LAVORO (RAPPORTO)
Cass. civ. Sez. lavoro, 22-06-1998, n. 6199

 

Svolgimento del processo

 

... (Omissis)

Con ricorso al pretore di Firenze Marasigan Francisca, collaboratrice domestica a tempo pieno alle dipendenze di Vivoli Luciano e da costui licenziata con effetto alla data di inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità, conveniva in giudizio il Vivoli chiedendo che fosse dichiarato nullo il licenziamento, previa rimessione degli atti alla Corte Costituzionale per la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 1, terzo comma, della legge n. 1204 del 1971, in riferimento agli artt. 3, 4, 31, 35 e 37 della Costituzione, nella parte in cui, diversamente che per altre lavoratrici madri, consente il licenziamento delle collaboratrici familiari.

Il pretore, ritenuta manifestamente infondata la eccezione di illegittimità costituzionale, rigettava la domanda con sentenza del 29 settembre 1992, appellata dalla Marasigan, che riproponeva la questione della minor tutela della maternità delle lavoratrici domestiche, e, in via incidentale, dal Vivoli in ordine alla compensazione delle spese del giudizio.

Il Tribunale, rimessi gli atti alla Corte Costituzionale - la quale, con sentenza n. 86 del 1994, dichiarava non estensibile alle lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari il divieto di licenziamento di cui all'art. 2 della legge n. 1204 del 1971 - decideva la causa con sentenza 19 luglio 1995, dichiarando nullo il licenziamento intimato dal Vivoli allo scopo di sottrarsi all'obbligo di conservazione del posto durante il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità previsto (anche per le collaboratrici domestiche) dall'art. 3 della Convenzione n. 103 dell'OIL (recepita in Italia con legge n. 864 del 1970) che ne fissava la durata in un nucleo inderogabile di almeno 12 settimane delle quali almeno sei dopo il parto; come effetto della dichiarata nullità del recesso e della conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro, condannava il Vivoli a corrispondere alla Marasigan tutte le retribuzioni maturate fino alla rioccupazione della lavoratrice, per un totale di L. 16.800.000 (pari a quattordici mensilità).

Di questa sentenza il Vivoli chiede la cassazione con ricorso fondato su sei motivi di annullamento ai quali resiste la Marasigan con controricorso.

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 1 della legge n. 1204 del 1971 sostenendo che il licenziamento era legittimo perché la norma dell'art. 1, terzo comma, della legge n. 1204 del 1971, esclude espressamente l'applicabilità alle collaboratrici familiari dell'art. 2 della stessa legge, che fa divieto di licenziare le lavoratrici in gravidanza e fino al compimento del primo anno di età del bambino. Rileva altresì che la legge n. 864 del 1970, di recepimento della Convenzione n. 103 dell'Oil, sarebbe stata abrogata dalla legge n. 1204 del 1971, atteso che l'art. 33 di tale legge dispone espressamente l'abrogazione della legge n. 860 del 1950 sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri e delle successive modificazioni, che sarebbero costituite appunto dalla legge n. 864 del 1970.

Nel secondo motivo di ricorso, con deduzione del vizio di insufficiente motivazione lamenta che il Tribunale, dopo aver erroneamente ritenuto vigente e direttamente applicabile la norma della Convenzione n. 103 dell'OIL, abbia affermato la non necessità di ricorrere all'art. 2110 cod. civ. per fondarvi il diritto della lavoratrice alla conservazione del posto, senza dare alcuna giustificazione della mancata utilizzazione di questa norma.

Secondo il ricorrente l'art. 2110 cod. civ. non sarebbe applicabile al rapporto di lavoro domestico e, in particolare, a quello a tempo pieno regolato dall'art. 2242 cod. civ. - il quale prevede il diritto della lavoratrice ammessa alla convivenza familiare alla cura e all'assistenza medica solo per le infermità di breve durata - a causa della esplicita esclusione di tale rapporto dalle regole proprie del lavoro nella impresa disposta dall'art. 2239 cod. civ.

