N. 389
SENTENZA 4-11 LUGLIO 1989
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: dott. Francesco SAJA;
Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo
CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO,
prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
SPAGNOLI, prof. Francesco
Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo
CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI,
prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio promosso con ricorso della Provincia Autonoma di Bolzano
notificato il 24 dicembre 1988, depositato in Cancelleria il 28
successivo ed iscritto al n. 34 del registro ricorsi 1988, per
conflitto di attribuzione sorto a seguito del decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri in data 28 ottobre 1988 avente per
oggetto: "Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni e alle
Province autonome per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica ed
al relativo credito dei cittadini comunitari esercenti attività di
lavoro autonomo";
Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 7 marzo 1989 il Giudice relatore
Antonio Baldassarre;
Uditi gli avv.ti Roland Riz e Sergio Panunzio per la Provincia
Autonoma di Bolzano e l'Avvocato dello Stato Pier Giorgio Ferri per
il Presidente del Consiglio dei Ministri;
Ritenuto in fatto
1. - Con ricorso regolarmente notificato e depositato, la
Provincia autonoma di Bolzano ha sollevato conflitto di attribuzione
in relazione al d.P.C.M. 28 ottobre 1988 (Atto di indirizzo e
coordinamento alle regioni e province autonome per l'accesso
all'edilizia residenziale pubblica ed al relativo credito dei
cittadini comunitari esercenti attività di lavoro autonomo), in
quanto ritenuto lesivo delle competenze legislative di tipo esclusivo
da essa detenute, a norma dell'art. 8, n. 10, e degli artt. 16 e 98
dello Statuto di autonomia, in materia di "edilizia comunque
sovvenzionata, totalmente o parzialmente, da finanziamenti a
carattere pubblico", nonché delle competenze ad essa riconosciute
dall'art. 6 del d.P.R. 19 novembre 1987, n. 526, in ordine
all'attuazione dei regolamenti della Comunità Economica Europea, ove
questi richiedano una normazione integrativa o un'attività
amministrativa di esecuzione.
Premesso che la Provincia di Bolzano ha predisposto un'organica
disciplina del settore, la quale non prevede la cittadinanza italiana
come requisito necessario per poter beneficiare dell'assegnazione di
alloggi di edilizia residenziale pubblica o del relativo credito, e
premesso, quindi, che non sussisteva l'esigenza di attuare nel
territorio provinciale il regolamento del Consiglio della C.E.E. n.
1612/68 sulla parità di trattamento e sulla libera circolazione dei
lavoratori all'interno della Comunità europea, la ricorrente
sostiene che l'atto impugnato lede l'autonomia provinciale nel
sottrarre ad essa la competenza di attuazione diretta delle norme
comunitarie, che gli artt. 6 e 7 del d.P.R. n. 526 del 1987 le
garantiscono in misura più ampia e incisiva di quanto sia in genere
riconosciuto alle regioni e che era stata, per l'appunto, già
esercitata.
In secondo luogo, la ricorrente osserva che, poiché le previsioni
concernenti i requisiti soggettivi per l'accesso all'edilizia
pubblica sovvenzionata sono contenute in atti legislativi, lo Stato,
adottando un decreto ministeriale di indirizzo e di coordinamento, ha
tentato di raggiungere un risultato che potrebbe esser realizzato
soltanto mediante un atto legislativo specificamente diretto a
modificare la previgente legislazione statale o a stabilire principi
affinché le regioni o le province autonome si adeguino con le loro
leggi alle norme comunitarie. Al contrario, l'atto impugnato - il
quale, per la forma con cui è stato adottato, potrebbe indirizzare
soltanto l'attività amministrativa della Provincia - pretenderebbe,
secondo la ricorrente, di incidere direttamente sulle leggi
provinciali che regolano la stessa materia, le quali sarebbero
legittimamente soggette soltanto ad indirizzi adottati con legge
dello Stato.
In terzo luogo, continua la ricorrente, nel caso in cui l'atto
impugnato dovesse essere considerato come rivolto essenzialmente alle
attività amministrative della Provincia, oltre ad esser soggetto a
tutte le censure che la ricorrente ha già prospettato in un
precedente giudizio di legittimità costituzionale avverso l'art. 2,
terzo comma, lett. d, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (v. ric. n.
31 del 1988), esso sarebbe viziato per i seguenti motivi: perché
sarebbe privo di quel "supporto legislativo ulteriore" richiesto
dalla giurisprudenza di codesta Corte; perché sarebbe contrario al
citato art. 2 della legge n. 400 del 1988 che impone per gli atti di
indirizzo e di coordinamento la deliberazione del Consiglio dei
Ministri senza possibilità di delega; e, infine, perché violerebbe
l'art. 12, quinto comma, lett. b, della stessa legge n. 400 del 1988,
che vincola il Governo a consultare la Conferenza permanente
Stato-regioni per gli atti come quello impugnato.
