Il vincolo interno

Immigrazione e relazioni esterne

 

 

 

Ferruccio Pastore (CeSPI)

 

(Dicembre 2007)

 

Saggio per Rapporto 2008 CeSPI-Gramsci sullĠintegrazione europea

 

 

 

 

 

 

 

 

Il modello sociale ed economico europeo si regge, da almeno un trentennio e in misura crescente, su un paradosso che potrebbe diventare lacerante: abbiamo bisogno di importare lavoratori, ma non vogliamo immigrati. Uno dei primi a cogliere la contraddizione, con unĠincisivitˆ che ha reso il suo aforisma proverbiale, fu lo scrittore svizzero Max Frisch, parlando peraltro di noi italiani: ÇAbbiamo chiesto forza-lavoro, sono venute delle persone. Ma non divorano il nostro benessere, anzi sono indispensabili per conservarloÈ.

 

Molti altri hanno sottolineato il paradosso di questa immigrazione Çvoluta, ma non desiderataÈ, talvolta evidenziando la natura grottesca e meschina dellĠatteggiamento sottostante. Eppure, ci sembra che si sia riflettuto troppo poco sulle implicazioni di tale atteggiamento contraddittorio e ondivago, che le rilevazioni esistenti sembrano indicare come particolarmente radicato nelle opinioni pubbliche europee, ha per le politiche migratorie. Queste ultime, infatti, in Europa forse pi che altrove, si configurano da decenni essenzialmente come un esercizio di mediazione fra due facce difficili da conciliare dellĠinteresse nazionale definito from below: necessitˆ economica e ostilitˆ socio-culturale, fabbisogni e paure.

Sebbene le sue due determinanti fondamentali siano di natura interna, la politica migratoria non  oggi, nŽ a ben vedere  mai stata, solo una politica interna. Anche quando, come fino a non molti anni fa, le sue leve erano concentrate quasi esclusivamente in mano ai ministeri responsabili degli affari interni dei paesi riceventi, la gestione dei flussi e dei corrispondenti filtri richiedeva - inevitabilmente, data la natura del fenomeno - contatti e mediazioni internazionali.

DallĠultimo decennio del secolo scorso, tuttavia, lĠaccelerazione dei processi di globalizzazione e lĠintensificazione dei flussi verso lĠEuropa hanno reso sempre pi decisiva tale dimensione esterna della politica migratoria. é ormai evidente - ed  unĠevidenza surrogata da abbondante letteratura ed esperienza pratica - che, senza una proiezione internazionale coerente ed efficace, la missione centrale della politica migratoria contemporanea - mediare tra bisogni e paure, appunto - diventa impossibile.

La nuova centralitˆ della politica migratoria estera investe anche il livello sovranazionale; ne scaturiscono, infatti, sollecitazioni nuove e di intensitˆ crescente alle istituzioni (e alle casse!) europee. La finalitˆ stessa del processo di integrazione, come abbiamo messo in evidenza nellĠintroduzione a questa sezione del volume, ne risulta modificata. Nelle prossime pagine, esamineremo come gli obiettivi fondamentali delle politiche migratorie in questa Europa di inizio secolo si siano venuti traducendo in nuovi compiti, prioritˆ e vincoli per lĠazione esterna, e come la Ue abbia finora risposto.

Suddivideremo il discorso in tre parti: considereremo dapprima lĠarea di attivitˆ di gran lunga prevalente, ossia la proiezione esterna delle politiche di controllo migratorio, in cui lĠUnione europea svolge un ruolo sempre pi importante (parr. 1 e 2). Guarderemo poi ad alcune implicazioni per lĠazione esterna del ruolo che le istituzioni comunitarie svolgono in materia di immigrazione legale per motivi economici (par. 3). Ci interrogheremo, infine, sui rapporti che esistono tra la composizione interna delle societˆ europee - cocktail sempre pi complessi e instabili di nazionalitˆ, etnie, confessioni e culture - e il ruolo internazionale della Ue in quanto tale (par. 4).

 

 

 

1. La Çlotta allĠimmigrazione illegaleÈ come politica estera

 

La prevenzione, il contenimento e la repressione (mediante lĠespulsione dei trasgressori) dei flussi di immigrazione non autorizzata ha rappresentato, negli ultimi trentĠanni, lĠasse prioritario della politica migratoria degli stati dellĠEuropa occidentale. In una ricerca affannosa di efficacia – in termini non solo operativi, ma anche comunicativi e simbolici (effetti di rassicurazione dellĠopinione pubblica) - i sistemi politici e gli apparati di sicurezza nazionali hanno elaborato tecniche e modelli di controllo migratorio sempre pi sofisticati. Gran parte delle trasformazioni intervenute in questo campo si possono ricondurre a due tendenze fondamentali, che potremmo definire: A) esternalizzazione e B) europeizzazione.