Con il terzo motivo, nel quale deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2110 cod. civ., il ricorrente osserva che, ove il licenziamento sia stato ritenuto illegittimo sulla base delle regole contenute in questa norma, esso sarebbe semplicemente inefficace e non nullo come erroneamente ritenuto dal Tribunale, il quale neppure avrebbe potuto determinare in via equitativa la durata del periodo di obbligatoria conservazione del posto di lavoro (comporto) ai sensi del secondo comma della disposizione anzidetta, poiché l'art. 19 del Contratto collettivo per i lavoratori domestici - non direttamente applicabile tra le parti ma da utilizzare come necessario parametro di riferimento del giudizio di equità - subordina la decorrenza del comporto per maternità alla produzione di un certificato medico che, nel caso concreto, la lavoratrice non aveva presentato: in ogni caso, poiché per la disciplina collettiva il periodo di comporto decorre "dalla data del certificato medico fino al momento dell'astensione obbligatoria dal lavoro", la Marasigan era stata legittimamente licenziata poiché l'efficacia del recesso fu fatta coincidere dal datore di lavoro con la data di inizio del periodo di astensione obbligatoria.

Con il quarto motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 6 della Convenzione Oil n. 103 recepita con legge n. 864 del 1970 (I profilo), affermando che anche l'art. 3 della Convenzione subordina il diritto della lavoratrice domestica di ottenere un congedo per maternità alla preventiva presentazione di un certificato medico, sicché l'intimato licenziamento sarebbe legittimo pure nel caso in cui la Convenzione fosse applicabile.

Nel quinto motivo sostiene ancora la violazione e falsa applicazione dell'art. 6 della Convenzione Oil (II profilo) perché il giudice d'Appello avrebbe potuto legittimamente riconoscere alla lavoratrice le sole retribuzioni afferenti al periodo di astensione obbligatoria dal lavoro (5 mesi) previsti dalla legislazione interna di tutela della maternità cui rinvia la Convenzione e non invece le 14 mensilità in concreto attribuite.

Con il sesto motivo, denunciando sempre la violazione e falsa applicazione dello stesso art. 6 (III profilo), si duole il ricorrente che il Tribunale abbia dichiarato nullo il licenziamento, mentre la Convenzione sanzionerebbe di illegalità il recesso datoriale nel solo caso in cui il preavviso scada nel periodo di comporto, ritenendo valido, viceversa, il licenziamento con efficacia differita comunicato alla lavoratrice in gravidanza.

Il ricorso, da esaminare nell'insieme dei suoi motivi, tra loro logicamente connessi, non è fondato ancorché la motivazione della sentenza di merito, il cui dispositivo è conforme a diritto, debba essere in qualche punto corretta e integrata (art. 384 c.p.c., secondo comma).

Il rapporto di lavoro domestico è oggetto di una speciale disciplina contenuta nelle norme del codice civile (artt. 2240-2246 cod. civ.) e nella legge 2 aprile 1958 n. 339.

La specialità di questa disciplina, misurata sulle peculiari caratteristiche della prestazione lavorativa - l'essere destinata a soddisfare le esigenze domestiche del datore di lavoro e della sua famiglia - non vale ad escludere in modo assoluto ed aprioristico l'applicabilità al rapporto di tutta la normativa dettata per il lavoro nella impresa, in particolare quella sulla tutela della maternità contenuta nella regola generale di protezione di cui all'art. 2110 cod. civ.

La sospensione dell'obbligo della prestazione del lavoro e il diritto alla conservazione del posto che la norma garantisce per un certo periodo, in relazione a particolari eventi, tra i quali appunto la maternità, è, infatti, tutela di interessi poziori, che hanno trovato riconoscimento e valorizzazione anche sul piano costituzionale e internazionale come immediatamente e direttamente riconducibili alla posizione di lavoratore subordinato delineata nell'art. 2094 cod. civ., norma da leggere nella sua capacità di descrivere e regolare, al di là dei limiti del lavoro nell'impresa, qualsiasi "tipo" di rapporto - speciale o ordinario - di lavoro dipendente e di configurarsi, per ciò stesso, come "contenitore" comprensivo di tutte le forme di lavoro etero diretto, siano esse forme "comuni" o "speciali", siano esse realizzate nel modulo del lavoro nell'impresa ovvero nel modulo del lavoro in favore di datore non imprenditore.

