27 gennaio 2015

Rom, l'ultima vergogna Capitale Sette persone per stanza
Avvenire, 27-01-2015
Luca Liverani
Trecento persone alloggiate dentro stanze senza finestre, in un capannone industriale. Stipati anche in 7 per stanza, la metà sono minori. Standard igienico-sanitari fuori legge, per i quali il Campidoglio nel 2014 ha sborsato 2 milioni 623 mila euro. Ovvero 759 euro a testa al mese. Benvenuti al 'centro raccolta rom' di via Visso 14, battezzata pomposamente Best House Rom, la 'casa migliore'. «È un mostro, figlio delle proroghe – dice il neo Assessore capitolino ai servizi sociali Francesca Danese – dietro le quali si è insediato il malaffare. Va chiuso. Entro un paio di mesi».
Per andare a vedere come vivono i rom nelle strutture pagate dal Campidoglio non basta la presenza di un senatore della Repubblica, il presidente della Commissione diritti umani di palazzo Madama Luigi Manconi. «Lei può entrare, ma niente giornalisti», è il diktat dell’operatore della cooperativa Inopera che sovrintende alla struttura. Il cancello di ferro però si deve aprire, quando arriva l’assessore capitolina Danese.
A spiegare come si riesce a creare un ghetto del genere è Carlo Stasolla, il presidente dell’Associazione 21 luglio: «Il Comune di Roma Il 6 luglio 2012 – spiega – con una determinazione dirigenziale a firma di Angelo Scozzafava, ex direttore del Dipartimento promozione delle politiche Sociali, oggi indagato per associazione di tipo mafioso e corruzione aggravata, ha assegnato alla Cooperativa con affidamento diretto il servizio di accoglienza dei rom sgomberati» da altri insediamenti. È dell’Associazione 21 luglio il dossier  Campi Nomadi Spa che - ben prima dell’inchiesta Mafia Capitale - documentava come la Giunta Alemanno nel 2013 avesse speso oltre 24 milioni per l’accoglienza degli 8 mila rom di Roma, «coi risultati di integrazione che sono sotto gli occhi di tutti», commenta Stasolla.
Via Visso è una traversa della Tiburtina poco prima del Raccordo. Dietro al cancello rosso un cortile dove le donne lavano i panni. Dentro, corridoi gialli sui cui si affacciano a destra e sinistra stanze su stanze. Sembra un albergo economico. Chi ci apre la porta mostra stanze pulite e dignitose: letti, tappeti, un tavolo, ai muri foto di bambini o immagini sacre. Ma niente finestre, né lucernari di alcun tipo. Solo neon e ventilazione forzata. Qualcuno ha appeso delle tendine, sognando una finestra.
In ogni stanza c’è una famiglia, anche 7 persone in 12 metri quadri. Cioè 1,8 metri quadri a testa. E pensare che l’Italia è stata condannata dall’Europa perché nelle carceri i detenuti avevano meno di 4 metri quadri a testa.
Nesib Hrustic, 51 anni, bosniaco, è da 29 anni in Italia con la moglie Sefika. Qui sono nati tutti i suoi undici figli. L’unico maschio, il più piccolo di 7 anni, è affetto da sindrome di Down e ha problemi respiratori. «Ci svegliamo tutti col mal di testa, non c’è aria abbastanza, spesso di notte devo portare fuori mio figlio all’aperto, aspettare che si riaddormenta e riportarlo dentro. Nella baracca almeno avevo luce e aria».