A) La prima tendenza consiste nello sforzo (perseguito con crescente successo) di anticipare il momento in cui lĠapparato di filtri, controlli e interventi coercitivi intercetta il migrante non autorizzato (o lĠaspirante tale), in modo da risparmiare sui costi elevati e da ridurre i vincoli giuridici collegati alle procedure di allontanamento. Questa tendenza ha generato progressivamente un modello di controllo migratorio, che si riscontra, sebbene con minor complessitˆ, anche nel caso di altri grandi paesi o aree di immigrazione, e che si distingue per una struttura Ça stratiÈ:

 

 

 

 

 

Fig. 1. Il modello europeo di controllo migratorio Ça stratiÈ.

 

 

Come si vede, il modello si caratterizza ulteriormente per il coinvolgimento operativo nel sistema dei controlli di soggetti privati (i ÇvettoriÈ, ossia le societˆ di trasporto internazionale, dichiarati giuridicamente e finanziariamente responsabili nel caso di ingressi non autorizzati resi possibili da una carenza di controlli da parte loro) e di autoritˆ pubbliche di stati terzi (di origine o di transito dei flussi).

B) La seconda macro-tendenza a cui abbiamo accennato – cio la europeizzazione dei controlli – consiste nel trasferimento a Bruxelles di funzioni sempre pi rilevanti al fine dello sviluppo e del funzionamento complessivo degli apparati di controllo, di conseguenza sempre pi integrati. Non ci addentreremo, qui, in unĠanalisi dei complessi e rapidi sviluppi della politica della Ue in materia di prevenzione e contrasto dellĠimmigrazione ÇillegaleÈ. Ci˜ che  importante sottolineare  la duplice finalitˆ di questa mobilitazione crescente delle istituzioni europee sul terreno del contrasto allĠimmigrazione indesiderata: i) per un verso, la ratio  interna, e consiste nella ricerca di una maggiore efficacia attraverso la messa in comune di risorse conoscitive e operative, anche con finalitˆ di burden sharing; ii) ma lo spostamento di competenze e funzioni a livello sovranazionale  ispirato anche da una finalitˆ esterna, cio quella di accrescere il peso negoziale degli stati europei, in quanto paesi di destinazione di flussi migratori, nei rapporti con gli stati di origine e di transito di tali movimenti. Questa investitura - sostenuta da un interesse specifico dei paesi membri - ha imposto le migrazioni irregolari come un fattore di notevole importanza nellĠazione esterna della Ue. Dal punto di vista politico, un passo decisivo su questo terreno fu compiuto dal Consiglio europeo di Siviglia (21-22 giugno 2002), che si pronunci˜ con forza affinchŽ Çin qualsiasi futuro accordo di cooperazione, accordo di associazione o accordo equivalente che lĠUnione europea o la Comunitˆ europea concluderˆ con qualsiasi paese sia inserita una clausola sulla gestione comune dei flussi migratori, nonchŽ sulla riammissione obbligatoria in caso di immigrazione clandestinaÈ (Conclusioni della presidenza, punto 33). Questo criterio normativo di portata universale venne accompagnato dallĠistituzione di un meccanismo di verifica e sanzione, flessibile ma suscettibile anche di applicazione severa:

 

 

Il Consiglio europeo reputa necessario procedere a una valutazione sistematica delle relazioni con i paesi terzi che non cooperano nella lotta allĠimmigrazione clandestina. Di questa valutazione si terrˆ conto nelle relazioni fra lĠUnione europea e i suoi Stati membri e i paesi interessati, in tutti i settori pertinenti. Una cooperazione insufficiente da parte di un paese potrebbe rendere pi difficile lĠapprofondimento delle relazioni tra il paese in questione e lĠUnione.

Se non si sarˆ ottenuto alcun risultato ricorrendo ai meccanismi comunitari esistenti, il Consiglio potrˆ prendere atto, allĠunanimitˆ, della mancanza ingiustificata di cooperazione da parte di un paese terzo nella gestione comune dei flussi migratori. In tal caso il Consiglio, conformemente alle norme dei trattati, potrˆ adottare misure o assumere posizioni nel quadro della politica estera e di sicurezza comune e delle altre politiche dellĠUnione europea, nel rispetto degli impegni assunti dallĠUnione e senza mettere in discussione gli obiettivi della cooperazione allo sviluppo. (Consiglio europeo di Siviglia del 21-22 giugno 2002, Conclusioni della presidenza, 13463/02, punti 35 e 36).

