causa tra un ente per la promozione della parità di trattamento e un datore
di lavoro, che avrebbe dichiarato di non volere assumere persone di origine
marocchina. I – Fatti
e questione pregiudiziale 2. La NV
Firma Feryn (in prosieguo: la «Feryn») è un’impresa specializzata nella
vendita e nell’installazione di porte basculanti e sezionali. All’inizio del
2005 la Feryn cercava operai per l’installazione di porte basculanti presso
la clientela. A tale scopo, essa collocava sul terreno aziendale lungo
l’autostrada Bruxelles‑Anversa un grande cartellone per la ricerca di
personale. 3. Il
28 aprile 2005, il quotidiano De Standaard pubblicava un’intervista con il
sig. Pascal Feryn, uno degli amministratori dell’impresa, con il titolo
«I clienti non vogliono marocchini», in cui si riportava che il
sig. Feryn aveva dichiarato che la sua impresa non avrebbe assunto
persone di origine marocchina: «A
parte quei marocchini, in quattordici giorni nessun altro ha risposto alla
nostra offerta di lavoro (…). Ma noi non cerchiamo marocchini, i nostri
clienti non li vogliono. Gli operai devono collocare porte basculanti in
abitazioni private, spesso ville, e quei clienti non vogliono vederseli in
giro per casa». Articoli
analoghi apparivano sui quotidiani Het Nieuwsblad e Het Volk. Il
sig. Feryn contesta i resoconti apparsi sui quotidiani. 4. La sera
del 28 aprile 2005, il sig. Feryn partecipava a un colloquio su un
canale televisivo belga, durante il quale dichiarava: «[N]oi
abbiamo molti rappresentanti che vanno dai clienti (…) Tutti ormai installano
sistemi di allarme e evidentemente al giorno d’oggi tutti hanno paura. Non
sono solo immigrati quelli che si introducono illecitamente nelle case, non
dico questo, non sono razzista. Ci sono anche belgi che lo fanno. Ma è
evidente che la gente ha paura, quindi spesso dice: “niente immigrati”. (…)
Devo soddisfare le condizioni poste dai miei clienti. Se lei dice: “Voglio
quel tale prodotto o lo voglio così e così”, e io dico: “Non lo faccio,
faccio venire lo stesso quelle persone”, allora lei dice: “Non voglio più
comprare quella porta”. Così io devo chiudere il mio negozio. Dobbiamo venire
incontro alle esigenze dei nostri clienti. E questo problema non è mio, non
ho creato io il problema del comportamento dei belgi. Io voglio solo che la
società vada avanti e che alla fine dell’anno raggiungiamo il nostro
fatturato. Come lo raggiungiamo... devo raggiungerlo come vuole il cliente!». 5. Il
Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding (Centro per le
pari opportunità e per la lotta contro il razzismo; in prosieguo: il «CGKR»)
è un ente per la promozione della parità di trattamento, istituito con legge
15 febbraio 1993. Tale legge è stata modificata dalla legge
25 febbraio 2003 (in prosieguo: la «legge contro le discriminazioni»).
La legge contro le discriminazioni ha recepito nell’ordinamento giuridico
belga la direttiva 2000/43. 6. Il
31 marzo 2006, dopo uno scambio di comunicazioni con la Feryn, il CGKR
presentava un’istanza al presidente dell’Arbeidsrechtbank Brussels
chiedendogli, inter alia, di dichiarare che la Feryn aveva violato la legge
contro le discriminazioni e di ingiungerle di porre fine alla sua politica di
assunzione discriminatoria. Tuttavia, il presidente dell’Arbeidsrechtbank
statuiva che le dichiarazioni pubbliche in questione non costituivano atti
discriminatori; esse potevano tutt’al più dare luogo a una discriminazione
potenziale, in quanto dalle stesse risultava che le persone di una certa
origine etnica non sarebbero state assunte dalla Feryn nel caso in cui si
fossero presentate. Il CGKR non aveva né sostenuto né dimostrato che la Feryn
avesse mai effettivamente rifiutato di assumere qualcuno in ragione della sua
origine etnica. Per tali motivi, l’istanza del CGKR veniva respinta con
ordinanza 26 giugno 2006. Il CGKR ha interposto appello dinanzi
all’Arbeidshof te Brussel, che ha effettuato il presente rinvio pregiudiziale
alla Corte. 7. L’Arbeidshof
te Brussel pone varie questioni precise relative alla direttiva e alle
specifiche circostanze in discussione nella causa principale (3).
Tali questioni vertono sostanzialmente sul concetto di discriminazione
diretta (questioni prima e seconda), sull’onere della prova (questioni terza,
quarta e quinta) e sul problema dei rimedi appropriati (sesta questione).
Esaminerò tali questioni tenendo presente che, ai sensi
dell’art. 234 CE, la Corte non è competente ad applicare le norme
comunitarie a una fattispecie concreta, ma solo a fornire indicazioni al
giudice nazionale in merito all’interpretazione del diritto comunitario che
possano essergli utili per valutare gli effetti di una disposizione di
diritto nazionale. II – Analisi Sulla nozione di discriminazione diretta 8. La
direttiva mira a «stabilire un quadro per la lotta alle discriminazioni
fondate sulla razza o l’origine etnica, al fine di rendere effettivo negli
Stati membri il principio della parità di trattamento» (4).
La direttiva si applica sia nel settore pubblico che in quello privato, per
quanto attiene, inter alia, «alle condizioni di accesso all’occupazione e al
lavoro (…) compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione,
indipendentemente dal ramo d’attività e a tutti i livelli della gerarchia
professionale (…) (5).
Ai sensi dell’art. 2, n. 1, della direttiva, «il principio della
parità di trattamento comporta che non sia praticata alcuna discriminazione
diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica».
L’art. 2, n. 2, lett. a), dispone che «sussiste
discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica,
una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe
trattata un’altra in una situazione analoga». 9. La prima
questione che la Corte deve risolvere è in sostanza la seguente: se
costituisca discriminazione diretta ai sensi della direttiva il fatto che un
datore di lavoro dichiari pubblicamente, nell’ambito di una campagna di
assunzione, che non saranno accettate le candidature delle persone di una
determinata origine etnica. 10. Secondo il giudice
nazionale adito in primo grado, fintantoché il datore di lavoro non abbia
dato seguito alle proprie dichiarazioni discriminatorie, la discriminazione è
solo ipotetica e non ricade nell’ambito di applicazione della direttiva. Il
Regno Unito e l’Irlanda hanno concluso nello stesso senso. Essi sostengono
che la direttiva non sia applicabile in mancanza di un denunciante
identificabile che sia stato vittima di una discriminazione. Di conseguenza,
enti come il CGKR non possono, in tali circostanze, adire i giudici nazionali
lamentando una discriminazione diretta ai sensi della direttiva. 11. Il CGKR sostiene il
contrario e afferma che il divieto di discriminazione diretta riguarda sia la
procedura di assunzione che l’eventuale decisione sull’assunzione. Secondo il
CGKR, l’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva va
determinato a prescindere dalla questione dei soggetti legittimati ad agire
in giudizio. In altre parole, la questione della legittimazione ad agire del
CGKR non avrebbe nulla a che vedere con la questione se vi sia stata una
discriminazione diretta. La Commissione e il governo belga concordano con il
CGKR. 12. Esiste un certo
grado di confusione sul rapporto tra la nozione di discriminazione diretta e
la questione se un ente d’interesse pubblico sia legittimato ad agire in
giudizio in caso di violazione del principio della parità di trattamento.
Come hanno sottolineato il Regno Unito e l’Irlanda, la direttiva non era intesa
a rendere possibile per gli enti d’interesse pubblico, ai sensi delle leggi
degli Stati membri, esercitare un’azione avente natura di actio popularis. In
proposito, essi fanno riferimento all’art. 7 della direttiva. Tale
disposizione impone agli Stati membri di garantire che le procedure
giurisdizionali siano accessibili a «tutte le persone che si ritengono lese, in
seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della
parità di trattamento» (6)
e agli enti d’interesse pubblico che agiscano «per conto o a sostegno
della persona che si ritiene lesa» (7). 13. Tuttavia, da tale
disposizione non discende che gli Stati membri non possano concedere
ulteriori mezzi giuridici di esecuzione o di ricorso. Anzi, la direttiva
prevede espressamente che «[g]li Stati membri possono introdurre o mantenere,
per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni
più favorevoli di quelle fissate nella presente direttiva» (8)
e che «[l]’attuazione della presente direttiva non può in alcun caso
costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la
discriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di
applicazione della presente direttiva» (9).
Pertanto, in linea di principio, la questione se un ente per la promozione
della parità di trattamento, quale il CGKR, possa proporre ricorso nel caso
in cui non agisca per conto di uno specifico denunciante va risolta in base
al diritto nazionale. La direttiva consente agli Stati membri di scegliere
fra diversi metodi di esecuzione, purché le persone che si ritengono
discriminate e gli enti d’interesse pubblico che le rappresentano possano
accedere alle appropriate procedure giurisdizionali o amministrative. A tale
riguardo, concordo con il Regno Unito e l’Irlanda che la direttiva non obbliga
gli
Stati membri a garantire il riconoscimento della legittimazione ad agire agli
enti d’interesse pubblico in mancanza di un denunciante che lamenti di essere
stato vittima di discriminazione. 14. Ciò non significa
però che la direttiva si applichi solo nei casi in vi siano vittime‑denuncianti
identificabili. Le forme di discriminazione coperte dalla direttiva vanno
desunte, in via principale, dal tenore letterale e dallo scopo della stessa,
e non dai rimedi minimi che gli Stati membri sono tenuti a garantire.
L’ambito del comportamento discriminatorio vietato dalla direttiva è una
cosa; altra cosa è la portata dei meccanismi di esecuzione e dei rimedi
specificamente prescritti dalla direttiva. Infatti, la direttiva va
interpretata nel contesto di una politica più ampia, volta a «promuovere le
condizioni per una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro» (10)
e ad «assicurare lo sviluppo di società democratiche e tolleranti che
consentono la partecipazione di tutte le persone a prescindere dalla razza o
dall’origine etnica» (11).
Inoltre, come ho sostenuto nelle mie recenti conclusioni nella causa Coleman,
una direttiva, quando viene adottata sulla base dell’art. 13 CE,
dev’essere interpretata alla luce dei più ampi valori sottesi a tale
disposizione (12).