«Dobbiamo ristabilire legalità e trasparenza – commenta l’assessore Danese – perché i romani devono sapere dove va ogni centesimo. Qui il denaro pubblico è stato usato per strutture che non hanno neanche i requisiti igienico sanitari. Mi sto preoccupando di trovare un sistema accogliente e rispettoso dei diritti. E questa gente deve poter lavorare in modo onesto, magari nel recupero del materiale. Sto studiando tutto il tema dell’accoglienza, col volontariato e le cooperative sociali sane. Il problema dell’abitare è comune anche a molti romani che stanno per essere sfrattati non perché morosi ma perché è scaduto il contratto». L’aria al Best House è pesante. Non solo per mancanza di finestre. Stasolla parla di «clima intimidatorio ». Un esempio? «A ottobre 2014 abbiamo portato due residenti a Torino a un convegno dove hanno denunciato le loro condizioni di vita. Al ritorno sono stati espulsi , con 22 minori tra cui un neonato di pochi giorni. Abbiamo occupato l’Assessorato che allora ha disposto un’altra soluzione. Le motivazioni? Scarsa frequenza scolastica dei figli. Abbiamo portato al dirigente che aveva firmato l’espulsione i certificati di frequenza». Ma le intimidazioni continuano. Anche durante la visita: «L’operatore della cooperativa Inopera – denuncia Stasolla – di fronte a testimoni oggi mi ha minacciato: 'Tu campi poco'. C’è un profilo di illegalità gravissimo. Abbiamo fatto un esposto all’autorità anticorruzione: violazione dei diritti umani e sperpero di denaro pubblico». «Il Best House Rom va chiuso immediatamente – dice Manconi – e va superato il modello dei campi rom, individuando i percorsi di inclusione sociale previsti dalla Strategia nazionale di inclusione dei Rom in Italia», curata dall’allora ministro per l’Integrazione Andrea Riccardi.



REPORTAGE • Sulla strada che conduce in Turchia (e oltre) chi fugge dall`orrore della guerra in Siria
Dal fronte al porto I fantasmi di Mersin
La città dell`Anatolia meridionale è diventata uno dei principali punti di imbarco per migliaia di siriani che vogliono raggiungere l`Europa. Da qui prendono il mare vecchi mercantili senza pilota, stracarichi di disperati. L`ultimo business delle organizzazioni criminali che si arricchiscono con il traffico di uomini
il manifesto, 27-01-2015
Federica Lezzi
MERSIN (TURCHIA)
Non c`è più carbone da bruciare nella tenda di Adnan B., che vive con la sua famiglia nell`area attorno ad al-Raqqa,  roccaforte siriana dell`Iris. Sabeen, sua moglie, raccoglie senza fermarsi le poche cose accumulate in due anni. Coperte e vestiti per i cinque figli, il più piccolo, Firas, di soli 3 mesi. Adnan dice che presto proveranno ad attraversare la porta turco-siriana a Kilis. «Lì è più facile. 75 dollari a testa e i poliziotti turchi ti fanno entrare, senza fare domande». Poi in autobus fino alla città portuale turca di Mersin. Nei dintorni di Tartus li aspettano con i documenti e la promessa dei posti  sul mercantile. Adnan racconta che ha lavorato nelle raffinerie di petrolio in mano allo Stato Islamico, a sud di al-Raqqa. I due figli più grandi hanno lasciato una scuola che non c`è più. Raccolgono plastica e alluminio sulle strade. Uno dei lavori più quotati tra i giovanissimi. «È in questo modo che siamo riusciti a mettere da parte un po` di soldi. Voglio che i miei figli studino, così come ho fatto io nella mia Homs».
È così che ha inizio il lungo cammino di centinaia di rifugiati siriani. Seguiamo fino a Mersin sulla polverosa D400, decine di camion carichi di merci, che ci trascinano agevolmente fino all`entrata del porto commerciale. Alti cancelli ne disegnano il perimetro. Nessuno, al di fuori delle merci, entra se non con permessi o dopo ore di persuasivi colloqui, con la polizia che vigila i movimenti. Al di fuori, un lungomare alberato e ben curato sembra nascondere vite e desideri. Le voci dai mercantili confermano i dati dell`Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati: da Mersin sono partite navi fantasma che hanno trasportato una parte dei 170 mila migranti arrivati in Italia negli ultimi 14 mesi. Il nuovo gioco dei trafficanti è utilizzare imbarcazioni senza conducente, su nuove rotte che puntano verso l`Europa. Ogni settimana si ripete lo stesso dramma della Blue Sky e della Ezadeen: navi utilizzate per il trasporto di bestiame, intercettate dalle marine europee, con la stiva carica di almeno 700 anime, in fuga dall`orrore della guerra in Siria.
Un gruppo di uomini siriani ormai da anni residenti in Turchia riferisce che Guven H., un turco di Tarsus, fino a qualche mese fa pianificava le infinite traversate a bordo di gommoni e barche da pesca, fino alle coste senza legge della Libia, per siriani, afghani, pakistani e iracheni. Oggi l`obiettivo è l`Europa.