 

 

Manca un assessment sistematico delle modalitˆ di applicazione e degli effetti di questa condizionalitˆ migratoria nel sistema delle relazioni esterne dellĠUnione. Nel prossimo paragrafo, ci soffermeremo su come questo nuovo driver dellĠazione esterna abbia prodotto riflessi, non sempre positivi, anche in altri ambiti. Qui, rileviamo soltanto come la Çintegrazione della politica di immigrazione nelle relazioni dellĠUnione con i paesi terziÈ invocata dal Consiglio europeo a pi riprese sia un obiettivo conseguito solo in parte, con persistenti incomprensioni, incoerenze e tensioni tra ambiti amministrativi (per esempio, le diverse Direzioni generali della Commissione) e politico-istituzionali (per esempio, il Consiglio nelle sue diverse configurazioni). Da questo deficit di coerenza deriva, tra lĠaltro, un deficit di efficacia, evidenziato, per esempio, dallo scarso successo della Commissione nel concretizzare i numerosi mandati negoziali ricevuti per stipulare accordi in materia di riammissione di migranti irregolari espulsi da uno degli stati membri.

Dal punto di vista operativo, il braccio principale della dimensione esterna della politica europea di lotta allĠimmigrazione clandestina  la Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli stati membri dellĠUnione europea, istituita con il regolamento n. 2007 del 26 ottobre 2004 e nota come Frontex. Questa struttura, con sede a Varsavia,  stata inizialmente concepita per svolgere una serie di compiti ausiliari rispetto a quelli degli stati membri, lungo le frontiere esterne dellĠUe o allĠinterno di queste. Tuttavia, lĠandamento del fenomeno migratorio e ancor pi lĠenfasi mediatica e politica sugli sbarchi clandestini nei paesi dellĠEuropa meridionale hanno spinto Frontex, sotto lĠimpulso della Commissione e degli stati membri, a spostare il baricentro della sua azione al di fuori delle frontiere esterne, e specialmente nelle acque internazionali al largo delle isole Canarie, delle Pelagie (Italia) e dellĠarcipelago maltese. Questa importante evoluzione, che ha accentuato la natura esterna dellĠagenzia, ha fatto emergere problemi di natura giuridica (in relazione ai limiti del mandato) e politica (nei rapporti con alcuni paesi terzi di origine e di transito di flussi migratori irregolari), che affiorano persino nel prudente linguaggio diplomatico della Commissione: ÇÉ il pieno potenziale dellĠAgenzia sarˆ raggiunto solo quando si avrˆ un impegno ancor pi determinato da parte degli stati membri e un reale coinvolgimento degli stati terzi interessati nelle sue [di Frontex] attivitˆ operativeÈ.

 

 

 

2. Visioni competitive e incoerenze della politica migratoria estera

 

Gli ostacoli incontrati da Frontex nella sua proiezione esterna non sono che il sintomo di una contraddizione pi profonda: quella che si manifesta, con sempre maggiore acutezza, a livello sia di obiettivi che di metodi, nei rapporti tra le diverse facce della politica migratoria estera (Pme). Per decenni, a partire almeno dalla prima metˆ degli anni Settanta, i principali paesi europei di immigrazione si sono ripiegati su una concezione restrittiva e unilaterale della politica migratoria; questĠultima  stata sostanzialmente asservita a due sole prioritˆ strategiche, declinate strettamente come Çaffari interniÈ: i) controllare e limitare i nuovi ingressi e ii) limitare i processi di esclusione e le tensioni sociali potenzialmente associati allĠimmigrazione straniera, mediante politiche di ÇintegrazioneÈ. La percezione di un fallimento su entrambi i fronti ha gradualmente persuaso le classi dirigenti europee della necessitˆ di superare una impostazione eccessivamente settoriale e unilaterale, recuperando con fatica una dimensione pi integrata e cooperativa. Inizialmente, questo  avvenuto nei rapporti tra paesi europei di immigrazione, con lĠavvio di una complessa cooperazione, prima in ambito intergovernativo (dal 1985, con lĠaccordo di Schengen), poi comunitario (dal 1997, con il trattato di Amsterdam). Negli ultimi anni, tuttavia,  risultato sempre pi evidente che, senza la riattivazione di canali di dialogo e collaborazione anche con i paesi di origine e di transito dei maggiori flussi migratori, il gap tra obiettivi e risultati delle politiche migratorie europee era destinato ad ampliarsi, accrescendo la vulnerabilitˆ delle forze politiche tradizionali di fronte alla propaganda populista. Nel contempo, a partire dagli anni Novanta, prima nei paesi dellĠEuropa meridionale e nelle isole britanniche, poi progressivamente e in misura diversa in altre zone della Ue, il fabbisogno di forza lavoro straniera, sia nelle fasce alte sia in quelle basse del mercato del lavoro,  venuto crescendo; anche per rispondere efficacemente a questa nuova situazione, la vecchia politica migratoria unilaterale si rivelava uno strumento spuntato.

