(Sergio Briguglio 30/8/1996)

 

PRINCIPALI CAUSE DELL'IMMIGRAZIONE IRREGOLARE IN ITALIA

 

Il recente dibattito relativo alla riforma legislativa sull'immigrazione ha messo in luce l'esistenza di un elemento comune alle posizioni di tutti gli schieramenti: la necessita' di favorire il pieno inserimento dell'immigrato regolare. E' pero' necessario, perche' questa posizione non resti totalmente svuotata di significato, evitare che il tasso di irregolarita' dell'immigrazione superi il livello di guardia. Vi sono due modi, in linea di principio, per scongiurare questa possibilita': mantenere aperto un canale di immigrazione regolare sufficientemente ampio, ovvero adottare strumenti efficaci di repressione nei confronti dell'immigrazione irregolare. Scopo di queste note e' mostrare come entrambe queste modalita' risultino inattuabili (o, di fatto, inattuate) in Italia, stante il quadro normativo e applicativo in cui si e' mossa la politica italiana di immigrazione in questi ultimi dieci anni. Si vuole cioe' mostrare come, accanto ai meccanismi associati al racket dell'immigrazione clandestina gestito dalla criminalita' organizzata, ne esistano altri, di carattere - per cosi' dire - istituzionale, ancora piu' efficaci dei primi (seppure meno eclatanti) nel generare illegalita'.

 

La legge 943

Il primo provvedimento legislativo di rilievo concernente l'immigrazione e' costituito dalla legge 943 del 1986, che definisce, tra l'altro, le modalita' di ammissione in Italia del lavoratore straniero. La legge prevede che siano istituite speciali liste per il collocamento dei lavoratori stranieri. In esse devono essere iscritti prioritariamente gli stranieri che gia' si trovano sul territorio dello Stato; di seguito, devono trovarvi posto coloro che, risiedendo ancora all'estero, aspirino a migrare in Italia per ragioni di lavoro. Il datore di lavoro che voglia attingere a queste liste speciali avanza una richiesta di autorizzazione al lavoro, che viene accolta una volta accertata l'indisponibilita' di manodopera italiana o comunitaria. La richiesta di autorizzazione fa riferimento, di norma, alle posizioni di vertice delle liste speciali; vale cioe' il meccanismo della chiamata numerica. Tuttavia, per lavori che necessitino di un particolare rapporto fiduciale tra datore di lavoro e lavoratore (la collaborazione familiare, ad esempio), e' consentita l'assunzione con chiamata nominativa; in tal caso la richiesta di autorizzazione al lavoro puo' riguardare anche soggetti in posizione arretrata in graduatoria o, addirittura, non iscritti nelle liste.

Il meccanismo di accesso all'immigrazione regolare per lavoro previsto dalla legge 943 e' palesemente claudicante. Infatti, mentre l'ipotesi di chiamata numerica da una lista nella quale possano iscriversi gli aspiranti immigrati puo' dare risposta alle eventuali necessita' del mercato del lavoro nel settore dell'industria, la semplice previsione della possibilita' di una chiamata nominativa non e' sufficiente a garantire un efficiente incontro tra domanda e offerta di lavoro nel settore dei servizi alla persona. E' del tutto irrilevante, infatti, che il datore di lavoro possa scegliere liberamente il lavoratore da adibire - poniamo - alla collaborazione familiare o all'assistenza domiciliare ad un anziano, se non ha modo di conoscere preventivamente e direttamente il lavoratore stesso; ed e' assolutamente evidente come, quando si tratti di un lavoratore che aspiri a migrare trovandosi ancora nel proprio paese d'origine, tale conoscenza sia difficilmente ipotizzabile. Se si tiene conto, poi, del fatto che i lavori per i quali in Italia e' accertabile l'indisponibilita' di manodopera nazionale afferiscono prevalentemente al settore dei servizi, piuttosto che a quello dell'industria, si comprende come le carenze della 943 non siano di poco conto.