2. - Si è regolarmente costituito il Presidente del Consiglio dei
ministri per chiedere che il ricorso sia dichiarato non fondato.
Dopo aver ricordato che l'atto impugnato è stato adottato a
seguito di una condanna dell'Italia, pronunziata dalla Corte di
Giustizia della Comunità Europea (adita dalla Commissione della CEE
ex art. 169 del Trattato di Roma) con una sentenza nella quale è
affermato che il nostro Paese è tenuto ad accordare, in materia di
edilizia residenziale pubblica, la parità di trattamento con i
cittadini italiani dei lavoratori autonomi degli altri Paesi della
Comunità che si avvalgono in Italia del diritto di stabilimento
(art. 52 del Trattato) o della libera prestazione di servizi (art.
59), l'Avvocatura dello Stato osserva che la tesi della ricorrente,
secondo la quale l'atto impugnato avrebbe dovuto essere un atto
legislativo, sarebbe priva di fondamento. Infatti, poiché le norme
comunitarie dettate in conformità del Trattato o anche quelle
deducibili dal Trattato stesso, così come vengono accertate ed
enunciate dalle sentenze della Corte europea, prevalgono su diverse e
contrarie disposizioni legislative, sarebbe contraddittorio ritenere
che tale efficacia, anziché discendere dal rapporto esistente tra
l'ordinamento interno e quello comunitario, e quindi operare per
forza propria, debba esser realizzata solo grazie ad un apposito
intervento del legislatore nazionale, che trasformi la norma
comunitaria in una norma di diritto interno.
Da ciò conseguirebbe, secondo l'Avvocatura, che i requisiti
previsti dalle leggi italiane per l'accesso agli alloggi di edilizia
residenziale pubblica, a seguito e in forza della sentenza della
Corte di Giustizia del 14 gennaio 1988, non sarebbero più
legittimamente applicabili nei confronti dei cittadini degli altri
Paesi membri della Comunità, dovendo ricevere, in base a quella
sentenza, il medesimo trattamento dei cittadini italiani nell'accesso
all'edilizia residenziale pubblica. Pertanto, l'atto di indirizzo e
di coordinamento impugnato, che è stato emanato in chiave di
adempimento di un obbligo comunitario, non avrebbe, secondo
l'Avvocatura, la funzione di innovare l'ordine legislativo
preesistente, ma mirerebbe ad assicurare univocità e correttezza di
comportamenti da parte dei soggetti che devono applicare la
legislazione italiana ormai modificata dalla sentenza prima
ricordata.
Quanto alle restanti censure, mentre la pretesa violazione del
principio di legalità sarebbe contraddetta dalle considerazioni già
svolte, quelle basate sulla legge n. 400 del 1988 muoverebbero da
un'errata interpretazione di questa stessa legge. In particolare,
secondo l'Avvocatura, l'atto impugnato è stato deliberato dal
Consiglio dei ministri ed emanato con decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri, non esistendo alcuna disposizione che vincola
ad emanare con decreto del Presidente della Repubblica le
deliberazioni del Consiglio dei ministri. Infine, la consultazione
della Conferenza Stato-regioni sarebbe prevista, per l'Avvocatura,
solo per l'adozione dei criteri generali relativi alla funzione di
indirizzo e coordinamento, non già per l'adozione di ogni singolo
atto di esercizio della predetta funzione.
3. - In prossimità dell'udienza la Provincia autonoma di Bolzano
ha presentato una memoria, con la quale, oltre a ribadire argomenti
già svolti nell'atto introduttivo, replica all'Avvocatura dello
Stato che non si potrebbe considerare l'atto impugnato come una sorta
di richiamo all'applicazione di norme comunitarie di per sé già
applicabili.
Infatti, secondo la ricorrente, il principio della prevalenza
della normativa comunitaria rispetto a quella legislativa interna con
essa incompatibile è stato condizionato da questa Corte alla
sussistenza del requisito della immediata applicabilità delle norme
comunitarie (regolamenti o trattati istitutivi), requisito che può
derivare anche da una sentenza interpretativa pronunziata dalla Corte
di Giustizia della Comunità ai sensi dell'art. 177 del Trattato CEE
(cioè nel procedimento su ricorso pregiudiziale). Nel caso di
specie, invece, si riscontrerebbe ora una disciplina comunitaria di
per sé non eseguibile, trattandosi di norme di principio impegnative
per gli Stati-membri (artt. 48, 52 e 59 del Trattato CEE), ora una
disciplina attuativa delle norme di principio appena ricordate, che,
nel concedere parità di trattamento con i lavoratori nazionali
nell'accesso alla edilizia pubblica residenziale, si riferirebbe,
tuttavia, ai soli lavoratori subordinati (art. 9, par. 1, regolamento
CEE n. 1612/68), e non già a quelli autonomi, che sono invece
contemplati dall'atto impugnato. Pertanto, conclude la ricorrente, la
parificazione nell'accesso all'edilizia residenziale tra lavoratori
subordinati e lavoratori autonomi dovrebbe esser stabilita e regolata
soltanto da atti normativi interni.
