S.Briguglio 17-1-1993

LINEE PER UNA NUOVA POLITICA DELL'IMMIGRAZIONE

I movimenti migratori possono, a grandi linee, essere visti come l'effetto di tre principali fattori: le condizioni economico-politiche del paese d'origine, il livello di chiusura delle frontiere del paese destinatario, le condizioni di inserimento dell'immigrato.

Dato un certo divario tra le condizioni economiche dei due paesi, tende a stabilirsi un flusso contrastato dai meccanismi di chiusura (naturale o artificiale) delle frontiere. Ci si riferisce qui al grado reale di chiusura, non a quello puramente formale. Quest'ultimo rappresenta un limite superiore per il primo, il divario tra i due essendo tanto maggiore, quanto maggiore e' la possibilita' di accesso clandestino ovvero di accesso per motivi ufficialmente diversi da quelli di immigrazione per lavoro.

Nell'ipotesi che l'immigrazione sia percepita come una minaccia per il paese ospitante, e' possibile far leva, in un'ottica di lungo periodo, su un'intensa politica di cooperazione allo sviluppo ed ai processi di democratizzazione dei paesi di provenienza. E' evidente pero' come, nel breve periodo, neanche una conduzione ottimale di tale politica potrebbe ridurre apprezzabilmente il divario economico, indebolendo cosi' la spinta alla migrazione.

Stante, sul breve periodo, una fissata spinta alla migrazione, e' possibile, in linea di principio, ridimensionare il fenomeno accentuando la chiusura delle frontiere. E' da notare pero' come qualunque provvedimento legislativo di carattere restrittivo nei confronti dell'immigrazione per lavoro sia destinato ad incidere solo sulla chiusura formale delle frontiere, a meno di non interferire pesantemente (e in modo spesso percepito come inaccettabile) sulla possibilita' di accesso al territorio nazionale per motivi diversi dal lavoro. Resta comunque esclusa la possibilita' di indurre con un simile provvedimento una diminuzione degli ingressi clandestini, non potendosi prospettare, contro questi, sanzioni che vadano oltre l'espulsione dal territorio dello Stato. Una tale flessione potrebbe solo essere il frutto di una militarizzazione delle linee di frontiera, tanto piu' improponibile, quanto maggiore e' l'estensione dei confini potenzialmente accessibili del paese.

Una volta individuato e realizzato il grado di chiusura ritenuto accettabile, l'immigrazione per lavoro si attesta ad un certo tasso annuale, comprensivo dell'immigrazione regolare per lavoro, di quella irregolare (con questo termine indicandosi l'immigrazione per lavoro mascherata da un ingresso regolare ma per motivi diversi, tipicamente turismo, e sfociata nell'irregolarita' col protrarsi della permanenza oltre i termini di scadenza del permesso di soggiorno) e dell'immigrazione clandestina.

Il peso relativo delle diverse componenti, a parita' di tasso complessivo, dipende ovviamente dalle disposizioni di legge vigenti nel paese ospitante. Qualora queste mirino a rendere piu' arduo l'ingresso per motivi di lavoro, restringendo cosi' il campo dell'immigrazione che lo Stato accetta di governare, la componente irregolare e quella clandestina tendono a crescere a spese di quella regolare (con prevalenza della componente irregolare rispetto a quella clandestina, a condizione che l'ingresso regolare per motivi diversi dal lavoro non sia anch'esso eccessivamente ostacolato).

Si forma cosi' una fascia di immigrazione sostanzialmente sottratta al controllo dello Stato, che puo' trovare collocazione unicamente nel mercato del lavoro sommerso.

Ferma restando la situazione riguardo ai fattori "esterni" (divario economico e chiusura delle frontiere) che concorrono a determinare il tasso annuale di immigrazione, la crescita della fascia irregolare puo' rallentare, ed eventualmente arrestarsi, solo a causa del peggioramento delle condizioni di inserimento nel paese ospitante (il fattore "interno").