In presenza di una notevole capacita' di assorbimento da parte del mercato del lavoro italiano - almeno per il citato settore dei servizi - e in assenza di una normativa che consenta ai lavoratori stranieri di dare regolarmente risposta al fabbisogno di manodopera, il concorso di interessi tra datori di lavoro e lavoratori crea una via di immigrazione per lavoro percorribile, sebbene irregolare: il meccanismo tipico per l'accesso ad una posizione lavorativa diventa quello, piuttosto facile, di un ingresso regolare per turismo con reperimento sul posto di una opportunita' di lavoro (si noti: a valle di un incontro diretto col datore di lavoro) e prolungamento irregolare del soggiorno. Gli immigrati, pur raggiungendo cosi' un inserimento relativamente stabile in Italia, restano relegati in condizioni di irregolarita' - tanto riguardo al soggiorno, quanto rispetto alla posizione lavorativa. Le conseguenze di questo fenomeno possono essere facilmente immaginate: l'immigrato tipicamente viene pesantemente sfruttato, avendo scarsa coscienza dei propri diritti e scarsissima fiducia in istituzioni, quali le Forze dell'ordine o la Magistratura, dalle quali teme di veder minacciata la propria permanenza in Italia. Privato in larga misura di quanto gli spetta in termini di salario e non potendo godere di alcuna forma di assistenza sociale, l'immigrato finisce per affidarsi a soluzioni alloggiative di fortuna, anche queste spesso gravate da speculazione e generalmente immerse in condizioni di preesistente tensione sociale. Contemporaneamente, la disponibilita' ad accettare livelli di retribuzione sensibilmente piu' bassi di quelli garantiti dagli accordi sindacali fa si' che egli, piu' o meno propriamente, sia percepito dal disoccupato italiano come un concorrente sleale.

 

La legge Martelli

La crescita del fenomeno dell'irregolarita' ed il carico di tensioni sociali che l'accompagna acquista evidenza agli occhi dell'opinione pubblica nell'estate '89. L'uccisione di un profugo sudafricano - Jerry Masslo - nelle campagne di Villa Literno e lo scandalo suscitato dal caso Pantanella (un ex pastificio divenuto rifugio per alcune migliaia di immigrati irregolari a Roma) inducono Governo e Parlamento a porre mano a una riforma della normativa sull'immigrazione. Nasce il decreto Martelli, poi convertito in legge (la legge 39 del 1990) da una larghissima maggioranza.

La legge Martelli introduce alcune importanti modifiche nella legislazione sulla condizione degli stranieri in Italia. In particolare, riguardo al problema fin qui esaminato dell'accesso all'immigrazione regolare per lavoro, la legge stabilisce che, piuttosto che far riferimento ad un criterio predefinito, si ricorra ad una programmazione annuale ad opera del Governo. Il Governo e' cioe' tenuto a definire, alla fine di ogni anno, l'entita' e la composizione dei flussi di immigrazione per lavoro per l'anno successivo. Nel programmare i flussi, il Governo deve tener conto, oltre che delle esigenze dell'economia italiana e delle effettive capacita' di accoglienza della societa', del numero di richieste di permesso di soggiorno per lavoro avanzate da cittadini stranieri in possesso di permesso di soggiorno ad altro titolo (turismo, ad esempio).

Queste disposizioni costituiscono un indubbio avanzamento, in termini di efficienza, rispetto al quadro definito dalla legge 943. In primo luogo, perche' e' prevista la possibilita' di correggere annualmente i criteri di accesso, qualora quelli precedentemente adottati si rivelino inadeguati. In secondo luogo, perche' si riconosce come, laddove una seria programmazione sia ostacolata dalla difficolta' di censire una domanda di lavoro capillarmente diffusa (si pensi alla collaborazione familiare), debba essere visto con favore il processo di autonoma ricerca di lavoro da parte dell'immigrato, quand'anche questo avvenga nell'ambito di un soggiorno - quello per turismo - che di per se' non abilita al lavoro.

Disgraziatamente l'attuazione che viene data a queste norme e' estremamente miope: tutti i decreti di programmazione dal '90 ad oggi non vanno oltre uno stanco riferimento alle carenti disposizioni della legge 943. Per di piu', essendo state nel frattempo improvvidamente soppresse - dalla circolare 37/1989 del Ministero del lavoro - le liste speciali previste dalla legge (peraltro mai rese effettive per la parte relativa agli stranieri residenti all'estero), ed essendo diventata cosi' impraticabile qualunque forma di chiamata numerica, l'unica possibilita' di accesso al lavoro resta quella della chiamata nominativa. Nessuna chance viene invece data a chi chieda la conversione del permesso di soggiorno per turismo in permesso di soggiorno per lavoro.