Per altro verso, la ricorrente contesta che si sia in presenza di
una sentenza interpretativa di disposizioni del Trattato CEE, emessa
dalla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 177, primo comma, lett.
a, del Trattato stesso, e, come tale, in grado di rendere le norme
interpretate come immediatamente eseguibili o di porsi, essa stessa,
come espressiva di statuizioni compiute e direttamente applicabili da
parte dei giudici interni. Secondo la Provincia di Bolzano, la
sentenza del 14 gennaio 1988 è stata adottata ai sensi dell'art. 169
del Trattato CEE e, come tale, non avrebbe posto una disciplina
comunitaria (conforme ai principi degli artt. 52 e 59 del Trattato
CEE) direttamente applicabile dai giudici italiani, ma comporterebbe,
a norma dell'art. 171 dello stesso Trattato, un obbligo per la
Repubblica italiana - da attuarsi secondo la ripartizione
costituzionale delle competenze - di adottare i provvedimenti
necessari per l'esecuzione della sentenza stessa e, quindi, di
abrogare le norme eventualmente incompatibili con la medesima
(eventualità che, peraltro, secondo la ricorrente, non sussisterebbe
in concreto nel caso della Provincia di Bolzano, le cui leggi, ad
avviso della stessa, non prevederebbero il requisito della
cittadinanza).
Tuttavia, anche se così non fosse e anche se le norme comunitarie
dovessero essere ritenute immediatamente applicabili, non si potrebbe
sfuggire, a giudizio della ricorrente, alla seguente alternativa: o
l'atto impugnato, in contrasto col suo tenore letterale, va
considerato privo di ogni reale incidenza sull'ordinamento (come
vorrebbe l'Avvocatura dello Stato), e allora se ne dovrebbe
riconoscere l'inidoneità ad esplicare effetto veruno nei confronti
della Provincia di Bolzano; o lo stesso atto è diretto a incidere
sull'ordine legislativo sotto le mentite spoglie di un atto di
indirizzo e di coordinamento meramente "esplicativo", e allora
dovrebbe esser dichiarato illegittimo. In ogni caso, una volta
ammessa la prevalenza della disciplina comunitaria direttamente
applicabile, sarebbe errato, secondo la ricorrente, non ritener
necessario un intervento del legislatore nazionale vòlto a
trasformare la norma comunitaria in una norma di diritto interno.
Infatti, una cosa sarebbe riconoscere, sulla scorta della
giurisprudenza costituzionale, che i giudici possono "disapplicare"
la legge italiana eventualmente contrastante con le norme comunitarie
direttamente applicabili, altra cosa sarebbe affermare che, ove si
intenda modificare da parte dello Stato la disciplina legislativa
ritenuta incompatibile con quella comunitaria, ciò dev'esser fatto
nel rispetto delle regole fondamentali sul riparto delle competenze
fra Stato e regioni (e province autonome) e sui rapporti tra le fonti
normative (nel caso, con un atto legislativo).
Considerato in diritto
1. - La Provincia autonoma di Bolzano ha sollevato conflitto di
attribuzione nei confronti dello Stato in relazione all'emanazione
del d.P.C.M. 28 ottobre 1988 (Atto di indirizzo e coordinamento alle
regioni e alle province autonome per l'accesso all'edilizia
residenziale pubblica ed al relativo credito dei cittadini comunitari
esercenti attività di lavoro autonomo), con il quale si stabilisce
che, nell'assegnare gli alloggi di edilizia economica e popolare e
nel disciplinare l'accesso al relativo credito, "gli organi dello
Stato, le regioni a statuto ordinario e speciale, le province
autonome di Trento e di Bolzano, gli enti pubblici e gli istituti
esercenti il credito a favore dell'edilizia (...) considereranno i
cittadini di Stati membri della Comunità economica europea, che
svolgano in Italia attività di lavoro autonomo e versino nelle
condizioni soggettive ed oggettive previste dalla citata normativa,
equiparati ai lavoratori autonomi cittadini italiani".
Secondo la ricorrente, tale atto lederebbe le competenze
legislative di tipo esclusivo ad essa attribuite dall'art. 8, n. 10,
e dagli artt. 16 e 98 dello Statuto del Trentino-Alto Adige (d.P.R.
31 agosto 1972, n. 670), in materia di "edilizia comunque
sovvenzionata, totalmente o parzialmente, da finanziamenti a
carattere pubblico", e dalle relative norme di attuazione, nonché le
competenze riconosciute alla stessa ricorrente dall'art. 6 del d.P.R.