È vero che la direttiva prevede misure minime, ma non vi è ragione di
attribuirle una portata inferiore a quella che emerge dalla lettura alla luce
dei suddetti valori. Uno standard minimo di protezione non equivale a uno
standard di protezione minima. Le norme comunitarie in materia di tutela contro
le discriminazioni possono lasciare un margine agli Stati membri per
garantire una protezione ancora maggiore, ma ciò non autorizza a concludere
che il livello di protezione offerto dalla normativa comunitaria sia il
minore possibile (13). 15. In tale contesto,
ritengo che un’interpretazione che limiti la portata della direttiva ai casi
di denuncianti identificabili, che si siano candidati a un determinato posto
lavoro, rischi di compromettere l’effettività del principio della parità di
trattamento in materia di lavoro. In tutte le procedure di assunzione, la
principale «selezione» ha luogo tra coloro che si presentano e coloro che non
lo fanno. Non ci si può legittimamente aspettare che qualcuno si candidi a un
posto di lavoro se sa in anticipo che, a causa della sua origine razziale o
etnica, non ha alcuna possibilità di essere assunto. Pertanto, la
dichiarazione pubblica di un datore di lavoro, secondo cui le persone di una
determinata origine razziale o etnica non devono presentarsi, ha un effetto
tutt’altro che ipotetico. Ignorare che ciò costituisce un atto
discriminatorio significherebbe ignorare la realtà sociale, in cui siffatte
dichiarazioni hanno inevitabilmente un impatto umiliante e demoralizzante
sulle persone aventi quell’origine che intendano accedere al mercato del
lavoro e, in particolare, su quelle che sarebbero state interessate ad essere
assunte presso il datore di lavoro in questione. 16. Tuttavia, in casi
come questi può essere molto difficile individuare le singole vittime, dato
che, in primo luogo, gli interessati potrebbero non candidarsi neppure a un
posto presso tale datore di lavoro. In udienza, il Regno Unito e l’Irlanda
hanno ammesso che dovrebbero rientrare nella nozione di vittima le persone
che siano interessate a candidarsi e siano qualificate per il posto lavoro in
questione. Questo però non risolve il problema, viste la difficoltà di
individuare singolarmente tali persone e la circostanza che esse sono
scarsamente incentivate a presentarsi. Infatti, il datore di lavoro,
manifestando pubblicamente la propria intenzione di non assumere persone di
una determinata origine razziale o etnica, esclude tali persone dalla
procedura di assunzione e dall’occupazione presso la propria azienda. Egli
non si limita a parlare di discriminazione, bensì discrimina. Non si limita a
pronunciare parole, bensì compie un «atto linguistico» («speech act») (14).
L’annuncio secondo cui le persone di una determinata origine razziale o
etnica non sono bene accette come candidati a un posto di lavoro costituisce
quindi di per sé una forma di discriminazione. 17. Si perverrebbe a
risultati imbarazzanti se, per qualche motivo, una discriminazione di questo
tipo fosse del tutto esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva, in
quanto gli Stati membri sarebbero implicitamente autorizzati, in forza della
stessa, a consentire ai datori di lavoro di distinguere effettivamente i
candidati in ragione dell’origine razziale o etnica, semplicemente rendendo
pubblico in anticipo, nel modo più chiaro possibile, il carattere
discriminatorio della loro politica di assunzione. In tal modo, la più
impudente strategia di assunzione discriminatoria potrebbe anche trasformarsi
nella più «premiante». È evidente che ciò comprometterebbe – anziché
promuoverle – le condizioni per un mercato del lavoro favorevole all’integrazione
sociale. In breve, verrebbe vanificato lo scopo stesso della direttiva se le
dichiarazioni rese pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una
campagna di assunzione, secondo cui non sarebbero accettate le candidature
delle persone di una determinata origine etnica, esulassero dalla nozione di
discriminazione diretta. 18. L’affermazione del
sig. Feryn secondo cui i clienti sarebbero maldisposti nei confronti dei
lavoratori di una determinata origine etnica è del tutto irrilevante rispetto
alla questione dell’applicabilità della direttiva. Quand’anche tale
affermazione corrispondesse al vero, essa dimostrerebbe solo che «i mercati
non cureranno la discriminazione» (15)
e che l’intervento del legislatore è essenziale. Inoltre, l’adozione di
misure normative a livello comunitario contribuisce a risolvere il problema
dell’azione collettiva dei lavoratori, impedendo la distorsione di
concorrenza che potrebbe verificarsi, proprio a causa di tale incapacità del
mercato, qualora esistessero norme diverse di tutela contro le
discriminazioni a livello nazionale. 19. Pertanto, suggerisco
alla Corte di risolvere come segue la seconda e la terza questione poste dal
giudice nazionale: la dichiarazione resa pubblicamente da un datore di lavoro
nell’ambito di una campagna di assunzione, secondo cui non saranno accettate
le candidature delle persone di una determinata origine etnica, costituisce
una discriminazione diretta ai sensi dell’art. 2, n. 2,
lett. a), della direttiva. Sull’onere della prova 20. Il giudice a quo
chiede chiarimenti anche in merito all’onere della prova. Tali questioni sono
pertinenti in relazione alla tesi dedotta dal CGKR dinanzi al giudice
nazionale, secondo cui la Feryn continua ad applicare una politica di
assunzione discriminatoria. 21. La disposizione
pertinente è l’art. 8 della direttiva. Discende da tale disposizione
che, allorché siano stati esposti fatti dai quali si può presumere che vi sia
stata una discriminazione diretta o indiretta, incombe alla parte convenuta
provare che non vi è stata violazione del principio della parità di
trattamento. Pertanto, quando sussista una situazione evidente di
discriminazione, incombe al datore di lavoro dimostrare che tale principio
non è stato leso. 22. Tale inversione
dell’onere della prova è coerente con la normativa comunitaria e con la
giurisprudenza della Corte in materia di discriminazione fondata sul sesso.
La Corte ha infatti dichiarato: «di fronte ad una situazione di
discriminazione evidente, è il datore di lavoro che deve provare l’esistenza
di motivi obiettivi che giustifichino l’accertata differenza di retribuzione
[tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile]. I
lavoratori, infatti, non avrebbero modo di far rispettare il principio della
parità delle retribuzioni dinanzi al giudice nazionale, se il fornire
elementi che consentono di presumere una discriminazione non avesse la
conseguenza d’imporre al datore di lavoro l’onere di provare che la disparità
salariale non è in realtà discriminatoria» (16).
Sotto questo aspetto, ciò che vale per i casi di discriminazione basata sul
sesso vale anche per quelli di discriminazione in base all’origine etnica.
Infatti, l’art. 8 della direttiva riproduce parola per parola il testo
dell’art. 4 della direttiva del Consiglio 15 dicembre 1997,
97/80/CE, riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata
sul sesso (17). 23. Spetta al giudice
nazionale applicare tali regole in materia di onere della prova alle
specifiche circostanze del caso di specie. Nondimeno, come osserva
giustamente la Commissione, qualora si accerti che un datore di lavoro ha
reso pubblicamente dichiarazioni in merito alla propria politica di
assunzione come quelle in discussione nella causa principale, e, inoltre, la
prassi concretamente adottata dal datore di lavoro in materia di assunzioni
rimanga poco chiara e non sia stata assunta nessuna persona avente l’origine
etnica in questione, si presume che sussista una discriminazione ai sensi
dell’art. 8 della direttiva. Incombe al datore di lavoro confutare tale
presunzione. 24. Per quanto riguarda
le modalità con cui il giudice nazionale dovrebbe valutare le prove a
discarico prodotte dal datore di lavoro, si deve ritenere che detto giudice
debba applicare le pertinenti modalità procedurali nazionali, purché tali
modalità, da un lato, non siano meno favorevoli di quelle che riguardano
ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né, dall’altro,
rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei
diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di
effettività) (18). 25. Propongo quindi alla
Corte di risolvere come segue la terza, quarta e quinta questione poste dal
giudice nazionale: qualora si accerti una situazione di discriminazione
evidente basata sull’origine razziale o etnica, incombe alla parte convenuta
dimostrare di non avere violato il principio della parità di trattamento. Sui rimedi appropriati 26. Infine, il giudice
nazionale chiede quali siano i rimedi appropriati nel caso in cui sia stata
accertata una discriminazione basata sulla razza o sull’origine etnica. Più
specificamente, il giudice a quo chiede se la sentenza dichiarativa di tale
discriminazione costituisca un rimedio appropriato oppure se, in circostanze
come quelle del caso di specie, il giudice nazionale debba intimare al datore
di lavoro di cessare la sua politica di assunzione discriminatoria. 27. Per quanto riguarda
le sanzioni, l’art. 15 della direttiva dispone che «[g]li Stati membri
determinano le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme
nazionali di attuazione della presente direttiva e prendono tutti i
provvedimenti necessari per la loro applicazione. Le sanzioni che possono
prevedere un risarcimento dei danni devono essere effettive, proporzionate e
dissuasive (…)». Inoltre, la Corte ha dichiarato nella sentenza Von Colson e
Kamann che i giudici nazionali devono adottare tutti i provvedimenti atti a
garantire l’adempimento dell’obbligo degli Stati membri di conseguire il
risultato contemplato dalla direttiva (19). 28. Spetta al giudice
del rinvio stabilire, in base alle disposizioni pertinenti di diritto
interno, quale sia il rimedio appropriato nelle circostanze del caso di
specie. Tuttavia, generalmente le sanzioni meramente simboliche non sono
dotate di un’efficacia dissuasiva sufficiente a garantire il rispetto del
divieto di discriminazione (20).
Ritengo pertanto che un ordine con cui l’autorità giudiziaria vieti tale
comportamento costituisca un rimedio più appropriato. 29. Riassumendo, il
giudice nazionale, qualora accerti una violazione del principio della parità
di trattamento, deve concedere rimedi effettivi, proporzionati e dissuasivi. III – Conclusione 30. Per i motivi sopra
indicati, ritengo che le questioni sollevate dall’Arbeidshof te Brussel
debbano essere risolte come segue: 1) La
dichiarazione resa pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una
campagna di assunzione, secondo cui non saranno accettate le candidature
delle persone di una determinata origine razziale o etnica, costituisce una
discriminazione diretta ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a),
della direttiva del Consiglio 29 giugno 2000, 2000/43/CE, che attua il
principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla
razza e dall’origine etnica. 2) Qualora si
accerti una situazione di discriminazione evidente basata sull’origine
razziale o etnica, incombe alla parte convenuta dimostrare di non avere
violato il principio della parità di trattamento. 3) Il giudice
nazionale, qualora accerti una violazione del principio della parità di
trattamento, deve concedere rimedi efficaci, proporzionati e dissuasivi. Note 1
– Lingua originale: l’inglese. 2 –
GU L 180, pag. 22. 3 –
GU 2007, C 82, pag. 21. 4 –
Art. 1 della direttiva. 5 –
Art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva. 6 –
Art. 7, n. 1, della direttiva (il corsivo è mio). 7 –
Art. 7, n. 2, della direttiva (il corsivo è mio). 8 –
Art. 6, n. 1, della direttiva. 9 –
Art. 6, n. 2, della direttiva. 10 –
Ottavo ‘considerando’ della direttiva. 11 –
Dodicesimo ‘considerando’ della direttiva. 12 –
V. le mie conclusioni nella causa C‑303/06, Coleman, ancora pendente
dinanzi alla Corte, paragrafi 7 e segg.. Tale causa verte sulla
direttiva 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro
generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16). 13 –
Ibid. (paragrafo 24). 14 – John Searle,
Speech Acts, Cambridge University Press 1969., John
Langshaw Austin, How to Do Things With Words,
Cambridge (Mass.) 1962. 15 –
C. Sunstein, «Why markets don’t stop discrimination», in Free markets
and social justice, Oxford University Press,
Oxford, 1997, pag. 165. 16 –
Sentenze 30 marzo 2000, causa C‑236/98, JämO
(Racc. pag. I‑2189, punto 53), e 10 marzo 2005,
causa C‑196/02, Nikoloudi (Racc. pag. I‑1789,
punto 74). 17 –
GU 1998, L 14, pag. 6, modificata con direttiva del Consiglio
13 luglio 1998, 98/52/CE (GU L 205, pag. 66). V. anche
art. 10, n. 1, della direttiva 2000/78. 18 –
V, in tal senso, sentenze 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe
(Racc. pag. 1989); 14 dicembre 1995, cause riunite C‑430/93
e C‑431/93, Van Schijndel e van Veen (Racc. pag. I‑4705,
punto 17), e 7 giugno 2007, cause riunite da C‑222/05 a C‑225/05,
Van der Weerd e a. (Racc. pag. 4233, punto 28). 19 –
Sentenze 10 aprile 1984, causa 14/83 (Racc. pag. 1891,
punto 26), e causa 79/83, Harz (Racc. pag. 1921,
punto 26). 20 –
V. per analogia, sentenza Von Colson e Kamann, cit. (punti 23
e 24). |
2.
