(Sergio Briguglio 7/7/1994)

 

POLITICHE DI IMMIGRAZIONE:

COSA SI MUOVE IN EUROPA?

Il tema dell'immigrazione e' tornato prepotentemente alla ribalta, nelle ultime settimane, in seguito alla risoluzione adottata, in Lussemburgo, dai ministri europei dell'interno e della giustizia riguardo ai criteri di ammissione dei lavoratori extracomunitari in Europa. Questa presa di posizione ha scatenato una generale sollevazione delle componenti sociali tradizionalmente sensibili alle ragioni della solidarieta', ma anche, e fa piacere rilevarlo, di autorevoli esponenti del Governo (primo fra tutti il ministro degli esteri Martino). Vediamo di esaminarne le ragioni.

La risoluzione di Lussemburgo si puo' cosi' riassumere: dato l'alto livello di disoccupazione che attualmente afflige l'Europa, l'ingresso di lavoratori di paesi extracomunitari e' consentito solo per lavori stagionali, ovvero nel caso che, a dispetto del gran numero di disoccupati, emergano settori del mercato del lavoro che non possono essere coperti dalla manodopera residente nel territorio della Comunita'; l'ingresso del lavoratore e' condizionato al rilascio, su richiesta del datore di lavoro, dell'autorizzazione al lavoro.

Non e' stata, ovviamente, la previsione di possibilita' di ingressi per lavoro stagionale a scatenare le critiche in Italia: una regolamentazione dell'immigrazione stagionale e' da anni invocata nel nostro paese, particolarmente nelle regioni in cui l'economia agricola impone, ma solo in determinati periodi dell'anno, un massiccio ricorso a manodopera straniera. Le obiezioni si sono invece concentrate sulle clausole restrittive relative agli ingressi per lavoro di lunga durata. Se si considera che la quota di immigrazione stagionale in Italia difficilmente potrebbe superare il venti per cento del totale, si comprende come il dissenso non verta affatto su questioni marginali.

E' possibile determinare se una politica di immigrazione che abbia tra i suoi fondamenti queste clausole restrittive sia destinato al successo o al fallimento? E' possibile; per la semplice ragione che l'applicazione che e' stata fatta della Legge Martelli e' sostanzialmente in linea (stagionalato a parte) con la risoluzione in questione e consente di osservare in vivo le conseguenze di scelte di questo genere. L'ingresso in Italia per lavoro, in questi anni, e' stato consentito, infatti, formalmente solo agli immigrati chiamati nominativamente da un datore di lavoro che avesse ottenuto per loro l'autorizzazione al lavoro, previo accertamento di indisponibilita' di manodopera regolarmente residente in Italia.

Per quanto possa risultare, a prima vista, sorprendente, il punto essenziale di tutta la faccenda non sta nell'accertamento di indisponibilita' di manodopera, ma nel fatto che l'ingresso sia consentito solo dopo l'autorizzazione al lavoro. L'accordare, infatti, la precedenza ai lavoratori disoccupati (italiani e stranieri) gia' presenti e' cosa coerente non solo con i principi costituzionali (per quanto riguarda i disoccupati italiani), ma anche con criteri di buon senso e di convenienza economica. Difficilmente, quindi, una disposizione di questo genere puo' interferire con le naturali modalita' di incontro tra immigrato e mercato del lavoro. Perfino un'estensione del diritto di precedenza ai lavoratori comunitari, seppure discutibile sul piano di principio, risulterebbe del tutto ininfluente sul piano pratico: e' improbabile, infatti, che un posto di lavoro non appetibile per il disoccupato italiano riscuota invece l'interesse del disoccupato di altro stato comunitario.

Ben diverso il discorso per quanto riguarda l'autorizzazione al lavoro. E' noto che la maggior parte delle mansioni che vedono oggi carenza di manodopera italiana sono di carattere tale da rendere indispensabile un incontro diretto tra datore di lavoro e lavoratore perche' si possa instaurare un rapporto di lavoro. Non e' pensabile, ad esempio, che una famiglia assuma una collaboratrice familiare "al buio", senza averla cioe' prima incontrata e conosciuta. Porre allora come condizione per l'ingresso in Italia che l'autorizzazione sia stata gia' richiesta e concessa e' del tutto irrealistico e continuerebbe ad esserlo, per il motivo detto, anche se il nome dell'immigrato da chiamare fosse ricavabile da una lista di prenotazione per l'ingresso.

Noi italiani siamo maestri nel trovare, per cosi' dire, dei correttivi alle norme non adeguate alla realta', e molti degli immigrati probabilmente non sono da meno; l'escamotage e' consistito nel dar luogo ad una prassi di immigrazione cosi' sintetizzabile: l'immigrato entra, abbastanza facilmente, come turista; trova lavoro presentandosi, in carne ed ossa, ad un datore di lavoro; se tutto funziona nel migliore dei modi, il datore di lavoro procede alla chiamata nominativa, come se l'immigrato si trovasse all'estero; ottenuta la fatidica autorizzazione al lavoro, l'immigrato torna nel proprio paese, giusto per richiedere il visto di ingresso in Italia e reimmigrare, questa volta anche formalmente come lavoratore.

