RELAZIONE SULLE ATTIVITA’ DI ASCOLTO DEL SRM Luglio 1999

NOTA INTERNAZIONALE

Dal 14 al 28 luglio 1999, presso l’ufficio di ascolto del Servizio Rifugiati e Migranti della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, numerose persone hanno dichiarato di essere state costrette a chiedere asilo politico in Italia per l’impossibilità di rimanere nel loro paese natio, l’Etiopia. Il Paese africano ha infatti avviato un’iniziativa politica atta ad espellere dal proprio territorio quei cittadini etiopici che abbiano o che abbiano avuto parentele eritree. E’ lecito ipotizzare che questa politica persecutoria, in atto dal giugno del 1998, rischi di determinare l’esodo di molti cittadini, costretti a riparare all’estero perché non accettati nel proprio Paese ed impossibilitati ad integrarsi in uno Stato, l’Eritrea, che essi non reputano il proprio e di cui non conoscono neppure la lingua (il Tigrina). E’ da sottolineare che le persone in questione erano perfettamente integrate nella società etiope, alcune sposate con cittadini di quel Paese e, in tre casi su otto, con un titolo di studio superiore. Una persona lavorava presso gli uffici di Gibuti della compagnia aerea etiope e ha dichiarato di non aver più notizie dei suoi genitori espulsi dall’Etiopia ed indirizzati probabilmente verso l’Eritrea.

APPROFONDIMENTI

IL CONFLITTO TRA L'ERITREA E L'ETIOPIA

Il conflitto tra l’Eritrea e l’Etiopia affonda le proprie radici nella decennale lotta per l’indipendenza della prima delle due ex colonie italiane, condotta con largo uso di mezzi militari e con il ricorso a tecniche di guerriglia; una guerra che, inizialmente, era parsa concludersi nel 1991 con la proclamazione dell’indipendenza eritrea, poi ufficializzata nel 1993 attraverso un referendum. Ma gli attriti relativi alla definizione delle frontiere, con particolare riferimento ai territori di Badme, di Seboa-Una Shahak, di Aiga-Alitena e di Bada (attriti riconducibili in parte anche alla decisione dell'Italia fascista di disattendere il trattato italo-etiopico del 1902 che fissava le frontiere tra l'impero etiopico e la colonia eritrea), nonché i contrasti perduranti relativi alla politica di potenza nella zona ed alla gestione dei traffici commerciali lungo le direttrici del Mar Rosso, hanno spinto i due Paesi ad avviare le operazioni militari in largo stile. L’aggressione eritrea nel maggio del 1998 doveva solo segnare l’inizio dell’ennesimo capitolo di odio e di violenza lungo la striscia del Tigrai, vissuto sulla pelle di centinaia di migliaia di persone costrette, da allora, a subire l’arroganza e delle proprie rispettive leadership politiche. Almeno 150.000 persone sono state costrette all’esodo forzato dalla zona interessata al primo intervento militare eritreo; successivamente migliaia di etiopi residenti in Eritrea, e soprattutto nei nodi portuali di Massawa e Assab, sono stati a lasciare il Paese. A queste misure ufficiose poste in atto dal governo di Asmara, l’Etiopia ha risposto con una sistematica opera di deportazione di cittadini eritrei, nonché di etiopi, perfettamente integrati nella società locale ed incapaci di parlare il tigrina, colpevoli agli occhi dei responsabili governativi, di avere parentele eritree.

Ad oggi questo dramma dimenticato, ha prodotto migliaia di esuli forzati. Stando ai dati di molte organizzazioni internazionali, dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ad Amnesty International, almeno 54.000 eritrei, o cittadini etiopi di origine eritrea, sono stati espulsi più o meno direttamente dalle autorità di Addis Abeba nel periodo compreso tra giugno 1998 e febbraio 1999, mentre migliaia di etiopi (le cifre parlano di ventimila, ma le autorità eritree ridimensionano drasticamente la cifra sino a sei o settemila unità) hanno perso il proprio lavoro e sono stati costretti all’esilio dal territorio dell'Eritrea.

