31 gennaio 2013

Se basta la sindrome di down per non essere cittadini
l'Unità, 31-01-2013
Italia-razzismo
Il percorso per ottenere la cittadinanza italiana è articolato, complesso e dall’esito, fino all’ultimo istante, incerto. Sembra essere questa la morale suggerita da recenti fatti di cronaca. È accaduto, infatti, che il passaggio che prevede il giuramento di fedeltà alla Repubblica, a seguito della concessione di cittadinanza, sia stato cruciale per un uomo di origine marocchina e per un diciottenne albanese. Nel primo caso il richiedente, in Italia da 21 anni, non è riuscito a leggere il testo del giuramento in quanto analfabeta e, quella che sembrerebbe una semplice formalità, è stata posticipata di sei mesi per consentire al signore di imparare a leggere. Nel secondo caso il limite è stato determinato dalla sindrome down da cui è affetto il giovane colombiano, considerato come soggetto incapace di intendere e di volere e, dunque, non in grado di prestare il giuramento. Qui, evidentemente, il fatto che si tratti di una persona nata a cresciuta in Italia, non ha avuto alcun valore. Nel primo come nel secondo caso ci sarebbero i termini per diventare cittadini, ma la formula di rito pare essere decisiva, come prevede l’articolo 10 della legge 91/92 sulla cittadinanza: “il decreto di concessione della cittadinanza non ha effetto se la persona cui si riferisce non presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la costituzione e le leggi dello Stato”. Le due situazioni, nonostante il finale coincida, sono in realtà molto diverse tra loro. La storia di Cristian, questo è il nome del giovane colombiano,  è quella di una persona che ha sempre vissuto in Italia. Proprio per il fatto di essere nato qui, al compimento del diciottesimo anno di età, può richiedere la cittadinanza direttamente al comune di residenza. E invece, a interrompere il suo processo di integrazione, interviene un pregiudizio in questo caso doppio: verso lo “straniero” e verso l’ “handicappato”. Ma c’è un punto che è risolutivo, o quantomeno, che potrebbe suscitare qualche riflessione. La Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità, infatti, ratificata dal nostro Paese con la legge n. 18 del 2009, potrebbe rivelarsi uno strumento concreto per combattere le discriminazioni e le violazioni dei diritti umani nei confronti di persone come Cristian. Anche perché, nel testo della Convenzione, si precisa che esse hanno “il diritto di acquisire e cambiare la cittadinanza e non devono essere private della cittadinanza arbitrariamente o a causa della loro disabilità”.
In ogni caso, la storia di Cristian, scopre un’altra lacuna della normativa italiana sulla cittadinanza che speriamo venga colmata, insieme alle altre, nella prossima legislatura. Nel frattempo, ci siamo rivolti al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, perchè, come ha chiesto anche la deputata Maria Antonietta Farina Coscioni, la domanda di cittadinanza di Cristian sia immediatamente accolta.



Cancellieri: «Cristian sarà italiano»
​Avvenire, 31-01-2013
Vincenzo R. Spagnolo
Cristian Ramos potrà diventare cittadino italiano. La sindrome di Down, di cui soffre dalla nascita e che non gli impedisce di frequentare le scuole superiori, di avere amici, di giocare a calcetto e di nuotare con destrezza, non gli impedirà neppure di ottenere la nostra cittadinanza.
La sua domanda infatti, assicura il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, verrà valutata «nel modo più appropriato possibile». E su richiesta del ministro, l’ufficio legislativo del Viminale sta già lavorando alla stesura di un disegno di legge, da lasciare pronto per l’avvio della prossima legislatura, che eviti per il futuro il ripetersi di casi simili.
Una conferma di come, anche dai vicoli tortuosi e spesso "ciechi" della burocrazia, intessuti di norme ingiuste e contraddittorie, qualche volta si possa uscire, grazie alla sensibilità e alla buona volontà nelle istituzioni: «Da un primo accertamento, ci risulta che il giovane Ramos non abbia ancora effettuato formalmente la domanda di cittadinanza - fanno sapere dal Viminale -. Ma il ministro ha dato indicazione al prefetto di Roma, affinché contatti la signora Ramos per invitarla a presentare la domanda, con l’assicurazione che verrà valutata nel modo più appropriato possibile...».