Ma il riferimento alla disciplina generale dell'art. 2110 cod. civ., come idonea a colmare le lacune di quella propria del rapporto di lavoro domestico, è attuabile anche attraverso il criterio di compatibilità previsto dall'art. 2239 cod. civ., norma quest'ultima che, significativamente, si colloca come "disposizione generale" nello stesso titolo IV del codice civile nel quale si colloca la regolamentazione di particolari rapporti di lavoro subordinato, tra cui il lavoro domestico, senza che la specifica disciplina ne escluda espressamente la operatività.

La piena utilizzabilità di tale criterio, già esplicitamente affermata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 135 del 1969, è stata, ancora una volta, richiamata nella sentenza n. 86 del 1994 (pronunciata proprio in relazione alle questioni di legittimità costituzionale sollevate nella presente controversia) e nella successiva sentenza n. 193 del 1995, nelle quali, riaffermando il carattere espansivo della tutela apprestata dall'art. 2110 cod. civ., il giudice delle leggi sottolinea come una valutazione tipica della disciplina codicistica che - in deroga al criterio selettivo in generale affidato al giudice per i rapporti di lavoro speciali dall'art. 2239 cod. civ. - escluda a priori l'applicabilità al lavoro domestico di tutte le norme dettate per il lavoro nell'impresa, e quindi anche la tutela della maternità prevista dall'art. 2110, non sia più sostenibile nel nuovo ordinamento costituzionale, rispetto a valori preminenti come quelli garantiti dagli artt. 31 e 37 della Costituzione, e contrasti, inoltre, con gli impegni internazionali assunti dall'Italia attraverso la Convenzione n. 103 dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), ratificata, senza alcuna riserva, con legge 19 ottobre 1970 n. 864 e la Carta sociale europea, ratificata con legge 3 luglio 1965 n. 929, le quali prevedono senza eccezioni - e anzi la prima con esplicito riferimento al "lavoro domestico salariato effettuato in case private" (art. 1, terzo comma, lett. h) - un congedo obbligatorio della lavoratrice di almeno dodici settimane (di cui non meno di sei dopo il parto) correlato con il divieto di licenziamento durante tale periodo e anche anteriormente se il preavviso venga a scadere nel corso di esso.

Nel sistema così delineato, l'argomento della specialità del rapporto resiste soltanto alla possibilità di estensione alle collaboratrici familiari delle regole di una disciplina - a sua volta non generalizzabile perché sottintende una organizzazione del lavoro capace di consentire l'allontanamento e la sostituzione per lunghi periodi della lavoratrice in gravidanza e in puerperio - qual è quella contenuta nella legge 30 dicembre 1971 n. 1204 (tutela delle lavoratrici madri) e, in particolare, del divieto di licenziamento che questa legge considera operante, col solo temperamento della giusta causa (art. 2) dall'inizio della gestazione fino al compimento del primo anno di età del bambino.

È evidente, infatti, che, nel rapporto di lavoro domestico, l'imposizione al datore di lavoro dell'obbligo di non recedere prolungato per ventuno mesi (pari a circa ottantaquattro settimane) accompagnato, nel caso in cui si tratti di una lavoratrice a tempo pieno (come nella controversia in oggetto), dalla mancanza di una norma che qualifichi, giustificandola, l'assenza dal luogo di lavoro con sospensione del titolo di ammissione alla convivenza familiare, costituirebbe un vincolo eccessivamente gravoso per una struttura familiare, anche per la coabitazione forzosa con soggetti terzi (madre e bambino) che necessariamente determinerebbe per un periodo di quasi due anni.