Questo e' solo marginalmente associato all'insorgere di reazioni xenofobe, ed e' piuttosto legato alla naturale saturazione del mercato del lavoro. Trattandosi pero' di lavoro nero, la saturazione del mercato procede molto lentamente ed e' associata ad una progressiva diminuzione dei salari ed al deterioramento delle condizioni di lavoro. Il fattore di dissuasione non e' costituito, cioe', da un'improvvisa impossibilita' di inserimento lavorativo, quanto, piuttosto, da un inarrestabile degrado delle condizioni alle quali tale inserimento avviene.

Dato il grande divario tra le condizioni economiche del paese di provenienza e di quello ospitante, tale fattore di dissuasione risulta realmente efficace solo quando i livelli salariali sono scesi al di sotto di valori che, rapportati ai minimi di legge, appaiono come scandalosi. Questo corrisponde, oltre che alla negazione di diritti fondamentali della persona, ad una condizione di concorrenza sleale nei confronti dei lavoratori nazionali, difficilmente tollerabile dai ceti piu' deboli.

La societa' viene cosi' a presentare una stratificazione che, con continuita', congiunge i livelli economici tipici del mondo industrializzato con quelli propri dei paesi sottosviluppati. Questo, se per un verso puo' costituire un evidente richiamo ai doveri del mondo industrializzato riguardo alla cooperazione, per l'altro verso introduce fortissime tensioni sociali, per via della sopravvenuta promiscuita' dei diversi livelli economici.

E' da notare che, in presenza di una rilevante porzione di popolazione immigrata irregolare o clandestina, non e' possibile contrastare questo processo, dal momento che all'immigrato non si aprono possibilita' diverse da quelle di lavoro nero o di sotto-occupazione.

Alla luce di queste considerazioni, conviene chiedersi se gli sforzi fatti dal Consiglio dei Ministri della Comunita' Europea e dai Ministri Responsabili dell'Immigrazione degli Stati Membri della Comunita' Europea allo scopo di definire i principi su cui fondare la politica dell'immigrazione siano o meno destinati a favorire una appropriata gestione del fenomeno.

Nel recente incontro di Edimburgo (11-12 Dicembre 1992) e' stata concordata una dichiarazione in diciassette punti su tali principi. Nell'incontro di Londra (30 Novembre - 1 Dicembre 1992) i ministri responsabili dell'immigrazione hanno preso atto dei progressi compiuti dal Gruppo ad hoc per l'Immigrazione per quanto riguarda l'armonizzazione delle politiche nazionali in materia di ammissione per motivi di lavoro, ed hanno invitato il Gruppo ad hoc a completare i lavori entro il prossimo incontro di Copenhagen (1-2 Giugno 1993).

Da un'analisi sinottica del testo della dichiarazione e del documento preliminare approntato dal Gruppo ad hoc si evincono i punti seguenti.

- Si riconosce che i flussi migratori sono dovuti essenzialmente al sottosviluppo economico ed alla situazione politica dei paesi di provenienza. Si afferma che la cooperazione allo sviluppo e al ristabilimento di condizioni di pace e di democrazia in tali paesi e' indispensabile perche' si allevii la spinta alla migrazione. Si ammette pero' che la riduzione avrebbe luogo su tempi lunghi e che per tutto il prossimo decennio non e' lecito attendersi sostanziali ridimensionamenti del problema.

- Si ribadisce l'intenzione della Comunita' Europea di mantenere la propria apertura nei confronti del mondo esterno, tanto sul piano della cooperazione, quanto su quello dei flussi di persone e di patrimonio culturale. Si riconosce il contributo dato dai lavoratori immigrati all'economia dei paesi ospitanti.

- Si sottolinea la necessita' di rinforzare la lotta contro il razzismo e la xenofobia e di combattere l'immigrazione illegale e incontrollata, vista come possibile fonte di destabilizzazione.

Si puo' osservare come, compatibilmente con le argomentazioni suesposte, si facciano corrispondere, qui, la previsione di una spinta alla migrazione sostanzialmente costante e la contemporanea negazione di una volonta' di drastica chiusura delle frontiere alla convinzione che per il prossimo decennio l'Europa dovra' fronteggiare flussi migratori tali da costituire un rilevante motivo di apprensione per i governi degli Stati Membri.

