(Sergio Briguglio 22/4/1999)

 

ALCUNI PROBLEMI ETICI POSTI DAL FENOMENO DELL'IMMIGRAZIONE

I movimenti migratori che hanno interessato l'Italia in modo sempre piu' visibile in questi ultimi anni pongono, oltre agli ovvi problemi di gestione del fenomeno, almeno due problemi di carattere morale. Il primo riguarda il contrasto che spesso emerge, soprattutto qando si abbia a che fare con situazioni di emergenza, tra la necessita' di rispettare la legge e quella non meno importante di rispondere a esigenze basilari di giustizia e di solidarieta'. Si tratta di un problema classico, meritevole di attenzione, che pero', nel riferimento specifico al fenomeno migratorio, trova in Italia una soluzione immediata nell'osservazione che le leggi vigenti in materia sono inficiate dal pressappochismo degli organi preposti alla produzione legislativa, e che la loro applicazione e' stata e continua ad essere miope e incompleta. Il principale motivo di conflitto tra legge positiva e legge morale risiede, infatti, nell'appoggio che puo' essere negato o concesso allo straniero presente clandestinamente (e quindi illegalmente) sul territorio nazionale. D'altra parte, dal 1986 in poi, e' stato consentito formalmente l'ingresso legale per lavoro dei soli stranieri chiamati nominativamente da un datore di lavoro in Italia. La mancanza di liste di prenotazione in cui tali lavoratori potessero iscriversi per segnalare la propria aspirazione a migrare e, piu' fondamentalmente, l'impossibilita' di dar luogo a un preventivo incontro diretto tra il datore di lavoro e il lavoratore (indispensabile perche' il rapporto di lavoro si costituisca) hanno fatto si' che un tale ingresso legale risultasse - con pochissime insignificanti eccezioni - del tutto precluso.

Il cosiddetto "clandestino" appare, in questo contesto, un soggetto costretto a porsi fuori dalla legalita', per il semplice fatto che l'area della legalita' e' svuotata proprio da quanti - Governo e Parlamento - dovrebbero invece renderla praticabile. Il conflitto di coscienza vissuto da chi oggi scopre come il formale rispetto della normativa non sia adeguato al soddisfacimento delle inderogabili esigenze di giustizia puo' essere facilmente superato, quindi, con una chiara opzione per queste ultime, essendo, nei fatti, priva di valore la normativa in questione o, piu' precisamente, l'applicazione che ne viene data.

Il secondo problema gode oggi di minore attenzione, sebbene sia di portata certamente non inferiore al primo. Puo' essere schematizzato nel modo che segue. In una societa' chiusa - una societa', cioe', della quale sia rigidamente definito l'insieme dei membri che ne fanno parte - non e' difficile, almeno sul piano teorico, convenire su un'idea di giustizia sociale minima: una volta identificati i livelli minimi di benessere necessari ad uno sviluppo dignitoso della persona, nessuna concezione di giustizia sociale puo' prescindere dalla necessita' di garantire a ciascun membro della societa' quella quota di benessere. Modelli diversi della giustizia potranno poi differenziarsi nell'individuazione dei meccanismi di redistribuzione del benessere o nella scelta tra uno sviluppo rapido e sperequato e uno piu' lento ma piu' uniforme.

In una societa' aperta (o potenzialmente aperta) la questione assume caratteristiche qualitativamente diverse, per discutere le quali puo' essere utile analizzare il semplice modello del mercato del lavoro rappresentato, trascurando la distinzione tra diversi settori del mercato, nella figura. Il salario corrisposto ai lavoratori e la quantita' di lavoro da essi effettuata sono determinati dall'equilibrio tra la domanda di lavoro avanzata dai datori di lavoro e l'offerta presentata dai lavoratori. La prima e' rappresentata nel grafico dalla retta d, inclinata negativamente per via dell'andamento decrescente, a capitale fissato, del rendimento della manodopera con la quantita' di lavoro impiegata. La seconda e' rappresentata dalla retta o, quando siano presenti nel mercato solo lavoratori nazionali, o dalla retta o', quando siano presenti anche lavoratori stranieri. L'inclinazione della retta di offerta e' ovviamente positiva, essendo i lavoratori piu' efficacemente ripagati, al crescere del salario, della fatica che accompagna l'incremento del numero di ore di lavoro.