Per tali ragioni deve ritenersi esclusa la possibilità di un implicito richiamo (anche) del divieto di licenziamento nella norma di rinvio - costituita dall'art. 1, terzo comma, della stessa legge - la quale espressamente dichiara applicabili alle lavoratrici domestiche alcune sue disposizioni di tutela, come il divieto, stabilito nell'art. 4, di adibire le donne al lavoro nei due mesi precedenti e nei tre mesi che seguono la data del parto.

Da ciò consegue che la determinazione del periodo nel quale il datore di lavoro deve considerarsi privo del potere di recesso, va direttamente effettuata con gli strumenti offerti dal modello protettivo dell'art. 2110, norma che realizza l'obiettivo che le è proprio - il "contemperamento di interessi" tra le opposte spinte a trasferire il rischio degli eventi protetti sulla controparte del rapporto - mediante il rinvio a specifiche fonti integrative, incaricate di concretizzare il "valore" perseguito. E, non potendo queste fonti di attuazione rinvenirsi, per quanto si è detto, nella legislazione interna di tutela delle lavoratrici madri e neppure nelle ricordate convenzioni internazionali - non direttamente operanti nei rapporti interni per il rinvio, nelle stesse contenuto, a interventi complementari del legislatore nazionale - il criterio cui ricorrere, ove non trovi applicazione tra le parti il Contratto collettivo di categoria e in mancanza di usi normativi rilevanti in questa particolare materia, rimane quello dell'equità integrativa, idonea a direttamente incidere sul contenuto del vincolo obbligatorio di volta in volta sottoposto a valutazione del giudice.

Sarà il giudice quindi a determinare equitativamente le modalità temporali del divieto di licenziamento della lavoratrice domestica in maternità e a definire i diritti e gli obblighi delle parti durante il periodo in cui tale divieto sia ritenuto operante, modulandoli secondo la varia tipologia del rapporto.

Legittimo parametro di riferimento del giudizio equitativo, per la sua coerenza con le norme della legge n. 1204 del 1971 applicabili (anche) alle lavoratrici domestiche, può essere il periodo (due mesi prima del parto e tre mesi successivi) in cui è vietato adibire al lavoro tutte le lavoratrici dipendenti, alle quali, per tutto questo periodo, è, altresì, riconosciuta (art. 13) una indennità giornaliera adeguata alla retribuzione che, nel caso della collaboratrici familiari, viene direttamente corrisposta dall'Inps.

Si tratta, invero, di un periodo che ha durata di gran lunga inferiore (cinque mesi) rispetto a quello (di ventuno mesi) stabilito in via generale dalla legge e che, proprio per la sua ristretta durata, è certamente compatibile con gli interessi di una famiglia media, consentendo al tempo stesso di garantire un trattamento protettivo non differenziato alle lavoratrici madri che prestino, in tale famiglia, attività di collaborazione domestica.

In questa prospettiva, la sentenza d'appello non e suscettibile delle censure espresse dal ricorrente (in particolare nel primo, secondo e terzo motivo) considerando che il Tribunale ha utilizzato, in luogo di quello appena descritto, il parametro offerto dalla normativa della Convenzione n. 103 dell'OIL che stabilisce la durata dell'astensione obbligatoria dal lavoro con divieto di licenziamento in un periodo ancora più limitato (soltanto dodici settimane di cui almeno sei successive al parto).

Riguardo poi alla questione (prospettata nel quarto motivo) secondo cui nel caso concreto sarebbe mancato - il presupposto costitutivo della decorrenza del divieto di licenziamento - rappresentato, secondo il ricorrente, dalla presentazione di un certificato medico attestante la data presunta del parto, - osserva la Corte che dalla norma generale dell'art. 2110 cod. civ. non è ricavabile alcun onere di preventiva comunicazione e certificazione che subordini al suo adempimento la operatività della tutela apprestata. Quanto alla previsione dell'invio di una simile certificazione contenuta nell'art. 3, primo comma, della Convenzione n. 103 dell'OIL, cui la Corte Costituzionale (nella sentenza n. 193 del 1995) ha attribuito valore di criterio di interpretazione dell'art. 2110 cod. civ., è da osservare che, per lo stesso significato della parola, al "certificato" non può essere riconosciuto altro valore se non quello di mero strumento di rilevazione e di verifica della sussistenza del requisito (la prossimità del parto) richiesto per beneficiare dell'astensione dal lavoro e del correlato divieto di licenziamento: per la qual cosa il mancato invio di adeguata certificazione può trovare equipollente nella conoscenza che il datore di lavoro abbia altrimenti avuto dell'evento prima del recesso, sempre che essa venga dedotta e dimostrata, anche attraverso presunzioni (quale può essere 1o stato obiettivo di avanzata gravidanza).