La Corte di giustizia mette fuorilegge la
discriminazione tra convivente registrato e coniuge relativamente ai vantaggi
salariali riconosciuti dal datore di lavoro (pensione di reversibilità)
Corte di Giustizia, Maruko c. Versorgungsanstalt der deutschen
Bühnen (Causa C‑267/06)
La Corte di giustizia delle Comunità
europee ha stabilito, in una storica sentenza adottata il 1 aprile 2008, che
gli artt. 1 e 2 della Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento
nell’impiego e nell’occupazione precludono norme nazionali secondo le quali,
alla morte del partner registrato dello stesso sesso, il partner sopravvissuto
non sia ammesso a godere della pensione di reversibilità su un piede di parità
rispetto al coniuge.
Con un’importante sentenza, la Corte di Giustizia Europea ha
dichiarato che una prestazione ai superstiti (pensione di reversibilità) è
assimilabile ad una retribuzione, secondo l’autonoma definizione di cui al
diritto comunitario e pertanto
rientra nell’ambito di applicazione della direttiva europea n. 2000/78/CE che
stabilisce un quadro generale di parità di trattamento e di divieto di
discriminazioni anche in base all’orientamento sessuale in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro. Ne consegue, secondo la Corte di
Giustizia europea, che viene a violare detto principio di parità di trattamento
una normativa in base alla quale, dopo il decesso del suo partner con il quale
ha contratto un’unione solidale, il partner superstite non percepisce detta
prestazione, quando essa è invece concessa ad un coniuge superstite, mentre nel
diritto nazionale, l’unione solidale porrebbe le persone dello stesso sesso in
una posizione analoga a quella dei coniugi con riferimento a tali prestazioni.
In parte, la sentenza della Corte di Giustizia europea ha una portata
non immediatamente ed automaticamente estensibile oltre al contesto nazionale della causa che
ne ha dato origine, quello tedesco, caratterizzato innanzitutto, dopo la riforma pensionistica del 1993, da una maggiore pluralità di fondi pensionistici
(krankenkasse) in competizione tra loro e rivolti a specifiche categorie di
lavoratori; fattore questo suscettibile in parte di influenzare
l’interpretazione se una determinata pensione di reversibilità debba essere
interpretata quale retribuzione secondo l’autonomo significato nel diritto
comunitario ovvero quale
prestazione di sicurezza sociale, sottratta invece all’applicazione della direttiva n.
2000/78 (vedasi dal paragrafo n.
40 al n. 57 della sentenza). In secondo luogo, la Repubblica Federale Tedesca
già nel 2001 si è data una normativa sulle unioni solidali registrate,
indirizzata esclusivamente alle
persone dello stesso sesso, che prevede fra l’altro il principio generale di
equiparazione tra celebrazione di un’unione solidale e celebrazione del matrimonio ai fini
della determinazione del diritto
ad una pensione di vedovo o di vedova, con conseguente equiparazione della posizione del partner superstite
di un unione solidale a quella del coniuge superstite; principio contro il quale veniva a configgere la
norma del fondo pensionistico oggetto della causa in esame.
Tuttavia, nella sentenza, la Corte di Giustizia non rinuncia a
sviluppare alcune considerazioni di portata più generale, potenzialmente in
grado di avere un impatto anche sul sistema giuridico vigente nel nostro Paese,
in cui l’estensione anche al partner convivente more uxorio del diritto alla
pensione di reversibilità goduta dal coniuge superstite costituisce una storica
rivendicazione del movimento per i
diritti civili delle persone omosessuali e lesbiche.
Nella sentenza, infatti, la Corte di Giustizia europea si sofferma
sulla portata del ventiduesimo “considerando” della direttiva 2000/78, in cui
si afferma che la direttiva lascia impregiudicate le legislazioni nazionali in
materia di stato civile e le prestazioni che ne derivano, e che rimangono entro
la competenza degli Stati membri. Tuttavia, la Corte di giustizia
opportunamente sottolinea che gli
«Stati membri, nell’esercizio di tale competenza, devono rispettare il diritto comunitario, in
particolare le disposizioni relative al principio di non discriminazione»
(paragrafo 59). Pertanto, se la pensione di reversibilità può essere
qualificata come forma di retribuzione secondo l’autonomo significato del
diritto comunitario e perciò rientrante nella sfera di applicazione della
direttiva n. 2000/78 che vieta discriminazioni basate, fra l’altro, sull’orientamento sessuale,
l’impossibilità per il convivente more uxorio superstite di percepire tale prestazione potrebbe
costituire un’ingiustificata forma
di discriminazione indiretta a danno delle persone omossessuali e lesbiche, in
quanto queste ultime sono proporzionalmente maggiormente colpite dalla
disparità di trattamento rispetto alle
persone di orientamento
eterossessuale- non avendo le prime al contrario delle seconde alcuna
possibilità di accedere allo status di coniuge, il solo che consente attualmente
l’accesso alla prestazione.
In un caso precedente,
la Corte di Giustizia europea aveva già ritenuto sussistere un’indebita discriminazione indiretta
nella legislazione di uno Stato membro (il Regno Unito) che non consentendo il
matrimonio tra una transgender, divenuta donna, ed il proprio partner di sesso
maschile, perché al transessuale veniva impedita la rettifica dell’atto di
nascita una volta cambiato sesso,
impediva al partner sopravvissuto di percepire la pensione di reversibilità (KB c. National Health Service Pensions Agency,
Secretary of State for Health, in Raccolta, 2004, I, p. 541 ss.). La Corte, infatti,
accolse il ricorso affermando che la legislazione inglese determinava
un’illegittima discriminazione indiretta in quanto non concernente il godimento di un diritto
tutelato dall’ordinamento comunitario, quanto incidente su una delle condizioni per la sua
concessione.
In tale direzione, utile il riferimento all’orientamento espresso dal Comitato dei diritti dell’Uomo
delle Nazioni Unite, competente a
controllare il rispetto delle norme contenute nel Patto delle Nazioni Unite sui
diritti civili e politici . Il Comitato ha compiuto un’attività ermeneutica
rispetto agli artt. 17, 23 e 26 del Patto, relativi rispettivamente al rispetto
della vita privata e familiare, ai soggetti titolari del diritto al matrimonio
e al divieto di discriminazione,
nel caso Joslin et
al. C. Nuova Zelanda, sottoposto da due coppie di donne che asserivano la contrarietà al Patto
della normativa della Nuova Zelanda che non riconosceva alle coppie omosessuali
il diritto al matrimonio; il Comitato, basandosi sulla disposizione dell’art.
23, par. 2, in cui si fa riferimento a “uomini e donne” come titolari del
diritto al matrimonio, ha affermato che l’obbligo degli Stati parti è di
“riconoscere il matrimonio soltanto come l’unione tra un uomo ed una donna desiderosi di sposarsi”.
Purtuttavia, il Comitato ha sottolineato la possibilità di far valere i diritti
delle coppie omosessuali, anche ai sensi dell’art. 26 del Patto, con riguardo
agli ordinamenti entro i quali le unioni o i matrimoni non sono alle stesse
accessibili. Tale argomento ha trovato un’applicazione positiva nel successivo caso Young, proprio con riferimento alla
richiesta pensione di reversibilità da parte di un convivente omosessuale
(Communication n. 941/2000: Australia, d. 18.09.2003 –
CCPR/C/78/D/941/2000).
La progressiva estensione
dell’istituto matrimoniale anche alle coppie omosessuali, realizzatasi
in Spagna, Paesi Bassi, Belgio, ovvero il riconoscimento e regolamentazione delle convivenze nelle forme delle
unioni civili o partenariati registrati, quali istituti aperti solo alle coppie
omosessuali (come ad es. in Germania e Danimarca) oppure anche a quelle eterosessuali, delinea una
realtà in cui, a livello europeo, sono oramai una stretta minoranza quei paesi
ove l’istituto della convivenza
sia privo di codificazione normativa, tra cui si annoverano ad es.
l’Italia, l’Austria e la Grecia.. Ne consegue, pertanto, che sia lecito
attendersi anche un mutamento della giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo di Strasburgo in merito alla mancata attribuzione della
pensione di reversibilità alla morte del compagno, rispetto al precedente
negativo rappresentato finora dalla sentenza Mata Estevez
(sentenza 10 maggio 2001 Mata Estevez c. Spagna).
All’epoca la Corte non aveva
ravvisato una violazione del divieto di discriminazione (art. 14) in
relazione al diritto al rispetto
della vita privata e familiare
(art. 8).
Una mutazione dell’atteggiamento della Corte di Strasburgo potrebbe
essere attesa e sollecitata sulla
base dei criteri interpretativi prefigurati dalla sentenza Cossey, (sentenza 27 settembre 1990, Cossey c Regno Unito, par. 46), secondo
cui vi sarebbe una relazione circolare tra normativa convenzionale e leggi
nazionali, alla luce della quale ad un esteso mutamento delle seconde dovrebbe
far seguito un’interpretazione evolutiva della prima.
Alla luce di tutte queste considerazioni, non si può pertanto
escludere che la sentenza della Corte di Giustizia europea possa avere
interessanti ripercussioni giurisprudenziali anche nella realtà italiana.
Ad ogni modo, è certo che tale sentenza sottolinea una volta di
più l’arretratezza e l’illiberalità del nostro sistema
giuridico in materia di diritti civili delle persone di orientamento
omosessuale rispetto alla realtà e alla coscienza giuridica europea.
A cura di Walter Citti
Per un approfondimento sul tema delle unioni civili nel diritto
internazionale e comunitario e le problematiche attinenti il diritto
internazionale privato si rimanda, tra l’altro , al pregevole volume
di Sara Tonolo, Le Unioni civili nel diritto internazionale privato,
Giuffrè editore, collana della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli
Studi dell’Insubria, 2007.
Pubblichiamo di seguito il testo integrale della sentenza della
Corte di Giustizia europea dd. 1 aprile 2008, Tadao Maruko c.
Versorgungsanstalt der deutschen Buhnen (Causa C-267/06).
SENTENZA
DELLA CORTE (Grande Sezione) 1°
aprile 2008 (*) «Parità
di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro –
Direttiva 2000/78/CE – Prestazioni ai superstiti previste da un regime
obbligatorio previdenziale di categoria – Nozione di
“retribuzione”– Diniego di concessione per mancanza di matrimonio
– Partner dello stesso sesso – Discriminazione fondata
sull’orientamento sessuale» Nel
procedimento C‑267/06, avente
ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai
sensi dell’art. 234 CE, dal Bayerisches Verwaltungsgericht München
(Germania) con decisione 1° giugno 2006, pervenuta in cancelleria il 20
giugno 2006, nella causa tra Tadao Maruko e Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen, LA
CORTE (Grande Sezione), composta
dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. P. Jann, C.W.A.
Timmermans, A. Rosas, K. Lenaerts e L. Bay Larsen, presidenti di sezione, dai
sigg. K. Schiemann, J. Makarczyk, P. Kūris, J. Klučka
(relatore), A. Ó Caoimh, dalla sig.ra P. Lindh e dal sig. J.-C.