Sono stati gli stati dellĠEuropa mediterranea (lĠItalia, in particolare, dalla seconda metˆ del decennio scorso, seguita dalla Spagna) a sperimentare per primi degli approcci negoziati, su scala bilaterale, nel campo della politica migratoria. In questi paesi, la politica migratoria estera  dunque innanzitutto il frutto di unĠazione promossa, e spesso guidata da dicasteri ÇinterniÈ (i ministeri dellĠInterno, innanzitutto, ma anche quelli del Lavoro o della Politiche sociali, a seconda dei casi e delle fasi). é solo in una fase successiva, in gran parte per reazione, che le cancellerie - e pi in generale i settori istituzionali e amministrativi preposti alla politica estera e alle relazioni esterne – si sono, almeno in parte, riappropriati della tematica migratoria. Una dinamica analoga (rappresentata schematicamente nella figura sottostante), che fa della politica migratoria estera un policy field fortemente competitivo e segnato da profonde ambiguitˆ politiche e concettuali, si  instaurata in questi anni a livello di Unione europea, con lo sviluppo della Çdimensione esternaÈ della politica migratoria comune.

 

 

 

 

 

 

Fig. 2. La strutturazione del campo della politica migratoria estera (Pme.)

 

 

 

La politica migratoria estera degli stati e delle istituzioni della Ue si presenta, dunque, come la risultante di istanze differenti, sostenute da policy communities portatrici di culture e prioritˆ diverse. Complessivamente, tuttavia, lĠapproccio sicuritario alla politica migratoria estera, su cui ci siamo soffermati nel paragrafo precedente, rimane largamente prevalente. Soprattutto nel quadro dei rapporti con il Mediterraneo e con lĠAfrica, la finalitˆ prevalente perseguita dagli stati e dalle istituzioni europee resta quella di arginare e selezionare i flussi, anche mediante la delega negoziata di funzioni di law enforcement ai paesi rivieraschi del Nord Africa e del Vicino Oriente. Questa pratica, che gli esperti chiamano Çesternalizzazione dei controlli migratoriÈ, ha assunto una rilevanza centrale nel sistema dei rapporti della Ue e dei suoi membri con il vicinato meridionale.

Il problema  che lo spostamento de facto della frontiera esterna europea a est e a sud, mediante un sistema di accordi, spesso informali, produce effetti controversi. LĠesternalizzazione pu˜ essere molto efficace nel recuperare controllo su rotte specifiche e nel debellare (o spingere verso altre aree o altri ambiti di attivitˆ) le organizzazioni dedite al traffico di persone. Peraltro, quando la controparte disponga di leve negoziali sufficientemente forti in altri campi, ottenere un grado di cooperazione sufficiente sul terreno migratorio pu˜ essere molto difficile (si pensi al caso spinosissimo dei rapporti italo-libici e ora euro-libici). Ma va sottolineato anche un fatto forse meno evidente ma di grandissima portata: la delega, ancorchŽ informale e ovviamente reversibile, di poteri sovrani a stati terzi, spesso non democratici, pu˜ dare luogo a effetti indiretti indesiderabili in diversi ambiti:

a)             sul terreno dei diritti umani di migranti e rifugiati, con ripercussioni negative sulla legittimitˆ internazionale dellĠazione esterna della Ue e dei suoi membri;

b)             in campo economico: ci˜ che avviene in Europa, con lo spostamento a oriente della frontiera Schengen (per esempio, tra Polonia e Ucraina), che rischia di ostacolare lo sviluppo di regioni frontaliere tradizionalmente molto interconnesse, si verifica con effetti potenzialmente ben pi gravi in regioni economicamente pi fragili (si pensi alla fascia saheliana);

c)             sulla stabilitˆ politica a livello subregionale. LĠimposizione di una rigida condizionalitˆ migratoria da parte europea ai vicini rischia di innescare pratiche di Çscaricabarile internazionaleÈ (espulsioni incrociate, accuse reciproche di scarsa efficacia nel controllo dei flussi). In contesti giˆ politicamente tesi (si pensi alle relazioni tra Algeria e Marocco), questa dinamica  suscettibile di accrescere la conflittualitˆ;

d)             infine, lĠesternalizzazione dei controlli migratori, specie se effettuata senza un adeguato monitoraggio nella fase esecutiva, rischia di produrre effetti negativi sul terreno della promozione della good governance. In molti casi, infatti, la delega di funzioni di controllo migratorio si accompagna a trasferimenti finanziari e tecnologici, che vanno solitamente a beneficio dei corpi dello stato preposti alle politiche di sicurezza. In paesi dove questi settori dellĠamministrazione sono investiti anche di funzioni di controllo e repressione del dissenso politico, ci˜ pu˜ risultare in un rafforzamento di dinamiche autoritarie (o quantomeno centralizzatrici) e in un freno al cambiamento politico.