Nello spirito di quelle argomentazioni appare quindi sicuramente ragionevole la preoccupazione di non lasciare che, degradandosi al rango di illegalita', e quindi di incontrollabilita', l'immigrazione diventi fattore destabilizzante della societa'.

Si e' fatto gia' rilevare pero', a questo proposito, come il crearsi di una sacca di immigrazione irregolare e la sua entita' dipendano, fissata la pressione esterna e il grado di chiusura delle frontiere, dalla idoneita' delle norme sull'accesso regolare per lavoro a tener conto delle dimensioni effettive del fenomeno. In altri termini: se norme troppo permissive significano un sostanziale abbattimento delle frontiere, un restringimento dei canali di accesso regolare eccessivo rispetto all'effettivo grado di chiusura delle frontiere, finisce col rendere obbligato il canale irregolare ovvero, in misura inferiore, quello clandestino.

Per poter operare una previsione sull'efficacia della politica europea sull'immigrazione, almeno nella forma in cui va delineandosi attraverso i documenti citati, e' necessario valutare la capacita' delle previste norme sull'ammissione per lavoro di situarsi in quel giusto mezzo che consentirebbe di minimizzare la percentuale di immigrazione incontrollata.

Le norme in questione possono essere, nella loro attuale formulazione, compendiate come segue.

- Puo' essere autorizzato al lavoro solo chi sia stato preventivamente ammesso all'ingresso per lavoro o per ricerca di un lavoro. Chiunque sia entrato nel territorio di uno Stato Membro per altri motivi non ha diritto a tale autorizzazione.

- Le categorie di lavoratori cui puo' essere concessa l'autorizzazione all'ingresso per lavoro o per ricerca di lavoro sono

a) lavoratori stagionali;

b) lavoratori in formazione;

c) lavoratori con contratto a termine o con impiego regolare.

- Per i lavoratori stagionali e' esclusa la possibilita' di stabilirsi permanentemente, dopo un certo numero di anni, nel paese ospitante.

- Per i lavoratori a contratto o con impiego regolare e' richiesto un alto grado di capacita' e di esperienza.

Benche' il testo redatto dal Gruppo ad hoc non lo affermi esplicitamente, sembra ovvio che, delle tre categorie considerate, la possibilita' di ricerca di lavoro riguardi solo le prime due.

E' evidente che, prescindendo dalla categoria dei lavoratori in formazione (la quale rappresenta un aggravio per l'economia nazionale ed e' percio' forzatamente destinata a mantenere un carattere minoritario), resta negata la possibilita' di un'immigrazione regolare a basso contenuto tecnico ed a carattere stanziale. Ed e' da sottolineare come questa condizione di negazione permarrebbe anche nell'ipotesi di rilassare il requisito relativo all'alto grado di capacita' e di esperienza. L'immigrazione scarsamente specializzata, che pure potrebbe trovare adeguato inserimento in attivita' che non esigono particolarissime capacita', vede infatti sbarrata ogni possibilita' di accesso dall'incompatibilita' tra il vincolo che l'offerta di lavoro preceda l'ingresso ed il carattere fiduciale tipico dei rapporti di lavoro di questo genere. In altre parole: il negare la possibilita' di un incontro preventivo diretto tra datore di lavoro e lavoratore, mentre non inficia l'instaurarsi di rapporti di lavoro caratterizzati da alta specializzazione, impedisce lo stabilirsi di quel clima di reciproca fiducia che e' indispensabile, ad esempio, nel caso del lavoro domestico o dell'impiego nella piccola impresa.

E' bene tenere presente che, in Italia, questo tipo di immigrazione costituisce la quasi totalita' del fenomeno.

E proprio da un esame della situazione italiana si possono ricavare elementi che consentono di valutare il grado di adeguatezza della politica europea.