In un quartiere non lontano dal lungomare di Mersin, un`intera strada è fiancheggiata da stabilimenti diretti da siriani, che sono riusciti ad attraversare il confine di Mursitpinar. Negozi di barbieri, generi alimentari, ristoranti, bar e eleganti  edifici che ospitano scuole private e centri comunitari. La stanza dove riceve Guven è li.
Oggi personaggi come Guven hanno uffici non molto lontani dal porto commerciale di Mersin. La chiamano «zona dei grandi container». E al di là della strada del porto. Ed è qui che i siriani aspettano le prossime partenze. In alloggi di fortuna, mangiando quello che trovano e dormendo su coperte riposte disordinatamente, nei sacchi che trasportano come bagagli.
Vicino i cancelli, presidiati dalla polizia di frontiera turca, un siriano curdo di Kobane mangia dolci fritti presi da un ambulante. È lui il contatto tra i rifugiati siriani e il turco che organizza i viaggi in mare nei mercantili. Gli chiediamo  quando parte la prossima nave con i profughi siriani che va in Italia. Risponde in un arabo stentato che non ci sono navi che  vanno esclusivamente in Italia, perché dai mercantili le piccole imbarcazioni vengono lasciate in mare e la rotta la decidono le onde. Non c`è chi conduce. Qual è il prezzo che un bambino siriano deve pagare per scappare dalle bombe? E i documenti? Daman L, il curdo siriano di Kobane ci dice che «il viaggio costa 4000 dollari e i bambini non pagano».
Per i documenti il servizio è completo: i passaporti li preparano loro per poco più di 1000 dollari. Gli chiediamo ogni quanto tempo le navi partono. Ci risponde «Sempre». Normalmente i rifugiati vengono trasportati attraverso vecchie chiatte sui grossi mercantili, ormeggiati a Mersin. Possono aspettare lì anche giorni prima di salpare. Bisogna arrivare al numero giusto di persone per partire, altrimenti per i contrabbandieri di esseri umani le spese diventano troppe, rispetto alle entrate. E qual è questo numero giusto? «400-500». Per giorni la stiva della nave dunque diventa una casa per i profughi.
Gli accordi sono che una volta entrati nelle acque territoriali di un Paese, il capitano e l`equipaggio del mercantile siano tenuti a contattare le autorità della Marina locale, con una chiamata di emergenza, e poi debbano abbandonare l`imbarcazione carica di profughi alla deriva, con il pilota automatico. Da quel momento non se ne curano più e quegli otto chilometri dalla costa, fanno la differenza tra la vita e la morte per centinaia di persone, per decine di bambini.
Le cifre ufficiali dell`ultimo anno parlano di 20 mila rifugiati siriani entrati in Turchia che alloggiano in 22 campi governativi e in centinaia di campi spontanei, buttati senza identità e senza localizzazione, lungo i 900 chilometri di confine turco-siriano.
Fame, povertà, alte tasse di locazione, sfruttamento del lavoro, nessuna assistenza medica ne servizi scolastici: è questo che trovano i siriani in Turchia. E allora la soluzione diventano vecchie navi da carico o grossi cargo dismessi. I mezzi per il trasporto di migranti verso l`Europa. Nel solo mese di novembre, 3.000 siriani hanno raggiunto l`Italia via mare, secondo l`Organizzazione internazionale per le migrazioni.
Le navi stazionano nei porti del sud-est della Turchia, ancora oggi punti di contatto con i traghetti che partono dal porto di Lattakia, in Siria. Le rotte per l`Europa passano via Cipro e Creta. L`obiettivo degli scafisti sono ancora di più i soldi e sfruttare le speranze dei rifugiati siriani, dimenticando solo, ma solo per ora, i migranti dell`Africa sub-sahariana.



Immigrazione, le «rotte» dei terroristi
Avvenire, 27-01-2015
Sara Lucaroni
Prima erano le autorità a controllare la costa e impedire le partenze. Almeno formalmente. Adesso è ufficiale: sono i trafficanti a gestire e controllare le nuove rotte che, dal Nord Africa, arrivano sul continente. «Gli immigrati vengono da tutto il mondo con l’appoggio delle bande criminali, le frontiere sono spalancate, niente controllo personale e sanitario. Tutti: terroristi, delinquenti... molti di loro comprano ancora la cittadinanza libica e rimangono in Libia, gli altri partono per l’Europa pagando una cifra che oscilla da 1.500 a 3.000 dollari a persona» spiega una fonte dalla Cirenaica, roccaforte dello Stato Islamico in Libia. Un business, quello dell’immigrazione, che arricchisce tutti. Anche le ramificazioni islamiste del-l’Is. L’ultimo allarme è proprio questo, confermato dal ministro Ali Tarhouni, presidente dell’assemblea costituente della Libia: la cellula di Al Baghdadi, insediato a Derna da mesi, starebbe avanzando verso Benghasi e le coste ovest, fino Sabrata, Zuara e Zawiya, i porti da cui salpano gran parte dei barconi diretti a Lampedusa, Malta e Sicilia. Come gli ultimi due, uno soccorso da Malta con a bordo 87 persone, l’altro intercettato giovedì dalla Guardia Costiera italiana.