In assenza di lavoratori stranieri, il profitto dei datori di lavoro e' misurato dall'area del triangolo ABC, quello dei lavoratori nazionali dall'area BCO; tali aree corripondono infatti al divario tra quanto lavoratori e datori di lavoro ricevono o spendono e quanto sarebbero disposti a ricevere o spendere, rispettivamente, per il lavoro effettuato o acquistato. L'ingresso di lavoratori stranieri espande l'offerta, fa abbassare il salario di equilibrio ed aumentare la quantita' di lavoro effettuata. I datori di lavoro ottengono un profitto ulteriore pari all'area del trapezio BCDE; i lavoratori nazionali ne perdono una quantita' pari all'area BCDF; i lavoratori stranieri (precedentemente assenti dal mercato) ottengono profitti in misura data dall'area del triangolo FEO.

Queste considerazioni ci consentono di riconoscere come, in una societa' aperta, modelli diversi di giustizia possano divergere anche a monte del riconoscimento degli standard minimi di benessere. Una tale societa' offre infatti, rispetto al caso classico di societa' chiusa, un grado di liberta' in piu': a ciascuno degli individui atti, potenzialmente, a farvi ingresso dall'esterno la facolta' di far parte della societa' puo' essere riconosciuta o negata. In particolare, con riferimento al modello qui esaminato, una possibile scelta - la piu' conservativa - e' quella di ammettere l'ingresso dei soli individui stranieri ai quali sia possibile garantire gli standard minimi riservati ai membri "di diritto" della societa'; nella sua accezione piu' drastica, essa corrisponde a tener chiuse le frontiere, derogando alla chiusura solo per ammettere i lavoratori stranieri necessari a rimpiazzare i lavoratori nazionali che lascino il mercato.

L'alternativa diametralmente opposta consiste nel liberalizzare l'ingresso di nuovi membri, lasciando che esso provochi, con la caduta dei salari, un abbassamento generalizzato del tenore di vita dei lavoratori. Questa opzione equivale per un verso a massimizzare la produzione (la quantita' di lavoro effettuata e' massima), per l'altro a farsi pienamente carico del benessere dei lavoratori stranieri: il nuovo - piu' basso - livello cui si attesta il benessere dei lavoratori e' infatti quello che si avrebbe in una societa' chiusa che ab initio includa, come membri di diritto, tanto i lavoratori nazionali quanto i neo-arrivati stranieri.

Si vede chiaramente, nel confronto tra le due soluzioni estreme, come entrambe possano meritare l'appellativo di giusta o ingiusta a seconda di quale sia il novero di individui tra i quali si voglia distribuire il benessere. Notiamo anche come questo conflitto non possa trovare via d'uscita nell'individuazione di un livello di apertura delle frontiere intermedio tra la completa chiusura e la liberalizzazione degli ingressi, dal momento che da una tale apertura conseguirebbe comunque un abbassamento dei salari, ancorche' piu' ridotto, con sofferenza qualitativamente analoga dei lavoratori nazionali. Ne' puo' trovarne nella sostituzione della politica di immigrazione con una - spesso invocata - di cooperazione allo sviluppo dei paesi di potenziale emigrazione: il modello sopra descritto prescinde infatti dalla circostanza che l'ingresso di lavoratori stranieri nel mercato avvenga mediante il trasferimento dei lavoratori (immigrazione) o quello della produzione (cooperazione allo sviluppo).