La sconcertante vicenda di Cristian (denunciata il 24 gennaio da Avvenire e sottolineata ieri con un editoriale), si può sintetizzare così: è nato a Roma da padre italiano (che non l’ha riconosciuto) e madre colombiana, la signora Gloria, che qualche mese fa, al compimento dei suoi diciotto anni, ha pensato di fargli inoltrare domanda per la cittadinanza italiana.
Ma sia all’anagrafe che in prefettura, dove la signora Ramos si è recata per assumere informazioni, hanno scosso la testa: secondo la legislazione italiana, hanno risposto, può ottenere la cittadinanza solo chi sia in grado di manifestare «autonomamente la propria volontà e il desiderio di diventare cittadino». E a nulla è valso far notare come l’Italia abbia da tempo ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti delle persone disabili (che all’articolo 18 stabilisce chiaramente come il diritto alla cittadinanza non possa esser negato per motivi legati alla disabilità»).
«C’è un vuoto normativo» che non integra le norme della Convenzione, è stata l’asciutta risposta, condita con un’alzata di spalle. Ma Gloria e Cristian non si sono arresi, anche grazie al sostegno dell’Associazione italiana persone down. Dopo gli articoli pubblicati da Avvenire, due giorni fa, il ministro dell’Interno ha fatto sapere di voler approfondire la situazione.
E ieri è giunto infine l’invito informale a presentare la domanda, rivolto alla signora Ramos. Ma il suo caso non è l’unico: c’è ad esempio quello di un altro ragazzo d’origine albanese, la cui richiesta è stata già presentata e respinta, «non perché soffra della sindrome di Down - osservano al Viminale - ma perché in quel caso è stata pronunciata da un tribunale italiano una sentenza d’incapacità d’intendere e di volere». Il disegno di legge al quale gli esperti del Viminale stanno lavorando già da ieri dovrebbe servire proprio a colmare le aporie legislative, con regole chiare che evitino una volta per tutte umilianti discriminazioni a chi già deve sostenere battaglie quotidiane più faticose di quelle di altri.
Anche perché di casi come quello di Cristian potrebbero essercene decine. Il ministro Anna Maria Cancellieri ne è consapevole e perciò lancia un appello: «Chiedo alle persone, alle famiglie e alle associazioni che siano a conoscenza di situazioni con caratteristiche analoghe di segnalarli al ministero dell’Interno, che li vaglierà attentamente cercando di venire incontro alle richieste dei cittadini».



Cittadini senza dubbio
Avvenire, 31-01-2013
Francesco Riccardi
A prima vista può apparire semplicemente come uno di quei vicoli ciechi nei quali il diritto non di rado chiude il cittadino. In realtà è qualcosa di più e di peggio: è il diritto che tradisce se stesso. È la giustizia non-giusta contro la quale ci scontriamo quando norme, idealmente poste a difesa delle persone più deboli, si ritorcono contro gli stessi soggetti tutelati e finiscono per discriminarli. Colpendo loro, ma alla fine immiserendo tutti noi.
È il caso della legge sulla cittadinanza per gli stranieri che – oltre a non prevedere percorsi di sensata acquisizione per chi nasce e vive in Italia o per coloro che, comunque, svolgono da noi l’obbligo scolastico, come da più parti si chiede e sarebbe auspicabile – non permette di diventare italiani alle persone con disabilità mentale. Non lo permette comunque. Di qualsiasi entità sia tale disabilità.
A sollevare la questione – ne abbiamo scritto giovedì 24 gennaio – sono state alcune associazioni di persone con sindrome di Down, che hanno reso pubblici i casi di due ragazzi, appena divenuti maggiorenni, nati in Italia da madre albanese l’uno, venezuelana l’altro. Entrambe le donne si sono sentite dire dall’ufficiale dell’anagrafe che la domanda di cittadinanza sarà respinta perché i loro figli, nati con un cromosoma in più, sono "classificati" quali disabili mentali e per ciò stesso considerati non pienamente in grado di intendere e volere. Dunque impossibilitati a pronunciare quel giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione e delle nostre leggi, necessario appunto per ottenere la cittadinanza. Fonti del Viminale spiegano che i casi emersi sono addirittura «alcune decine» e che finora il parere dell’Avvocatura dello Stato è rimasto univoco: la "capacità" mentale è da considerarsi una conditio iuris invalicabile per come è fissata nella legge 91 del 1992.
