CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

NILS WAHL

presentate il 12 dicembre 2013 (1)

Causa C‑507/12

Jessy Saint Prix

contro

Secretary of State for Work and Pensions

Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Supreme Court of the United Kingdom (Regno Unito)

«Libera circolazione dei lavoratori – Articolo 45 TFUE – Discriminazione in base alla nazionalità – Discriminazione basata sul sesso – Direttiva 2004/38/CE – Articolo 7, paragrafi 1 e 3 – Definizione di «lavoratore» – Diritto di soggiorno – Cittadina dell’Unione che ha cessato temporaneamente di lavorare a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo successivo al parto – Indennità integrativa del reddito – Risorse sufficienti – Proporzionalità»





1.        Una cittadina dell’Unione che soggiorna e lavora in uno Stato membro diverso dal suo cessa temporaneamente di lavorare a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo immediatamente successivo al parto. Essa richiede quindi una prestazione speciale in denaro a carattere non contributivo per il periodo di tempo durante il quale le donne cittadine dello Stato membro ospitante non sono tenute a lavorare o a cercare attivamente un lavoro. La sua domanda viene respinta dalle autorità nazionali competenti. Il giudice del rinvio chiede se, in tali circostanze, siffatta cittadina debba essere trattata come una «lavoratrice», ai sensi dell’articolo 45 TFUE e, segnatamente, se essa rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo 7 della direttiva 2004/38/CE (2) (in prosieguo: la «direttiva sulla cittadinanza»).

2.        A mio parere, è evidente che tale questione debba essere risolta in senso affermativo. Come cercherò di illustrare in prosieguo, qualsiasi interpretazione diversa dell’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza comporterebbe una violazione non soltanto del principio di non-discriminazione in base alla nazionalità, ma anche di quello di non discriminazione in base al sesso, principi che godono entrambi di indubbia rilevanza costituzionale nel diritto dell’Unione europea.

I –    Fatti, procedimento e questioni deferite

3.        La sig.ra Saint Prix è una cittadina francese che dal 10 luglio 2006 soggiorna in via continuativa nel Regno Unito. Dal settembre 2006 all’agosto 2007, essa ha svolto diversi lavori, essenzialmente come assistente insegnante. Successivamente, essa si è iscritta ad un corso post-universitario attinente al suo precedente impiego nel settore dell’educazione. Nel febbraio 2008 essa si è ritirata dagli studi essendo in stato interessante.

4.        La sig.ra Saint Prix ha quindi cercato lavoro in scuole secondarie. Poiché non vi erano posti disponibili, per vari mesi ha dovuto lavorare presso scuole materne tramite agenzie per il lavoro interinale. Dal 12 marzo 2008, vale a dire 12 settimane prima della data presunta del parto, essa ha cessato di lavorare in quanto accudire bambini della scuola materna era diventato troppo faticoso. Per qualche giorno ha cercato invano un lavoro meno pesante.

5.        Il 18 marzo 2008, su consiglio del suo medico, la sig.ra Saint Prix ha richiesto un’indennità integrativa del reddito («Income Support»), una prestazione speciale in denaro di natura non contributiva (3). La sua domanda è stata respinta in quanto, ai sensi della normativa nazionale pertinente, essa aveva perso il «diritto di soggiorno nel Regno Unito», che costituisce un presupposto per ricevere l’indennità integrativa del reddito. Tutte le parti sembrano convenire sulla circostanza che la domanda è stata presentata nelle 11 settimane precedenti la data presunta del parto.

6.        Il figlio della sig.ra Saint Prix è nato il 21 maggio 2008. Circa tre mesi dopo la nascita, la sig.ra Saint Prix ha ripreso il lavoro.

7.        La sig.ra Saint Prix ha proposto ricorso dinanzi al First Tier Tribunal avverso la decisione di negarle la concessione dell’indennità integrativa del reddito. Con decisione del 4 settembre 2008 il suo ricorso è stato accolto. Quest’ultima decisione è stata a sua volta impugnata dal Secretary of State for Work and Pensions dinanzi all’Upper Tribunal, che il 7 maggio 2010 si è pronunciato a favore del Secretary of State. La sig.ra Saint Prix ha allora impugnato la sentenza dell’Upper Tribunal dinanzi alla Court of Appeal. In seguito alla dichiarazione di irricevibilità del suo appello da parte del suddetto giudice in data 13 luglio 2011, essa ha proposto ulteriore ricorso dinanzi alla Supreme Court of the United Kingdom (in prosieguo: la «Supreme Court»).

8.        Nutrendo dubbi circa la corretta interpretazione dell’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza, la Supreme Court ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni:

«1.      Se il diritto di soggiorno, conferito a un “lavoratore” dall’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza, debba essere interpretato nel senso che esso si applica soltanto alle persone che i) si trovano in un rapporto di lavoro attuale, ii) sono (quantomeno in alcune circostanze) alla ricerca di un’occupazione, o iii) rientrano nell’ambito di applicazione dei casi previsti dall’articolo 7, paragrafo 3, oppure se detto articolo debba essere interpretato nel senso che non osta a riconoscere tale diritto ad altre persone che conservano la qualità di “lavoratori” a tal fine.

2.      Se, in quest’ultimo caso, (i) esso si applichi ad una donna che abbia cessato di lavorare o abbia interrotto la ricerca di un’occupazione ragionevolmente, a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza (e al periodo successivo al parto).

(ii) In caso affermativo, se essa abbia diritto di beneficiare della definizione, fornita dal diritto nazionale, del momento in cui tale scelta è ragionevole».

9.        Osservazioni scritte sono state presentate dalla sig.ra Saint Prix, dall’AIRE Centre (4) e dall’Autorità di vigilanza EFTA, nonché dai governi polacco e del Regno Unito e dalla Commissione, ognuno dei quali – ad eccezione del governo polacco – ha presentato osservazioni orali all’udienza del 14 novembre 2013.