Una via d'uscita dalla situazione di stallo che la contrapposizione tra due giustizie ad orizzonte diverso (ma entrambe degne di rispetto) rischia di produrre puo' invece essere individuata sulla base di due importanti osservazioni. La prima riguarda il fatto che le soluzioni "estreme" sono caratterizzate entrambe dal soddisfare, localmente, un principio di non discriminazione: lavoratori nazionali e stranieri ricevono, una volta inclusi nel mercato, il medesimo trattamento. E' proprio questa caratteristica a far si' che l'ingresso di una qualunque quota di lavoratori stranieri nel mercato trascini verso il basso i salari dei lavoratori nazionali, e a rendere cosi' intollerabile, per i difensori dei livelli di benessere dei lavoratori nazionali, qualunque grado di apertura delle frontiere. In un contesto in cui il punto di vista di tali difensori risulti quello dominante - e' questa, per inciso, la situazione che si registra in tutti i paesi dell'Unione europea -, l'effetto del mantenimento del principio di non discriminazione finisce per tradursi, con la chiusura delle frontiere, in una beffa proprio nei confronti dei soggetti deboli (i lavoratori stranieri) che quel principio vorrebbe invece tutelare.

La seconda osservazione riguarda - con riferimento al grafico - il fatto che il profitto perduto dai lavoratori nazionali con l'ingresso dei lavoratori stranieri (l'area del trapezio BCDF) e' pienamente incamerato dai datori di lavoro, senza per altro esaurirne il vantaggio (i datori di lavoro ottengono un'ulteriore quota di profitto data dall'area del triangolo FEC).

La via d'uscita consiste allora nel trasferire, a valle delle modificazioni intervenute con l'ingresso di lavoratori stranieri, parte dei maggiori profitti ottenuti dai datori di lavoro (quelli corrispondenti all'area BCDF, appunto) ai lavoratori nazionali. Una misura di questo genere (di politica fiscale, piuttosto che di politica migratoria) produce una piena protezione dei livelli di benessere dei membri "di diritto" della societa', la rimozione del vincolo rappresentato dalla non discriminazione (solo i lavoratori nazionali beneficiano dei trasferimenti), e l'inclusione nel mercato dei lavoratori stranieri. Tenendo presente che, rispetto alla soluzione - oggi di moda - di frontiere chiuse, i datori di lavoro pervengono comunque a un maggior profitto (l'area del triangolo FEC), si vede come ciascuna delle categorie in gioco ottenga vantaggi o, almeno, non subisca danni nel passaggio dal contesto di chiusura a quello qui proposto.

Un'obiezione a questa soluzione - che potremmo definire di frontiere aperte con trasferimenti compensativi - puo' derivare dal fatto che, in presenza di una eccessiva offerta di lavoro da parte dei lavoratori stranieri, il salario di equilibrio potrebbe cadere al di sotto dei livelli necessari per la sopravvivenza del lavoratore. La correzione dovrebbe allora consistere nel limitare l'apertura delle frontiere entro livelli tali da impedire che questo accada, ovvero nell'attingere alle quote di maggior profitto dei datori di lavoro per fornire ai lavoratori stranieri presenti il complemento di risorse necessarie per garantire la sopravvivenza. Anche in questa seconda ipotesi, comunque, resterebbe individuato un livello massimo di apertura delle frontiere, dal momento che il vincolo rappresentato dalla condizione nessuna categoria danneggiata rispetto al caso di frontiere chiuse impone che l'erosione del profitto dei datori di lavoro resti inferiore all'area del triangolo FEC.

In conclusione, un fenomeno come l'immigrazione deve indurre un ripensamento dei concetti di giustizia sociale sviluppati per societa' chiuse, e puo' rendere necessaria, laddove non risultino generalmente condivisi i criteri in base ai quali definire l'insieme degli individui aventi titolo a far parte della societa' di riferimento, la rimozione di principi - quali quello di non discriminazione - che rischiano di precludere soluzioni di generale miglioramento delle condizioni di benessere.