Bonichot, giudici, avvocato
generale: sig. D. Ruiz-Jarabo Colomer cancelliere:
sig. J. Swedenborg, amministratore vista
la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 19
giugno 2007, considerate
le osservazioni presentate: – per
il sig. Maruko, dagli avv.ti H. Graupner, R. Wintemute e
M. Bruns, Rechtsanwälte; – per
la Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen, dalla sig.ra C. Draws e
dal sig. P. Rammert, in qualità di agenti, assistiti dagli
avv.ti A. Bartosch e T. Grupp, Rechtsanwälte; – per
il governo dei Paesi Bassi, dalla sig.ra C. Wissels, in qualità di
agente; – per
il governo del Regno Unito, dalla sig.ra V. Jackson, in qualità di
agente, assistita dal sig. T. Ward, barrister; – per
la Commissione delle Comunità europee, dal sig. J. Enegren e dalla
sig.ra I. Kaufmann-Bühler, in qualità di agenti, sentite
le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 6 settembre
2007, ha
pronunciato la seguente Sentenza 1 La domanda
di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 1, 2,
n. 2, lett. a) e b), sub i), nonché 3, nn. 1, lett. c), e
3, della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce
un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e
di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16). 2 Tale
domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il
sig. Maruko e la Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen (ente di
previdenza dei lavoratori dei teatri tedeschi; in prosieguo: la «VddB») in
merito al diniego di quest’ultima di riconoscergli una pensione di vedovo a
titolo delle prestazioni ai superstiti previste dal regime previdenziale
obbligatorio di categoria al quale era iscritto il suo partner, poi deceduto,
con il quale aveva contratto un’unione solidale. Contesto
normativo La
normativa comunitaria 3 Il
tredicesimo e il ventiduesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/78
recitano: «(13) La presente direttiva non si applica ai
regimi di sicurezza sociale e di protezione sociale le cui prestazioni non
sono assimilate ad una retribuzione, nell’accezione data a tale termine ai
fini dell’applicazione dall’articolo 141 del trattato CE, e nemmeno ai
pagamenti di qualsiasi genere, effettuati dallo Stato allo scopo di dare
accesso al lavoro o di salvaguardare posti di lavoro. (…) (22) La presente
direttiva lascia impregiudicate le legislazioni nazionali in materia di stato
civile e le prestazioni che ne derivano. 4 L’art. 1
della direttiva 2000/78 così dispone: «La
presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle
discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli
handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le
condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il
principio della parità di trattamento». 5 Ai
sensi dell’art. 2 della detta direttiva: «1. Ai
fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si
intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su
uno dei motivi di cui all’articolo 1. 2. Ai
fini del paragrafo 1: a) sussiste
discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui
all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia
stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) sussiste
discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi
apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare
svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di
altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di
una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre
persone, a meno che: i) tale disposizione,
tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità
legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e
necessari; (...) (…)». 6 L’art. 3
della stessa direttiva è formulato come segue: «1. Nei
limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a
tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi
gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene: (…) c) all’occupazione e
alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la
retribuzione; (…) 3. La
presente direttiva non si applica ai pagamenti di qualsiasi genere,
effettuati dai regimi statali o da regimi assimilabili, ivi inclusi i regimi
statali di sicurezza sociale o di protezione sociale. (…)». 7 A norma
dell’art. 18, primo comma, della direttiva 2000/78, gli Stati membri
dovevano adottare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative
necessarie per conformarsi a quest’ultima entro il 2 dicembre 2003 o potevano
affidare alle parti sociali il compito di mettere in atto tale direttiva per
quanto riguarda le disposizioni che rientravano nella sfera dei contratti
collettivi. Tuttavia, in tal caso, essi dovevano assicurarsi che, entro il 2
dicembre 2003, le parti sociali avessero stabilito mediante accordo le
necessarie disposizioni, fermo restando che gli Stati membri dovevano
prendere le misure necessarie per permettere loro di garantire in qualsiasi
momento i risultati imposti dalla direttiva. Inoltre, essi dovevano informare
immediatamente la Commissione delle Comunità europee delle dette
disposizioni. La
normativa nazionale La
legge relativa all’unione solidale registrata 8 L’art. 1
della legge relativa all’unione solidale registrata (Gesetz über die
Eingetragene Lebenspartnerschaft) 16 febbraio 2001 (BGBl. 2001 I,
pag. 266), come modificata dalla legge 15 dicembre 2004 (BGBl. 2004 I,
pag. 3396; in prosieguo: il «LPartG»), recita: «1) Due
persone dello stesso sesso costituiscono un’unione solidale quando dichiarano
reciprocamente, personalmente e in presenza l’uno dell’altro che intendono
fondare insieme un’unione solidale (partner di unione solidale). Le
dichiarazioni non possono essere rese a condizione o a termine. Le
dichiarazioni producono i loro effetti quando sono rese dinanzi all’autorità
competente. 2) Un’unione
solidale non può essere validamente costituita: 1. con una persona
minore o coniugata o che ha già in atto un’unione solidale con una terza
persona; 2. tra ascendenti e
discendenti; 3. tra fratelli o
sorelle germani, uterini o consaguinei; 4. quando
al momento della costituzione dell’unione solidale i partner rifiutano di
contrarre obblighi ai sensi dell’art. 2. (…)». 9 L’art. 2
del LPartG dispone quanto segue: «I
partner di unione solidale sono tenuti a prestarsi reciprocamente soccorso e
assistenza e si impegnano reciprocamente ad una comunione di vita. Essi
assumono responsabilità l’uno nei confronti dell’altro». 10 Ai sensi
dell’art. 5 della detta legge: «I
partner di unione solidale sono reciprocamente tenuti a contribuire
adeguatamente ai bisogni di tale comunione con il loro lavoro e il loro
patrimonio. Gli artt. 1360, seconda frase, 1360 a e 1360 b del
codice civile nonché l’art. 16, secondo comma, si applicano per
analogia». 11 L’art. 11,
n. 1, della stessa legge recita: «Salvo
disposizione contraria, il partner di unione solidale è considerato come un
familiare dell’altro partner». La
normativa relativa alle pensioni di vedova o di vedovo 12 Con il LPartG, il
legislatore tedesco ha apportato alcune modifiche al libro VI del codice
della previdenza sociale – Regime legale di assicurazione vecchiaia
(Sozialgesetzbuch VI – Gesetzliche Rentenversicherung). 13 L’art. 46,
figurante nel libro VI del detto codice, nella sua versione vigente a partire
dal 1° gennaio 2005 (in prosieguo: il «codice della previdenza
sociale»), così dispone: «1) Le
vedove o i vedovi non risposati hanno diritto, dopo il decesso del coniuge
assicurato, ad una piccola pensione di vedova o di vedovo, a condizione che
il coniuge assicurato abbia maturato la durata minima di assicurazione
generalmente richiesta. Tale diritto è limitato a un periodo massimo di 24
mesi civili a decorrere dal mese successivo a quello del decesso
dell’assicurato. (…) 4) Resta
inteso, per la determinazione del diritto ad una pensione di vedova o di
vedovo, che la celebrazione di un’unione solidale è equiparata alla
celebrazione di un matrimonio, che l’unione solidale è equiparata ad un
matrimonio, che un partner superstite è equiparato ad una vedova ed a un
vedovo e che un partner di unione solidale è equiparato a un coniuge. Allo
scioglimento o alla dichiarazione di nullità di un nuovo matrimonio
corrispondono rispettivamente la risoluzione o lo scioglimento di una nuova
unione solidale». 14 Lo stesso libro VI
contiene altre disposizioni simili concernenti l’equiparazione dell’unione
solidale al matrimonio, in particolare gli artt. 47, n. 4, 90,
n. 3, 107, n. 3, e 120 d), n. 1. Il
contratto collettivo dei teatri tedeschi 15 L’art. 1 del
contratto collettivo dei teatri tedeschi (Tarifordnung für die deutschen
Theater) 27 ottobre 1937 (Reichsarbeitsblatt 1937 VI, pag. 1080; in
prosieguo: il «contratto collettivo»), recita: «1) Ogni
persona giuridica che esercisce nel Reich un teatro (impresario teatrale) è
tenuta a sottoscrivere per il personale artistico occupato nella sua impresa
teatrale un’assicurazione vecchiaia e superstiti, conformemente alle seguenti
disposizioni, e a comunicare per iscritto a ciascun lavoratore facente parte
del personale artistico l’assicurazione sottoscritta. 2) Di
concerto con i Ministri del Reich interessati, il Ministro dell’Informazione
e della Propaganda designa l’ente previdenziale e stabilisce le condizioni di
assicurazione (statuto). Esso fissa anche la data a partire dalla quale
l’assicurazione deve essere sottoscritta conformemente al presente contratto. 3) Ai
sensi del presente contratto, si intende per personale artistico l’insieme
delle persone che, in forza della legge sulla Camera della cultura del Reich
e dei regolamenti di applicazione relativi a tale legge, sono
obbligatoriamente iscritte alla Camera teatrale del Reich (sezione
palcoscenico), in particolare: i registi, gli attori, i direttori
d’orchestra, i direttori di scena, i consulenti artistici, i direttori di
coro, i responsabili delle prove, gli ispettori, i suggeritori e le persone che
occupano una posizione analoga, i responsabili tecnici (quali i
capomacchinisti, gli scenografi, i costumisti e le persone che occupano una
posizione analoga, nella misura in cui sono responsabili del loro settore),
nonché i consulenti, i coristi, i ballerini e i parrucchieri». 16 Ai termini
dell’art. 4 del contratto collettivo: «I
premi assicurativi sono per metà a carico dell’impresario teatrale e per metà
a carico del lavoratore facente parte del personale artistico. L’impresario
teatrale è tenuto a riversare i premi assicurativi all’ente assicuratore». Lo
statuto della VddB 17 Gli artt. 27,
32 e 34 dello statuto della VddB dispongono: «Art. 27
– Natura della previdenza e condizioni generali 1) Gli
eventi che danno diritto alla prestazione sono il verificarsi di una
incapacità lavorativa o di un’invalidità, l’ammissione alla pensione
anticipata, il compimento della normale età pensionabile e il decesso. 2) Dietro
domanda, l’ente eroga (…) a titolo di prestazioni ai superstiti (…) una
pensione di vedova (artt. 32 e 33), una pensione di vedovo
(art. 34) (…) se, immediatamente prima del verificarsi dell’evento che
dà diritto alla prestazione, l’assicurato era assicurato a titolo
obbligatorio, volontario, o aveva continuato l’assicurazione, e se il periodo
di attesa è rispettato (…). (…) Art. 32
– Pensione di vedova 1) Ha
diritto ad una pensione di vedova la moglie dell’assicurato o del pensionato,
se il matrimonio è continuato fino al giorno del decesso di quest’ultimo. (…) Art. 34
– Pensione di vedovo 1) Ha
diritto a una pensione di vedovo il marito dell’assicurata o della
pensionata, se il matrimonio è continuato fino al giorno del decesso di
quest’ultima. (…)». 18 L’art. 30,
n. 5, dello stesso statuto stabilisce le modalità per determinare
l’importo della pensione di vecchiaia sulla base della quale viene calcolata
la prestazione ai superstiti. Causa
principale e questioni pregiudiziali 19 L’8 novembre 2001
il sig. Maruko ha costituito, in forza dell’art. 1 del LPartG nella
sua versione iniziale, un’unione solidale con un costumista teatrale. 20 Quest’ultimo era
iscritto alla VddB dal 1° settembre 1959 e ha continuato a versare i
contributi a tale ente previdenziale a titolo volontario durante i periodi
nel corso dei quali non vi è stato iscritto a titolo obbligatorio. 21 Il partner di
unione solidale del sig. Maruko è deceduto il 12 gennaio 2005. 22 Con lettera datata
17 febbraio 2005 il sig. Maruko chiedeva il beneficio di una pensione di
vedovo presso la VddB. Quest’ultima, con decisione 28 febbraio 2005, ha
respinto la domanda in quanto il suo statuto non prevedeva tale beneficio per
i partner di unione solidale superstiti. 23 Il
sig. Maruko ha proposto ricorso dinanzi al giudice a quo. A suo avviso,
il diniego opposto dalla VddB viola il principio della parità di trattamento,
in quanto il legislatore tedesco, a partire dal 1° gennaio 2005, ha attuato
una tale parità tra l’unione solidale e il matrimonio, introducendo in
particolare l’art. 46, n. 4, nel codice della previdenza sociale.