Vanificati in tal modo la maggior flessibilita' ed il maggior realismo riguardo alla necessita' di ricerca sul posto dell'opportunita' di lavoro introdotti dalla legge Martelli, il processo di inserimento di lavoratori immigrati in Italia prosegue all'interno del canale irregolare gia' sperimentato. Il bacino di irregolarita', svuotato dalla sanatoria prevista dalla stessa legge, riprende cosi' a crescere ad un ritmo sostanzialmente inalterato, stimabile in circa ottanta-centomila unita' per anno.

Alla formazione di questo bacino difficilmente puo' porre freno la parte repressiva della legge - quella cioe' riguardante il provvedimento di espulsione. Sotto questo aspetto, infatti, la legge Martelli e' giustamente garantista: l'espulsione e' vista come un provvedimento di gravita' eccezionale e non come uno strumento che sopperisca alla mancanza di una politica di immigrazione. E di fronte ad un provvedimento eccezionale sono salvaguardati tutti i necessari spazi di tutela dei diritti dell'espulso; primo fra questi diritti e' il diritto al ricorso contro il provvedimento. La legge Martelli stabilisce in proposito che l'espulsione consista nell'intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro quindici giorni; qualora pero' lo straniero presenti ricorso davanti al Tribunale amministrativo regionale, l'espulsione e' sospesa fino a decisione definitiva sulla richiesta di sospensione.

E' ovvio come nel tutelare i diritti dello straniero - conformemente, si badi, alle norme dei trattati internazionali - si rischi di svuotare di efficacia il meccanismo repressivo: la permanenza nel territorio dello Stato dello straniero colpito da espulsione puo' prolungarsi legittimamente per anni, dati i tempi della giustizia italiana. Si deve pero' notare come questo fatto abbia poco o nulla da spartire con i problemi della sicurezza delle nostre citta'. I provvedimenti di espulsione assunti in seguito a condanna per reati gravi o per motivi di ordine pubblico sono immediatamente eseguiti con accompagnamento dell'espulso alla frontiera, e non vengono sopesi per la presentazione di un ricorso. Per contro, un'ulteriore diminuzione dell'efficacia dello strumento dell'espulsione e' data dalla difficolta' di procedere al rimpatrio dello straniero espulso quando questi non sia in possesso di un passaporto che ne certifichi la provenienza. La chiara percezione di questa circostanza ha indotto molti degli stranieri presenti irregolarmente nel nostro paese a distruggere o, piu' semplicemente, ad occultare il proprio documento di viaggio. Il tentativo di sanzionare penalmente questo comportamento difficilmente potra' mai avere grande fortuna, data la difficolta' di distinguerlo nei fatti dal semplice - e certamente non perseguibile - smarrimento del documento.

 

Il dibattito parlamentare

Nel corso della passata legislatura vengono presentate diverse proposte di legge, tutte orientate, seppure secondo vie radicalmente diverse, a ridurre il tasso di irregolarita' del fenomeno.

Le piu' rilevanti - non foss'altro che per il fatto di essere approdate dibattito in commissione parlamentare - sembrano essere, da destra, la proposta di Martinat e Fini (Alleanza Nazionale) e quella di Luigi Negri (Lega Nord), da sinistra quella di Tanzarella e Lumia (Progressisti). Le une puntano principalmente a rendere piu' efficace il provvedimento di espulsione riducendo drasticamente le possibilita' di ricorso. L'altra punta a consentire la regolarizzazione di chi svolga attivita' lavorativa e di quanti abbiano proceduto, senza rispettare le procedure amministrative previste, al ricongiungimento con familiari stabilmente inseriti; viene inoltre regolamentato il lavoro stagionale, con l'istituzione di un permesso della durata di sei mesi che da' diritto, al lavoratore che alla scadenza lasci regolarmente l'Italia, di rientrare nell'anno seguente.

Relatore dell'intero pacchetto di proposte in Commissione Affari Costituzionali, alla Camera, e' nominato Nespoli, di Alleanza Nazionale, che e' anche incaricato di redigere un testo base da sottoporre alla Commissione stessa. Nespoli presenta un testo che costituisce di fatto un collage delle proposte della Destra, nulla contenendo di quelle della Sinistra (appaiono si' alcune disposizioni sul lavoro stagionale, ma sono ritagliate da una bozza di disegno di legge approntata dal governo Berlusconi). E' un testo che suscita reazioni molto dure in tutto l'associazionismo di ispirazione laica o religiosa e viene stigmatizzato come gravemente lesivo dei diritti fondamentali della persona.