In punto di diritto, gli esperti potrebbero disquisire sulla congruenza o meno della norma italiana con la Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009. Così come, sul piano pratico, si potrebbe rivelare la plateale incongruenza di uno Stato che, da un lato considera i ragazzi con sindrome di Down disabili mentali "incapaci", ma dall’altro li accoglie nella scuola pubblica, li forma e consegna loro un diploma scolastico valido (il ragazzo di origine venezuelana, ad esempio, ha completato le medie inferiori e frequenta il secondo anno delle superiori). E, d’altro canto, si possono considerare "incapaci" quelle decine ormai di persone con sindrome di Down che arrivano a laurearsi e quelle centinaia, forse migliaia che – grazie a buone leggi e buona volontà degli uomini – lavorano regolarmente con profitto loro e delle aziende presso cui operano?
Il ministro Anna Maria Cancellieri, spiegano sempre dal Viminale, si sta già occupando della questione, «anche attraverso un approfondimento delle singole situazioni». Ed è possibile che si trovi una via d’uscita dall’impasse, verificando di volta in volta l’effettiva "capacità" mentale delle singole persone. Oppure ricorrendo all’intervento degli amministratori di sostegno. Soluzioni possibili, positive e di buon senso. Ma non sufficienti, crediamo, di fronte a una palese ingiustizia, per sanare la quale occorre al più presto cambiare la legge.
Il diritto alla cittadinanza, infatti, non può essere subordinato allo stato di salute, mentale o fisica che sia, a una disabilità, grave o gravissima che sia. Originaria o sopravvenuta. Sarebbe come aggiungere stigma a stigma, come considerare, ancora, il malato figlio di un diritto minore. Qualcosa che, a poche ore dal Giorno della memoria nel quale si ricorda anche lo sterminio di centinaia di migliaia di disabili, fa ribellare la nostra coscienza. Qualcosa che dovrebbe interpellare, senza demagogie, tante coscienze di cittadini e candidati ora che ci apprestiamo a eleggere il nuovo Parlamento, cioè la "fabbrica" delle nostre leggi.
Concedere la cittadinanza a un disabile oggi "straniero" anche se nato e cresciuto in Italia – come avviene per chi, "sano", si trova nelle stesse condizioni – significherebbe invece dare cittadinanza alla questione sociale di chi è malato o diversamente abile e non per questo ha dignità minore o può essere titolare di minori diritti. Non per questo gli si può negare di essere nostro concittadino. Anche da qui, per un Paese davvero civile, passa una frontiera dell’umano che non possiamo, non dobbiamo più ignorare.



Migranti, nei CIE si resta più a lungo e si moltiplicano costi e tensioni
I migranti trattenuti nei centri di identificazione ed espulsione (Cie) in Italia nel 2012 sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne)  Di questi solo la metà (4.015) è stata effettivamente rimpatriata, pari ad appena l'1,2% del totale delle persone senza permesso di soggiorno presenti sul territorio italiano (326.000 secondo le stime dell'Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) al primo gennaio 2012). Sono gli ultimi dati aggiornati forniti dalla Polizia di Stato all'Ong Medici per i diritti umani (Medu) che li ha diffusi.
la Repubblica, 30-01-2013
RAFFAELLA COSENTINO
ROMA - Nel 2012 sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i centri di identificazione ed espulsione (Cie) operativi in Italia. Di questi solo la metà (4.015) è stata effettivamente rimpatriata, pari ad appena l'1,2% del totale delle persone senza permesso di soggiorno presenti sul territorio italiano (326.000 secondo le stime dell'Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) al primo gennaio 2012). Sono gli ultimi dati aggiornati forniti dalla Polizia di Stato all'Ong Medici per i diritti umani (Medu) che li ha diffusi. Nei Cie vengono detenuti i migranti irregolari, non perché hanno commesso un reato ma solo perché privi dei documenti per restare in Italia. Condizione in cui si trova sia chi è appena arrivato attraversando la frontiera, sia chi ha vissuto e lavorato per anni regolarmente e poi ha perso il lavoro a causa della crisi.