II – Analisi

A –    Un cittadino dell’Unione nella situazione della sig.ra Saint Prix deve mantenere lo status di lavoratore

10.      Nell’ordinanza di rinvio viene spiegato che, ai sensi del diritto del Regno Unito, una donna incinta nelle 11 settimane prima della data presunta del parto – che sia cittadina del Regno Unito – non è tenuta ad essere disponibile sul mercato del lavoro o a cercare attivamente lavoro. Dopo il parto, viene accettato un periodo di assenza dal mercato del lavoro pari a 15 settimane (5). Se soddisfa le condizioni richieste, una cittadina del Regno Unito ha diritto all’indennità integrativa del reddito anche per questo periodo.

11.      Detta possibilità non è offerta ad una cittadina di un altro Stato membro, come la sig.ra Saint Prix, a meno che essa non rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza, che disciplina il diritto dei cittadini dell’Unione di soggiornare nel territorio di un altro Stato membro per un periodo superiore a tre mesi (6). Oltre alle circostanze (incluso il diritto di soggiorno per i lavoratori subordinati e autonomi) previste all’articolo 7, paragrafo 1, nella fattispecie in esame rivestono particolare rilevanza le circostanze previste all’articolo 7, paragrafo 3. Si tratta delle situazioni nelle quali un cittadino dell’Unione, che non è più un lavoratore subordinato o autonomo, può comunque conservare tale status. Tali circostanze comprendono l’inabilità temporanea al lavoro in seguito a malattia o infortunio. Tuttavia, l’articolo 7, paragrafo 3, non fa riferimento alla gravidanza. A parere del giudice del rinvio, la sig.ra Saint Prix – che all’epoca dei fatti era in stato interessante – può pertanto fruire dell’indennità integrativa del reddito soltanto se nel periodo in questione poteva essere considerata una lavoratrice.

12.      Da quanto precede, concludo che il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se una donna nella situazione della sig.ra Saint Prix debba essere equiparata a una lavoratrice, ai sensi dell’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza.

13.      Per rispondere a tale questione, prima di tutto verranno da me esposti i principi fondamentali della giurisprudenza della Corte in materia di libera circolazione dei lavoratori. Passerò poi a considerare – alla luce di detta giurisprudenza – l’interpretazione corretta dell’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza, esaminando, segnatamente, gli argomenti addotti dal governo del Regno Unito.

1.      La giurisprudenza della Corte

14.      Secondo una giurisprudenza costante, la nozione di lavoratore deve essere interpretata estensivamente (7). Ciò perché essa delimita l’ambito di una delle libertà fondamentali sancite dal Trattato (8).

15.      Di conseguenza, si deve considerare che un lavoratore migrante che è stato impiegato in uno Stato membro ospitante rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo 45 TFUE (9). In linea di principio, pertanto, una persona deve essere considerata come lavoratore per la durata del suo impiego (10). Tuttavia, la Corte ha anche costantemente dichiarato che i diritti conferiti ai lavoratori migranti non dipendono necessariamente dall'esistenza o dalla prosecuzione di un rapporto di lavoro. Infatti, taluni diritti connessi alla condizione di lavoratore sono garantiti ai lavoratori migranti anche se questi non sono più inseriti in un siffatto rapporto. Tali diritti comprendono il diritto ad una prestazione previdenziale nello Stato membro ospitante (11).

16.      Su questo punto, ricordo che, ai sensi di una giurisprudenza consolidata, l’articolo 45 TFUE – e, segnatamente, il suo paragrafo 3, lettera d) – sancisce il diritto di un lavoratore di rimanere nel territorio di uno Stato membro dopo aver occupato un impiego. Pertanto, nella sentenza Lair (12), la Corte ha dichiarato che un lavoratore migrante che aveva lasciato volontariamente il lavoro al fine di intraprendere studi universitari, correlati alla sua precedente attività lavorativa, doveva essere considerato un lavoratore. Consapevole delle difficoltà di trovare un nuovo lavoro per un lavoratore divenuto disoccupato involontariamente, la Corte ha del pari dichiarato che il criterio relativo all’esistenza di una relazione tra l’attività lavorativa di cui trattasi e gli studi intrapresi non può essere applicato quando la necessità di riqualificazione non è una scelta volontaria operata dalla persona interessata (13).

17.      In modo forse ancora più interessante la Corte ha confermato, nella sentenza Orfanopoulos(14), che un cittadino dell’Unione, che aveva lavorato nello Stato membro ospitante e vi aveva pertanto acquisito lo status di lavoratore migrante, restava nell’ambito di applicazione di ciò che è l’attuale articolo 45 TFUE e della normativa adottata in attuazione del medesimo, per la durata della pena detentiva da esso scontata. Fondamentalmente, dunque, non si considera che un detenuto che abbia occupato un impiego prima della sua detenzione abbia cessato di essere presente sul mercato del lavoro dello Stato membro ospitante durante tale periodo, a condizione che trovi un nuovo impiego entro un termine ragionevole dopo la sua scarcerazione (15).

18.      Nella presente fattispecie, non è controverso che la sig.ra Saint Prix fosse una lavoratrice, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), della direttiva sulla cittadinanza, sino al marzo 2008, quando ha cessato di lavorare a causa delle limitazioni risultanti dalla sua gravidanza. La sig.ra Saint Prix è tuttavia rimasta nel territorio dello Stato membro ospitante nel periodo in cui non lavorava e ha ripreso il lavoro tre mesi dopo il parto. Come osservato da tutte le parti che hanno presentato osservazioni alla Corte – ad eccezione del governo del Regno Unito – privare la sig.ra Saint Prix dello status di lavoratrice in dette circostanze richiederebbe un’interpretazione estremamente restrittiva dell’articolo 45 TFUE e dell’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza. Ciò sarebbe contrario all’approccio adottato dalla Corte nella giurisprudenza sopra menzionata.

19.      Questa tesi deve essere condivisa. Privare la sig.ra Saint Prix del suo status di lavoratrice implicherebbe anche una lettura della normativa esistente contraria all’obiettivo della direttiva sulla cittadinanza, che è quello di incoraggiare l’esercizio del diritto primario e individuale – conferito direttamente dal Trattato a tutti i cittadini dell’Unione– di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (16). Pertanto, mi sembra evidente che la sig.ra Saint Prix deve essere trattata come una lavoratrice anche per quanto riguarda il periodo durante il quale non esercitava un’attività lavorativa. In definitiva, essa si è effettivamente avvalsa del suo diritto alla libera circolazione ed ha lavorato nello Stato membro ospitante prima della sua gravidanza.