 

A ognuno di questi effetti, corrisponde un evidente principio di incoerenza complessiva nellĠazione esterna dello stato o dellĠente sovranazionale che promuove la misura di esternalizzazione. Distorsioni di questo genere cominciano a manifestarsi con una certa frequenza e intensitˆ anche nellĠazione esterna dellĠUnione europea.

 

 

 

3. La gestione dellĠimmigrazione legale come politica estera

 

Si  giˆ accennato allĠintensificazione progressiva, diventata particolarmente evidente nellĠultimo quinquennio, della domanda europea di lavoratori immigrati. Questa tendenza, che  il frutto di una miscela di fattori economici (la tiepida ripresa europea di questi anni) e demografici (lĠinvecchiamento pi o meno marcato delle societˆ del continente), ha determinato un forte aumento dal saldo migratorio complessivo dellĠUe, che dal 2002 ad oggi ha oscillato tra 1,5 e 2 milioni allĠanno. Il trend  destinato a rafforzarsi, poichŽ si prevede che la popolazione in etˆ lavorativa (15-64 anni) dellĠEuropa a 27 si ridurrˆ di ben 59 milioni di individui da oggi al 2050, con lĠeffetto che – a meno che il tasso di attivitˆ non cresca significativamente – il rapporto tra abitanti in etˆ da lavoro e ultrasessantacinquenni crollerˆ, da 4:1 a 2:1.

Le risposte dei singoli paesi a questo stato di cose sono fortemente differenziate; si possono distinguere perlomeno quattro blocchi relativamente omogenei di casi nazionali:

a) un blocco mediterraneo, guidato dai due maggiori importatori di manodopera su scala continentale, la Spagna e lĠItalia, ma comprendente anche Grecia e Portogallo. Questi paesi sono accomunati da un ricorso massiccio a immigrazione straniera per colmare vuoti crescenti soprattutto nelle fasce basse del mercato del lavoro. Sul terreno delle policy, questi paesi sono accomunati dal frequente ricorso a regolarizzazioni di massa, per supplire alle carenze dei meccanismi di ammissione legale;

b) un secondo blocco, formato dalle isole britanniche, caratterizzato da una sperimentazione particolarmente vivace sul terreno delle procedure di reclutamento (specialmente nella Gran Bretagna dellĠera blairiana) e da unĠapertura decisa ai lavoratori provenienti dai nuovi paesi membri;

c) un terzo blocco, che potremmo definire ÇconservatoreÈ e che ha il suo cuore nel vecchio motore franco-tedesco dellĠintegrazione europea, il quale continua a ritenere non necessarie ed evitabili, e quindi a rifiutare politiche migratorie attive su vasta scala, specialmente per la manodopera a bassa qualifica;

d) infine, si delinea una composita pattuglia di nuovi paesi membri dellĠEuropa orientale, che provengono da una breve e pi o meno intensa stagione di emigrazione Çda aggiustamentoÈ (conseguente al crollo dellĠeconomia pianificata e alla caduta delle barriere in uscita) e che oggi hanno imboccato o si apprestano ad imboccare una strada di transizione migratoria, accelerata in molti casi da una demografia ancora pi depressa di quella che si osserva nella metˆ occidentale del continente.

Siamo dunque di fronte a un policy field per molti versi poco integrato a livello europeo. Forti di un principio indiscusso, secondo cui la sovranitˆ sullĠentitˆ dei flussi migratori legali  saldamente ancorata al livello nazionale, gli stati membri conducono le rispettive politiche dellĠimmigrazione legale in totale autonomia, dando scarso peso persino al principio di tempestiva ed esaustiva informazione reciproca, che pure la normativa europea contempla. Questo fortissimo attaccamento degli stati membri alle proprie prerogative tradizionali in materia di gestione dei flussi rende assai incerto il destino della nuova iniziativa della Commissione in materia di immigrazione legale, lanciata con il Piano dĠazione sullĠimmigrazione legale del dicembre 2005 e sostanziatasi principalmente, per ora, in due importanti proposte di direttiva.

Oltre che dalle forti resistenze immediatamente manifestate da parte dei governi di alcuni stati membri, le incognite che gravano sul futuro del Çpacchetto immigrazione legaleÈ dipendono anche da alcune reazioni a livello internazionale, provenienti da stati emissari di flussi migratori diretti verso lĠEuropa. In particolare, la proposta di una blue card (permesso di soggiorno temporaneo con validitˆ estesa, a certe condizioni, a tutto il territorio Ue) per gli immigrati altamente qualificati, ha suscitato una levata di scudi da parte di numerosi governi africani timorosi di subire un drenaggio di risorse umane pregiudizievole al loro stesso sviluppo.