Una gestione costosissima. Sono centri la cui gestione comporta costi di milioni di euro e l'impiego imponente di forze dell'ordine per ogni struttura. Dovrebbero servire a identificare e rimpatriare i migranti. Per svolgere queste operazioni, il tempo massimo di trattenimento è stato allungato negli anni ed è attualmente di 18 mesi, con un grosso aumento dei costi finanziari e umani. Ma secondo Medu l'estensione della detenzione amministrativa è inutile, dati alla mano. Nel 2008, quando si stava rinchiusi solo 2 mesi, il numero dei migranti trattenuti e rimpatriati era più alto: 10.539 persone, di cui 4320 effettivamente rimpatriate.
L'aumento delle tensioni. La detenzione di un anno e mezzo ha fatto aumentare la tensione, le fughe e le rivolte, nonostante l'inasprimento delle misure repressive. Sono 1049 i migranti che sono riusciti a fuggire dai Cie l'anno scorso, con un aumento del 33% rispetto al 2011. Secondo Medu, il lungo internamento "ha drammaticamente peggiorato le condizioni di vita dei migranti all'interno di queste strutture" e i Cie hanno fallito nel loro scopo dichiarato. L'Ong durante le sue visite nei centri, ha riscontrato "gravi e ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti" e per questo chiede una radicale revisione del sistema, il superamento dei Cie e la riforma della legge Bossi-Fini.
Una storia simbolo. E' quella di M., un giovane migrante sbarcato a Lampedusa nel 2010 e rinchiuso nei Cie da un anno e due mesi senza aver mai avuto guai con la giustizia. Il caso è stato sollevato dal team Medu che dopo averlo visitato nel centro di Gradisca di Isonzo ha stabilito la sua incompatibilità con la detenzione e il rischio che il ragazzo si lasci morire. M. è entrato sano nel Cie a dicembre 2011, dove è rimasto fino ad ora, sballottato senza motivo apparente da Gorizia a Trapani e poi di nuovo a Gradisca. Il giovane si è ammalato di una grave sindrome di depressione maggiore a causa dell'insonnia e dell'ansia dovute alla lunga reclusione, come diagnosticato dallo psichiatra che parla di "depressione reattiva al trattenimento nel Cie".
Il tentato suicidio. Due mesi fa, dopo l'ennesima proroga dell'internamento, M. ha tentato il suicidio ingerendo una grande quantità di monete e farmaci. È stato salvato con una lavanda gastrica, ma poi, all'inizio dell'anno ha smesso di alimentarsi e ha perso in totale 10 chili di peso. Per tre volte lo psichiatra dell'ospedale ha chiesto il rilascio urgente del paziente. Ma la direzione sanitaria del Cie ha scritto nero su bianco che "l'ospite ha ripreso ad alimentarsi e a reidratarsi per cui tenendo presente la compatibilità dei parametri vitali e soprattutto la volontà di riprendere a mangiare e bere, si ritiene attualmente compatibile dal punto di vista organico il suo trattenimento presso il CIE Gradisca salvo ulteriori ripensamenti autolesionistici".
Lo sciopero della fame. Dal 22 gennaio il ragazzo è di nuovo in sciopero della fame e della sete. Rifiuta anche i farmaci prescritti come terapia. Dopo averlo visitato, Medu lancia un appello alle autorità per il rilascio immediato di M. contro cui la macchina burocratica sembra accanirsi, visto che non è stato possibile rimpatriarlo in 14 mesi ed evidentemente sarà impossibile farlo nei 18 previsti. I Medici per i diritti umani denunciano che il trattenimento è stato "protratto oltre ogni ragionevolezza" e sono preoccupati per la grande sofferenza di M., il cui caso costituisce una violazione "del diritto alla salute e della dignità umana". Il 27 novembre il ministro dell'Interno aveva annunciato in audizione davanti alla Commissione Diritti Umani del Senato l'intenzione di limitare la durata massima della detenzione amministrativa a 12 mesi. Ma a Gradisca non hanno rispettato questa indicazione del Viminale.



Malato e trattenuto in un CIE dal 2011. Il caso di M.