20.      Tuttavia, non posso condividere l’interpretazione proposta dalla sig.ra Saint Prix, dall’AIRE Centre e dalla Commissione relativamente all’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza. Essi sostengono, in sostanza, che – alla stregua dei fatti sottesi alla causa Orfanopoulos – una donna nella situazione della sig.ra Saint Prix non ha lasciato il mercato del lavoro in modo permanente e deve pertanto essere compresa nell’ambito della norma generale che disciplina il soggiorno per un periodo superiore a tre mesi [(quale enunciata all’articolo 7, paragrafo 1, lettera 1)]. Sebbene si possa certamente essere tentati di applicare quanto statuito dalla Corte nella sentenza Orfanopoulos alla fattispecie in esame, a mio avviso non possono essere trascurati i mutamenti da allora intervenuti nel panorama legislativo. Mentre, all’epoca dei fatti di tale causa, non esisteva alcuno strumento di diritto derivato volto a definire le condizioni per l’esercizio del diritto alla libera circolazione, ora siffatto strumento esiste (la direttiva sulla cittadinanza) (17). Il diritto a soggiornare in un altro Stato membro dopo tre mesi è specificamente disciplinato dall’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza.

21.      Sebbene l’assenza della sig.ra Saint Prix dal mercato del lavoro fosse certamente temporanea, in tale periodo essa non ha svolto alcuna attività economica significativa (proprio come non lo avrebbe fatto una persona malata o vittima di infortunio). Per questo motivo ritengo che il punto di riferimento più appropriato per valutare la posizione di una donna nella situazione della sig.ra Saint Prix debba ravvisarsi nella deroga alla norma generale, formulata all’articolo 7, paragrafo 3, lettera a), che contempla l’inabilità temporanea al lavoro in seguito a malattia o infortunio.

22.      Tuttavia, ciò solleva la questione su come conciliare questa tesi con il fatto che l’articolo 7, paragrafo 3, della direttiva sulla cittadinanza – che concerne le condizioni per mantenere lo status di lavoratore se la persona di cui trattasi non svolge più alcuna attività lavorativa subordinata o autonoma – non menziona esplicitamente la gravidanza. Al fine di rispondere a questa questione, esaminerò adesso le obiezioni sollevate dal governo del Regno Unito.

2.      Le obiezioni sollevate dal governo del Regno Unito

23.      Diversamente dalle altre parti che hanno presentato osservazioni, il governo del Regno Unito attribuisce particolare rilevanza a due fattori che, a suo avviso, si oppongono a che la sig.ra Saint Prix venga trattata come una lavoratrice. Da un lato, esso sostiene che la situazione della sig.ra Saint Prix deve essere equiparata alle circostanze della causa Dias (18), nella quale la Corte (a differenza della fattispecie in esame) ha esaminato le condizioni per ottenere un diritto permanente di soggiorno alla luce dell’articolo 16 della direttiva sulla cittadinanza (19). Sebbene tale punto non fosse controverso nel procedimento dinanzi alla Corte nella causa Dias, la ricorrente non è stata trattata come una lavoratrice – un punto non discusso esplicitamente dinanzi alla Corte – nello Stato membro per il periodo nel quale aveva cessato di lavorare per occuparsi del figlio in tenera età, periodo che ha avuto inizio alla fine del suo congedo di maternità (20).

24.      Non posso accogliere la tesi che la causa Dias sia analoga alla fattispecie in esame. Infatti, le due cause si possono distinguere con relativa facilità sulla base delle circostanze di fatto. Nella causa Dias, l’assenza della madre dal lavoro aveva superato il periodo in cui esisteva un motivo medico che le consentiva di non tornare al lavoro. Come osservato dal giudice del rinvio, sia le donne che gli uomini possono rimanere a casa per accudire i figli. Per contro, nel procedimento pendente dinanzi al giudice del rinvio, ci troviamo di fronte ad una situazione nella quale una donna cessa di lavorare per un periodo chiaramente circoscritto, a causa di limitazioni fisiche e mentali dovute alla gravidanza (21). Inoltre, detto periodo coincide con il periodo in cui le donne incinte, cittadine dello Stato membro ospitante, non sono tenute a lavorare o a cercare attivamente un’occupazione (22).

25.      D’altro canto, il governo del Regno Unito attribuisce anche particolare rilevanza al fatto che l’articolo 7, paragrafo 3, della direttiva sulla cittadinanza faccia esplicitamente riferimento a situazioni in cui l’interessato è temporaneamente inabile al lavoro a seguito di malattia o infortunio, ma non faccia riferimento alla gravidanza. A suo avviso, il fatto che la direttiva non offra esplicitamente alcuna tutela in tal senso per quanto riguarda la gravidanza e il parto è indicativo di una posizione deliberatamente assunta dal legislatore al fine di evitare che siffatta tutela possa essere desunta dalla disposizione in esame. A giudizio del governo del Regno Unito, ciò è particolarmente evidente in quanto nella fase dell’esame ad opera del Parlamento europeo, il comitato incaricato aveva fatto un tentativo di inserire un riferimento alla gravidanza nell’articolo 7, paragrafo 3, della proposta della Commissione, che nulla diceva in proposito. (23)

26.      Esiterei tuttavia a trarre conclusioni definitive da questa circostanza.

27.      A tal riguardo, vorrei evidenziare che, come emerge dalla proposta della Commissione (24) di direttiva sulla cittadinanza, quest’ultima non mirava soltanto a riprendere disposizioni già enunciate in altre direttive e, più in particolare, quelle della direttiva 68/360/CEE (25). Ciò vale particolarmente per l’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza. Come osservato anche dal governo del Regno Unito, la nuova direttiva mirava anche a fornire un fondamento legislativo alla giurisprudenza (di quell’epoca) della Corte in materia di cittadinanza dell’Unione (26). Detta giurisprudenza non aveva esaminato la questione specifica della gravidanza (come non lo aveva fatto neppure la direttiva 68/360 in tale materia) in sede di determinazione della portata della nozione di lavoratore e del diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante, ad esso strettamente connesso.