Nel settembre '95, il testo Nespoli e' assunto in Commissione Affari Costituzionali quale testo base - da sottoporre cioe' a dibattito in commissione riguardo al merito delle singole disposizioni - con il voto di una maggioranza costituita da centrodestra e Lega (fatto, questo, di un certo rilievo stante la contrapposizione che nel frattempo e' venuta a crearsi tra i due raggruppamenti su un piano politico piu' generale).

Si avviano complesse trattative tra Centrosinistra e Lega, nel tentativo di ritrovare una posizione comune all'interno dello schieramento che sostiene il Governo Dini. Finisce per evidenziarsi pero', in tal modo, solo il grado di disomogeneita' culturale di tale schieramento. Pur mostrando qualche segno di cedimento, la Lega resta infatti sostanzialmente ancorata alle posizioni originarie. Le trattative si arenano dopo che un tentativo di accordo, dai contenuti assai discutibili, abortisce per l'improvvisa defezione del Centrosinistra, intimorito dalle aspre critiche mosse dal mondo delle associazioni.

La Lega, comprendendo forse che la materia rischia di insabbiarsi nelle lungaggini dei lavori parlamentari, quando invece tornerebbe utile a cementare un movimento che fatica a trovare una definita collocazione politica, spiazza alleati e avversari minacciando Dini di affossare la Finanziaria se il Governo non provvedera' a emanare un decreto che consenta espulsioni piu' facili. Dini si affretta a rassicurare la Lega promettendo il provvedimento richiesto, ma allo stesso tempo lascia intendere che, riguardo ai contenuti da dargli, attendera' precise indicazioni dalla maggioranza che lo sostiene.

Ripartono cosi' le trattative tra Centrosinistra e Lega, rese piu' facili dal ridimensionamento dell'obiettivo: non piu' un accordo su un articolato dettagliato, ma solo un'intesa su alcuni punti di principio. E all'intesa si arriva, su una base questa volta in buona parte accettabile (sia pure con alcune importanti riserve): possibilita' di espulsione nei casi in cui si debba ritenere che lo straniero sia dedito alla commissione continuata di reati che mettono a repentaglio la sicurezza pubblica; possibilita' di regolarizzazione per chi sia in grado di produrre, con mezzi leciti, un reddito sufficiente al proprio sostentamento, e per i familiari di immigrati gia' regolarmente inseriti; regolamentazione del lavoro stagionale e revisione dei meccanismi di programmazione dei flussi, tali da favorire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro.

 

Il decreto Dini

Dopo una travagliatissima seduta del Consiglio dei ministri, il Governo partorisce il decreto, il cui testo viene segretato fino alla firma del Presidente Scalfaro, temporaneamente all'estero. Quando finalmente se ne conoscono i contenuti, si rileva che le indicazioni date dai partiti della maggioranza sono state tenute solo parzialmente in considerazione: il testo e' frutto piuttosto del confronto, talvolta aspro, tra diverse logiche ministeriali.

Sul piano dei contenuti il decreto mostra, accanto ad elementi indubbiamente positivi, precisi limiti (sorprendenti in un provvedimento emanato da un governo di tecnici). I piu' significativi, tra questi limiti riguardano proprio le norme sulle espulsioni e sugli ingressi. In particolare, rispetto alle norme contenute nella legge Martelli, e' ridotto - senza realismo - a sette giorni il tempo utile per la presentazione del ricorso in caso di espulsione per soggiorno irregolare; l'espulsione in seguito a condanna e' estesa anche al caso di reati di modesta gravita' (appropriazione indebita, danneggiamento aggravato, etc.); e' introdotta la possibilita' di espulsione del condannato su richiesta del Pubblico ministero, quale che sia l'entita' della condanna (anche condanne irrisorie: quindici giorni di reclusione con pena sospesa, ad esempio); e' previsto che l'espulsione possa essere richiesta anche per chi sia stato arrestato in flagranza, senza alcun riferimento alla residua pericolosita' sociale (con evidente violazione del pricipio costituzionale di presunzione di innocenza).