Melting Pot Europa, 31-01-2013
A cura di Medici per i Diritti Umani
M., giovane migrante, è rinchiuso in un CIE dal 2011, è affetto da una grave forma di depressione e da una settimana rifiuta cibo, acqua e farmaci. Contrariamente a quanto recentemente annunciato dal Ministro Cancellieri (“limiteremo la durata massima per il tempo di riconoscimento a 12 mesi” audizione presso la Commissione Diritti Umani del Senato, 27 novembre 2012), M. è in stato di detenzione amministrativa da quasi quattordici mesi, prima presso il CIE di Gradisca d’Isonzo, poi nel centro di identificazione ed espulsione di Trapani e infine di nuovo a Gradisca. M. ha già compiuto un grave atto di autolesionismo e dal suo ultimo ingresso nel CIE friulano, a maggio del 2012, ha perso 10 chili di peso. Medici per i Diritti umani (MEDU), che segue il caso da diverse settimane, ritiene le condizioni psico-fisiche di M. incompatibili con il trattenimento all’interno del CIE e chiede che il paziente sia urgentemente rilasciato dalla struttura in modo da poter accedere alle adeguate cure specialistiche.
E’ M. stesso a rendere pubblica la sua drammatica storia. Arriva per la prima volta in Italia, a Lampedusa, nell’ottobre del 2010. Nel dicembre del 2011 viene internato nel CIE di Gradisca, poi successivamente è trasferito a Trapani e poi ancora riportato al centro di identificazione ed espulsione di Gradisca senza che si possa procedere al suo rimpatrio. Ai primi di dicembre, dopo che il Giudice di pace decreta l’ennesima proroga di due mesi del suo trattenimento, M. viene trasferito d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale di Gorizia dopo aver ingerito numerosi farmaci e innumerevoli monete. Gli viene praticata la lavanda gastrica e successivamente viene ricondotto al CIE. Il giorno seguente viene sottoposto presso lo stesso nosocomio a visita psichiatrica con diagnosi di reazione da stress ambientale, calo ponderale importante in sindrome depressiva reattiva. Lo psichiatra, nel prescrivere la terapia farmacologica per l’insonnia e l’ansia, ritiene “assolutamente urgente” velocizzare il più possibile l’uscita dal CIE ritenendo che la situazione ambientale possa peggiorare ulteriormente il quadro. Nonostante ciò il trattenimento nel CIE prosegue. Alla fine di dicembre una nuova visita psichiatrica riscontra un peggioramento del quadro (“grave sindrome depressiva con importante dimagrimento”), specificando che “la situazione psico-patologica è sicuramente reattiva al trattenimento nel CIE”.
Il primo di gennaio M. comincia a rifiutare acqua, farmaci e cibo. In otto giorni perde sette chili. Il tre gennaio compie un ulteriore atto di autolesionismo riportando una ferita superficiale al gomito sinistro. Viene chiamato il 118 ma il paziente rifiuta il trasporto in ospedale. Una relazione dello psicologo del CIE sottolinea le buone condizioni generali di salute di M. all’ingresso nel CIE e un atteggiamento collaborativo e positivo del paziente nei confronti degli operatori del centro e degli altri migranti. La relazione prosegue evidenziando un progressivo peggioramento dello stato psico-fisico nel corso del tempo e la graduale comparsa di una sintomatologia ansioso-depressiva con conseguente e significativo calo ponderale. Lo psicologo riscontra inoltre la compatibilità dei sintomi di M. con i criteri propri del disturbo depressivo maggiore. Il giorno otto gennaio, i sanitari del centro, certificandone lo “stato cachettico” e l’evidente condizione di disidratazione, inviano nuovamente il paziente al pronto soccorso per accertamenti.
Dopo nove giorni dall’inizio del digiuno, la direzione sanitaria del centro annota che “l’ospite ha ripreso ad alimentarsi e a reidratarsi per cui tenendo presente la compatibilità dei parametri vitali e soprattutto la volontà di riprendere a mangiare e bere, si ritiene attualmente compatibile dal punto di vista organico il suo trattenimento presso il CIE Gradisca salvo ulteriori ripensamenti autolesionistici”. Il 12 gennaio M. è nuovamente ricondotto ai servizi psichiatrici territoriali dove un’ulteriore consulenza specialistica conferma il quadro di grave sindrome depressiva reattiva e chiede, per la terza volta, l’urgente rilascio dal CIE. Il paziente rifiuta di assumere la terapia psichiatrica prescrittagli. Il 22 gennaio il paziente comincia di nuovo a rifiutare alimenti e bevande andando incontro ad un nuovo calo ponderale. M. chiede di poter essere visitato da un medico di MEDU di sua fiducia. Il colloquio viene concesso ma, da regolamento, per soli venti minuti, attraverso una barriera di plexiglass e in presenza di due agenti di pubblica sicurezza. Al momento dell’incontro, il medico riscontra lo stato di notevole sofferenza del paziente e, dopo aver a lungo interloquito con gli agenti, ottiene unicamente un breve tempo supplementare per il colloquio.