28.      A mio parere, l’obiettivo chiaramente enunciato della proposta originaria della Commissione per la nuova direttiva sulla cittadinanza –ovvero l’incorporazione nella nuova normativa sia delle disposizioni esistenti che della giurisprudenza della Corte – aiuta a chiarire perché essa non ha proposto l’inserimento di un riferimento esplicito alla gravidanza nell’articolo 7, paragrafo 3, come deroga alla norma generale [stabilita all’articolo 7, paragrafo 1, lettera a)] secondo la quale il mantenimento dello status di lavoratore presuppone l’esistenza di un rapporto di lavoro (27). In considerazione di detto obiettivo, non sorprende il fatto che una vasta gamma di situazioni non fosse prevista. Probabilmente, tuttavia, gli argomenti addotti dal governo del Regno Unito sarebbero più convincenti se la proposta originaria della Commissione avesse incluso un riferimento esplicito alla gravidanza che il successivo procedimento legislativo avrebbe provveduto ad eliminare.

29.      Un ulteriore punto che va qui evidenziato è che, sebbene la direttiva sulla cittadinanza, come sopra menzionato, intenda stabilire le condizioni che disciplinano l’esercizio del diritto alla libera circolazione, resta il fatto che uno strumento di diritto derivato non può alterare il significato della nozione di lavoratore, saldamente radicato nell’articolo 45 TFUE, una disposizione di diritto primario. Inoltre, l’attuazione di siffatto strumento giuridico non può impedire alla Corte di interpretare ed applicare la nozione di lavoratore, di cui all’articolo 45 TFUE, per risolvere nuove situazioni.

30.      In poche parole, la questione se un soggetto debba essere considerato un lavoratore o in quali circostanze un soggetto debba mantenere tale status è in definitiva una questione di diritto primario. La risposta non può essere validamente limitata da una disposizione di diritto derivato. Infatti, è noto che il diritto derivato deve essere interpretato, per quanto possibile, in conformità con il diritto primario (28). Ciò mira a rimediare ad eventuali incongruenze atte ad incidere sulla validità di disposizioni di diritto derivato. Di conseguenza, il punto di riferimento rilevante per stabilire se la sig.ra Saint Prix dovesse mantenere lo status di lavoratrice, ai sensi dell’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza, è segnatamente la giurisprudenza della Corte relativa all’attuale articolo 45 TFUE.

31.      Al fine di evitare un’interpretazione dell’articolo 45 TFUE tale da creare, mediante una costruzione giurisprudenziale, una nuova categoria di lavoratori, considero essenziale che il trattamento di una donna incinta, nella situazione della sig.ra Saint Prix, sia collegato anche all’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza. Come ho già indicato, l’articolo 7, paragrafo 3, paragrafo a), di detta direttiva è particolarmente rilevante a tal fine, posto che fa specificamente riferimento all’inabilità temporanea al lavoro a seguito di malattia o infortunio

32.      Sebbene dall’orientamento giurisprudenziale risultante dalla sentenza Webb (29) emerga che la gravidanza non deve essere trattata come una malattia, detta distinzione è stata tuttavia operata nel contesto della tutela delle donne incinte dal licenziamento illegittimo. Infatti, la Corte ha costantemente dichiarato – indubbiamente al fine di conferire una tutela particolare alle donne incinte e di garantire una sostanziale parità (30) – che, contrariamente alla malattia, la gravidanza non può giustificare di per sé il licenziamento (o altri tipi di trattamento differenziato sul posto di lavoro) (31).

33.      Nella presente fattispecie ci troviamo invece ad affrontare una situazione nella quale non equiparare la gravidanza alla malattia significherebbe che il diritto dell’Unione protegge la malattia, ma non la gravidanza. Ciò integrerebbe chiaramente una violazione del principio di non discriminazione in base al sesso.

34.      Immaginiamo, per ipotesi, che la sig.ra Saint Prix – o un lavoratore interinale – fosse stata temporaneamente inabile al lavoro, non a causa di gravidanza, ma per malattia. A causa di questa malattia, essa non sarebbe stata in grado di lavorare per un certo numero di mesi, ma avrebbe ripreso il lavoro non appena le sue condizioni glielo avrebbero consentito. In queste circostanze, sembra indubbio che la sig.ra Saint Prix, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 3, lettera a), della direttiva sulla cittadinanza, sarebbe stata trattata come una lavoratrice nel periodo della sua convalescenza. Secondo il governo del Regno Unito, ciò non vale nel caso in cui una donna non sia malata (o anche vittima di infortunio), ma sia invece in stato interessante.

35.      Dato che soltanto le donne possono rimanere incinte, un’interpretazione dell’articolo 7, paragrafo 3, della direttiva sulla cittadinanza, alla luce dell’articolo 45 TFUE, che determini la perdita dello status di lavoratore in caso di assenza temporanea dal lavoro a causa degli effetti fisici dell’ultimo periodo di gravidanza e del parto (effetti che, a mio avviso, possono essere facilmente assimilati agli effetti di numerose malattie che colpiscono allo stesso modo tanto gli uomini quanto le donne) comporterebbe in pratica che alle donne è offerta una protezione minore rispetto agli uomini. Anche in considerazione dell’articolo 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), siffatto approccio sarebbe contrario al principio di non discriminazione in base al sesso. Ciò vale, in particolare, in forza del principio consolidato secondo il quale un trattamento meno favorevole a causa della gravidanza – senza che occorra individuare un termine di paragone maschile – costituisce una discriminazione in base al sesso (32).

36.      Ciò posto, è imperativo definire chiaramente l’ambito della tutela che occorre conferire alle donne in gravidanza, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 3, della direttiva sulla cittadinanza.