La Libia, dopo l’agosto 2011 e la caduta di Gheddafi, non solo è nel caos politico, ma è più che mai il terminal incontrollato delle tre rotte migratorie africane e crocevia degli interessi di organizzazioni criminali. La via occidentale è il percorso per chi proviene da Mali, Gambia
e Senegal, attraversa l’Algeria e giunge in Libia o Marocco. Un percorso che si sovrappone a quello centrale, sul quale convergono i migranti da Niger, Nigeria e Ghana, lo stesso sul quale transitano i flussi di droga e la tratta delle donne destinate dal mercato della prostituzione in Europa, gestito dalla potente mafia nigeriana.
Quella ad oriente, che attraversa l’Egitto, è la via per chi lascia
Somalia, Eritrea, Sudane Darfour. Secondo gli ultimi dati di Frontex, sono 170mila gli irregolari arrivati in Italia nel 2014, soprattutto dai porti libici. 50.561 quelli dalle coste egiziane e dall’area greco- orientale. Sono 7.285 quelli con destinazione la penisola iberica. Una folla di disperati che non solo paga i trafficanti per il viaggio via terra, ma arricchisce anche chi si è specializzato nell’organizzare la traversata in mare. E la Libia è il fronte più ricco, e i migranti che arrivano sono spesso i più poveri. Dai container, con cui sono trasportati attraverso il deserto, vengono concentrati nei centri di raccolta, in balia dei trafficanti e in attesa di proseguire. Altre volte il rischio è quello di essere catturati e rinchiusi negli stessi centri di detenzione. Per uscire si paga, e spesso si lavora in semi schiavitù nelle grandi aziende agricole per recuperare i soldi per il viaggio in mare. Spesso si viene catturati di nuovo. Un meccanismo che si autoalimenta senza alcun controllo. L’allarme lanciato dal ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, sul rischio infiltrazioni terroristiche attraverso gli sbarchi e l’inasprimento delle misure in materia di sicurezza sono al centro di provvedimenti allo studio nei Paesi vicini alla Libia e che, come la Libia, si trovano a vivere una forte ondata migratoria. Come l’Algeria, Paese di transito per chi dai Paesi subsahariani raggiunge il Marocco e poi le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, interessata dalla massiccia presenza di migranti da Mali e Niger. Chi possiede un passaporto
maliano non ha bisogno di un visto per entrare in Algeria o in Niger e spesso tutti gli altri migranti se ne procurano uno falso. Il Mali del nord è ancora il regno delle mafie e dei contrabbandieri di droga, armi e uomini, nonostante l’operazione Onu Serval del 2013 e il massiccio impegno francese sull’area: le vie per raggiungere le coste mediterranee, per i traffici dei gruppi islamisti, si sono forse frammentate ma non indebolite. Per chi attraversa il Niger, è Agadez l’ultima città prima del deserto, uno snodo da 3mila migranti a settimana gestito dalle tribù locali.
Ad Algeri sono aumentati anche quei profughi in attesa dell’imbarcazione che dalla Libia li condurrà in Europa. Il governo algerino ha deciso restrizioni nella concessione e nel rinnovo dei permessi anche a marocchini e tunisini e da poco tempo ha dovuto affrontare l’esperienza dei centri di accoglienza e dei programmi di rimpatrio volontario in Niger. Sabato invece la polizia spagnola ha arrestato a Ceuta quattro sospetti, accusati di aver formato una cellula terroristica pronta ad azioni violente.