La Legge 39/1990, infatti, riconosce come obiettivo primario il porre sotto il controllo dello Stato l'immigrazione nella sua totalita', e l'evitare cosi' la formazione di un'area di irregolarita'. A questo scopo, la Legge 39, oltre a stabilire un provvedimento di sanatoria delle situazioni di irregolarita' pregresse, prevede l'emanazione di un decreto governativo annuale per la definizione dei criteri di ammissione dei lavoratori immigrati e delle misure atte al loro inserimento sociale. Si dispone quindi di uno strumento legislativo potenzialmente in grado di individuare, anno per anno, i criteri di ammissione piu' appropriati alla gestione di quella che si puo' indicare come "immigrazione effettiva".

Il fatto che la situazione italiana attuale consenta di formulare dei pronostici sulla futura situazione europea e' dovuto alla somiglianza tra i criteri definiti dai decreti sui flussi per gli anni '91, '92 e '93 e quelli elaborati dal Gruppo ad hoc europeo.

L'unica possibilita' di ammissione al lavoro continuativo prevista dai decreti in questione e' rappresentata infatti dal meccanismo della chiamata nominativa dall'estero. Se usato in modo proprio questo meccanismo corrisponde alla gia' discussa ammissione di lavoratori con un contratto a termine o un'offerta di impiego regolare concordati precedentemente all'ingresso.

Di fatto, per i motivi gia' esposti, l'uso proprio di questo meccanismo ha riguardato una percentuale trascurabile di immigrati. Un uso improprio, ancorche' provvidenziale, ha consentito invece la regolarizzazione, previo temporaneo ritorno in patria, di decine di migliaia di immigrati irregolari che, beneficiando della correttezza del datore di lavoro, hanno potuto cosi' sottrarsi alla condizione di sommersione. Se si tiene conto, pero', del grado di complicazione associato a questo uso improprio, si puo' facilmente comprendere perche' anche questa porzione non possa costituire che una modesta frazione del dato complessivo. La maggioranza, cioe', degli immigrati irregolari, pur avendo trovato inserimento nel mercato del lavoro (come e' testimoniato dall'esiguo numero di casi di assoluta indigenza) e dato cosi' contributo allo sviluppo economico del paese, e' rimasta relegata in condizioni di irregolarita' ed esposta, quindi, al processo di depauperamento salariale strettamente correlato a queste condizioni.

Certamente, la mancata previsione di una ammissione regolare al lavoro stagionale ha appesantito la situazione italiana rispetto al problema dell'irregolarita' e questo lascia spazio, in linea di principio, alla possibilita' che una normativa ispirata alle indicazioni del Gruppo ad hoc (che tale ammissione contemplano) si riveli adeguata ad un pieno controllo dell'immigrazione.

Si deve considerare, pero', che il lavoro stagionale, con obbligo di ritorno nel paese di origine al termine di ogni stagione, puo' costituire un canale efficace solo per i lavoratori provenienti dall'Africa Settentrionale, dal Vicino Oriente e dall'Europa Orientale, per i quali il rientro in patria a stagione conclusa comporta una spesa sostenibile. Stando ai dati forniti dal Centro di Accoglienza Stranieri della Caritas di Roma, che, non avendo vincoli giuridici che costringano a discriminare tra immigrati regolari e irregolari, ha a disposizione un campione sufficientemente rappresentativo dell'effettiva situazione italiana, il numero complessivo di immigrati provenienti da queste aree ammonta a circa un terzo del totale. Si riconosce, allora, come anche una adeguata normativa sul lavoro stagionale non altererebbe in modo sostanziale l'entita' del problema.

Da quanto detto emerge la necessita' (nell'immediato per l'Italia, in un prossimo futuro per l'Europa) di individuare meccanismi di ammissione che consentano un piu' corretto dimensionamento dell'immigrazione regolare rispetto a quella effettiva.

Il nodo della questione sembra risiedere nella possibilita' di un incontro diretto, nel paese ospitante, tra domanda e offerta di lavoro.

Se cosi' e', deve essere riconosciuta la legittimita' dell'ingresso per la ricerca di lavoro e deve essere resa sostanzialmente automatica la concessione di un permesso per lavoro, ogni qual volta la ricerca sia coronata da successo. Questo infatti obbedisce all'esigenza di assecondare il mercato del lavoro, a condizione, naturalmente, che tale assecondamento non passi attraverso l'instaurarsi di rapporti in nero, tali da stravolgere le regole della leale concorrenza.