Amnesty International, in particolare, denuncia le crudeltà subite dagli eritrei ad opera degli etiopi. In un rapporto del 29 gennaio 1999, curato dall'Organizzazione non governativa londinese si legge che donne, anche in gravidanza, bambini ed anziani sono stati arrestati e tenuti in stato di fermo anche nel cuore della notte. Molti di loro, imprigionati per giorni, sono poi stati allontanati forzatamente e costretti a riparare in Eritrea e hanno perso il possesso dei propri beni e della cittadinanza, senza possibilità di appelli legali.

Il Primo Ministro etiope Meles Zenawi ha sostenuto che queste misure rispondono a ragioni di sicurezza nazionale ed ha rimproverato l'Eritrea di essere la responsabile unica non solo dell'iniziativa militare in corso, ma anche dell'avvio delle politiche di espulsione.

La recrudescenza del conflitto, che da scontro di confine è divenuto guerra aperta con bombardamenti di città importanti come Massawa (notizia Reuters 16 maggio 1999), non lascia ben sperare per una soluzione positiva a breve tempo. Gli stessi tentativi di mediazione portati avanti dall’organizzazione per l’Unità Africana (OUA) e da singole personalità del mondo politico africano (tra le quali il presidente egiziano Hosni Mubarak), non hanno fin qui prodotto in concreto alcun risultato positivo.

Al momento è lecito attendersi che i propositi di tregua verranno avanzati dalla leadership eritrea, consapevole delle difficoltà belliche incontrate; nel febbraio scorso, infatti, le forze etiopi hanno infatti costretto quelle eritree al ritiro dalla zona di Badme, da queste ultime occupata militarmente nel maggio del 1998 , e si sono spinte ulteriormente in profondità.

Tra le ipotesi internazionali per la risoluzione del conflitto in atto, un'agenzia della Reuters del 21 giugno 1999 ricorda l'iniziativa diplomatica intrapresa dal Senatore italiano Rino Serri, sottosegretario del Ministero degli Affari Esteri, atta a sostenere il piano di pace proposto dall'OUA, condiviso in linea di principio dai due Paesi belligeranti, ma al momento di difficile attuazione.

Anche il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, secondo una nota diffusa dalla Reuters il 23 giugno scorso, ha richiamato i due Paesi al loro senso di responsabilità, auspicando che l'iniziativa di pace dell'OUA possa trovare consensi ed attuarsi in tempi brevi; è speranza ulteriore della Comunità internazionale i "donor countries" possano nel frattempo predisporre piani per l'emergenza, sotto il coordinamento delle Nazioni Unite, che permettano di alleviare le sofferenze delle popolazioni civili nell'area interessata dal conflitto.

FONTI

Life & Peace

Nel settembre 1999, la rivista dell'Istituto Life & Peace, "Horn of Africa", riportava una breve della Reuters relativa all'espulsione di massa di cittadini etiopi dall'Eritrea; stando alle fonti citate da Addis Abeba, le persone allontanate sarebbero state, a partire dal maggio 1998, quasi 25.000. Da allora anche l'Etiopia ha iniziato una politica sistematica di espulsioni che gradualmente si è andata accentuando. Nel novembre del 1998 è l'ONU, nell'organo del Consiglio di Sicurezza, a dirsi estremamente preoccupato della perdurante situazione. In gennaio è Amnesty International a denunciare la deportazione sistematica di cittadini etiopi di origine eritrea; persone di ogni età sono imprigionate per alcuni giorni e quindi forzate a lasciare il Paese. Negli ultimi sette mesi, affermava Amnesty nel mese di gennaio 1999, almeno 52.000 eritrei o cittadini etiopi di origine eritrea, sono stati deportati dalle autorità di Addis Abeba. Questa pratica è poi proseguita sino al febbraio 1999, raggiungendo la cifra totale di 54.000 persone. In Eritrea, invece, la strategia persecutoria non ha avuto una veste ufficiale, ma attraverso licenziamenti forzati ed un irrigidimento della società civile.

Altre fonti:

Amnesty International (rapporti dal mese di luglio 1998 sino febbraio 1999);

UNHCR (rapporti di zona);

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (nota del luglio 1998);

Dipartimento di Stato Americano (nota del 6 agosto 1998);

IPS Report (rapporto di Jim Lobe, febbraio 1999).

 

 

Roma, 17 agosto 1999 dott. Gianluca Polverari