19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla regione Trentino-Alto Adige
ed alle province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del
decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616), in
ordine "all'attuazione dei regolamenti della Comunità economica
europea, ove questi richiedono una normazione integrativa o
un'attività amministrativa di esecuzione".
Per contro, la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri
nega che l'atto impugnato possa essere considerato invasivo delle
competenze assicurate alla ricorrente, in quanto, collegandosi a
norme comunitarie direttamente applicabili nell'ordinamento degli
Stati membri della Comunità europea, che, come tali, prevalgono per
forza propria sul diritto interno, non potrebbe esser diretto ad
adeguare l'ordinamento nazionale ai principi comunitari e a innovarne
in tal modo l'ordine legislativo, ma sarebbe rivolto, piuttosto, a
porre direttive a coloro che sono chiamati a dare attuazione alle
predette norme comunitarie allo scopo di assicurare l'uniformità e
la correttezza dei relativi comportamenti.
2. - Al fine di decidere tale conflitto di attribuzione occorre,
innanzitutto, individuare le norme comunitarie poste a base dell'atto
impugnato, e verificare se esse abbiano un'efficacia diretta
nell'ordinamento interno di uno Stato membro.
Contrariamente a quel che suppone la ricorrente e nonostante che
lo stesso d.P.C.M. 28 ottobre 1988 faccia espresso riferimento nel
suo preambolo all'art. 9, paragrafo 1, del regolamento CEE 15 ottobre
1968, n. 1612/68, non è possibile considerare quest'ultimo come il
fondamento normativo dell'atto impugnato. Infatti, mentre il d.P.C.M.
28 ottobre 1988 contiene disposizioni esclusivamente riferite ai
lavoratori autonomi, il regolamento comunitario n. 1612/68, come ha
riconosciuto in più occasioni la stessa Corte di giustizia europea
(v., ad esempio, sent. 12 febbraio 1974, in causa 152/73; sent. 14
gennaio 1982, in causa 65/81; sent. 13 luglio 1983, in causa 152/82;
sent. 14 gennaio 1988, in causa 63/86), si riferisce, invece,
unicamente ai lavoratori subordinati. Più precisamente, l'art. 9,
paragrafo 1, di tale regolamento, in diretta applicazione dell'art.
48 del Trattato istitutivo, attua e completa la garanzia ivi prevista
della libera circolazione dei lavoratori subordinati all'interno
della Comunità, riconoscendo come parte integrante della stessa
l'equiparazione dei lavoratori provenienti da altro Stato membro ai
lavoratori nazionali per tutto quel che concerne i diritti e i
vantaggi da questi goduti nell'accesso alla proprietà e alla
locazione degli alloggi.
La norma comunitaria che sta a base dell'atto impugnato, pur se
dispone per i lavoratori autonomi una disciplina perfettamente
identica a quella stabilita per i lavoratori subordinati, ha un
fondamento distinto nel Trattato istitutivo della CEE ed è frutto di
un diverso procedimento di produzione normativa. Il fondamento,
infatti, è dato dagli artt. 52 e 59 del Trattato, i quali,
ispirandosi alla medesima ratio dell'art. 48, riconoscono ai
cittadini degli Stati membri il diritto di stabilirsi in qualsiasi
altro Paese della Comunità, di svolgervi attività di lavoro non
salariato e di prestarvi liberamente i servizi. Tuttavia,
diversamente da quanto è avvenuto per i lavoratori subordinati,
l'interpretazione estensiva della garanzia di quelle libertà - nel
senso di ricomprendervi l'equiparazione dei lavoratori autonomi di
altro Stato membro con quelli nazionali per quanto concerne i diritti
e i vantaggi per l'accesso alla proprietà e alla locazione degli
alloggi - è avvenuta, non per effetto di un regolamento, ma in
conseguenza di una sentenza della Corte di giustizia europea.
Nel decidere, con la sentenza 14 gennaio 1988, in causa 63/86, un
giudizio promosso nei confronti dell'Italia a norma dell'art. 169 del
Trattato (vale a dire un giudizio per violazione di obblighi
derivanti dal Trattato), la Corte di giustizia, interpretando gli
artt. 52 e 59 in connessione con il principio di parità di
trattamento sancito dall'art. 7 dello stesso Trattato e partendo
dalla considerazione che l'esercizio di un'attività professionale
presuppone anche la garanzia di prendere dimora nel luogo in cui
quell'attività viene svolta, ha concluso che il diritto allo
stabilimento e alla libera prestazione di servizi e il principio
della parità di concorrenza all'interno della Comunità comportano
che "il cittadino di uno Stato membro che intenda esercitare
un'attività lavorativa autonoma in un altro Stato membro deve
pertanto potervi prendere alloggio a condizioni equivalenti a quelle
di cui fruiscono i concorrenti cittadini di quest'ultimo Stato"
(punti 14 e 15 della sentenza precedentemente citata). Su tale base,
la stessa Corte ha condannato la Repubblica italiana per aver violato
i predetti obblighi attraverso l'adozione di atti legislativi,
nazionali e regionali (Puglia, Toscana, Emilia-Romagna e Liguria),
che avevano riservato ai soli cittadini italiani l'accesso alla
proprietà o alla locazione di alloggi rientranti nell'edilizia
residenziale pubblica e al relativo credito.