Secondo il ministro Jorge Fernandez Diaz, ci sarebbero punti in comune tra gli autori dell’attacco al settimanale satirico francese
Charlie Hebdo e i quattro arrestati. Due coppie di fratelli erano «molto radicalizzati, pronti a eseguire un attacco e – secondo la polizia – a farsi saltare in aria». Il passaggio dal Marocco alla Spagna riguarda 30mila persone al giorno, merci e mezzi. L’anno scorso in 16mila hanno tentato di superare il sistema di tre barriere protette da filo spinato e lame, quasi sempre ferendosi o venendo picchiati dalla polizia marocchina. Solo in 3.500 hanno raggiunto i centri di accoglienza oltre la barriera. Sul fronte orientale invece l’Egitto è il punto di raccolta dei flussi da Somalia, Eritrea, Etiopia. Si entra e attraversa il Sudan.
A nord est della capitale Khartoum, a Omdurman, al mercato locale le bande criminali organizzano i viaggi verso Al Kufrah, in Libia, oppure verso il confine egiziano. Alessandria di Egitto è il porto da cui, prima del rafforzamento della via turca, salpava la maggioranza dei siriani, un tempo protetti dal governo di Mohanmed Morsi. Rientrato almeno in parte il fenomeno dei sequestri di eritrei sul Sinai ad opera delle tribù beduine, l’Egitto, oltre ad aver rafforzato i controlli sul confine libico e ristretto le politiche sui visti, continua ad arrestare e trattenere i migranti irregolari nelle carceri comuni, 58 in tutto il Paese. Ma il fenomeno più rilevante è il mercato degli scafisti, anche minori, assoldati tra le famiglie di pescatori più povere. I trafficanti hanno ormai basi transnazionali.



L’Olocausto e le radici dell’Europa
Stefania Mascetti
l'Internazionale, 27-01-2015
Non solo giallo ma anche rosso, verde, viola, blu, marrone, nero, rosa: erano i colori dei triangoli che nei lager segnalavano per quale “crimine” si era reclusi. Era un crimine essere ebreo, oppositore politico (anche solo presunto), fuorilegge, testimone di Geova, esule, rom o sinto, emarginato (per esempio malato di mente o prostituta), omosessuale.
I primi campi, usati per rinchiudere oppositori e indesiderabili, nascono in Germania già nel 1933, e diventano migliaia durante la seconda guerra mondiale: negli anni quaranta tutta l’Europa è costellata di campi costruiti sul modello di Dachau, il primo, costruito ad appena quindici chilometri da Monaco di Baviera. Il governo tedesco oggi ne elenca 1.634, ma secondo alcune organizzazioni ebraiche erano più di 15mila, di cui almeno tre in Italia. Alcuni erano campi di lavoro, altri direttamente di sterminio. In alcuni si eseguivano sperimentazioni mediche o scientifiche, in altri si affermava di voler rieducare i prigionieri. Ma ci sono un’infinità di piccoli campi, soprattutto quelli destinati ai rom, che sono sfuggiti a questa classificazione ufficiale.
Nei lager sono morte almeno 15 milioni di persone, di cui tra i cinque e i sei milioni erano ebrei, 500mila rom e sinti, almeno duecentomila disabili, diecimila omosessuali, 2.500 preti cattolici e altrettanti testimoni di Geova (perseguitati soprattutto per il rifiuto di prestare servizio militare), 109 pastori protestanti e 22 popi ortodossi. E poi prigionieri di guerra russi e polacchi, civili slavi e dissidenti. È l’Olocausto, la strage che ha travolto milioni di persone di nazionalità e religioni diverse.
I massacri che per dodici anni hanno percorso il continente finiscono ufficialmente il 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche entrano ad Auschwitz trovando l’impensabile, o forse quello che non si era mai voluto vedere: duecentomila prigionieri ancora in vita e le tracce di 1,5 milioni di morti. Nel 2005 le Nazioni Unite hanno deciso di dedicare il 27 gennaio al ricordo dell’Olocausto e di tutte le sue vittime. Gli ebrei ne avevano già fatto una memoria di popolo celebrando la shoah, la catastrofe. Solo più recentemente anche i rom hanno strutturato una loro memoria collettiva nel porajimos, la devastazione.
Sono passati solo dieci anni dalla sua istituzione, eppure già si parla di logorio del giorno della memoria, lo si considera un esercizio retorico e già liso. Ma in tempi di antisemitismo e antigitanismo, di razzismo e di crisi della convivenza, in tempi i cui i testimoni viventi stanno scomparendo, il giorno della memoria non è solo una parentesi di retorica buonista: è un’occasione per interrogarsi sulle radici e sul futuro delle società europee.