Riguardo alla disciplina degli ingressi, poi, si stabilisce che non possa ottenere il visto di ingresso chi sia stato condannato, anche all'estero, per uno dei reati in relazione ai quali in Italia e' esplicitamente prevista l'espulsione; e' evidente come questo significhi dare valore a sentenze di condanna pronunciate nell'ambito di ordinamenti giudiziari diversi da quello italiano e, possibilmente, non altrettanto rispettosi dei diritti della difesa. Si prescrive inoltre, ai fini dell'ingresso l'esibizione di certificazione medica attestante l'assenza di patologie pregiudizievoli per la salute pubblica. Una disposizione del genere, oltre a non tener conto della possibilita', sancita dalla legge, di entrare in Italia per motivi di cura (e quindi verosimilmente affetti da patologie pregiudizievoli per la salute pubblica), tiene in scarsa considerazione il problema pratico legato agli svariati milioni di ingressi che hanno luogo, ogni anno, per motivi di turismo. Si ha subito un saggio, alla frontiera italo-svizzera, delle complicazioni che saranno prodotte da questa norma: interviene allora il Ministro della sanita' per attenuare le conseguenze della disposizione, chiarendo - con evidente, seppur provvida, forzatura - che essa si riferisce solo ai cittadini provenienti da paesi per i quali e' previsto l'obbligo di visto.

Tra gli elementi di carattere positivo, quelli di maggior rilievo sono rappresentati dalle norme concernenti la possibilita' di regolarizzazione di stranieri irregolarmente presenti in Italia. Non si tratta di una sanatoria generalizzata, quale quella del '90, ma piuttosto di un provvedimento riguardante solo alcune categorie: i familiari di immigrati regolari stabilmente inseriti; coloro per i quali un datore di lavoro dichiara la propria disponibilita' all'assunzione regolare e al versamento anticipato di una certa - tutt'altro che modesta - quota di contributi previdenziali; coloro che possono certificare lo svolgimento di un'attivita' lavorativa a carattere continuativo (anche in mancanza della predetta disponibilita' da parte del datore di lavoro); coloro, infine, che possono certificare lo svolgimento, nel recente passato, di attivita' lavorativa di congrua durata alle dipendenze di uno stesso datore di lavoro.

L'impianto del provvedimento, per quel che concerne la regolarizzazione di lavoratori, mira positivamente - consentendo la dichiarazione autonoma del lavoratore - a dare forza all'immigrato che lavori alle dipendenze di un datore di lavoro disonesto. Una inopportuna ambiguita' nel testo del decreto e una colpevole miopia in fase di applicazione impediscono di dare piena efficacia a questa avanzatissima disposizione: si sceglie infatti di limitare a sei mesi la durata del permesso di soggiorno nei casi in cui il rapporto di lavoro denunciato non possa essere prontamente regolarizzato. E' evidente come una tale limitazione scoraggi una larghissima parte degli immigrati irregolari dall'intraprendere l'iter della regolarizzazione: di fronte alle resistenze del datore di lavoro il lavoratore sceglie la certezza di un lavoro irregolare ai rischi di un licenziamento scarsamente bilanciato dal modesto vantaggio di una regolarizzazione di breve durata. Criticabile appare poi il negare la possibilita' di emergere dall'irregolarita' agli immigrati che vivono di attivita' fondamentalmente lecite e non prive di utilita' sociale (il commercio, i piccoli servizi, il lavoro saltuario, etc.), come pure il non prevedere esplicitamente la contestuale regolarizzazione dei familiari di chi si regolarizza per lavoro.

A grande spirito di civilta' appare invece improntata la disposizione che stabilisce che lo straniero presente in Italia ha diritto all'assistenza sanitaria, senza riguardo alla condizione di regolarita' rispetto al soggiorno e senza che all'erogazione delle prestazioni sanitarie segua la temuta segnalazione agli organi di polizia.

Sostanzialmente equilibrate sembrano le norme che definiscono in modo certo (sottraendo cosi' la materia al pericoloso arbitrio della pubblica amministrazione) i requisiti di reddito necessari per procedere al ricongiungimento con i familiari piu' stretti ancora residenti all'estero: il reddito minimo e' fissato uguale al doppio dell'assegno sociale (intorno al milione di lire mensili, in tutto). Desta pero' perplessita' il tentativo di graduare tale soglia di reddito con riferimento esplicito al numero di familiari ricongiunti, che rischia di configurarsi come una sorta di mercato della famiglia. Desta invece preoccupazione la norma - per altro incoerente con il resto dell'articolato - secondo la quale non puo' procedere a ricongiungimento con altri familiari chi gia' risieda in Italia con un congiunto prossimo; l'immigrato che abbia gia' fatto venire in Italia la moglie dovrebbe cosi' allontanarla di casa per poter far venire, successivamente, anche i figli!