Tutte le situazioni che si fondano su espedienti hanno dei costi, e in questo caso i costi sono molto alti. Rappresentando, infatti, l'immigrazione irregolare l'unico canale di accesso all'immigrazione regolare, l'intero fenomeno tende a svilupparsi al di fuori di qualunque possibilita' di controllo e persino di conoscenza da parte dello Stato. Arbitro del passaggio dalla condizione irregolare a quella regolare finisce per essere il solo datore di lavoro: il soggetto, cioe', che piu' spesso ha interesse a che questo passaggio non avvenga, potendo in tal modo approfittare della debolezza contrattuale del lavoratore. La conseguenza e' che i meccanismi di riempimento del bacino di immigrazione irregolare risultano decisamente piu' efficaci di quelli di svuotamento. E un'irregolarita' diffusa e persistente significa, per un verso, sfruttamento, impossibilita' di accesso a diritti fondamentali, miseria; per l'altro, concorrenza sleale nei confronti del lavoratore regolare (italiano o straniero), visibilita' negativa del fenomeno, esposizione alla contaminazione criminale.

La ricerca di una strada alternativa e' allora doverosa. Proviamo a fissarne alcuni punti essenziali.

1. Attenuare la spinta alla migrazione, curando gli squilibri che la determinano e' cosa ottima, ed e' bene che politica di immigrazione, politica di cooperazione allo sviluppo e politica di pace si intreccino profondamente. E' pero assolutamente illusorio che si possano raccogliere frutti di questo intreccio sui tempi brevi che caratterizzano il rapporto tra immigrazione e disoccupazione in Europa. Una politica di controllo dei flussi migratori resta quindi all'ordine del giorno.

2. E', allo stesso modo, velleitario il proposito di contrastare l'ingresso dei falsi turisti; di coloro, cioe', che puntano a prolungare irregolarmente il loro soggiorno allo scopo di inserirsi nel mercato del lavoro. In Italia, ad esempio, si tratterebbe di individuare, ogni anno, circa centomila di questi falsi turisti in un complesso di qualche decina di milioni di turisti veri; il tutto sulla base di una valutazione non gia' di criteri oggettivi, bensi' di intenzioni: vogliamo sottoporre tutti i turisti in ingresso ad un test psicologico? o torturarli finche' non abbiano confessato che la macchina fotografica e' stata presa a nolo da un trafficante di braccia?

3. Un'azione repressiva nei confronti dell'immigrazione iregolare puo' essere condotta, in linea di principio, introducendo pene sproporzionate che fungano da deterrente contro la violazione delle norme, ovvero comminando sanzioni equilibrate (non piu' severe, cioe', dell'espulsione) al maggior numero possibile di trasgressori. La prima modalita' ricorda troppo da vicino il colpirne uno per educarne cento per non far rabbrividire; come potrebbero, per di piu', convivere le invocazioni di una soluzione politica a tangentopoli e l'accanimento contro chi reclama solo la speranza di un avvenire vivibile? La seconda modalita', che e' poi quella attualmente praticata, si arena nelle secche della sproporzione tra le dimensioni del fenomeno e le risorse dedicabili alla sua repressione: ogni anno, a fronte di un centinaio di migliaia di nuove presenze irregolari, i provvedimenti di espulsione adottati dalle questure (ben altrimenti impegnate) sono venti o trentamila; se anche la legge negasse qualsiasi possibilita' di ricorso o di sospensione del provvedimento, il grosso del bacino di irregolarita' resterebbe li', per nulla turbato da una sanzione che in fin dei conti non ha effetti molto diversi dal rinunciare alla migrazione.

4. Non funzionando una strategia di repressione, puo' invece funzionarne una fondata su meccanismi di autoregolazione del flusso. Perche' questo avvenga e' necessario che la via dell'immigrazione regolare sia il canale piu' efficace per l'inserimento lavorativo, in modo che sia l'immigrato stesso a preferirla per i vantaggi che ne derivano. Ma, come gia' detto, un canale sbarrato dalla clausola di autorizzazione preventiva al lavoro non puo' essere efficace. Rimuovere questa clausola, salvando invece il criterio relativo all'indisponibilita' di manodopera, significa superare la corrispondenza uno-a-uno tra individuazione del posto del lavoro e ingresso dell'immigrato, per adottare invece quella che e' nota come "politica delle quote". Il Governo, cioe', determina sulla base di stime del fabbisogno di manodopera immigrata, la quota di immigrazione ammessa per cercare - sul campo - lavoro; l'ingresso di immigrati e' consentito, con riferimento a liste di prenotazione, fino al raggiungimento di queste quote. L'incontro diretto tra domanda e offerta di lavoro e' cosi' salvaguardato e puo' essere anzi favorito da misure concrete di accoglienza orientate all'inserimento dell'immigrato. Il mantenimento della condizione regolare e' poi incentivato da una rapida progressione di diritti (accesso ai servizi sociali, ricongiungimento familiare, soggiorno permanente, voto amministrativo e, infine, cittadinanza) che favorisca la stabilizzazione e l'inserimento sociale dell'immigrato.

Di tal genere, se non tali appunto, ... gli argomenti proposti in una lettera al Presidente del Consiglio, da Caritas Italiana, Comunita' di S.Egidio, Federazione Chiese Evangeliche, Fondazione Migrantes, Opera Sociale Avventista e altre associazioni impegnate nel campo delle migrazioni.