Al di lˆ della specifica competenza comunitaria in materia di immigrazione legale, non bisogna per˜ dimenticare che la pi potente ed incisiva leva di politica migratoria di cui dispongono de facto le istituzioni europee  legata alla politica di allargamento. Sebbene la maggior parte delle ondate di allargamento della Ce/Ue sia stata accompagnata dallĠimposizione di periodi transitori, lĠinscindibilitˆ tra membership e libertˆ di circolazione rimane un cardine fondamentale dellĠedificio comunitario. Inoltre, il processo di adesione comporta altre tappe, precedenti e successive al conseguimento della libertˆ di circolazione per motivi di lavoro, che corrispondono a regimi migratori progressivamente pi favorevoli (si veda sotto, fig. 3); queste tappe, nella loro sequenza tipica, sono le seguenti: i) soppressione dellĠobbligo di visto per soggiorni brevi per i cittadini del paese candidato; ii) adesione, a cui consegue lĠacquisizione della cittadinanza europea da parte dei cittadini del nuovo stato membro, con conseguenti forti limitazioni della facoltˆ di espellere costoro da parte degli altri stati membri; iii) accesso alla piena libertˆ di circolazione al termine dei periodi transitori; iv) ingresso a pieno titolo del nuovo stato membro nello spazio Schengen, con conseguente soppressione dei controlli di polizia alle frontiere interne.

 

 

 

Fig. 3. Gradi di intensitˆ delle relazioni esterne della Ue e regimi migratori correlati

Legenda:

Ee+Sch: stati membri aderenti alla Convenzione di Schengen, a cui la suddetta convenzione si applica giˆ integralmente (Eu15 tranne Gb e Irl; a partire dal 21 dicembre 2007 anche i nuovi stati membri entrati nel 2004, con lĠeccezione di Cipro);

Non Eu+Schh: stati non appartenenti alla Ue ma aderenti alla Convenzione di Schengen, a cui la suddetta convenzione si applica giˆ integralmente (Islanda, Norvegia);

Eu-Non Sch: stati membri non aderenti alla Convenzione di Schengen (Gran Bretagna e Irlanda);

Eu Sch-Trans: stati membri aderenti alla Convenzione di Schengen, a cui tuttavia tale convenzione non si applica ancora integralmente (periodo transitorio, in cui i controlli alle frontiere interne sussistono) (tra gli stati entrati nel 2004 ormai solo Cipro; inoltre, Romania e Bulgaria);

Eu Cand-No Visto: stati candidati allĠadesione, per i cui cittadini  stato abolito lĠobbligo di visto per soggiorni brevi nella Ue, come passo preliminare allĠadesione (Croazia);

Eu Cand-Visto: stati candidati allĠadesione, per i cui cittadini non  ancora stato abolito lĠobbligo di visto (Balcani occidentali esclusa Croazia, Turchia). Con alcuni di questi paesi (Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Montenegro), nel settembre 2007 il Consiglio ha stabilito di firmare accordi per la facilitazione della circolazione a breve termine (fino a 90 gg.);

Eu Non Cand-Vic: stati oggetto della Politica europea di vicinato (Pev), per cui sono possibili agevolazioni ai fini della mobilitˆ a breve termine (ad oggi, visa facilitation agreement solo con Ucraina);

Eu Non Cand-Priv: paesi terzi non candidati i cui cittadini sono privi dellĠobbligo di visto (per es. Usa) o che godono di visa facilitation agreement (Russia);

Eu Non Cand-Visto: paesi terzi ai cui cittadini  imposto lĠobbligo di visto (ai paesi ritenuti Ça maggior rischio migratorioÈ, lĠobbligo di visto  imposto anche ai fini del solo transito aeroportuale).

 

 

 

 

 

Questo schema mostra quanto sia complessa e dinamica la relazione tra processo di integrazione europea e mobilitˆ umana. Evidenzia anche come lĠazione esterna della Ue - e in particolare i suoi due strati pi ÇintimiÈ, allargamento e vicinato – sia strettamente intrecciata alla politica interna dellĠimmigrazione.

 

 

 

4. Coesione interna, diversitˆ culturale e relazioni esterne

 

Nei paragrafi precedenti, abbiamo visto come lĠesercizio di un potere sovrano fondamentale, quale quello di regolare la circolazione dei non cittadini attraverso i confini dello stato (jus includendi et excludendi), sia ormai condiviso con le istituzioni europee e influenzi, in misura crescente, lĠazione esterna dellĠUnione. Ma, oltre ai flussi migratori in corso e futuri, anche la composizione etnica e culturale delle societˆ europee, quale risulta anche dalle migrazioni del passato, costituisce oggi un fattore che incide in misura crescente sulle relazioni internazionali degli stati come della Ue.