3.      Delimitazione della portata della protezione conferita alle donne in gravidanza

37.      Per evitare una situazione nella quale lo status di lavoratore venga mantenuto per un periodo illimitato di tempo prima e dopo il parto, ritengo che le limitazioni temporanee risultanti dalla gravidanza e dal parto debbano rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 7, paragrafo 3, della direttiva sulla cittadinanza per quanto riguarda il periodo durante il quale la condizione fisica della donna interessata le impedisce effettivamente di lavorare. Non farlo equivarrebbe a ignorare che la direttiva sulla cittadinanza si prefigge di stabilire le condizioni che disciplinano l’esercizio del diritto alla libera circolazione.

38.      Per garantire che l’articolo 7, paragrafo 3, sia interpretato in conformità con l’articolo 18, paragrafo 1, TFUE e con l’articolo 21, paragrafo 2, della Carta, che vietano qualsiasi forma di discriminazione basata sulla nazionalità, mi sembra che l’unico criterio appropriato per determinare il periodo di tempo durante il quale l’assenza dal lavoro può essere considerata ragionevole – per riprendere l’espressione impiegata dalla Corte nella sentenza Orfanopoulos (33) – si possa rinvenire nel diritto nazionale e, più specificamente, nelle disposizioni nazionali che disciplinano il periodo durante il quale le donne incinte non sono tenute a lavorare o a cercare attivamente un’occupazione (34).

39.      A questo punto, devo sottolineare che, se non si offrisse una tutela analoga alle lavoratrici migranti, ciò equivarrebbe a una discriminazione basata sulla nazionalità. Infatti, posto che nelle 11 settimane precedenti la data presunta del parto (e per 15 settimane dopo la fine della gravidanza) una cittadina del Regno Unito non solo è dispensata dall’obbligo di essere disponibili sul mercato del lavoro o di cercare attivamente un’occupazione, ma ha anche diritto, in presenza di talune condizioni, all’indennità integrativa del reddito per questo periodo, le medesime disposizioni devono applicarsi parimenti ad una donna nelle condizioni della sig.ra Saint Prix.

40.      Come è noto, tuttavia, gli effetti della gravidanza impediscono talvolta di lavorare anche nelle fasi precoci della gravidanza. In tali situazioni, occorre presumere che la lavoratrice interessata, che è temporaneamente indisponibile sul mercato del lavoro a motivo della gravidanza, sia equiparata ad una persona ammalata (sempre che essa segua le procedure nazionali applicabili per comprovare che ciò è effettivamente il caso, ad esempio mediante un certificato medico) e rientri automaticamente nell’ambito di applicazione dell’articolo 7, paragrafo 3, lettera a), della direttiva sulla cittadinanza. In caso contrario, il semplice fatto di essere incinta non consentirebbe di invocare tale norma. Interpretare la normativa in tal modo configurerebbe nuovamente una palese violazione del principio di non discriminazione in base al sesso.

41.      Quanto sopra mi induce a concludere che l’articolo 7, paragrafo 3, lettera a), della direttiva sulla cittadinanza, letto alla luce dell’articolo 45 TFUE, debba essere interpretato nel senso che una donna che può essere considerata temporaneamente inabile al lavoro a causa delle limitazioni fisiche delle ultime fasi della gravidanza debba mantenere lo status di lavoratrice. Detto status è conservato sino a quando essa possa ragionevolmente tornare al lavoro o cercare un’occupazione, dopo la nascita del figlio. Per garantire l’osservanza del principio di non discriminazione in base alla nazionalità, tale periodo non può essere inferiore al periodo previsto nella normativa nazionale che disciplina il termine durante il quale le donne incinte sono dispensate dall’obbligo di essere disponibili sul mercato del lavoro o di cercare attivamente un’occupazione.

42.      Ciò premesso, desidero fare le seguenti osservazioni supplementari.

B –    Conseguenze della perdita dello status di lavoratore per un cittadino dell’Unione

43.      Il giudice del rinvio sembra basarsi sull’assunto che, se la sig.ra Saint Prix non fosse trattata come una «lavoratrice», ai sensi dell’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza, essa non potrebbe richiedere o ricevere l’indennità integrativa del reddito durante il periodo in cui ha cessato di lavorare. Ciò sembra essere dovuto al fatto che essa non ha più diritto di soggiornare nel Regno Unito. Sebbene questa questione non abbia rilevanza diretta per il procedimento pendente dinanzi al giudice del rinvio, essa è stata ampiamente discussa all’udienza dinanzi alla Corte.

44.      Non condivido incondizionatamente tale assunto del giudice del rinvio.

45.      In limine, desidero ricordare che la mera circostanza che un cittadino dell’Unione abbia perso il suo status di lavoratore non implica il venir meno automatico ed immediato di tutti i diritti inerenti a detto status. Ciò è dimostrato nella sentenza Trojani (35), in cui la Corte ha dichiarato, inter alia, che lo Stato membro ospitante gode di un’ampia discrezionalità per stabilire se un cittadino di un altro Stato membro che ha fatto ricorso all’assistenza sociale soddisfi le condizioni cui è subordinato il diritto di soggiorno.(36)Tuttavia, consapevole dello status fondamentale della cittadinanza dell’Unione nella costruzione europea, in tale causa la Corte ha nondimeno dichiarato che un cittadino dell’Unione che non gode di un diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante, in forza dell’attuale articolo 45 TFUE, può comunque, esclusivamente in virtù della cittadinanza dell’Unione, fruirvi di un diritto di soggiorno per applicazione diretta di quello che è l’attuale articolo 21, paragrafo 1, TFUE. Sebbene l’esercizio di tale diritto sia soggetto «ai limiti e alle condizioni» di cui alla detta disposizione, le autorità nazionali competenti devono provvedere a che l’applicazione di detta disposizione avvenga nel rispetto dei principi generali del diritto dell’Unione, in particolare del principio di proporzionalità (37).

46.      Questo principio consolidato è stato ribadito di recente nella sentenza Brey (38), in cui la Corte ha esaminato la compatibilità di una normativa nazionale che impediva la concessione di una particolare prestazione ad un cittadino di un altro Stato membro non economicamente attivo. Nella sentenza Brey, la Corte ha attribuito particolare rilevanza ai limiti imposti dalla libera circolazione, quale principio fondamentale del diritto dell’Unione, al potere discrezionale degli Stati membri (compreso il potere di espulsione dal territorio nazionale) nei confronti di cittadini dell’Unione stranieri.