Il fatto di non accordare ad una persona, dopo il decesso del suo partner di
unione solidale, il beneficio di prestazioni ai superstiti così come ad un
coniuge superstite costituirebbe una discriminazione fondata sull’orientamento
sessuale della detta persona. Secondo il sig. Maruko, i partner di
unione solidale sono trattati in modo meno favorevole dei coniugi, mentre, al
pari di questi ultimi, essi sono tenuti a prestarsi soccorso e assistenza, si
impegnano reciprocamente ad una comunione di vita e assumono responsabilità
l’uno nei confronti dell’altro. Il regime patrimoniale dei partner di unione
solidale sarebbe in Germania equivalente a quello dei coniugi. 24 Chiedendosi, in
primo luogo, se il regime previdenziale gestito dalla VddB sia assimilabile
ad un regime statale di sicurezza sociale ai sensi dell’art. 3,
n. 3, della direttiva 2000/78 e se il detto regime si trovi al di fuori
dell’ambito di applicazione della detta direttiva, il giudice a quo rileva
che il fatto che l’iscrizione presso la VddB sia obbligatoria per legge e che
nessuna concertazione relativa all’iscrizione di cui trattasi possa essere
presa in considerazione in seno alle imprese teatrali depone a favore di tale
assimilazione. Esso aggiunge tuttavia che, al di fuori dei periodi lavorati,
il personale dei teatri ha la possibilità di continuare volontariamente ad
essere iscritto al regime previdenziale controverso nella causa principale,
che quest’ultimo è basato sul principio della capitalizzazione, che i
contributi sono pagati per metà dalle imprese teatrali, da un lato, e dagli
assicurati, dall’altro, e che la VddB gestisce e disciplina le sue attività
autonomamente, senza l’intervento del legislatore federale. 25 Tenuto conto della
struttura della VddB e dell’influenza decisiva esercitata dalle imprese
teatrali e dagli assicurati sul suo funzionamento, il giudice a quo asserisce
di essere incline a ritenere che detto ente previdenziale non gestisca un
regime assimilabile a un regime statale di sicurezza sociale, ai sensi
dell’art. 3, n. 3, della direttiva 2000/78. 26 Il giudice a quo
si chiede, in secondo luogo, se la prestazione ai superstiti controversa
nella causa principale possa essere considerata come una «retribuzione», ai
sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78, il
che giustificherebbe un’applicazione di quest’ultima. Il giudice a quo
asserisce che, in via di principio, alla luce della giurisprudenza della
Corte le prestazioni ai superstiti rientrano nella sfera di applicazione di
detta nozione di «retribuzione». A suo avviso, tale interpretazione non è
inficiata dal fatto che la prestazione ai superstiti controversa nella causa
principale è versata non al lavoratore, bensì al suo coniuge superstite,
poiché il diritto a tale prestazione costituisce un beneficio che trova la
sua origine nell’iscrizione del lavoratore al regime previdenziale gestito
dalla VddB, di modo che la detta prestazione è ottenuta dal coniuge
superstite di quest’ultimo nel contesto del rapporto di lavoro tra il datore
di lavoro e il detto lavoratore. 27 Il giudice a quo
mira, in terzo luogo, a stabilire se il combinato disposto degli artt. 1
e 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/78 osti alle disposizioni
di uno statuto come quello della VddB in base alle quali, dopo il decesso del suo
partner di unione solidale, una persona non percepisce prestazioni ai
superstiti equivalenti a quelle offerte al coniuge superstite, mentre, così
come le persone coniugate, i partner di unione solidale hanno vissuto in seno
ad una comunione fondata sull’assistenza e sull’aiuto reciproco, formalmente
costituita per tutta la durata della vita. 28 Secondo il giudice
a quo, qualora la presente causa rientri nella sfera di applicazione della
direttiva 2000/78 e sussista una discriminazione, il sig. Maruko
potrebbe invocare le disposizioni di tale direttiva. 29 Il giudice a quo
aggiunge che, contrariamente alle coppie eterosessuali che possono contrarre
matrimonio ed eventualmente beneficiare di una prestazione ai superstiti,
l’assicurato e il ricorrente nella causa principale non potevano in nessun
caso, dato il loro orientamento sessuale, soddisfare la condizione di
matrimonio cui il regime previdenziale gestito dalla VddB subordina detta
prestazione. Orbene, secondo il giudice a quo, il combinato disposto degli
artt. 1 e 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/78 può
ostare a che disposizioni, come quelle dello statuto della VddB, limitino il
beneficio della detta prestazione ai coniugi superstiti. 30 Qualora il
combinato disposto degli artt. 1 e 2, n. 2, lett. a), della
direttiva 2000/78 osti alle disposizioni di uno statuto come quello della
VddB, il giudice a quo si chiede, in quarto luogo, se una discriminazione
fondata sull’orientamento sessuale sia autorizzata, alla luce del
ventiduesimo ‘considerando’ di tale direttiva. 31 Esso rileva che
questo ‘considerando’ non è stato riprodotto nel testo della detta direttiva.
Esso si chiede se il ‘considerando’ in questione sia tale da restringere la
sfera di applicazione della direttiva 2000/78. Il giudice a quo considera
che, alla luce dell’importanza del principio comunitario della parità di
trattamento, occorre non interpretare estensivamente i ‘considerando’ di tale
direttiva. Esso chiede a questo proposito se, nella causa principale, il
diniego della VddB di concedere una prestazione ai superstiti ad una persona
il cui partner di unione solidale è deceduto costituisca una discriminazione
autorizzata benché fondata sull’orientamento sessuale. 32 In quinto luogo, il
giudice a quo mira ad appurare se, in forza della sentenza 17 maggio 1990,
causa C‑262/88, Barber (Racc. pag. I‑1889), il
beneficio delle prestazioni ai superstiti sia limitato ai periodi successivi
al 17 maggio 1990. Esso asserisce che le disposizioni nazionali controverse
nella causa principale rientrano nell’ambito di applicazione
dell’art. 141 CE e che l’effetto diretto di tale articolo può
essere invocato soltanto per le prestazioni dovute in base ai periodi lavorativi
successivi al 17 maggio 1990. A questo proposito, esso cita la sentenza 28
settembre 1994, causa C‑200/91, Coloroll Pension Trustees
(Racc. pag. I‑4389). 33 In questo contesto,
il Bayerisches Verwaltungsgericht München ha deciso di sospendere il giudizio
e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se un regime
previdenziale obbligatorio di categoria – come nella fattispecie quello
gestito dalla VddB – costituisca un regime assimilabile ad un regime
statale ai sensi dell’art. 3, n. 3, della direttiva 2000/78 (…). 2) Se costituiscano
una retribuzione ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della
direttiva 2000/78 (...) le prestazioni ai superstiti in forma di assegno
vedovile erogate da un ente previdenziale obbligatorio. 3) Se il combinato
disposto degli artt. 1 e 2, n. 2, lett. a), della direttiva
2000/78 (...) osti alle disposizioni dello statuto di un regime previdenziale
integrativo del tipo di cui alla presente fattispecie, ai sensi delle quali
il partner di unione solidale registrata non ha diritto a ricevere, alla
morte del suo partner, alcuna prestazione ai superstiti analoga a quelle
previste per i coniugi, malgrado il fatto che, come i coniugi, anche il
partner di unione solidale viva in una comunione fondata sull’assistenza e
sull’aiuto reciproco, formalmente costituita per tutta la durata della vita. 4) In caso di
soluzione affermativa della questione precedente, se sia lecita una
discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, alla luce del ventiduesimo
‘considerando’ della direttiva 2000/78 (...). 5) Se il beneficio
delle prestazioni ai superstiti sia limitato ai periodi successivi al 17
maggio 1990 in base alla sentenza Barber [cit.]». Sulle
questioni pregiudiziali Sulla
prima, sulla seconda e sulla quarta questione 34 Con la prima, la
seconda e la quarta questione, che vanno risolte congiuntamente, il giudice a
quo chiede, in sostanza, se una prestazione ai superstiti concessa
nell’ambito di un regime previdenziale di categoria come quello gestito dalla
VddB rientri nella sfera di applicazione della direttiva 2000/78. Osservazioni
presentate alla Corte 35 Per quanto riguarda
la prima e la seconda delle questioni sollevate, la VddB considera che il
regime da essa gestito è un regime legale di previdenza sociale e che la
prestazione ai superstiti controversa nella causa principale non può essere
considerata come una «retribuzione» ai sensi dell’art. 3, n. 1,
lett. c), della direttiva 2000/78. Tale prestazione esulerebbe quindi
dalla sfera di applicazione della detta direttiva. 36 A sostegno di tale
tesi, la VddB sottolinea, in particolare, che essa è un ente di diritto
pubblico facente parte dell’amministrazione federale e che il regime
previdenziale controverso nella causa principale è un regime obbligatorio,
fondato sulla legge. Essa aggiunge che il contratto collettivo ha valore di
legge ed è stato integrato, con lo statuto della VddB, nel trattato di
unificazione del 31 agosto 1990 e che l’obbligo di iscrizione vale per categorie
di lavoratori definite in modo generale. La prestazione ai superstiti
controversa nella causa principale sarebbe legata non direttamente ad un
impiego determinato, ma a considerazioni generali di ordine sociale. Essa non
dipenderebbe direttamente dai periodi lavorativi compiuti e il suo importo
non sarebbe calcolato in relazione all’ultima restribuzione. 37 La Commissione
considera, per contro, che la prestazione ai superstiti controversa nella
causa principale rientra nella sfera di applicazione della direttiva 2000/78
in quanto è concessa in base al rapporto di lavoro instaurato tra una persona
e il suo datore di lavoro, rapporto da cui discende l’iscrizione obbligatoria
del lavoratore presso la VddB. L’importo della detta prestazione sarebbe determinato
in relazione alla durata del rapporto di assicurazione e ai contributi
versati. 38 Per quanto riguarda
la quarta questione sollevata, tanto il sig. Maruko quanto la
Commissione sottolineano che il ventiduesimo ‘considerando’ della direttiva
2000/78 non è riprodotto in nessuno degli articoli di tale direttiva. Secondo
il sig. Maruko, se il legislatore comunitario avesse voluto sottrarre
alla sfera di applicazione della detta direttiva tutte le prestazioni legate
allo stato civile, la formulazione di detto ‘considerando’ sarebbe stato
oggetto di un’apposita disposizione nel testo della detta direttiva. Secondo
la Commissione, lo stesso ‘considerando’ riflette soltanto la mancanza di
competenza dell’Unione europea in materia di stato civile. 39 La VddB e il governo
del Regno Unito considerano, in particolare, che il ventiduesimo
‘considerando’ della direttiva 2000/78 contiene un’esclusione chiara e
generale e che esso fissa la sfera di applicazione di tale direttiva.