é sotto gli occhi di tutti come lĠappartenenza etnica, culturale o confessionale - vera o presunta, scelta o imposta - rappresenti nuovamente, nellĠEuropa odierna, un fattore di aggregazione e di divisione cruciale, dopo secoli di modernitˆ che ne avevano progressivamente attenuato la portata (ma con rigurgiti violenti su scala immane, nella prima metˆ del Novecento). Il problema dellĠintegrazione sociale, che nei decenni post-bellici si poneva principalmente in termini di classe socio-economica, oggi  percepito, in maniera sempre pi profonda e diffusa, attraverso prismi culturalisti. Si parla sempre meno di integrazione della societˆ nel suo complesso e sempre pi di integrazione delle minoranze etniche, culturali o confessionali nella societˆ. Senza pronunciarci qui sulla pertinenza (e sui rischi) di questa culturalizzazione del problema della coesione sociale, vogliamo per˜ sottolineare come questa tendenza incida anche sui presupposti fondamentali della politica estera, innanzitutto al livello nazionale ma poi anche a quello sovranazionale. Questa influenza si produce in due sensi:

a) in societˆ dove la dimensione etno-culturale dellĠappartenenza recupera rilevanza, crescono i rischi di ÇcontagioÈ (ideologico e psicologico) del tessuto sociale interno da parte di fenomeni conflittuali di matrice etno-culturale (o per cui prevale una spiegazione etno-culturale) che si producano nello spazio internazionale. Questo stesso rischio di contagio si traduce in un vincolo, che pu˜ diventare pesantissimo, a scelte anche importanti di politica estera. Vi sono pochi dubbi, per esempio, che la presenza di una nutrita minoranza di origine araba e di religione musulmana, al cui interno vi sono frange radicali, abbia pesato, accanto ad altri fattori, sulla scelta francese di distanziarsi con particolare forza dallĠintervento anglo-statunitense in Iraq. Analogamente, il possibile impatto a livello interno sulle relazioni tra le comunitˆ turca e curda, incise in maniera decisiva sulla decisione tedesca di non chiedere allĠItalia la consegna del leader del Pkk, Abdullah …calan, nel gennaio del 1999.

b) Inversamente (ma in questo campo, le relazioni causali sono difficili da accertare e hanno spesso natura circolare: si veda la fig. 4), si possono verificare effetti di contagio dallĠinterno verso lĠesterno, la cui presa in conto pu˜ indurre, o condizionare fortemente, scelte di politica interna. Basti pensare alla escalation identitaria globale prodotta dalla pubblicazione in Danimarca delle famigerate vignette di Maometto (settembre 2005), oppure ai tumulti verificatisi a Bengasi (Libia) in seguito alla provocatoria esibizione di una di quelle stesse vignette da parte di un ministro italiano, che costrinsero poi quello stesso ministro alle dimissioni (febbraio 2006). Vi  poi anche una modalitˆ pi blanda, in cui un deficit di integrazione sociale a livello interno pu˜ generare ripercussioni a livello internazionale. Ci riferiamo a situazioni in cui il trattamento particolarmente severo o addirittura discriminatorio (o percepito come tale) di una o pi comunitˆ immigrate induce un ri-orientamento dei flussi o addirittura fenomeni di ri-emigrazione verso altri paesi, ritenuti pi accoglienti. é quello che si  temuto accadesse con le migrazioni dei romeni dopo il giro di vite straordinario deciso dal governo italiano per rispondere a una presunta Çemergenza criminalitˆÈ tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre 2007. é proprio il timore di ripercussioni sulla geografia dei flussi intra-Ue che ha motivato le critiche particolarmente acute verso la linea assunta dallĠItalia, non solo – comĠ ovvio – da parte delle autoritˆ romene, ma anche di quelle di un altro paese con forte immigrazione romena, come la Spagna.

 

 

 

 

Fig. 4. Il circuito dellĠinterdipendenza tra conflittualitˆ di matrice etnoculturale interna ed esterna.

 

 

 

Per quanto schematica e semplificata, questa figura rende evidenti i rapporti che, in un contesto internazionale sempre pi mediatizzato e interconnesso, si instaurano inevitabilmente tra politiche di integrazione (tra i cui compiti rientra quello di prevenire la conflittualitˆ su base etnica allĠinterno dello spazio nazionale) e politica estera (per cui la prevenzione della conflittualitˆ esterna  ovviamente una prioritˆ centrale). Ma, in questo quadro, qual  il ruolo del livello sovranazionale di governo? Come si declina il tema che stiamo affrontando rispetto alle competenze e alle attivitˆ dellĠUnione europea?