47.      È importante osservare che tale potere discrezionale non può essere esercitato in modo tale da pregiudicare l’obiettivo principale della direttiva sulla cittadinanza, che consiste nel facilitare e rafforzare l’esercizio da parte dei cittadini dell’Unione del loro diritto primario, ossia il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e l’effetto utile della stessa (39). È certamente vero che l’esercizio del diritto di soggiorno in un altro Stato membro può essere soggetto a limitazioni, giustificate dagli interessi legittimi di detto Stato (come la protezione delle finanze pubbliche). Tuttavia, la Corte ha respinto fermamente la possibilità di ricorrere a siffatti interessi legittimi in modo da compromettere il principio fondamentale della libera circolazione. Tale principio fondamentale verrebbe pregiudicato se le condizioni previste all’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva sulla cittadinanza fossero interpretate estensivamente (40). Ai sensi di detta disposizione, i cittadini dell’Unione economicamente inattivi (ossia, le persone che non svolgono un lavoro subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante) hanno un diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante, purché dispongano di risorse sufficienti per non divenire un onere per il sistema di assistenza sociale di detto Stato durante il periodo di soggiorno. 

48.      Nella sentenza Brey, la Corte ha anche statuito che le autorità nazionali competenti devono procedere a una valutazione globale delle circostanze di fatto in ogni singola fattispecie – alla luce del principio di proporzionalità – al fine di accertare se la concessione di una prestazione sociale possa rappresentare un onere per l’insieme dei regimi di assistenza sociale dello Stato membro ospitante, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva sulla cittadinanza. La Corte ha ribadito il principio consolidato secondo il quale, specialmente laddove le difficoltà incontrate da un beneficiario siano di carattere temporaneo, la direttiva sulla cittadinanza è basata sull’assunto che esiste una certa solidarietà, in materia di assistenza sociale, tra i cittadini dei diversi Stati membri (41). Infatti, la mera circostanza che un cittadino di un altro Stato membro riceva assistenza sociale non può essere di per sé sufficiente a dimostrare che questi costituisce un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante (42).

49.      Proseguendo su questa linea logica – e con riserva di verifica ad opera del giudice del rinvio – ritengo che nelle circostanze sottese all’ordinanza di rinvio, ossia, qualora una donna nella situazione della sig.ra Saint Prix sia considerata temporaneamente inabile al lavoro a causa della gravidanza e chieda pertanto una prestazione speciale in denaro a carattere non contributivo come l’indennità integrativa del reddito, essa non debba perdere automaticamente il suo diritto di soggiorno in conseguenza delle sue temporanee difficoltà economiche. Tenendo conto di quanto statuito dalla Corte nella sentenza Brey, devo anche concludere che dal semplice fatto che una donna incinta abbia fatto domanda di una prestazione come l’indennità integrativa del reddito non consegue automaticamente che essa non possiede più risorse sufficienti per soggiornare nello Stato membro ospitante. Questo vale a maggior ragione in considerazione del fatto che le difficoltà di sostentamento incontrate dalla sig.ra Saint Prix sono di carattere temporaneo e che, di conseguenza, è richiesta assistenza sociale solo per un periodo limitato, che del resto coincide anche con il periodo del congedo di maternità ordinario previsto per le cittadine del Regno Unito, durante il quale esse non sono tenute ad essere disponibili sul mercato del lavoro o a cercare attivamente un’occupazione.

50.      Contrariamente alle circostanze della fattispecie a quo, a mio avviso una conclusione analoga non si poteva trarre con tanta facilità nella causa Brey. Ciò in quanto l’erogazione della prestazione di cui trattasi sarebbe stata erogata in modo ricorrente per una durata indefinita, in circostanze nelle quali l’interessato non era più realmente economicamente attivo. Come ho spiegato in un’altra occasione (43), l’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva sulla cittadinanza mira ad evitare che cittadini dell’Unione economicamente inattivi utilizzino il sistema sociale dello Stato membro ospitante per finanziare il proprio sostentamento nel periodo iniziale del loro soggiorno in detto Stato.

51.      Occorre tenere a mente, tuttavia, che stabilire cosa possa o meno costituire un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante nel suo complesso, è una questione che deve essere valutata (globalmente) dalle autorità nazionali (44). Nonostante questa ripartizione dei compiti tra l’Unione europea e i suoi Stati membri, devo confessare di avere qualche difficoltà ad immaginare una situazione nella quale la concessione di una prestazione come l’indennità integrativa del reddito a una donna nella situazione della sig.ra Saint Prix possa costituire un siffatto onere. In considerazione del carattere temporaneo delle difficoltà incontrate e del periodo di tempo limitato per il quale si chiedeva la prestazione, una conclusione diversa si porrebbe in contrasto con il principio di proporzionalità, che deve essere preso nella dovuta considerazione ai fini della valutazione.

52.      Ciò premesso, non si può escludere categoricamente che, al fine di prevenire un «turismo sociale», possano essere ammesse maggiori restrizioni nel caso di cittadini dell’Unione economicamente inattivi, che non hanno mai stabilito un nesso con la società dello Stato membro ospitante grazie al lavoro e al versamento di imposte. Tuttavia, non ritengo che siffatte restrizioni siano giustificate o, comunque, proporzionate qualora, come nella fattispecie in esame, una donna abbia effettivamente esercitato il suo diritto alla libera circolazione e partecipato effettivamente ad un’attività economica nello Stato membro ospitante prima di rimanere incinta e chieda una prestazione per un periodo di tempo limitato prima di tornare sul mercato del lavoro.

III – Conclusione

53.      Sulla base delle considerazioni sopra svolte, propongo alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali sottoposte dalla Supreme Court del Regno Unito come segue:

L’articolo 7, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, letto alla luce dell’articolo 45 TFUE, deve essere interpretato nel senso che una donna, che si possa considerare temporaneamente inabile al lavoro a causa delle limitazioni fisiche delle ultime fasi della gravidanza, deve mantenere lo status di lavoratrice. Siffatto status è mantenuto sino al momento in cui è ragionevole che l’interessata torni al lavoro o cerchi un’occupazione, dopo la nascita del figlio. Per garantire l’osservanza del principio di non discriminazione in base alla nazionalità, tale periodo non può essere inferiore al periodo previsto dalla normativa nazionale che disciplina il periodo durante il quale le donne incinte sono dispensate dall’obbligo di essere disponibili sul mercato del lavoro o di cercare attivamente un’occupazione.