Quest’ultima non si applicherebbe alle disposizioni del diritto nazionale
relative allo stato civile né alle prestazioni che ne derivano, il che
varrebbe per la prestazione ai superstiti controversa nella causa principale. Risposta
della Corte 40 Dall’art. 3,
nn. 1, lett. c), e 3, della direttiva 2000/78 risulta che
quest’ultima si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico sia del
settore privato, compresi gli enti pubblici, per quanto concerne, in
particolare, le condizioni di retribuzione e che essa non si applica ai
pagamenti di qualsiasi genere effettuati dai regimi statali o da regimi
assimilabili, ivi inclusi i regimi statali di sicurezza sociale o di
protezione sociale. 41 La sfera di
applicazione della direttiva 2000/78 deve intendersi, alla luce di dette disposizioni
in combinato disposto con il tredicesimo ‘considerando’ della stessa
direttiva, nel senso che non si estende ai regimi di sicurezza sociale e di
protezione sociale le cui prestazioni non siano assimilate ad una
retribuzione, nell’accezione data a tale termine ai fini dell’applicazione
dell’art. 141 CE, e nemmeno ai pagamenti di qualsiasi genere,
effettuati dallo Stato allo scopo di dare accesso al lavoro o di
salvaguardare posti di lavoro. 42 Occorre pertanto
stabilire se una prestazione ai superstiti concessa in base a un regime
previdenziale di categoria come quello gestito dalla VddB possa essere
assimilata ad una «retribuzione» ai sensi dell’art. 141 CE. 43 Tale articolo
stabilisce che per retribuzione debbono intendersi il salario o trattamento
normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o
indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore
in ragione dell’impiego di quest’ultimo. 44 Come la Corte ha già
affermato (v. sentenze 6 ottobre 1993, causa C‑109/91, Ten Oever,
Racc. pag. I‑4879, punto 8, e 28 settembre 1994, causa C‑7/93,
Beune, Racc. pag. I‑4471, punto 21), la circostanza che
talune prestazioni siano corrisposte dopo la cessazione del rapporto di
lavoro non esclude che esse possano avere carattere di «retribuzione» ai
sensi dell’art. 141 CE. 45 La Corte ha così
riconosciuto che una pensione superstiti prevista da un regime pensionistico
di categoria, creata con contratto collettivo, rientra nella sfera di
applicazione di detto articolo. Essa ha precisato al riguardo che la
circostanza che la suddetta pensione, per definizione, sia corrisposta non al
lavoratore, ma al suo coniuge superstite, non è tale da infirmare questa
interpretazione, in quanto tale prestazione è un vantaggio che trae origine
dall’iscrizione al regime del coniuge del superstite, di modo che la pensione
spetta a quest’ultimo nell’ambito del rapporto di lavoro tra il datore di
lavoro e il suddetto coniuge e gli è corrisposta in conseguenza dell’attività
lavorativa svolta da questo (v. sentenze Ten Oever, cit., punti 12 e 13;
Coloroll Pension Trustees, cit., punto 18; 17 aprile 1997, causa C‑147/95,
Evrenopoulos, Racc. pag. I‑2057, punto 22, e 9 ottobre 2001,
causa C‑379/99, Menauer, Racc. pag. I‑7275, punto 18). 46 Peraltro, per
valutare se una pensione di vecchiaia, in base alla quale è calcolata se del
caso la prestazione ai superstiti come nella causa principale, rientri nella
sfera di applicazione dell’art. 141 CE, la Corte ha precisato che,
fra i criteri da essa adottati a seconda delle situazioni di cui è stata
investita per qualificare un regime pensionistico, soltanto il criterio
relativo alla constatazione che la pensione di vecchiaia è corrisposta al
lavoratore in ragione del rapporto di lavoro che lo lega al suo ex datore di
lavoro, vale a dire il criterio dell’impiego, desunto dalla lettera stessa
del detto articolo, può avere carattere determinante (v., in tal senso,
sentenze Beune, cit., punto 43; Evrenopoulos, cit., punto 19; 29 novembre
2001, causa C‑366/99, Griesmar, Racc. pag. I‑9383,
punto 28; 12 settembre 2002, causa C‑351/00, Niemi,
Racc. pag. I‑7007, punti 44 e 45, nonché 23 ottobre 2003,
cause riunite C‑4/02 e C‑5/02, Schönheit e Becker,
Racc. pag. I‑12575, punto 56). 47 È vero che a tale
criterio non si può attribuire carattere esclusivo, dato che le pensioni
corrisposte dai regimi legali previdenziali possono, in tutto o in parte,
tener conto della retribuzione dell’attività lavorativa (citate sentenze
Beune, punto 44; Evrenopoulos, punto 20; Griesmar, punto 29; Niemi, punto 46,
nonché Schönheit e Becker, punto 57). 48 Tuttavia, le
considerazioni di politica sociale, di organizzazione dello Stato, di etica,
o anche le preoccupazioni di bilancio che hanno avuto o hanno potuto avere un
ruolo nella determinazione di un regime da parte del legislatore nazionale,
non possono considerarsi prevalenti se la pensione interessa soltanto una
categoria particolare di lavoratori, se è direttamente proporzionale agli
anni di servizio prestati e se il suo importo è calcolato in base all’ultima
retribuzione (citate sentenze Beune, punto 45; Evrenopoulos, punto 21;
Griesmar, punto 30; Niemi, punto 47, nonché Schönheit e Becker, punto 58). 49 Per quanto attiene
al regime obbligatorio previdenziale di categoria gestito dalla VddB, si deve
rilevare, in primo luogo, che esso trova la sua fonte in un contratto
collettivo di lavoro, mirante, secondo gli elementi forniti dal giudice a
quo, a costituire un supplemento alle prestazioni previdenziali dovute in
forza della normativa nazionale di applicazione generale. 50 In secondo luogo, è
pacifico che il detto regime è finanziato esclusivamente dai lavoratori e dai
datori di lavoro del settore considerato, con esclusione di qualsiasi intervento
finanziario pubblico. 51 In terzo luogo, dal
fascicolo risulta che lo stesso regime è destinato, ai sensi dell’art. 1
del contratto collettivo, al personale artistico occupato in uno dei teatri
eserciti in Germania. 52 Come l’avvocato generale
ha rilevato al paragrafo 70 delle sue conclusioni, perché il diritto alla
prestazione ai superstiti sia riconosciuto, si richiede che il coniuge del
beneficiario di tale prestazione sia stato iscritto alla VddB prima del suo
decesso. Tale iscrizione concerne obbligatoriamente il personale artistico
dipendente dai teatri tedeschi. Essa riguarda anche un certo numero di
persone che decidono di iscriversi volontariamente al VddB, iscrizione
possibile qualora le persone di cui trattasi possano provare di essere state
in precedenza, per un certo numero di mesi, dipendenti da un teatro tedesco. 53 I detti iscritti a
titolo obbligatorio e a titolo volontario formano quindi una categoria
particolare di lavoratori. 54 Peraltro, quanto al
criterio secondo il quale la pensione deve essere direttamente proporzionale
agli anni di servizio prestati, occorre rilevare che, ai sensi
dell’art. 30, n. 5, dello statuto della VddB, l’importo della
pensione di vecchiaia sulla base della quale è calcolata la prestazione ai
superstiti è determinato in relazione alla durata dell’iscrizione del
lavoratore, soluzione questa che è una logica conseguenza della struttura del
regime previdenziale di categoria di cui trattasi che comprende due tipi di
iscrizione, come è stato sottolineato ai punti 52 e 53 della presente
sentenza. 55 Per quanto concerne
del pari l’importo della stessa pensione di vecchiaia, esso non è fissato
dalla legge, ma, in applicazione dell’art. 30, n. 5, dello statuto
della VddB, è calcolato sulla base dell’importo di tutti i contributi versati
durante tutto il periodo di iscrizione dal lavoratore e ai quali si applica
un fattore di rivalutazione. 56 Ne consegue –
come l’avvocato generale ha rilevato al paragrafo 72 delle sue conclusioni
– che la prestazione ai superstiti controversa nella causa principale
dipende dal rapporto di lavoro del partner di unione solidale del
sig. Maruko e che essa, di conseguenza, deve essere qualificata come
«retribuzione» ai sensi dell’art. 141 CE. 57 Tale conclusione non
è rimessa in discussione dalla qualità di ente pubblico della VddB (v., in
tal senso, sentenza Evrenopoulos, cit., punti 16 e 23), né dal carattere
obbligatorio dell’iscrizione al regime che dà diritto alla prestazione ai
superstiti controversa nella causa principale (v., in tal senso, sentenza 25
maggio 2000, causa C‑50/99, Podesta, Racc. pag. I‑4039,
punto 32). 58 Per quanto concerne
la portata del ventiduesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/78, in esso
si afferma che la detta direttiva lascia impregiudicate le legislazioni
nazionali in materia di stato civile e le prestazioni che ne derivano. 59 È vero che lo stato
civile e le prestazioni che ne derivano costituiscono materie che rientrano
nella competenza degli Stati membri e il diritto comunitario non pregiudica
tale competenza. Tuttavia, occorre ricordare che gli Stati membri,
nell’esercizio di detta competenza, devono rispettare il diritto comunitario,
in particolare le disposizioni relative al principio di non discriminazione
(v., per analogia, sentenze 16 maggio 2006, causa C‑372/04, Watts,
Racc. pag. I‑4325, punto 92, e 19 aprile 2007, causa C‑444/05,
Stamatelaki, Racc. pag. I‑3185, punto 23). 60 Poiché una
prestazione ai superstiti come quella controversa nella causa principale è
stata qualificata come «retribuzione» ai sensi dell’art. 141 CE e
rientra nella sfera di applicazione della direttiva 2000/78, per i motivi
esposti ai punti 49‑57 della presente sentenza il ventiduesimo
‘considerando’ della direttiva 2000/78 non può essere tale da rimettere in
discussione l’applicazione di detta direttiva. 61 Di conseguenza, la
prima, la seconda e la quarta questione devono essere risolte nel senso che
una prestazione ai superstiti concessa nell’ambito di un regime previdenziale
di categoria come quello gestito dalla VddB rientra nella sfera
d’applicazione della direttiva 2000/78. Sulla
terza questione 62 Con la terza
questione, il giudice a quo chiede se il combinato disposto degli
artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78 osti ad una normativa come quella
controversa nella causa principale in base alla quale, dopo il decesso del
suo partner di unione solidale, il partner superstite non percepisce una
prestazione ai superstiti equivalente a quella concessa ad un coniuge
superstite, mentre, al pari dei coniugi, i partner di unione solidale sono
vissuti in seno ad una comunione fondata sull’assistenza e sull’aiuto
reciproco, formalmente costituita per tutta la durata della vita. Osservazioni
presentate alla Corte 63 Il sig. Maruko
e la Commissione sostengono che il diniego di concedere la prestazione ai
superstiti controversa nella causa principale ai partner di unione solidale
superstiti costituisce una discriminazione indiretta ai sensi della direttiva
2000/78, in quanto due persone dello stesso sesso non possono contrarre
matrimonio in Germania e, pertanto, non possono beneficiare di detta
prestazione il cui beneficio è riservato ai coniugi superstiti. A loro
avviso, i coniugi e i partner di unione solidale si trovano in una situazione
di diritto analoga che giustifica la concessione della detta prestazione ai
partner superstiti. 64 Secondo la VddB, non
vi è alcun obbligo di carattere costituzionale di trattare in modo identico,
dal punto di vista del diritto del lavoro o della previdenza sociale, il
matrimonio e l’unione solidale. Quest’ultima costituirebbe un istituto sui
generis e un nuovo stato delle persone. Non sarebbe possibile dedurre dalla
normativa tedesca un qualsivoglia obbligo di parità di trattamento dei
partner di unione solidale e dei coniugi. Risposta
della Corte 65 Ai sensi del suo
art. 1, la direttiva 2000/78 mira a contrastare, per quanto concerne
l’occupazione e le condizioni di lavoro, alcuni tipi di discriminazioni, tra
le quali figura quella fondata sull’orientamento sessuale, al fine di rendere
effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento. 66 Ai termini
dell’art. 2 della detta direttiva, si intende per «principio della
parità di trattamento» l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o
indiretta basata su uno dei motivi di cui all’art. 1 della stessa
direttiva. Ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della