Nessuna censura può dunque muoversi anche su questo punto alla sentenza di merito che ha escluso una rilevanza "costitutiva" del certificato di gravidanza e ha ritenuto implicita la conoscenza della prossimità del parto nel fatto stesso che il datore di lavoro aveva disposto il licenziamento con effetto dalla data di inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro (ai sensi dell'art. 4 della legge n. 1204 del 1971) della propria collaboratrice domestica.

Resta da esaminare il problema (su cui si appuntano, in particolare, le censure del quinto e sesto motivo) degli effetti di un licenziamento della lavoratrice domestica che sia stato irrogato (o sia destinato a produrre effetto) nel periodo, individuato con determinazione equitativa dal giudice, in cui il datore di lavoro è da considerare privo del potere di recesso.

Anche in questo caso devono condividersi le conclusioni della sentenza impugnata che ha ritenuto nullo - e non (solo) temporaneamente inefficace - il licenziamento.

In proposito vanno richiamate le considerazioni (condivise anche dalla sentenza di questa Corte n. 9549 del 1995) che la Corte Costituzionale ha svolto nella decisione n. 61 del 1991 nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art. 2 della legge n. 1204 del 1971 nella parte in cui sanziona con la temporanea inefficacia, anziché con la nullità, il licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel periodo di gestazione e puerperio indicato nel predetto articolo.

Benché, infatti, riferite a quella specifica norma, le argomentazioni utilizzate dal giudice delle leggi, per i valori fondamentali che esprimono, valgono per i licenziamenti comunque disposti in violazione di norme inderogabili di protezione della maternità, tra le quali va certamente annoverata quella dell'art. 2110 cod. civ.

Secondo la Corte, "un divieto che comporti un mero differimento dell'efficacia del licenziamento anziché la nullità radicale di esso rappresenta... una misura di tutela insufficiente rispetto alla direttiva dell'art. 37 della Costituzione". Poiché la protezione cui fa riferimento tale norma "non si limita alla salute fisica della donna e del bambino, ma investe tutto il complesso rapporto che si svolge tra madre e figlio" nel periodo di gestazione e nei primi mesi di vita del bambino, anche per ciò che attiene "alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della sua personalità".

La conclusione - coerente con il riconoscimento della necessità di dare tutela a queste esigenze (riaffermate come valore essenziale per l'ordinamento anche dalla successiva sentenza n. 193 del 1995) facendo in modo che il divieto di recesso "sia assistito da quelle misure idonee ad impedire che l'atto vietato sia ugualmente compiuto e sia ugualmente conveniente per chi lo compie" - è quella di sanzionare sul piano civile il licenziamento vietato e ugualmente disposto con una misura tale che "l'ordinamento giuridico, di cui esso costituisce una violazione, non lo recepisca e cioè lo consideri totalmente improduttivo di effetti".

Con piena adesione a questi principi il Tribunale ha ritenuto l'atto di recesso inidoneo ad incidere sulla persistenza del rapporto di lavoro e ha fatto conseguire alla rilevata attualità del medesimo (ex art. 1418 cod. civ.) il riconoscimento del diritto della lavoratrice non reintegrata alla corresponsione di tutte le retribuzioni maturate fino alla sua rioccupazione (in totale quattordici mensilità).

Anche sotto questo particolare profilo nessuna censura può dunque muoversi alla decisione di merito e il ricorso va, di conseguenza, rigettato.

La novità della questione giustifica (art. 92, 2 comma, c.p.c.) la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso il 3 febbraio 1998.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 22 GIUGNO 1998.