1 – Lingua originale: l'inglese.


2 – Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE (GU L 158, pag. 77).


3 – L’Income Support è una prestazione di cui possono beneficiare persone residenti nel Regno Unito prive di reddito o con un reddito minimo, se lavorano almeno 16 ore alla settimana e non si sono registrate come disoccupati. In aggiunta, l’interessato deve rientrare in una di determinate categorie specifiche. Una di queste categorie include le donne gestanti e, in alcuni casi, le persone inabili al lavoro a causa di malattia o disabilità.


4 – L’AIRE Centre (Advice on Individual Rights in Europe) è un ente assistenziale che fornisce pareri giuridici gratuiti sui diritti dell’uomo in Europa e sul diritto dell’Unione europea. Esso è stato autorizzato ad intervenire nel procedimento dinanzi alla Supreme Court.


5 – Queste 26 settimane (11 settimane prima e 15 settimane dopo il parto) corrispondono all’ordinario congedo di maternità nel Regno Unito.


6 – L’articolo 7 della direttiva sulla cittadinanza dispone quanto segue: «1. Ciascun cittadino dell’Unione ha il diritto di soggiornare per un periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, a condizione: a) di essere lavoratore subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante; o b) di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Sato membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e di un'assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante (…) 3. Ai sensi del paragrafo 1, lettera a), il cittadino dell'Unione che abbia cessato di essere un lavoratore subordinato o autonomo conserva la qualità di lavoratore subordinato o autonomo nei seguenti casi: a) l’interessato è temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una malattia o di un infortunio; b) l’interessato, trovandosi in stato di disoccupazione involontaria debitamente comprovata dopo aver esercitato un'attività per oltre un anno, si è registrato presso l’ufficio di collocamento competente al fine di trovare un lavoro; (…)».


7 – Per le prime enunciazioni di questo principio, v., inter alia, le sentenze del 3 giugno 1986, Kempf, 139/85 (Racc. pag. 1741, punto 13); del 3 luglio 1986, Lawrie‑Blum, 66/85 (Racc. pag. 2121, punto 16). V. anche sentenza del 21 giugno 1988, Brown, 197/86 (Racc. pag. 3205, punto 21); del 26 aprile 1991, Antonissen, C‑292/89, (Racc. pag. I‑745, punto 11); e del 26 febbraio 1992, Bernini, C-3/90 (Racc. pag. I‑1071, punto 14; del 6 novembre 2003, Ninni-Orasche, C-413/01 (Racc. pag. I‑13187, punto 23), e, più di recente, del 21 febbraio 2013, LN, C‑46/12 (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 39).


8 – V. sentenze Kempf, punto 13, e Lawrie-Blum, punto 16.


9 – V. sentenza del 13 dicembre 2012, Caves Krier Frères, C-379/11 (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 26 e la giurisprudenza ivi citata).


10 – Quanto ai criteri rilevanti per stabilire se esista effettivamente una relazione d’impiego, v. inter alia, sentenza LN, punti 40 e 41 e la giurisprudenza ivi citata.


11 – Sentenza del 21 giugno 1988, Lair, 39/86 (Racc. pag. 3161, punti da 31 a 39). Più di recente, per prestazioni derivanti da un rapporto di lavoro precedente, v. la sentenza dell’11 settembre 2008, Petersen, C‑228/07 (Racc. pag. I‑6989, punto 49 e la giurisprudenza ivi citata).


12 – V. nota 11.


13 – Sentenza Lair, in particolare punti 37 e 39.


14 – Sentenza del 29 aprile 2004, Orfanopoulos e Oliveri, cause riunite C‑ 482/01 e C‑ 493/01 (Racc. pag. I‑5257).


15 – Sentenza Orfanopoulos e Olivieri, punto 50 e la giurisprudenza ivi citata. V. anche, per analogia, la sentenza Antonissen, cit., punti 21 e 22.


16 – V., la più recente sentenza del 19 settembre 2013, Brey, C‑140/12 (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 53). V. anche sentenze del 25 luglio 2008, Metock e a., C-127/08 (Racc. pag. I‑6241, punti 59 e 82) del 7 ottobre 2010, Lassal, C-162/09, (Racc. pag. I‑9217, punto 30) e del 5 maggio 2011, McCarthy, C-434/09 (Racc. pag. I‑3375, punto 28).


17 – Sentenza Brey, punto 53. V. anche sentenze McCarthy, punto 33, e del 21 dicembre 2011, Ziolkowski e Szeja, cause C-424/10 e C-425/10 (non ancora pubblicata nella Raccolta punti 36 e 40).


18 – Sentenza del 21 luglio 2011, C‑325/09 (Racc. pag. I‑6387).


19 – L’articolo 16 così recita: «1. Il cittadino dell'Unione che abbia soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nello Stato membro ospitante ha diritto al soggiorno permanente in detto Stato. (...) 2. Le disposizioni del paragrafo 1 si applicano anche ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che abbiano soggiornato legalmente in via continuativa per cinque anni assieme al cittadino dell'Unione nello Stato membro ospitante. 3. La continuità della residenza non è pregiudicata (…) da un'assenza di dodici mesi consecutivi al massimo dovuta a motivi rilevanti, quali gravidanza e maternità, malattia grave, studi o formazione professionale o il distacco per motivi di lavoro in un altro Stato membro o in un paese terzo (…)»


20 – V. la dichiarazione in questo senso fatta dalla Corte al punto 39 di tale sentenza.


21 – È certamente vero che, quando la sig.ra Saint Prix ha richiesto l’indennità integrativa del reddito, il periodo per il quale ella avrebbe necessitato di un sussidio non era ancora conosciuto. Tuttavia, ciò non cambia il fatto che il periodo rilevante nel procedimento nazionale corrisponde al periodo durante il quale una cittadina del Regno Unito in una situazione analoga non è tenuta a lavorare o a cercare un’occupazione a causa della gravidanza o del parto.