D'altra parte, e' proprio l'associare al reperimento di una occupazione il diritto al prolungamento del soggiorno che incoraggia l'immigrato a fare quanto e' nelle sue possibilita' per ottenere la regolarizzazione del rapporto di lavoro. E' di importanza fondamentale che le disposizioni di legge lo agevolino al massimo in questa procedura, rimuovendo vincoli inutili, quali il preventivo rientro in patria (che, come detto, caratterizza l'attuale escamotage della chiamata nominativa dall'estero), e consentendo la possibilita' di autocertificazione da parte del lavoratore immigrato, nel caso che il datore di lavoro si rifiuti di acconsentire alla richiesta di regolarizzazione.

E' evidente che un provvedimento di questo genere, se non gestito oculatamente, rischierebbe di far pendere la situazione verso l'estremo, non voluto, di una eccessiva apertura.

Perche' questo non accada e' necessario che siano prese misure atte a favorire lo stabilirsi, nel paese ospitante, dei soli lavoratori che, a valle di un opportuno periodo di ricerca, siano riusciti a trovare inserimento nel mercato regolare del lavoro, e a scoraggiare la permanenza o l'inserimento nel mercato sommerso di quanti, al contrario, non abbiano avuto successo in tale ricerca.

Puo' sembrare che l'individuazione di tali misure sia cosa impossibile, ma conviene notare come proprio in questo consista il governo dell'immigrazione e come la scorciatoia della chiusura formale (cioe' la mancata individuazione di misure) di fatto si traduca, secondo quanto argomentato in precedenza, in una esatta coincidenza tra immigrazione effettiva e immigrazione irregolare.

Le possibilita' di successo in tal senso sono strettamente legate alla capacita' di rendere decisamente preferibile, per l'immigrato che non abbia avuto successo nella ricerca di lavoro, il rientro nel paese di origine piuttosto che la permanenza irregolare. Se oggi questo in Italia non si verifica e' perche' l'immigrato si trova a scegliere tra un ritorno spontaneo in patria, sostanzialmente privo di speranze di reingresso nel nostro paese, e un prolungamento della permanenza, con una speranza di maggior successo nella ricerca del lavoro scarsamente contrastata dalla minaccia di una sanzione (l'espulsione) esattamente equivalente, negli effetti, al ritorno spontaneo: e' ovvio che la scelta cada sulla seconda opzione.

E' necessario allora far si' che le due alternative comportino conseguenze ben differenziate.

Una possibile soluzione e' quella di concedere un diritto di precedenza, o analoghe agevolazioni, per il reingresso nell'anno successivo a chi lasci regolarmente il paese ospitante alla scadenza del permesso per ricerca lavoro. Contemporaneamente, la permanenza irregolare dovrebbe essere sanzionata con il diniego permanente alla richiesta di reingresso. Una norma di questo genere puo' sembrare eccessivamente punitiva per l'immigrato, ma, in realta', risulta esserlo solo nelle situazioni, come quella italiana attuale, in cui una forma di accesso regolare al lavoro e' comunque negata. In altre parole: la sanzione contro la violazione della legge ha efficacia ed e' moralmente accettabile a condizione che la legge stessa indichi una strada concretamente percorribile.

E' possibile che provvedimenti del genere non siano comunque sufficienti. Per gli immigrati dai paesi non immediatamente vicini le spese affrontate per arrivare nel paese ospitante sono infatti di entita' tale da comportare situazioni di indebitamento o, quanto meno, di partecipazione economica dell'intera comunita' familiare. Il rientro immediato, come conseguenza di un esito negativo della ricerca di lavoro sarebbe percepito dall'immigrato come un intollerabile fallimento e finirebbe con l'indurlo alla scelta di una permanenza irregolare.

Di fronte a questa eventualita' possono prospettarsi almeno due soluzioni.