3. - In sintesi, la norma comunitaria che sta a fondamento del
decreto impugnato è data dagli artt. 52 e 59 del Trattato come
interpretati dalla sentenza 14 gennaio 1988, in causa 63/86, resa
dalla Corte di giustizia delle Comunità europee ai sensi dell'art.
169 del Trattato istitutivo.
Ad avviso della Provincia autonoma di Bolzano, una sentenza come
quella appena citata, resa in sede di giudizio di condanna per
violazione di obblighi derivanti dal Trattato, non potrebbe essere
considerata fonte di statuizioni compiute e direttamente applicabili
negli ordinamenti interni degli Stati membri, dovendo riconoscersi
tale qualità soltanto alle sentenze interpretative che la Corte di
giustizia rende quando è adita in via pregiudiziale, ai sensi
dell'art. 177 del Trattato.
Tale assunto non può essere condiviso. Anche se è vero che
questa Corte ha avuto occasione in passato di riconoscere l'immediata
applicabilità di una normativa comunitaria nell'interpretazione
datane da una sentenza della Corte di giustizia resa in un giudizio
instaurato ai sensi dell'art. 177 del Trattato (v. sent. n. 113 del
1985), il principio allora affermato è di portata più generale.
Poiché ai sensi dell'art. 164 del Trattato spetta alla Corte di
giustizia assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e
nell'applicazione del medesimo Trattato, se ne deve dedurre che
qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria
ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto
comunitario, nel senso che la Corte di giustizia, come interprete
qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il
significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in
definitiva, l'ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative.
Quando questo principio viene riferito a una norma comunitaria avente
"effetti diretti" - vale a dire a una norma dalla quale i soggetti
operanti all'interno degli ordinamenti degli Stati membri possono
trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio non
v'è dubbio che la precisazione o l'integrazione del significato
normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte
di giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni
interpretate.
Nel caso di specie, contrariamente a quanto supposto dalla
ricorrente, si è di fronte a norme, come quelle contenute negli
artt. 52 e 59 del Trattato, alle quali, essendo decorso il periodo
transitorio, deve riconoscersi una diretta efficacia (v., in tal
senso, Corte di giustizia CEE, sent. 21 giugno 1974, in causa 2/74;
sent. 14 gennaio 1988, in causa 63/86) e dalle quali, pertanto,
derivano attualmente diritti, come la libertà di stabilimento e
quella di prestazione dei servizi, che sono immediatamente tutelabili
in giudizio da parte dei cittadini degli Stati membri. Poiché con la
sentenza precedentemente menzionata la Corte di giustizia europea ha
affermato che nei predetti diritti va ricompresa la garanzia, per
tutti i cittadini dei Paesi aderenti alla Comunità che svolgano un
lavoro autonomo all'interno di altro Stato membro, di esser
parificati ai cittadini di quest'ultimo Stato nel godimento dei
diritti e delle agevolazioni concernenti l'accesso alla proprietà o
alla locazione degli alloggi, si deve ritenere che le norme poste
dagli artt. 52 e 59 del Trattato siano immediatamente applicabili
negli ordinamenti nazionali nell'interpretazione più lata ora
ricordata.
4. - Chiarita la natura e l'efficacia delle norme desumibili dagli
artt. 52 e 59 del Trattato CEE, si pone a questo punto il problema
della definizione dei rapporti, all'interno dell'ordinamento
nazionale, fra le norme comunitarie direttamente applicabili e le
norme di legge con esse incompatibili.
Come questa Corte ha affermato nella sentenza n. 170 del 1984 e in
altre successive, il riconoscimento dell'ordinamento comunitario e di
quello nazionale come ordinamenti reciprocamente autonomi, ma tra
loro coordinati e comunicanti, porta a considerare l'immissione
diretta nell'ordinamento interno delle norme comunitarie
immediatamente applicabili come la conseguenza del riconoscimento
della loro derivazione da una fonte (esterna) a competenza riservata,
la cui giustificazione costituzionale va imputata all'art. 11 della
Costituzione e al conseguente particolare valore giuridico attribuito
al Trattato istitutivo delle Comunità europee e agli atti a questo
equiparati. Ciò significa che, mentre gli atti idonei a porre quelle
norme conservano il trattamento giuridico o il regime ad essi
assicurato dall'ordinamento comunitario - nel senso che sono
assoggettati alle regole di produzione normativa, di interpretazione,
di abrogazione, di caducazione e di invalidazione proprie di
quell'ordinamento -, al contrario le norme da essi prodotte operano
direttamente nell'ordinamento interno come norme investite di "forza
o valore di legge", vale a dire come norme che, nei limiti delle
competenze e nell'ambito degli scopi propri degli organi di
produzione normativa della Comunità, hanno un rango primario.