Memoria dello sterminio e sfida dell’oggi
La lezione della shoah: «Non odiare mai»
Avvenire, 27-01-2015
Marco Impagliazzo
Il 27 gennaio 1945 truppe dell’Armata Rossa entrarono ad Auschwitz, epicentro del sistema nazista di sterminio. Liberarono 2.819 prigionieri ridotti allo stremo, tra cui 180 bambini, molti dei quali vittime degli esperimenti del medico Josef Mengele. È un piccolo numero, se raffrontato al milione e oltre di persone inghiottite da quell’enorme lager (con gli ebrei perirono anche migliaia di polacchi, russi, rom e persone di tante nazionalità), vera e propria fabbrica di morte. Nei capannoni, i soldati sovietici trovarono anche i trofei che i nazisti avevano raccolto per ricavarne denaro: migliaia di paia di occhiali, oltre 800mila abiti da donna, montagne di scarpe, cumuli di capelli. Nei mesi e negli anni a seguire, l’Europa avrebbe preso coscienza dell’enormità della Shoah, con i sei milioni di ebrei uccisi, e la creazione di un sistema concentrazionario che non ha eguali nella storia umana.
Ricorre il settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, il giorno della Memoria, istituito dieci anni fa dall’Onu. Non mancano interrogativi attorno a quest’anniversario, perché talvolta si ha l’impressione che le celebrazioni siano di circostanza, poco partecipate a livello popolare. Alcuni hanno sollevato il rischio di una «ipertrofia della memoria», per il moltiplicarsi di eventi, per lo più di carattere politico o accademico, con scarsa incidenza nella cultura e nella coscienza dei popoli. Tuttavia, ricordare è un imperativo. È necessario far sì che il Giorno della Memoria non si riduca a una rievocazione del passato, ma ci interroghi anche sul presente e sulla realtà delle società europee. Infatti, l’antisemitismo, che fu l’anticamera dei lager, resta ancora oggi un problema europeo. Non solo per i recenti e tragici fatti di Parigi, in cui oltre alla sede di Charlie Hebdo è stato colpito un negozio ebraico, con quattro vittime. Basti ricordare l’attacco alla scuola ebraica di Tolosa il 19 marzo 2012, con quattro morti di cui tre bambini, o quello al Museo ebraico di Bruxelles, il 24 maggio 2014, con quattro vittime anche in quel caso. Sono gli episodi più gravi, ma molti, troppi, sono quelli di minore entità. Nel corso del 2014 oltre 5mila ebrei francesi hanno scelto di trasferirsi in Israele. Circa 15mila sono invece gli ebrei che hanno lasciato altri Paesi europei. Una ripresa dell’emigrazione ebraica è indice di profonda incertezza. L’Europa rischia di smarrire la strada della convivenza tra persone di fedi religiose, culture, tradizioni differenti.
Auschwitz, nel 2015, può apparire lontano. Poche settimane fa è morto uno degli ultimi sopravvissuti romani alla Shoah, Enzo Camerino, che il 16 ottobre 1943 fu deportato, appena quattordicenne. Recentemente, aveva preso a raccontare in modo semplice la sua storia, per trasmetterla ai giovani, ai quali ripeteva le parole che il padre gli disse nel lager: «Non odiare mai». È un insegnamento da non disperdere. Come trasmettere alle nuove generazioni la memoria della Shoah, ora che anche gli ultimi testimoni scompaiono? Le visite delle scuole ad Auschwitz hanno un grande significato. I media possono dare un contributo. Soprattutto, però, c’è bisogno di legare la memoria della guerra e della Shoah alla realtà del nostro tempo, per capire come il razzismo e l’antisemitismo siano stati elementi di una catastrofe per l’Europa e come, oggi, sia urgente ritrovare il filo di una società in cui tutti possano vivere insieme in modo pacifico. Politiche lungimiranti, buona informazione, coinvolgimento dei leader religiosi in una rete d’incontro e di dialogo, attenzione alle periferie, sono alcuni dei passi da compiere verso una società del convivere dove ci sia spazio per tutti.