La prima prevede l'indirizzamento al lavoro stagionale per coloro che si trovino nella situazione descritta: questo consentirebbe una conclusione in attivo, seppure in misura piu' ridotta rispetto a quanto preventivato, dell'esperienza di migrazione e, ancora una volta, costituirebbe un incentivo alla scelta del circuito regolare.

La seconda comporta il sostegno al reinserimento lavorativo nel paese di provenienza; andrebbe coordinata con i progetti di cooperazione allo sviluppo e di questa potrebbe rappresentare una delle forme piu' dirette ed efficaci.

Se l'impostazione del problema fin qui presentata viene riconosciuta valida, devono altresi' riconoscersi come urgenti provvedimenti legislativi che modifichino l'attuale quadro normativo in modo da contemplare l'istituzione di un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro subordinato, di durata limitata ma ragionevole, e l'adozione di misure atte a realizzare il meccanismo di incentivazione-dissuasione di cui si e' detto. Altrettanto urgente e' un provvedimento che, permettendo la regolarizzazione del soggiorno di tutti gli immigrati attualmente impiegati in attivita' di lavoro irregolare, consenta di ridurre alle dimensioni minime il bacino di irregolarita' e dia avvio in modo coerente ad una piu' realistica politica dell'immigrazione.

Tre principali obiezioni vengono di solito sollevate contro questo tipo di proposte.

La prima e' che un qualunque provvedimento che abbia il carattere di una sanatoria ha anche un forte effetto di richiamo nei confronti di ulteriore immigrazione.

E' possibile dimostrare come questo timore sia privo di fondamento basandosi sui dati forniti dalla Caritas di Roma. L'afflusso di nuovi utenti al Centro di Accoglienza Stranieri per gli anni '89, '90, e '91 (prima, durante e dopo l'ultima sanatoria) si e' mantenuto pressocche' costante, con oscillazioni contenute entro il 10% del valor medio: si sono registrate, infatti, approssimativamente 9200 presenze nel 1989, 10400 nel '90, 9000 nel '91; i dati relativi al periodo Gennaio-Ottobre consentono inoltre di prevedere per l'anno '92 un dato confrontabile con quello del '90.

La seconda obiezione concerne una presunta incompatibilita' dell'impostazione descritta con il quadro derivante dall'abbattimento delle frontiere interne nell'ambito della Comunita' Europea.

E' comprensibile la posizione di stati, quali la Francia o la Germania, che registrando, sul totale della popolazione, percentuali di stranieri extra-comunitari dell'ordine del 4-6%, temono che gli stati piu' meridionali della Comunita' fungano da canale di facile accesso per stranieri abilitati, poi, a circolare liberamente in tutta Europa. Diversa e' invece, appunto, la situazione degli stati meridionali, per i quali la popolazione in questione non supera l'un per cento del totale.

Si rende allora necessaria una politica dell'immigrazione distinta nei due casi: armonizzazione non deve cioe' significare appiattimento. Tale distinzione e' resa possibile dalla previsione, all'interno del Trattato di Schengen, della facolta' di limitare la validita' territoriale del permesso di soggiorno. In tal modo i paesi con un mercato del lavoro non saturo potrebbero operare scelte autonome senza che questo aggravi la situazione di altri paesi.

La terza obiezione riguarda la possibilita' che l'autorizzazione alla ricerca di un lavoro si traduca in un inaccettabile onere finanziario per la comunita', stante la necessita' di una qualche forma di assistenza per una fascia sociale oggettivamente debole.

Osservando, pero', come le stime piu' allarmistiche a riguardo dell'immigrazione effettiva nel nostro paese non indichino mai cifre superiori alle centomila unita' per anno, e che una durata ragionevole per il periodo di ricerca di lavoro potrebbe essere di quattro mesi, si vede che, anche nell'ipotesi, certamente eccessiva, di garantire a tutti un sussidio in grado di coprire le spese di alloggio (quantificabili in circa duecentomila lire mensili pro-capite), la cifra necessaria non si discosterebbe in modo sostanziale da quella prevista dal Governo per i centri di prima accoglienza. Naturalmente, l'effettiva realizzazione di tali centri costituirebbe, di per se', una adeguata risposta al problema.