La competenza dellĠUe in materia di integrazione degli immigrati e delle minoranze scaturite dallĠimmigrazione  recente e debole. Si tratta, cio, di una competenza ad agire, in maniera ausiliaria e complementare rispetto allĠazione degli stati membri, ma non di una competenza normativa. Il trattato di Lisbona, che per la prima volta colloca esplicitamente il tema dellĠintegrazione degli stranieri nella sfera del diritto comunitario, si premura di enunciare con nettezza questo limite invalicabile:

 

 

Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire misure volte a incentivare e sostenere l'azione degli stati membri al fine di favorire l'integrazione dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti nel loro territorio, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli stati membri (Art. 63 bis comma 4 TCE, come modificato dal trattato di Lisbona).

 

 

Tra i settori prioritari in cui lĠUnione europea si adopera al fine di Çincentivare e sostenereÈ lĠazione degli stati nel campo dellĠintegrazione, ve nĠ uno che ha particolare rilevanza nel quadro di unĠanalisi dellĠazione esterna della Ue. Ci riferiamo alla componente preventiva della strategia antiterrorismo dellĠUnione europea, la cui finalitˆ specifica  quella di prevenire la ÇradicalizzazioneÈ (specialmente, seppure non esclusivamente, delle minoranze di confessione musulmana in Europa) e il reclutamento di giovani da parte di reti terroristiche.

Anche in questo campo, il ruolo dellĠUnione  ausiliario rispetto a quello, primario e prevalente, delle istituzioni nazionali e locali. Tuttavia, anche negli stretti limiti dettati dai trattati e dal principio di sussidiarietˆ, lĠazione di prevenzione della radicalizzazione e del reclutamento di giovani a fini terroristici che le istituzioni europee si propongono di svolgere , almeno sulla carta, rilevante; essa, inoltre, ha una natura spiccatamente ÇinterpilastroÈ e scavalca la divisione tradizionale tra politiche interne ed esterne:

 

 

Prioritˆ fondamentali della ÇprevenzioneÈ:

á                sviluppare approcci comuni nell'individuare e affrontare comportamenti problematici, in particolare l'uso di Internet a fini illegali;

á                affrontare l'incitamento alla violenza e il reclutamento, segnatamente negli ambienti particolarmente favorevoli, come ad esempio le prigioni, e luoghi di culto o di formazione religiosa, segnatamente attuando una normativa che definisca reati tali comportamenti;

á                sviluppare una strategia riguardo ai media e la comunicazione per illustrare meglio le politiche dell'Ue;

á                promuovere il buongoverno, la democrazia, l'istruzione e la prosperitˆ economica attraverso programmi di assistenza a livello comunitario e di stati membri;

á                sviluppare un dialogo interculturale all'interno e al di fuori dell'Unione;

á                sviluppare un linguaggio non emotivo per discutere questi temi;

á                proseguire la ricerca, mettere in comune le analisi e le esperienze per approfondire la comprensione delle questioni ed elaborare risposte politiche [Strategia antiterrorismo dellĠUnione europea, punto 13].

 

 

Ci siamo soffermati, in questo paragrafo, sulla interazione negativa che si pu˜ verificare tra (deficit di) integrazione a livello interno e tensioni internazionali. Naturalmente, la diversitˆ etnica e culturale, se ben governata e opportunamente valorizzata, pu˜ rappresentare anche un asset sulla scena internazionale, sia come ÇserbatoioÈ di risorse umane con vocazione cosmopolita e di conoscenze specifiche sullĠambiente internazionale, sia come vettore di influenza economica e politica. Ma oltre che un fattore di vitalitˆ e competitivitˆ dello stato ospitante, la presenza di comunitˆ migranti (od originate dalla migrazione di generazioni precedenti) pu˜ rappresentare una risorsa per il paese di origine e anche una risorsa bilaterale, cio un fattore di co-sviluppo. Il potenziale delle comunitˆ migranti –o delle ÇdiasporeÈ, come oggi si usa dire anche con riferimento a comunitˆ emigrate per motivi economici –  stato spesso oggetto, negli ultimi anni, di valutazioni acriticamente positive. Offrire tributi retorici al Çruolo delle diaspore per il co-sviluppoÈ non pu˜ servire che a generare contraccolpi negativi, sotto forma di disinganno e sperperi, una volta che gli slogan si traducano in attivitˆ concrete. Ciononostante, la ricerca e la sperimentazione di soluzioni virtuose in questo campo deve continuare: per questo  da valutare positivamente il crescente rilievo che lĠUnione europea, anche vincendo le resistenze di alcuni stati membri, sembra accordare alla tematica.