22 – La ratio del congedo di maternità è appunto quella di proteggere la salute fisica e mentale delle donne gestanti prima e dopo il parto. V. paragrafo 44 delle mie conclusioni del 26 settembre 2013 per la causa Z, C‑363/12, pendente dinanzi alla Corte.


23 – Infatti, la Commissione per i diritti delle donne e le pari opportunità ha suggerito di introdurre una disposizione speciale per la gravidanza a questo riguardo. V. la relazione del 23 gennaio 2003 sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (COM(2001) 257 - C5-0336/2001 - 2001/0111(COD)), Commissione sulle libertà e i diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni. Tale raccomandazione, tuttavia non ha trovato riscontro nel conseguente processo legislativo.


24 – COM(2001) 257 def., pag. 13.  


25 –      Direttiva 68/360/CEE del Consiglio, del 15 ottobre 1968, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei lavoratori degli Stati Membri e delle loro famiglie all'interno della Comunità (GU L 257, pag. 13). Ai sensi della sentenza Ziolkowski e Szeja, punto 37: «Dai ‘considerando’ terzo e quarto della [direttiva sulla cittadinanza] risulta che lo scopo[di tale strumento è] di superare un approccio settoriale e frammentario del diritto di circolare e soggiornare liberamente al fine di agevolare l’esercizio di tale diritto mediante l’elaborazione di un atto legislativo unico che codifichi e riveda gli strumenti del diritto dell’Unione anteriori a tale direttiva».


26 – COM(2001) 257 def., pag. 13.


27 – Ibid., pag. 33.  


28 – Sentenza del 13 dicembre 1983, Commissione/Consiglio, 218/82 (Racc. pag. 4063, punto 15). V. anche le sentenze del 26 giugno 2007, Ordre des barreaux francophones et germanophone e a., C-305/05 (Racc. pag. I‑5305, punto 28) e del 19 novembre 2009, Sturgeon e a., cause C‑402/07 e C‑432/07 (Racc. pag. I‑10923, punto 48 e la giurisprudenza ivi citata.


29 –      Sentenza del 14 luglio 1994, C‑32/93 (Racc. pag. I‑3567).


30 – V. le mie conclusioni nella causa Z, paragrafi da 44 a 46, per una discussione più dettagliata sull’ambito della tutela conferita alle donne gestanti ai sensi del diritto dell’Unione europea e, segnatamente, della direttiva del Consiglio 92/85/CEE, del 19 ottobre 1992 concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell'articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE) (GU L 348, pag. 1, in prosieguo: la «direttiva sulle lavoratrici gestanti).


31 – V., inter alia, sentenza Webb, punto 26; sentenze del 30 giugno 1998, Brown, C‑394/96, (Racc. pag. I‑4185, punto 18; del 4 ottobre 2001, Tele Danmark, C‑109/00, (Racc. pag. I‑6993, punti 26 e 27); e dell’11 ottobre 2007, Paquay, C‑460/06 (Racc. pag. I‑8511, punti 30 e 31). V. anche la sentenza dell’8 settembre 2005, McKenna, C‑191/03 (Racc. pag. I ‑7631, punto 45 e la giurisprudenza ivi citata). La Corte ha infatti dichiarato che la protezione delle lavoratrici gestanti contro il licenziamento si estende all’intero periodo del congedo di maternità, ma che alla fine di detto congedo non vi è motivo per distinguere una malattia imputabile alla gravidanza o al parto da qualsiasi altra malattia, e che siffatta condizione patologica rientra nelle norme generali applicabili in caso di malattia. Pertanto, le disposizioni di diritto dell’Unione europea non escludono i licenziamenti conseguenti ad assenze dovute ad una malattia imputabile alla gravidanza o al parto.


32 – V., segnatamente, la sentenza del 26 febbraio 2008, Mayr, C‑506/06 (Racc. pag. I‑1017, punto 46 e la giurisprudenza ivi citata). Questo principio trae origine nella precedente sentenza dell’8 novembre 1990, Dekker, C-177/88 (Racc. pag. I‑3941, punto 12).


33 – V. sentenza Orfanopoulos e Olivieri, punto 50.


34 – Desidero tuttavia rilevare che il potere discrezionale conferito agli Stati membri è chiaramente circoscritto dalla direttiva sulle donne gestanti, e segnatamente dal suo articolo 8, che prevede, come un minimo generalmente accettato, che le lavoratrici che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva hanno diritto ad un periodo continuativo di congedo di maternità pari ad almeno 14 settimane, distribuite prima e/o dopo il parto.


35 – Sentenza del 7 settembre 2004, C‑456/02 (Racc. pag. I‑7573).


36 – Trojani, punto 45.


37 – Ibid., punto 46. V. anche le sentenze del 17 settembre 2002, Baumbast e R, C‑413/99 (Racc. pag. I‑7091, punto 91 e la giurisprudenza ivi citata) e del 19 ottobre 2004, Zhu e Chen, C-200/02 (Racc. pag. I‑9925, punto 32).


38 – V. la sentenza Brey, punto 70, e la nota 16 supra.


39 – Idem, punto 71.


40 – Idem, punto 70.


41 – V. sentenza Brey, punto 72 e la giurisprudenza ivi citata. Infatti, ciò era già stato stabilito dalla Corte nella sentenza del 20 settembre 2001, Grzelczyk, C-184/99, (Racc. pag. I‑6193, punto 44). Giova ricordare anche che questa conclusione è confortata dal considerando 16 della direttiva sulla cittadinanza, che elenca i criteri rilevanti per stabilire l’irragionevolezza dell’onere rappresentato dal cittadino dell’Unione di cui trattasi. Questi comprendono la natura temporanea delle difficoltà incontrate, la durata del soggiorno, la situazione personale e l'ammontare dell'aiuto concesso.


42 – Sentenza Brey, punto 75.


43 – V. paragrafo 38 delle mie conclusioni nella causa Brey.


44 – Sentenza Brey, punto 77.