Il provvedimento di detenzione amministrativa in un CIE, che secondo la normativa europea e la legge italiana dovrebbe essere finalizzato esclusivamente ad effettuare il rimpatrio del cittadino straniero, appare essere stato protratto in questo caso oltre ogni ragionevolezza, ledendo gravemente valori fondamentali come la salute e la dignità umana.
Come riscontrato da un suo team in una recente visita (ottobre 2012), Medici per i Diritti Umani ritiene le condizioni di vita all’interno del CIE di Gradisca, estremamente afflittive e del tutto inadeguate a garantire i fondamentali diritti della persona e pertanto non compatibili con il trattenimento di un paziente sofferente come M. MEDU richiede pertanto che M. sia urgentemente rilasciato in modo tale da evitare ulteriori e imprevedibili aggravamenti e da potergli assicurare le adeguate cure specialistiche.



Lettera che il nuovo Sindaco di Lampedusa ha scritto all’Europa dopo il Nobel
La protesta di Giusi Nicolini, neo sindaco dell’isola, contro le politiche migratorie dell’Unione Europea
Melting Pot Europa, 30-01-2013
Giusi Nicolini
Sindaco di Lampedusa (Ag)
Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio 2012, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme; il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?
Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce.
Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore.
In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche. Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umani a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza.



Un nuovo sondaggio nel Regno Unito rivela che l’immigrazione è uno dei fattori più problematici della società inglese.
La maggior parte degli inglesi trova l’immigrazione preoccupante ma è ben disposta verso gli immigrati.
Immigrazioneoggi, 31-01-2013
Secondo i risultati di un nuovo sondaggio condotto dalla società britannica Ipsos Mori, l’immigrazione è considerata da un pressoché costante 20% degli inglesi come una potenziale fonte di tensione e divisione a livello locale, indipendentemente dal numero degli immigrati nella comunità, mentre circa un terzo la considera fonte di tensione a livello nazionale e ben oltre la metà la annovera tra i 3 principali fattori di divisioni. Sunder Katwala, direttore della società che ha commissionato il sondaggio, si dichiara colpito da questi risultati: “Le persone sono evidentemente preoccupate dai livelli di immigrazione, ma mi ha colpito constatare quanto maggiore sia la considerazione del fenomeno come fonte di tensione a livello nazionale piuttosto che locale… ciò rivela che la domanda che il cittadino inglese si pone è: il sistema funziona?”. È necessario dunque che il Governo inglese faccia fronte a questo diffuso senso di ansietà nei confronti degli immigrati. Negli ultimi due decenni, infatti, l’immigrazione è cresciuta a livelli storici, con oltre 100.000 immigrati in più rispetto al numero degli emigrati sin dal 1998. La Ipsos Mori ha intervistato 2.515 persone, di età compresa tra i 16 e i 75 anni, con domande riguardanti il Regno Unito e il loro essere britannici. Solo il 25% ritiene che per essere considerati britannici occorre essere nati nel Regno Unito e due terzi ritiene che i benefici del sistema inglese dovrebbero essere estesi con gli stessi diritti anche agli stranieri che si rivelano essere buoni cittadini. Il sondaggio mostra che i tratti principali dell’essere “britannici” sono il rispetto della legge, il rispetto della libertà di parola e l’abilità nel parlare inglese.
Il segretario di Stato per le comunità e il governo locale, Eric Pickles, ha annunciato maggiori sforzi nelle politiche di integrazione, sostenendo al contempo la necessità per gli immigrati di imparare la lingua inglese, in quanto essa è la chiave per integrarsi meglio nella società e per raggiungere rispetto e comprensione reciproci, oltre ad essere vitale per l’economia del Paese. A dicembre il leader dell’opposizione laburista Ed Miliband aveva rilasciato simili dichiarazioni durante un discorso tenuto a Londra.
(Samantha Falciatori)

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