direttiva 2000/78 sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi
dei motivi di cui all’art. 1 di tale direttiva, una persona è trattata
meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in
una situazione analoga. Il n. 2, lett. b), sub i), dello stesso
art. 2 dispone che sussiste discriminazione indiretta quando una
disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere
in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una
determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di
un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una
particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che tale
disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati
da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano
appropriati e necessari. 67 Dalle informazioni
contenute nella decisione di rinvio risulta che, a partire dal 2001, anno di
entrata in vigore del LPartG, nella sua versione iniziale, la Repubblica
federale di Germania ha adeguato il suo ordinamento giuridico per consentire
alle persone dello stesso sesso di vivere in seno ad una comunione fondata
sull’assistenza e sull’aiuto reciproco, formalmente costituita per tutta la
durata della vita. Avendo scelto di non consentire a tali persone il
matrimonio, che è rimasto riservato alle sole persone di sesso diverso, il
detto Stato membro ha istituito per le persone dello stesso sesso un regime
distinto, l’unione solidale, le cui condizioni sono state progressivamente
equiparate a quelle applicabili al matrimonio. 68 Il giudice a quo
rileva al riguardo che la legge 15 dicembre 2004 ha contribuito al
ravvicinamento progressivo del regime istituito per l’unione solidale a
quello applicabile al matrimonio. Con questa legge il legislatore tedesco ha
apportato modifiche al libro VI del codice della previdenza sociale –
Regime legale di assicurazione vecchiaia, aggiungendo in particolare un
paragrafo 4 all’art. 46 figurante nel detto libro, dal quale risulta che
l’unione solidale è equiparata al matrimonio per quanto concerne la pensione
di vedova o di vedovo di cui a tale disposizione. Modifiche analoghe sono
state apportate ad altre disposizioni dello stesso libro VI. 69 Il giudice a quo
ritiene che, tenuto conto di tale ravvicinamento tra matrimonio e unione
solidale, che esso considera come un’equiparazione progressiva e che risulta,
a suo avviso, dal regime stabilito dal LPartG, in particolare dalle modifiche
intervenute con la legge 15 dicembre 2004, l’unione solidale, senza essere
identica al matrimonio, ponga le persone dello stesso sesso in una posizione
analoga a quella dei coniugi per quanto concerne la prestazione ai superstiti
controversa nella causa principale. 70 Orbene, esso
constata che il beneficio di tale prestazione ai superstiti è limitato, in
base alle disposizioni dello statuto della VddB, ai soli coniugi superstiti
ed è negato ai partner di unione solidale superstiti. 71 In questo caso, tali
partner di unione solidale si vedono quindi trattati in modo meno favorevole
rispetto ai coniugi superstiti per quanto riguarda il beneficio della detta
prestazione ai superstiti. 72 Ammesso che il
giudice a quo decida che i coniugi superstiti e i partner di unione solidale
superstiti siano in una posizione analoga per quanto concerne questa stessa
prestazione ai superstiti, una normativa come quella controversa nella causa
principale deve di conseguenza essere considerata costitutiva di una
discriminazione diretta fondata sull’orientamento sessuale, ai sensi degli
artt. 1 e 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/78. 73 Da quanto precede
risulta che la terza questione dev’essere risolta nel senso che il combinato
disposto degli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78 osta ad una normativa
come quella controversa nella causa principale in base alla quale, dopo il
decesso del suo partner con il quale ha contratto un’unione solidale, il
partner superstite non percepisce una prestazione ai superstiti equivalente a
quella concessa ad un coniuge superstite, mentre, nel diritto nazionale,
l’unione solidale porrebbe le persone dello stesso sesso in una posizione
analoga a quella dei coniugi per quanto riguarda la detta prestazione ai
superstiti. È compito del giudice a quo verificare se il partner di unione
solidale superstite sia in una posizione analoga a quella di un coniuge
beneficiario della prestazione ai superstiti prevista dal regime
previdenziale di categoria gestito dalla VddB. Sulla
quinta questione 74 Con la quinta
questione il giudice a quo chiede, nel caso in cui la Corte dovesse
dichiarare che la direttiva 2000/78 osta ad una normativa come quella
controversa nella causa principale, se si debba limitare nel tempo il
beneficio della prestazione ai superstiti controversa nella causa principale
e in particolare ai periodi successivi al 17 maggio 1990 sulla base della
citata giurisprudenza Barber. Osservazioni
presentate alla Corte 75 La VddB osserva che
la causa che ha dato luogo alla citata sentenza Barber è diversa, in fatto e
in diritto, dalla causa principale e che non può darsi alla direttiva 2000/78
un effetto retroattivo decidendo l’applicazione di tale direttiva ad una data
anteriore alla data di scadenza del termine impartito agli Stati membri per
recepirla. 76 La Commissione
ritiene che la quinta questione non debba essere risolta. A suo parere, la
causa che ha dato luogo alla citata sentenza Barber è diversa, in fatto e in
diritto, dalla causa principale ed essa sottolinea che la direttiva 2000/78
non contiene alcuna disposizione di deroga al divieto di discriminazioni
fondate sull’orientamento sessuale. Essa precisa che, a differenza della
causa principale, l’attenzione era stata attirata, nella causa che ha dato
luogo alla citata sentenza Barber, sulle conseguenze finanziarie che avrebbe
potuto avere una nuova interpretazione dell’art. 141 CE. Essa
asserisce al riguardo che, poiché il LPartG è entrato in vigore soltanto il
1° agosto 2001 e il legislatore tedesco, a partire dal 1° gennaio 2005, ha
attuato in materia di regime previdenziale una parità di trattamento tra
unione solidale e matrimonio, la presa in considerazione di tale parità nei
regimi previdenziali di categoria non pone questi ultimi in difficoltà
finanziaria. Risposta
della Corte 77 Risulta dalla
giurisprudenza che la Corte può decidere, in via eccezionale e tenendo conto
dei gravi inconvenienti che la sua sentenza potrebbe provocare per il
passato, di limitare la possibilità degli interessati di avvalersi
dell’interpretazione di una disposizione fornita dalla Corte in via pregiudiziale.
Siffatta limitazione può essere ammessa solo dalla Corte nella sentenza
stessa che statuisce sull’interpretazione richiesta (v., in particolare,
sentenze Barber, cit., punto 41, e 6 marzo 2007, causa C‑292/04,
Meilicke e a., Racc. pag. I‑1835, punto 36). 78 Non risulta dal
fascicolo che l’equilibrio finanziario di un regime come quello gestito dalla
VddB rischi di essere retroattivamente perturbato dalla mancanza di
limitazione nel tempo degli effetti della presente sentenza. 79 Da quanto precede
discende che la quinta questione dev’essere risolta nel senso che non si
devono limitare nel tempo gli effetti della presente sentenza. Sulle
spese 80 Nei confronti delle
parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un
incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire
sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni
alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: 1) Una
prestazione ai superstiti concessa nell’ambito di un regime previdenziale di
categoria come quello gestito dalla Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen
rientra nella sfera di applicazione della direttiva del Consiglio 27 novembre
2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. 2) Il
combinato disposto degli artt. 1 e 2 della direttiva 2000/78 osta ad una
normativa come quella controversa nella causa principale in base alla quale,
dopo il decesso del partner con il quale ha contratto un’unione solidale, il
partner superstite non percepisce una prestazione ai superstiti equivalente a
quella concessa ad un coniuge superstite, mentre, nel diritto nazionale, l’unione
solidale porrebbe le persone dello stesso sesso in una posizione analoga a
quella dei coniugi per quanto riguarda la detta prestazione ai superstiti. È
compito del giudice a quo verificare se, nell’ambito di un’unione solidale,
il partner superstite sia in una posizione analoga a quella di un coniuge
beneficiario della prestazione ai superstiti prevista dal regime
previdenziale di categoria gestito dalla Versorgungsanstalt der deutschen
Bühnen. Firme |
AUTONOMIE LOCALI E INTERVENTI CONTRO LA
DISCRIMINAZIONE RAZZIALE
Il centro regionale e la rete regionale contro le
discriminazioni razziali nella Regione Emilia-Romagna.
Nell’ambito di quanto previsto dalla normativa vigente, la Regione
Emilia-Romagna ha deciso di avviare un Centro regionale sulle discriminazioni
che si occupi di consulenza e orientamento, di prevenzione delle potenziali
situazioni di disparità, di monitoraggio e di sostegno ai progetti e alle
azioni volte ad eliminare le situazioni di svantaggio ai danni in particolare
di persone straniere.
Il Centro regionale nasce da quanto disposto dall’art. 44 del T.U.
Immigrazione e successivamente recepito dall’art. 9 della L.r. 5/2004 “Norme
per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati. Modifiche alle
leggi regionali 21.02.2990, n. 14 e
12 marzo 2003, n. 2”; le sue funzioni sono state quindi precisate
all’art. 17 del Programma triennale 2006-2008 per l’integrazione dei cittadini
stranieri, approvato con deliberazione dell’Assemblea legislativa della Regione
Emilia-Romagna n. 45 del 7 febbraio 2006.
Il Protocollo regionale contro le discriminazioni.
L’avvio ufficiale delle azioni tese alla costituzione di un Centro
regionale contro le discriminazioni è stata la firma del Protocollo regionale
d’intesa in materia di iniziative contro la discriminazione avvenuta a Bologna
il 26 gennaio 2007. Il documento (sottoscritto tra Regione Emilia Romagna,
Dipartimento Diritti e Pari Opportunità – Presidenza del Consiglio dei
Ministri, rappresentanze regionali degli Enti locali, Organizzazioni datoriali
e Sindacali, terzo settore, Consulta regionale per l’integrazione sociale dei
cittadini stranieri, Difensore Civico e Consigliere di parità della Regione
Emilia Romagna, Ufficio scolastico regionale per l’Emilia Romagna) è il risultato
di una serie di incontri realizzati a partire da metà 2006 con i diversi
soggetti regionali attivi o comunque con un ruolo significativo nell’ambito
della lotta alle discriminazioni.
Il protocollo inoltre definisce competenze e ruoli dei diversi soggetti
coinvolti nel processo di costituzione del Centro regionale individuando nel
contempo azioni e fasi del progetto stesso.
Com’è organizzato il Centro regionale contro le discriminazioni: la
rete e i nodi territoriali.
Il Centro regionale contro le discriminazioni è stato concepito sotto
forma di sistema di rete territoriale caratterizzato da un nodo centrale (nodo
di raccordo), che è punto di riferimento per la zona sociale, e una serie di
nodi antenna, alcuni anche con funzioni di sportello per la raccolta e il
trattamento dei casi di discriminazione, altri con funzioni informative e di
orientamento. Sia i nodi di raccordo che le antenne non necessariamente debbono
essere creati ex novo ma, più opportunamente, possono coincidere con le
significative risorse ed esperienze già esistenti (ad esempio gli sportelli
informativi per stranieri o quelli sui diritti di patronati e organizzazioni
sindacali, le numerose associazioni, le consigliere di parità ecc)
valorizzandone ruolo e funzioni e fornendo a queste strutture, laddove
necessario, un supporto strumentale e formativo.
Il modello di centro regionale è basato quindi su valorizzazione e
potenziamento delle tante risorse già presenti, speso con forte radicamento
locale e che sono soprattutto un
punto di riferimento per i cittadini stranieri e non.