Alcuni principi interessanti sono contenuti nella disciplina del lavoro stagionale. Vengono infatti ripristinate - seppure in modo tale da lasciare eccessivo spazio alla lentezza della pubblica amministrazione - le liste speciali, indispensabili all'aspirante immigrato per segnalare il proprio desiderio di venire come lavoratore nel nostro paese. Viene anche stabilito che il permesso di sei mesi possa essere convertito in un permesso di lunga durata (due anni) in presenza di una richiesta di assunzione a tempo indeterminato; e', in nuce, un riconoscimento della necessita' della "ricerca di lavoro", la cui negazione pratica ha contribuito - per quanto si e' detto - alla crescita del fenomeno dell'irregolarita'.

Insufficiente sembra invece la previsione di un semplice diritto di precedenza, ai fini del reingresso in Italia, per il lavoratore stagionale che lasci regolarmente il territorio dello Stato alla scadenza del permesso. L'effettiva possibilita' di godimento di tale diritto resta infatti subordinata alla definizione di una quota sufficientemente alta in relazione agli ingressi per l'anno successivo: in caso di determinazione di una quota troppo bassa, o in assenza di tale determinazione, il lavoratore non riuscirebbe, a dispetto del diritto di precedenza, a rientrare nel nostro paese, con l'ovvia conseguenza, sul lungo periodo, di far apparire comunque piu' conveniente una permanenza irregolare in Italia. Piu' coraggioso, ma anche piu' razionale, sarebbe stato riconoscere - come ipotizzato dalla proposta di legge Tanzarella-Lumia - un diritto certo di reingresso.

Positiva, infine, sebbene di valore piu' simbolico che pratico, l'accentuazione delle sanzioni previste a carico di chi favorisca o sfrutti l'immigrazione clandestina.

 

Il decreto Prodi

Dopo successive reiterazioni, che non alterano in modo significativo il contenuto delle disposizioni originarie, ma si limitano ad estendere di alcuni mesi il limite per la presentazione delle domande di regolarizzazione, il decreto subisce una profonda modifica all'atto della prima reiterazione operata dal neo-insediato Governo Prodi, all'indomani delle elezioni politiche della primavera '96. Viene infatti praticamente soppressa la parte riguardante le espulsioni (con l'eccezione del mantenimento di alcune norme relative alla definizione di categorie non espellibili e all'introduzione del reato di soggiorno irregolare post-espulsione). E' anche semplificata la disposizione sui requisiti di reddito previsti per il ricongiungimento familiare (scompare la proporzionalita' tra entita' del reddito e numero dei familiari chiamati, e in fase applicativa la soglia - unica - per procedere al ricongiungimento e' fissata al valore dell'assegno sociale, anziche' al doppio di questo). E' previsto, infine, che in tutti i casi in cui il rapporto di lavoro dichiarato non possa essere regolarizzato al lavoratore straniero sia rilasciato un permesso di soggiorno della durata di un anno.

Si tratta evidentemente di modifiche intese a privilegiare l'efficacia di quelle norme mirate a restituire almeno in parte regolarita' al fenomeno, piuttosto che di quelle di carattere repressivo. Vanno cosi', di fatto, a buon fine le domande di regolarizzazione - circa duecentocinquantamila - presentate. Resta pero' sostanzialmente inalterato il quadro di disposizioni "a regime" vigente riguardo a modalita' di ingresso e di espulsione (rispetto al contesto definito dalla legge 943 e dalla legge 39, l'unica novita' di rilievo e' costituita, in definitiva, dalla previsione di flussi stagionali). Non possono quindi che restare parimenti inalterate le riserve di fronte ad un percorso politico-legislativo sull'immigrazione - quello italiano - che ha trovato finora solo lo strumento della periodica sanatoria per garantire riconoscimento legale ad un fenomeno ormai di primo piano nella realta' sociale del Paese.