Auschwitz, luogo che forse più di tutti ha visto manifestarsi la forza del male nella storia, sia occasione di una riflessione sull’Europa. La pluralità, elemento ineludibile delle società contemporanee, può evolvere nel conflitto o, al contrario, essere il fondamento di una civiltà del convivere. Era il sogno che Giovanni Paolo II affidò al mondo e alle religioni ad Assisi, nel 1986, e che oggi è la via da percorrere per l’Europa: una cultura della convivenza nella pace, nel senso del bene comune universale e nel rispetto delle differenti identità.



La Radio diventa Magica. Per bimbi (italiani e non)
Corriere.it, 27-01-2015
Lala Hu
I terribili attentati di Parigi hanno portato me e tanti altri giovani appartenenti alle seconde generazioni a chiedersi come sia possibile che i responsabili abbiano potuto attaccare brutalmente il Paese dove sono nati e cresciuti. Mi sono chiesta quale ruolo le istituzioni come la scuola e gli enti del Terzo settore possano assumere nel favorire l’integrazione dei figli d’immigrati e ne ho voluto parlare con Elena Rocco, docente di Marketing Internazionale dell’Università Ca’ Foscari e fondatrice di una Onlus che dal dicembre 2012 trasmette contenuti digitali per i bambini con bisogni speciali, Radio Magica.
Com’è nata l’idea di creare una radio a sostegno dell’infanzia in situazioni di svantaggio sociale e culturale?
«L’idea nasce da un bisogno reale: ho scoperto che mio figlio, nato con una sindrome rara, fin da molto piccolo s’intratteneva e apprendeva meglio attraverso l’ascolto. Dalle fiabe ai racconti, fino ad arrivare alle audio-guide dei musei, mio figlio era attratto dai materiali sonori. Da questo l’idea di produrre un bene collettivo che offra materiali sonori di qualità adatti ai bambini. E la rete è la piattaforma ideale con due vantaggi esclusivi: è per tutti, non solo per bambini con bisogni speciali, ed è gratuito».
Quali sono le attività che offre Radio Magica?
«Radio Magica è la prima Onlus digitale d’Italia e si occupa di fare e diffondere la cultura per l’infanzia e l’adolescenza di qualità offrendo un servizio utile a casa come a scuola. La radio e l’ascolto si fanno strumenti pedagogici per la didattica inclusiva e come stimolo culturale e ludico alternativo agli schermi».
In linea con le trasformazioni della società odierna, anche la scuola italiana sta diventando più multiculturale. Quali sono le necessità dei bambini figli di immigrati?
«Nelle Indicazioni Nazionali per il Curricolo della Scuola dell’Infanzia e del Primo Ciclo di Istruzione emanate dal MIUR nel 2012, si evidenzia il tema dell’”Insegnare ad essere”: comprendere la propria cultura e metterla in relazione con le altre per cogliere la ricchezza della storia dell’umanità. Raccontare le culture attraverso le storie è uno dei compiti di Radio Magica che vuole creare cultura condivisa e stimolare, attraverso l’ascolto, lo sviluppo dell’attenzione e del linguaggio. Ricordiamo che saper ascoltare è tassello fondamentale dell’atto umano collaborativo per eccellenza: il dialogo».
In quale modo una scuola aperta ad influenze di diverse culture può arricchire i bambini italiani e le loro famiglie?
«I figli di immigrati sono una finestra sul mondo: interagire senza pregiudizi in un ambiente multietnico è necessario nella società odierna e possiamo farlo attraverso le esperienze raccontate, le storie disegnate e giochi diversi fatti tutti insieme. Dell’insieme fanno parte, oltre ai bambini stranieri, anche i dislessici, e tutti i bambini disabili che appartengono a quella variegata categoria nota con l’acronimo BES (bisogni educativi speciali). Tutti i bambini sono portatori di una preziosa individualità. All’adulto spetta il compito di impostare la giusta grammatica della relazione: saper accogliere, dedicare tempo, offrire una presenza stabile e permettere l’interazione tra i coetanei senza fare distinzione di genere, capacità cognitiva, fisica o provenienza».
Come sostenete la funzione degli educatori in questa nuova realtà?
