Guido Bolaffi, sintetizza con grande efficacia, su la Repubblica del 27 agosto, un punto di vista sull'immigrazione clandestina, secondo il quale il fenomeno, immettendo abusivamente nel sistema una popolazione di lavoratori disposti a cercare occupazione in condizioni di libero mercato (senza il rispetto quindi di minimi salariali, obblighi contributivi, etc.), avvantaggia le elites dei paesi di provenienza, i datori di lavoro disonesti e gli immigrati clandestini, e svantaggia datori di lavoro onesti e lavoratori (nazionali e stranieri) in regola, nonche' chi aspira a migrare regolarmente e, infine, i contribuenti del paese di accoglienza. La soluzione, ovvia secondo Bolaffi, e' quella di lottare contro l'immigrazione clandestina. Provo qui a prospettarne una diversa.

La condizione descritta (bene) da Bolaffi e' quella di un sistema che tenta di tenere alto il prezzo di un bene (la manodopera nazionale) applicando norme protezionistiche nei confronti di beni concorrenti provenienti dall'estero. Se si trattasse di auto, tutti riconoscerebbero (tranne forse i contribuenti nazionalisti e polli) che le misure protezionistiche, oltre a provocare un evidente danno per chi vende il bene straniero, provocano, a fronte di un innegabile vantaggio per chi vende il bene nazionale, uno svantaggio piu' grande, in valore assoluto, per chi compra. Si ha cioe', in presenza di tali misure, un danno netto per lo stesso sistema nazionale. Inversamente, l'apertura del mercato alla concorrenza straniera favorisce, si', i venditori stranieri, ma anche gli acquirenti nazionali; e favorisce questi ultimi in misura maggiore - si badi - di quanto non danneggi i venditori nazionali. Le politiche di immigrazione dei paesi dell'Unione europea non tengono in alcun conto queste osservazioni: si tende a proteggere il salario del lavoratore nazionale, e si ammette quindi un lavoratore straniero solo quando e' possibile un inserimento altrettanto protetto, non trovando la domanda di manodopera risposta nell'offerta dei lavoratori nazionali. Lo slogan che descrive questa tendenza e' "accogliamo solo chi puo' inserirsi regolarmente, e garantiamo parita' di diritti tra stranieri regolari e lavoratori nazionali". Resta il problema dello spreco netto di risorse del sistema, di cui nessuno parla.

Ricetta alternativa: apriamo le frontiere e liberalizziamo il mercato del lavoro; se ne avvantaggeranno i lavoratori stranieri (non piu' a rischio di clandestinita', per inciso); se ne avvantaggeranno i datori di lavoro (non ci sara' piu' distinzione tra onesti e disonesti, perche' tutti diventeranno, ope legis, onesti); ne avranno danno i lavoratori, per lo piu' nazionali, precedentemente protetti (i salari si abbasseranno). Se pero' ricordiamo che l'entita' del vantaggio acquisito dai datori di lavoro supera quella di tale danno, riconosciamo che e' possibile, con opportuni trasferimenti che redistribuiscano il reddito, sottrarre ai datori di lavoro quella parte del maggior guadagno che serve a compensare le perdite dei lavoratori precedentemente protetti. Nessuno, nel sistema, perde; alcuni guadagnano. Tutti soddisfatti? Si', tranne i difensori della parita' di diritti sul suolo patrio: dei trasferimenti non beneficierebbero infatti i lavoratori stranieri ammessi con l'apertura delle frontiere. Sto proponendo di discriminarli negativamente? Si', ma molto meno - e su questo anche Bolaffi conviene, in un passaggio del suo articolo - di quanto li discriminerei lasciandoli, in nome dello slogan, nel loro paese.