Da ciò deriva, come ha precisato la già ricordata sentenza n.
170 del 1984, che, nel campo riservato alla loro competenza, le norme
comunitarie direttamente applicabili prevalgono rispetto alle norme
nazionali, anche se di rango legislativo, senza tuttavia produrre,
nel caso che queste ultime siano incompatibili con esse, effetti
estintivi. Più precisamente, l'eventuale conflitto fra il diritto
comunitario direttamente applicabile e quello interno, proprio
perché suppone un contrasto di quest'ultimo con una norma prodotta
da una fonte esterna avente un suo proprio regime giuridico e
abilitata a produrre diritto nell'ordinamento nazionale entro un
proprio distinto ambito di competenza, non dà luogo a ipotesi di
abrogazione o di deroga, né a forme di caducazione o di annullamento
per invalidità della norma interna incompatibile, ma produce un
effetto di disapplicazione di quest'ultima, seppure nei limiti di
tempo e nell'ambito materiale entro cui le competenze comunitarie
sono legittimate a svolgersi.
Ribaditi questi principi, si deve concludere, con riferimento al
caso di specie, che tutti i soggetti competenti nel nostro
ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o
valore di legge) - tanto se dotati di poteri di dichiarazione del
diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali
poteri, come gli organi amministrativi - sono giuridicamente tenuti a
disapplicare le norme interne incompatibili con le norme stabilite
dagli artt. 52 e 59 del Trattato CEE nell'interpretazione datane
dalla Corte di giustizia europea. Ciò significa, in pratica, che
quei soggetti devono riconoscere come diritto legittimo e vincolante
la norma comunitaria che, nell'accesso alla proprietà o alla
locazione dell'abitazione e al relativo credito, impone la parità di
trattamento tra i lavoratori autonomi cittadini di altri Stati membri
e quelli nazionali, mentre sono tenuti a disapplicare le norme di
legge, statali o regionali, che riservano quei diritti e quei
vantaggi ai soli cittadini italiani.
Tuttavia, poiché la disapplicazione è un modo di risoluzione
delle antinomie normative che, oltre a presupporre la contemporanea
vigenza delle norme reciprocamente contrastanti, non produce alcun
effetto sull'esistenza delle stesse e, pertanto, non può esser causa
di qualsivoglia forma di estinzione o di modificazione delle
disposizioni che ne siano oggetto, resta ferma l'esigenza che gli
Stati membri apportino le necessarie modificazioni o abrogazioni del
proprio diritto interno al fine di depurarlo da eventuali
incompatibilità o disarmonie con le prevalenti norme comunitarie. E
se, sul piano dell'ordinamento nazionale, tale esigenza si collega al
principio della certezza del diritto, sul piano comunitario, invece,
rappresenta una garanzia così essenziale al principio della
prevalenza del proprio diritto su quelli nazionali da costituire
l'oggetto di un preciso obbligo per gli Stati membri (v., in tal
senso, Corte di giustizia delle Comunità europee: sent. 25 ottobre
1979, in causa 159/78; sent. 15 ottobre 1986, in causa 168/85; sent.
2 marzo 1988, in causa 104/86).
5. - Posti così i termini del problema, occorre esaminare
conclusivamente quali siano la natura e le finalità del decreto
impugnato.
Come si è precedentemente ricordato, mentre la ricorrente ritiene
che tale decreto sia invasivo delle proprie competenze in materia di
edilizia pubblica sovvenzionata o in quella dell'attuazione delle
norme comunitarie direttamente applicabili, in quanto contiene
direttive vincolanti in ordine alla modificazione di proprie leggi
ovvero in ordine all'integrazione o all'applicazione nel proprio
territorio del diritto comunitario immediatamente efficace, lo Stato,
invece, ritiene che si sia in presenza di un atto di indirizzo per
l'attuazione di norme comunitarie direttamente efficaci, il quale
sarebbe pienamente legittimo in quanto giustificato dallo scopo di
assicurare un'uniforme applicazione di quelle norme. In altre parole,
tanto la Provincia di Bolzano quanto lo Stato presuppongono che si
tratti di un atto governativo di indirizzo e di coordinamento, di cui
forniscono, peraltro, una valutazione opposta in termini di
legittimità.
In realtà, il d.P.C.M. 28 ottobre 1988 - anche se nel suo titolo
si qualifica come "atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e
alle province autonome" e anche se nel suo preambolo si definisce
come un "atto di indirizzo per l'applicazione della normativa statale
e regionale, nonché delle province autonome di Trento e di Bolzano"
- rivela un contenuto difficilmente conciliabile con un atto di
quella natura. Nel suo articolo unico, infatti, tale decreto dispone
testualmente: "Gli organi dello Stato, le regioni a statuto ordinario
e speciale, le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti
pubblici e gli istituti esercenti il credito a favore dell'edilizia,
nell'applicazione di norme di legge e di regolamenti statali,
regionali e provinciali, che disciplinano l'assegnazione di alloggi
di edilizia economica e popolare e l'accesso al connesso credito ed
ogni altro beneficio relativo ad interventi di edilizia residenziale
pubblica, sovvenzionata e agevolata, considereranno i cittadini di
Stati membri della Comunità economica europea, che svolgano in
Italia attività di lavoro autonomo e versino nelle condizioni
soggettive e oggettive previste dalla citata normativa, equiparati ai
lavoratori autonomi cittadini italiani".
L'impossibilità di imputare tale disposizione alla funzione
governativa di indirizzo e di coordinamento deriva dal fatto che
quest'ultima costituisce l'esercizio di una competenza particolare
che si distingue da altri poteri governativi di direzione o di
direttiva - e, a maggior ragione, di normazione - per avere contenuto
e caratteri formali del tutto peculiari. Più precisamente, tale
funzione ha il proprio fondamento costituzionale nelle norme che
pongono limiti alle competenze legislative e amministrative delle
regioni e delle province autonome (v., da ultimo, sent. n. 242 del
1989); è esercitata da soggetti (legislatore o autorità di governo)
e secondo procedure e forme che sono predeterminati dalla legge (v.
specialmente artt. 3 della legge n. 382 del 1975 e 2, terzo comma,
lett. d, della legge n. 400 del 1988); è indirizzata a soggetti
dotati di autonomia costituzionalmente garantita, che, in ragione di
questa loro posizione, ne condizionano le modalità di esplicazione e
i relativi limiti (principio di legalità "sostanziale",
strumentalità alla tutela di interessi unitari, etc.); e, infine, è
svolta attraverso atti caratterizzati da un contenuto dispositivo
funzionalmente tipizzato, consistente nella posizione di programmi,
di indirizzi o di misure di coordinamento.
Poiché secondo l'ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte
(v., ad esempio, sentt. nn. 219 del 1984, 151 del 1986, 107 e 611 del
1987, 726 del 1988) l'autoqualificazione di un atto non può esser
considerata determinante quando sia contraddetta dall'oggettiva
natura giuridica dell'atto stesso, si rende necessario esaminare il
decreto impugnato onde verificare se risponda ai requisiti di
identità del proprio tipo.
6. - Sulla base dei tratti caratteristici della funzione di
indirizzo e di coordinamento prima ricordati, gli atti attraverso cui
tale funzione si esercita vanno identificati tanto in relazione a
criteri formali attinenti al fondamento di competenza, al soggetto
che li adotta, alla forma della deliberazione, alla materia
disciplinata e ai destinatari delle disposizioni, quanto in relazione
a criteri materiali attinenti alla caratterizzazione strutturale e
funzionale delle misure adottate, le quali devono consistere nel
contenuto tipizzato proprio della competenza di indirizzo e di
coordinamento.
Sebbene risponda positivamente a molti dei requisiti indicati, il
decreto impugnato è tuttavia manchevole sia per quanto riguarda i
criteri contenutistici, sia per quanto concerne il criterio formale
relativo ai propri destinatari.
Sotto il primo profilo, va sottolineato che il decreto impugnato
non aggiunge alcun quid novi rispetto alla norma comunitaria che, in
conseguenza dell'interpretazione datane dalla Corte di giustizia CEE
nella sentenza 14 gennaio 1988, in causa 63/86, si deduce dagli artt.
52 e 59 del Trattato CEE in relazione al diritto dei cittadini dei
Paesi della Comunità concernente l'accesso alla proprietà e alla
locazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica e al
relativo credito.
In altre parole, il d.P.C.M. 28 ottobre 1988, contrariamente a
quanto supposto dalla ricorrente, non è diretto a integrare la
predetta norma comunitaria, né a darvi attuazione e neppure a
imporre alle regioni e alle province autonome di modificare o di
adeguare alla stessa norma comunitaria le proprie leggi eventualmente
difformi. D'altra parte, contrariamente a quanto supposto
dall'Avvocatura dello Stato, il decreto impugnato non contiene
direttive per l'applicazione della citata norma comunitaria, poiché
si limita a ricordare alle regioni e alle province autonome,
oltreché agli organi dello Stato, che, in base agli artt. 52 e 59
del Trattato CEE, come interpretati dalla Corte di giustizia europea,
essi dovranno considerare i cittadini di Stati membri della Comunità
economica europea, che svolgano in Italia attività di lavoro
autonomo, come equiparati ai cittadini italiani nell'accesso agli
alloggi di edilizia economica e al relativo credito.
In breve, l'atto impugnato si limita a portare a conoscenza di
tutti gli organi dello Stato e di tutte le regioni (e delle province
autonome) l'esistenza di un obbligo comunitario, di per sé già
direttamente osservabile e prevalente sulle leggi statali o
regionali, avente il contenuto riferito dal decreto stesso. Esso, in
altre parole, adempie a una funzione notiziale, la quale ha, in ogni
caso, contenuto e finalità tali da non poter essere minimamente
ricondotta alla funzione di indirizzo e di coordinamento.
Del resto, un ulteriore indizio dell'impossibilità di ricondurre
l'atto impugnato nell'ambito della funzione (governativa) di
indirizzo e di coordinamento verso le regioni e le province autonome
e della particolare posizione ricoperta dal Governo in tale evenienza
è dato dal fatto che quell'atto è indiscriminatamente indirizzato a
tutti gli organi, statali e regionali, che operano nell'applicazione
delle leggi sull'edilizia residenziale pubblica e sull'accesso al
relativo credito. Questo rilievo, infatti, corrobora l'idea che
l'atto impugnato si collega a una funzione diversa da quella che il
Governo esercita esclusivamente verso le regioni e le province
autonome con gli atti di indirizzo e di coordinamento.
Da tale conclusione discende, altresì, l'assorbimento degli
ulteriori profili di legittimità del decreto impugnato sollevati sul
presupposto della sua qualificazione come atto di indirizzo e
coordinamento.
7. - Pur se, dunque, per la funzione meramente notiziale che lo
caratterizza, non può rientrare, nonostante la propria
autoqualificazione (espressa, peraltro, in parti esterne al contenuto
dispositivo), fra gli atti (governativi) di indirizzo e di
coordinamento verso le regioni (e le province autonome), il d.P.C.M.
28 ottobre 1988 non può essere considerato illegittimo. Infatti,
proprio per la funzione che svolge, tale decreto non può essere
interpretato come un atto diretto a produrre una (illegittima)
novazione della fonte della norma comunitaria cui si riferisce. Né,
del resto, va trascurato che, sempre in considerazione dello scopo
che obiettivamente lo caratterizza, lo stesso decreto risponde
pienamente al principio di "leale cooperazione" che, secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte, presiede ai rapporti fra
Stato e regioni (o province autonome).
Tantomeno, poi, può ritenersi che l'atto impugnato sia stato
adottato inutilmente. Per un verso, infatti, nel portare a conoscenza
di tutti i soggetti dell'ordinamento interno operanti nel campo
dell'edilizia residenziale pubblica una norma comunitaria che è
stata determinata nel suo preciso significato da una sentenza della
Corte di giustizia delle Comunità europee, il decreto impugnato
rende nota nelle forme pubbliche ufficiali una norma che, a causa del
suo particolare modo di definizione e delle sommarie forme di
pubblicità delle suddette sentenze nell'ordinamento nazionale,
potrebbe essere non esattamente conosciuta dai soggetti interni. Per
altro verso, lo stesso decreto, nell'adempiere alla ricordata
funzione notiziale, pone all'attenzione dei soggetti dell'ordinamento
interno operanti nel campo dell'edilizia residenziale pubblica gli
obblighi derivanti sul piano dell'ordinamento nazionale
dall'esistenza di una norma comunitaria direttamente applicabile e
prevalente su ogni altra legge interna, tanto se statale, quanto se
regionale (o provinciale).
In ogni caso, proprio a causa della funzione meramente notiziale
che è chiamato a svolgere, il decreto impugnato non può esser
ritenuto oggettivamente idoneo ad apportare qualsivoglia lesione o a
produrre qualsiasi forma d'interferenza nei confronti delle autonomie
costituzionalmente garantite alle regioni e alle province autonome.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato dalla
Provincia autonoma di Bolzano in relazione all'articolo unico del
Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 28 ottobre 1988
(Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni ed alle province
autonome per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica ed al
relativo credito dei cittadini comunitari esercenti attività di
lavoro autonomo), in riferimento agli artt. 8, n. 10, 16 e 98 dello
Statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige (d.P.R. 31 agosto
1972, n. 670) e alle relative norme di attuazione, nonché all'art. 6
del d.P.R. 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla Regione
Trentino-Alto Adige ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano
delle disposizioni del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 4 luglio 1989.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: BALDASSARRE
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria l'11 luglio 1989.
Il direttore della cancelleria: MINELLI
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