«Operiamo su tre versanti: innanzitutto, selezioniamo, produciamo e mettiamo gratuitamente a disposizione nel portale www.radiomagica.org contenuti educativi di qualità (come libri, programmi di narrativa, lessicali, musicali, scientifici…) a fianco di una vasta rete di partner (case editrici, musei, associazioni) e col sostegno di un’equipe tecnico-scientifica formata da psicologi e logopedisti. In secondo luogo, dà la possibilità ai ragazzi di lavorare a fianco di scrittori ed esperti della comunicazione nella produzione dei contenuti, per acquisire capacità critica e di sintesi attraverso il linguaggio radiofonico. Infine, forma gli insegnanti nell’utilizzo di strumenti e tecniche che li mettono in condizione di facilitare gli studenti nell’acquisizione di competenze di analisi critica, scrittura, esposizione».
Voi operate grazie al sostegno di soggetti pubblici e privati. Come vengono coniugati gli interessi di queste due categorie?
«Radio Magica nasce nel momento acuto della crisi per mostrare come un uso intelligente della rete dischiuda immense potenzialità per l’educazione. La sostenibilità si orienta sempre più nell’ottica di consolidare modelli che, con un minimo sostegno pubblico siano attrattori di risorse provenienti da altre fonti. L’Agenda Europea 2020 vede come strategico il rapporto tra cultura, inclusione e tecnologia e come argomento prioritario il social business. È necessaria quindi la contaminazione di esperienze e metodi di lavoro e la crescita delle competenze: il “sapere” deve sempre più diventare il “saper fare” e la forma deve trasformarsi sempre più in “imparare facendo”, anche dal punto di vista imprenditoriale».
Come siete riusciti a inserirvi nel panorama del Terzo Settore in Europa?
«Dopo lo studio approfondito di circa 250 programmi radiofonici per bambini nel mondo. Le sperimentazioni analizzate indicano che i tempi sono maturi per pensare alla web radio come strumento di condivisione e costruzione di un’identità europea, trasformando le scuole in presidi di ascolto di qualità e di scambio culturale».



Giubbotti catarifrangenti per gli immigrati, il caso in Parlamento
Interrogazione di Sel al ministro dell'Interno sull'ordinanza del sindaco di Flumeri. “È confusa, discriminatoria e priva di fondamento giuridico-amministrativo”
stranieriinitalia.it, 27-01-2015
Roma – 27 gennaio 2015 – Vale solo per un comune di tremila abitanti, ma l'obbligo di indossare giubbotti catarifrangenti per gli extracomunitari che escono di sera  si è già conquistato la ribalta della cronaca nazionale. Ora se ne occuperà anche il governo, su richiesta del Parlamento.
All'ordinanza del sindaco di Flumeri, in provincia di Avellino, ha dedicato un'interrogazione il deputato di Sel, Giancarlo Giordano, eletto proprio in quella circoscrizione. Chiama in causa il ministero dell'Interno Angelino Alfano, chiedendogli “quali iniziative urgenti  intenda intraprendere al fine di favorire l'immediato ritiro e annullamento”.
Giordano definisce il provvedimento  “quanto mai confuso, discriminatorio e privo di fondamento giuridico-amministrativo”.
“Nella premessa – ricorda il deputato – l'ordinanza accolla incredibilmente solo a un determinato gruppo di cittadini la potenzialità del rischio dell'incolumità pubblica stradale (gli extracomunitari in dimora presso l'Agriturismo «Petrillii») e non a tutti i cittadini che percorrerebbero le strade comunali”. Mentre “nella parte dispositiva estende, invece, indistintamente a tutti gli «extracomunitari residenti in Flumeri» l'obbligo della dotazione del giubbotto catarifrangente  addirittura «nelle ore pomeridiane» generando in tal modo ulteriore discriminazione prima che  inefficacia dal punto di vista del dettame della messa in sicurezza del Codice della strada”
Se proprio era necessario un intervento di questo tipo, bisognava estenderlo a tutti, italiani compresi. In realtà,scrive Giordano, “non sussiste assolutamente alcuna emergenza”. Quell'ordinanza, invece, “non favorisce la creazione di un clima di accoglienza tanto necessario per instaurare il giusto rapporto di integrazione tra ospiti e comunità locale”.
Se emergenza c'è, è quella delle condizioni n cuiversano i profughi e le comunità che li ospitano. Il deputato chiede quindi “quali concrete iniziative il Governo stia approntando per la provincia di Avellino al fine di garantire ai circa 600 profughi la giusta accoglienza, alle istituzioni responsabili e ai soggetti sociali operanti sul territorio le risorse, le strutture e gli strumenti necessari per favorire la gestione di tale emergenza umanitaria”.

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