76 nodi e antenne: la rete regionale prende forma
Il 31 gennaio scorso è scaduto il primo termine per la presentazione
delle candidature da parte di soggetti pubblici e privati della regione
intenzionati a diventare punti di riferimento della rete regionale contro le
discriminazioni. A quella data sono pervenute 76 domande di cui 18 nodi di
raccordo, 19 antenne con funzioni di sportello e 39 antenne informative e di orientamento. Entro breve la
Regione dovrebbe riconoscere questi punti e poi partiranno i moduli formativi
di base per le persone che operano entro tali nodi e antenne. Una prossima
scadenza di un nuovo bando per nuovi nodi e antenne anti-discriminazione verrà
lanciata tra maggio e giugno di quest’anno.
Per informazioni sugli interventi della Regione Emilia-Romagna in
materia di contrasto alle discriminazioni razziali, si può consultare il sito
web:
http://www.emiliaromagnasociale.it/wcm/emiliaromagnasociale/home/antidiscriminazioni.htm
DOCUMENTI, RAPPORTI E RICERCHE
1.
OSCE- ODIHR Organizzazione per la Sicurezza e la
Cooperazione in Europa Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti
Umani, Countering Terrorism, Protecting Human Rights: A Manual, nov. 2007.
Il libro, edito dall’ufficio dell’OSCE, mira a sensibilizzare il personale politico sugli standard
internazionali dei diritti umani che debbono essere rispettati e protetti anche
nell’ambito degli sforzi e delle azioni volte a combattere il terrorismo e
l’estremismo.
Il libro fa riferimento
approfonditamente alla casistica della Corte Europea dei diritti
dell’Uomo e degli organi che fanno riferimento alle convenzioni delle Nazioni
Unite. Tra i temi specifici trattati,
l’applicazione extra-territoriale degli obblighi internazionali in
materia di diritti umani, il diritto alla vita, alla libertà, all’equo
procedimento giudiziario, alla privacy e alla libertà di espressione nel contesto
del contrasto al terrorismo internazionale. Oggetto di attenzione anche la
proibizione assoluta ai trattamenti inumani e degradanti e alla tortura, anche
con riferimento ai procedimenti di estradizione ed espulsione.
Il testo integrale della pubblicazione può essere scaricato dal
sito web: www.osce.org/odihr/item_11_28294.html
2.
ENAR
European Network against Racism, Policing and ethnic & Religious
minorities, ENARGY, January 2008.
Dopo l’11 settembre 2001 e
i successivi attentati
terroristici di Madrid e Londra, il rapporto tra attività di polizia e comunità
immigrate e minoranze etniche è divenuto una questione spinosa in molti Stati
dell’Unione Europea. In questo
contesto, l’ultima edizione della rivista on-line “ENARGY” si concentra sui
risultati e sulle raccomandazioni proposte da diverse ricerche e progetti
condotti da organizzazioni internazionali ed europee su argomenti quali la
condotta delle attività di polizia
di fronte a crimini a sfondo razziale, le condotte degli organi di
polizia ispirate a forme di “ethnic profiling” , in particolare nelle attività di contrasto a
forme e atti di terrorismo internazionale. Vengono analizzati casi nazionali,
quali quello tedesco e francese, il rapporto problematico tra polizia e
popolazioni Rom in Repubblica Ceca, le buone prassi in materia di prevenzione
del fenomeno dell’”ethnic profiling” in Europa, ed in particolare nel Regno Unito.
L’edizione della rivista “ENARGY” può essere scaricata dal sito
web:
http://www.enar-eu.org/Page_Generale.asp?DocID=15292&la=1&langue=EN
SITI INTERNET
Numero speciale della Newsletter
dell'Osservatorio sull'Immigrazione della regione Piemonte (aprile 2008 ) dedicato ai "ROM e
SINTI".
L'Osservatorio sull'Immigrazione in Piemonte e l'ASGI
hanno colto l'appello, espresso da più Enti e Associazioni, di creare un
archivio che raccolga il materiale esistente riguardo alle popolazioni rom e
sinti. Spesso abbiamo avuto modo di riscontrare che la cultura, le condizioni
di vita, i problemi giuridici dei rom e dei sinti sono conosciuti in modo
approssimativo, quando non del tutto sconosciuti o travisati in base a
pregiudizi e notizie fantasiose lette sui giornali. Riteniamo che solo una
informazione obbiettiva, eticamente corretta, che porti a una maggiore
conoscenza dell'insieme di norme, progetti, provvedimenti e iniziative
esistenti possa garantire lo sviluppo di buone prassi finalizzate al
miglioramento delle condizioni di vita dei rom e dei sinti. Il progetto è
ambizioso, in quanto vorrebbe raccogliere la normativa, locale, europea e
internazionale posta a tutela dei rom e dei sinti, i progetti a loro destinati,
i rapporti delle organizzazioni internazionali ed europee sul trattamento ad
essi riservato dagli Stati, le pubblicazioni in materia.
Per il momento siamo solo all'inizio del lavoro, ma
abbiamo ritenuto opportuno renderlo già visibile e consultabile perché crediamo
che solo grazie alle osservazioni e ai suggerimenti di chi è interessato
all'argomento, e grazie al contributo che queste persone vorranno fornire
all'iniziativa, sarà possibile ambire
a una maggiore completezza dell'archivio che stiamo costruendo.
Nell'ambito di questo progetto
l'Osservatorio ha creato sul proprio sito, accessibile dalla home page, una
sezione dedicata al tema che verrà costantemente aggiornata.
La Newsletter di questo mese assume la
veste di un numero speciale per dar spazio e risalto a questa nuova iniziativa.
Per consultare la nuova sezione - http://www.piemonteimmigrazione.it/romesinti.htm
[1] http://www.provincia.genova.it/portal/template/viewTemplate?templateId=9usjzn96d3_layout_0bqa9c96dm.psml
[2] Si vedano ad esempio le schede/annunci di offerta di lavoro per
le seguenti posizioni: a)
impiegato tecnico termomeccanico con funzioni di capo cantiere (numero
protocollo Ge-2008-9532); b) consulente assicurativo senior (n. Ge-2008-9575);
c) ingegnere meccanico/navale (Ge-2008-9411); d) operaio idraulico ambito
civile (n. Ge-2008-9480); e) cuoco (cod. istat 522105); f) operatore reparto
confezionamento detersivi (cod. istat: 812208).
[3] Ad ulteriore conferma della validità di quanto argomentato,
si possono citare esempi provenienti dalla vicina Francia, ove l’HALDE (Haute
Autorité de Lutte contre les discriminations et pour
l’Egalité),
l’Authority o Garante indipendente
francese contro le discriminazioni, ha avuto modo più volte di prendere posizione ufficiale contro casi di
discriminazione etnico-razziale nell’accesso all’impiego fondati sulla
richiesta del datore di lavoro del requisito della lingua materna
francese. Si veda a titolo di
esempio la deliberazione
dell’HALDE n. 31 del 12 febbraio 2007 originata da un reclamo di una cittadina
di nazionalità malgascia, respinta in una procedura di selezione per una
posizione lavorativa di “formatore di lingua francese quale lingua 2” per la
ragione che la lingua francese non era la sua lingua madre come invece
richiesto dal datore di lavoro: “Il criterio della lingua materna rinvia
alla lingua del paese di origine. Questa caratteristica lascia intendere che il
posto da coprire sia riservato a una certa categoria di candidati, in ragione
della loro origine nazionale, escludendo i candidati che hanno acquisito una
competenza linguistica equivalente in altro modo. Tale pratica costituisce una
forma di discriminazione vietata” (par. 13)[…] “L’Alta Autorità ha già avuto modo di
adottare due delibere (n. 2006-252 e 2006-253 del 27 novembre 2006) di
principio, in base alle quali ha raccomandato l’abbandono della menzione
relativa alla ‘lingua materna’ nelle offerte di impiego e la sua sostituzione
con l’esigenza non equivoca della competenza linguistica” (par. 15). “Alla luce di
tale giurisprudenza, e degli elementi raccolti, il collegio raccomanda al
direttore dell’istituto di formazione di abbandonare il requisito della ‘lingua
materna’ sostituendolo con criteri di natura obiettiva quali la ‘conoscenza
approfondita’, che diano la possibilità di tenere conto, come criteri
preferenziali, quando il livello della lingua è un requisito determinante
nell’impiego da coprire, altri elementi quali il soggiorno, gli studi nel
paese ove la lingua è parlata, l’esigenza di un accento neutro, a condizione
che queste esigenze siano obiettivamente giustificate e proporzionate in
relazione all’obiettivo perseguito” (par. 16; sottolineatura nostra),
altrimenti lo stesso requisito della conoscenza “avanzata” o “approfondita”
della lingua, pur neutro rispetto a quello della ‘lingua materna’ finirebbe
comunque per costituire un
pretesto discriminatorio di natura indiretta. I testi in lingua originale delle delibere dell’HALDE
sono disponibili sul sito: www.halde.fr
[4] Corte Cost. , sentenza n.
454, dd. 30.12.1998.
[5] A tale riguardo, utile il
richiamo alle recenti conclusioni adottate il 12 marzo scorso dall’Avvocato
generale della Corte di Giustizia Europea, in risposta alla domanda di
decisione pregiudiziale proposta da un Tribunale belga (Causa C-54/07). Secondo
l’Avvocato generale della Corte di Giustizia Europea, la dichiarazione resa
pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una campagna di assunzione,
secondo cui non saranno accettate le candidature di persone di una determinata
origine etnica, costituisce una discriminazione diretta vietata ai sensi
dell’art. 2, n. 2 lett. a) della direttiva europea n. 2000/43/CE. Secondo
l’Avvocato generale, infatti, una dichiarazione pubblica a carattere
discriminatorio in materia di selezione di candidati ad un posti di
lavoro, ha un effetto
discriminatorio non solo potenziale ed
ipotetico, bensì reale ed effettivo, perché finisce per scoraggiare, demoralizzare ed umiliare le
persone aventi l’origine etnica presa di mira, spingendole dunque a non
presentarsi per la selezione. A nulla valgono, sempre secondo l’Avvocato
generale della corte europea, le
giustificazioni avanzate dal titolare dell’impresa, secondo cui i clienti
sarebbero maldisposti nei confronti dei lavoratori marocchini, per cui la loro
assunzione danneggerebbe gli interessi “di mercato”; Secondo l’Avvocato
generale, tali giustificazioni
dimostrerebbero soltanto la legittimità della normativa comunitaria
volta a contrastare un fenomeno,
quello delle discriminazioni, che l’economia di mercato di per sé soltanto non
solo non riesce a risolvere, ma può anche
alimentare. Inoltre la normativa comunitaria anti-discriminazione è
volta così a impedire quelle
distorsioni nella libera
concorrenza che altrimenti si verificherebbero a danno dei soggetti
economici che, non attuando discriminazioni nelle politiche di assunzione, si
vedrebbero maggiormente danneggiati nelle strategie di mercato in ragione della
diffusione di stereotipi e pregiudizi etnici tra la popolazione. Per una più
accurata analisi delle conclusioni dell’organo di giustizia europeo, si rimanda
al prosieguo della presente newsletter (sezione giurisprudenza comunitaria).
[6] A tale riguardo, si
sottolinea come i servizi privati di mediazione tra domanda ed offerta di
lavoro (agenzie interinali e o di somministrazione di lavoro) sono tenuti
esplicitamente al rispetto del principio di parità di trattamento e al divieto
di ogni pratica discriminatoria basata sul sesso, le condizioni familiari, sulla
razza, sulla cittadinanza, sull’origine territoriale, sull’opinione o
affiliazione politica, religiosa o sindacale dei lavoratori (art. 10 D.lgs.
23.12.1997 n. 469). Ciò vale anche maggiormente per i servizi pubblici di
intermediazione ed incontro tra domanda e offerta di lavoro, quali i centri
provinciali per l’impiego, in virtù dei principi costituzionali di imparzialità
e buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost).