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Sentenza n. 7101 del 1 settembre 2011 Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

Trasferimento in Ungheria quale Stato competente a decidere sulal richiesta di protezione internazionale

     

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio


(Sezione Seconda Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9802 del 2010, proposto da:
*****, rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Precenzano, con domicilio eletto presso Francesco Precenzano in Roma, via Valadier, 39;

contro

Min. Interno Dipart. Liberta' Civili, Immigrazione e Asilo - Unita' Dublino, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento

del provvedimento del Ministero dell'Interno prot. 118479 del 16.6.2010 e notificato in data 23.07.2010 con il quale si è deciso il trasferimento del ricorrente in Ungheria, quale Stato competente a decidere sulal richiesta di protezione internazionale;

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Min. Interno Dipart. Liberta' Civili, Immigrazione e Asilo - Unita' Dublino;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 giugno 2011 il dott. Floriana Rizzetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Il Sig. *****, cittadino turco di etnia curda, premesso di aver presentato in Italia in data 7.1.2010 domanda diretta al riconoscimento dello status di rifugiato, impugna il provvedimento indicato in epigrafe con cui l'Amministrazione - verificato attraverso il sistema EURODAC che lo stesso ricorrente aveva presentato analoga richiesta in Ungheria in data 24/11/09 ed avendo inviato in data 9.6.2010 la richiesta di ripresa in carico ai sensi dell'art. 16.1 del Reg. n. 343/3003 all'Ungheria, che con nota del 15.6.2010 ha riconosciuto la propria competenza - ritenendo l'Ungheria un paese terzo sicuro e non ravvisando motivi che avrebbero potuto indurre l'Italia ad assumere la competenza ai sensi dell'art. 3.2 del Regolamento Dublino II, ha disposto il trasferimento in Ungheria del ricorrente per l’esame della sua domanda di protezione.

Si è costituita in giudizio l'Amministrazione intimata che resiste formalmente.

Con ordinanza n. 5530 del 21-12-2010 la domanda cautelare è stata respinta.

All'udienza pubblica del 27.6.2011 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Il ricorrente impugna il provvedimento con il quale l'Unità Dublino ha disposto il suo trasferimento in Ungheria in quanto Stato competente ai sensi dell'art. 16.1 del Reg. CE ad esaminare la sua domanda di protezione.

Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 17.1 del Reg. CE n. 343/03, in quanto la richiesta di presa in carico da parte dell'Ungheria avrebbe dovuto essere formulata entro tre mesi dalla data di presentazione della domanda di protezione internazionale, e nel caso di specie detto termine non sarebbe stato osservato.

Insiste quindi il ricorrente per l'accoglimento del ricorso.

La censura è infondata.

Il Regolamento CE n. 343/03, cosiddetto "Dublino II" , è stato adottato per evitare il fenomeno dell'asylum shopping e per uniformare a livello europeo la legislazione comunitaria in materia di asilo.

La disciplina del regolamento (art. 3.1) è improntata al fine di evitare che più Stati membri siano chiamati a pronunciarsi sulla stessa domanda di protezione internazione, e pertanto il "Regolamento Dublino II" prevede dei rigidi criteri di competenza, derogabili in applicazione della clausola di sovranità (art. 3.2) soltanto in casi del tutto eccezionali.

Nel caso di specie, il ricorrente ha presentato la prima domanda di asilo in Ungheria (in data 14/12/09) e dunque il trasferimento in quello Stato membro è stato disposto in applicazione dell'art. 16.1 lett. c) del Reg. CE in base al quale "Lo Stato membro competente per l'esame di una domanda di asilo in forza del presente regolamento è tenuto a riprendere in carico, alle condizioni di cui all'art. 20, il richiedente asilo la cui domanda è in corso d'esame e che si trova nel territorio di un altro Stato membro senza esserne stato autorizzato".

L'art. 16.1 lett. c) del Reg. CE n. 343/03 rimanda quindi all'art. 20 dello stesso regolamento per quanto concerne le modalità del trasferimento.

Detta norma, infatti, disciplina la procedura di "ripresa in carico" di un richiedente asilo in conformità dell'art. 4.5 e dell'art. 16.1 lett. c), d) ed e) del Reg. Dublino II e prevede i termini entro i quali lo Stato membro deve pronunciarsi sulla richiesta di ripresa in carico (un mese o due settimane se la richiesta è basata su dati ottenuti dal sistema Eurodac) ed il termine (sei mesi al massimo, salvo proroghe) entro il quale deve essere trasferito il richiedente asilo dalla data di accettazione da parte dell'altro Stato membro.

La disciplina relativa alla cosiddetta "ripresa in carico" non contiene la norma invocata dal ricorrente, disposizione che si applica esclusiva mente alla diversa situazione della cosiddetta "presa in carico", che ricorre quando lo straniero ha varcato illegalmente la frontiera di uno Stato membro e detto Stato membro è ritenuto competente ai sensi dell'art. 10.1 del Regolamento per la disamina della domanda di asilo.

Solo in caso di "presa in carico" si applica la disposizione dell'art. 17.1 del Reg. n. 343/03 invocata dal ricorrente, così come può agevolmente evincersi sia dalla lettura della norma stessa, che si riferisce espressamente alla "presa in carico", sia dalla disamina dell'art. 16 comma 1 lett. a) dello stesso Regolamento, secondo cui la procedura di "presa in carico" è disciplinata negli articoli da 17 a 19.

Peraltro, la differente disciplina esistente nel Reg. n. 343/03 per la "presa" e la "ripresa" in carico, risulta ampiamente giustificata dalla diversità delle situazioni di fatto: mentre nel primo caso la competenza dello "Stato membro richiesto" si basa su prove spesso meramente indiziarie, nel secondo caso il sistema Eurodac fornisce elementi certi di giudizio in merito all'esistenza di una precedente domanda di asilo in un altro Stato membro, il che ha comportato per il Legislatore la previsione della diversità della disciplina e dei termini di accettazione tacita (due mesi e due settimine) previsti per le due diverse fattispecie (T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 03 maggio 2011 , n. 3796).

Poiché la situazione del ricorrente è riconducibile alla cosiddetta "ripresa in carico", la censura non può essere accolta.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 3 co. 2 del Reg. CE n. 343/03 lamentando l’omessa valutazione della possibilità, da parte dell'Amministrazione, di far ricorso alla clausola di sovranità, in combinato disposto con l’art. 15 comma 1, clausola umanitaria, in considerazione della giovane età del ricorrente e della presenza in Italia di quattro zii.

Anche tale censura va disattesa.

L'art. 15 del Regolamento CE 343/2003 (ai sensi del quale: "Qualsiasi Stato membro può, pur non essendo competente in applicazione dei criteri definiti dal presente regolamento, procedere al ricongiungimento dei membri di una stessa famiglia nonché di altri parenti a carico, per ragioni umanitarie, fondate in particolare su motivi familiari o culturali. In tal caso detto Stato membro esamina, su richiesta di un altro Stato membro, la domanda di asilo dell'interessato. Le persone interessate debbono acconsentire. Nel caso in cui la persona interessata sia dipendente dall'assistenza dell'altra a motivo di una gravidanza, maternità recente, malattia grave, serio handicap o età avanzata, gli Stati membri possono lasciare insieme o ricongiungere il richiedente asilo e un altro parente che si trovi nel territorio di uno degli Stati membri, a condizione che i legami familiari esistessero nel paese d'origine..."), introduce una deroga alla gerarchia dei criteri in precedenza definiti nel medesimo regolamento, che impone una particolare cautela nell'interpretazione delle "ragioni umanitarie, fondate in particolare su motivi familiari o culturali".

Quanto ai primi, l'art. 2 lett. i) precisa che i legami familiari sono quelli relativi ai soggetti che appartenendo al nucleo familiare del richiedente asilo già costituito nel paese di origine e che si trovano nel territorio degli Stati membri: i) il coniuge del richiedente asilo o il partner non legato da vincoli di matrimonio che abbia una relazione stabile, qualora la legislazione o la prassi dello Stato membro interessato assimili la situazione delle coppie di fatto a quelle sposate nel quadro della legge sugli stranieri; ii) i figli minori di coppie di cui al punto i) o del richiedente, a condizione che non siano coniugati e siano a carico, indipendentemente dal fatto che siano figli legittimi, naturali o adottivi secondo le definizioni del diritto nazionale; iii) il padre, la madre o il tutore quando il richiedente o rifugiato è minorenne e non coniugato".

Il ricorrente non può perciò beneficiare dell’applicazione della clausola umanitaria in quanto i parenti indicati non rivestono il grado di parentela previsto dalla norma sopra richiamata.

Quanto ai secondi è stata evidenziata la ratio della norma che, introducendo una deroga alla gerarchia dei criteri in precedenza definiti nel medesimo regolamento, impone una particolare cautela nell'interpretazione delle "ragioni umanitarie, fondate in particolare su motivi familiari o culturali", a salvaguardia delle quali la norma è posta, dovendosi ritenere che, mentre per l'applicazione della suindicata deroga, la P.A. avrebbe dovuto fornire ampia e documentata motivazione, in riscontro delle allegazioni e produzioni addotte dal richiedente a fondamento della propria pretesa al ricongiungimento, lo stesso non può dirsi nel caso in cui la stessa amministrazione faccia applicazione dei criteri tassativamente previsti dalla predetta normativa, non avendo il ricorrente addotto particolari ragioni per avvalersi della "clausola umanitaria ". In tale prospettiva è stata evidenziata la necessità di un'interpretazione restrittiva della clausola umanitaria, che deve essere ritenuta applicabile solo per determinate categorie di soggetti, che versino in situazione di vulnerabilità a proprio carico (come, per esempio, quella insita nell'esistenza di gravi patologie, di uno stato di gravidanza, della minore età, ecc.) che abbiano altresì legami familiari nel paese "richiedente", al fine di non svilire l'affermazione contenuta nella premessa posta dal cit. Reg. CE 343, laddove si afferma tutti gli Stati membri sono considerati Stati sicuri per i cittadini dei paesi terzi (T.A.R. Lombardia Milano, sez. IV, 05 luglio 2010 , n. 2709).

Nella fattispecie in esame non è stata dimostrata l’esistenza a carico del ricorrente di una situazione tale da giustificare una deroga agli ordinari criteri di competenza degli Stati indicati dal Regolamento in parola per "ragioni umanitarie fondate su particolari motivi familiari o culturali".

Per le considerazioni sopra svolte il ricorso deve essere respinto.

Sussistono motivi d’equità per compensare integralmente fra le parti le spese di causa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 giugno 2011

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 01/09/2011

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

Giovedì, 1 Settembre 2011

 
 
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