(Sergio Briguglio 13/2/1999)

 

ANALISI DI ALCUNE SCELTE DI POLITICA MIGRATORIA SULLA BASE

DI UN SEMPLICE MODELLO MACROECONOMICO

 

Il Trattato di Amsterdam, approvato dal Consiglio europeo il 16 e 17 giugno 1997, presenta molte novita' importanti in relazione al processo di comunitarizzazione della politica di immigrazione in Europa. Sono di rilievo, in particolare, l'incorporazione nell'ambito dell'Unione del cosiddetto "acquis" di Schengen e l'introduzione nel Trattato della Comunita' di un nuovo titolo relativo a "Libera circolazione delle persone, asilo e immigrazione". Quanto e' stato affidato finora alla semplice cooperazione intergovernativa (priva, nelle sue conclusioni, di forza cogente nei confronti delle legislazioni nazionali) sembra destinato a diventare oggetto di politica comune, sia pure in un futuro non vicinissimo. E' previsto infatti che, trascorso un periodo di cinque anni, il Consiglio europeo potra' adottare, in relazione a diversi temi di politica dell'immigrazione, deliberazioni sottratte al vincolo dell'unanimita', che fino ad oggi si e' tradotto in un paralizzante potere di veto in mano a ciascuno Stato membro.

E' allora importante valutare se le linee guida della politica dell'Unione - quelle almeno che risultano pertinenti alla questione immigrazione - consentano di dar luogo a delle scelte adeguate alla complessita' del problema. E' parimenti interessante - e certamente piu' urgente - estendere l'analisi alle diverse scelte operate in questi anni in Italia o prospettate dalle proposte di legge discusse o approvate in Parlamento.

In questa nota tale analisi e' abbozzata sulla base di un semplice modello macroeconomico. L'esigenza di semplicita' induce a trascurare molti dei dettagli del problema. Questo non dovrebbe impedire pero' di conservarne tutti gli elementi essenziali. Le conclusioni cui si perviene possono apparire, per certi versi, sorprendenti, se confrontate con alcuni argomenti abitualmente dati per scontati nel dibattito sull'immigrazione.

 

I. Domanda e offerta di lavoro nel mercato nazionale

I.1 Domanda e offerta di lavoro; equilibrio e soddisfazione

Possiamo rappresentare le caratteristiche essenziali del mercato del lavoro riportando l'andamento della domanda e dell'offerta di lavoro in un grafico che abbia in ascissa la quantita' di lavoro (ad esempio, in termini di numero di ore complessivamente effettuate da tutti i lavoratori), indicata con Q, e in ordinata, il salario corrisposto per la singola ora di lavoro, indicato con S. Non distinguiamo, nel tracciare il grafico, tra tipi di lavoro diversi, guardando invece a quantita' globali.

La domanda di lavoro (vale a dire, la quantita' di ore di lavoro richieste dai datori di lavoro nel loro complesso) dipendera' dal salario che deve essere corrisposto per ciascuna ora. Se il salario e' basso, molti datori di lavoro richiederanno ore di lavoro ai lavoratori, e ciascuno dei datori di lavoro trovera' conveniente richiedere molte ore di lavoro. Una situazione di questo tipo corrispondera' a un punto in basso a destra nel grafico mostrato in Fig.1. Viceversa, un alto salario da corrispondere indurra' i datori di lavoro a contenere le proprie richieste o, addirittura a ritirarsi dal mercato. A questo corrispondera' un basso numero di ore di lavoro richieste e, quindi, un punto in alto a sinistra nel grafico. In generale, la domanda sara' caratterizzato da un andamento decrescente (curva a).

Non siamo qui interessati ai dettagli di questo andamento. Conviene pero' osservare come la pendenza della curva sia tanto piu' accentuata, quanto piu' la quantita' di lavoro richiesta risulti determinata da condizioni che poco hanno da spartire con il salario. Ad esempio, se il mercato del lavoro considerato fosse limitato a quello dei portieri delle squadre di calcio di Serie A (curva b), il numero di ore di lavoro complessivamente richieste sarebbe fissato essenzialmente dal numero di squadre ammesse in quella serie, giacche' questo fisserebbe sia il numero di portieri, sia il numero di partite. Al di sopra di un certo valore del salario, tuttavia, la domanda diventerebbe rapidamente nulla, giacche' le squadre non sarebbero in grado di pagare i portieri e si ritirerebbero (cominciando dalle meno ricche) dal campionato. Nel caso in cui si consideri, nel suo complesso, un mercato molto piu' vasto e variegato si puo' ritenere che andamenti cosi' estremi non siano rilevanti, e che l'andamento rappresentato dalla curva a sia sufficientemente generale.

L'offerta di lavoro (cioe' la quantita' di ore di lavoro che i lavoratori sono disposti ad offrire, data una certa paga oraria) presenta l'andamento inverso: a salario basso pochi lavoratori trovano conveniente lavorare (rinunciando, per esempio, alla possibilita' di cercare un lavoro piu' redditizio o meglio corrispondente alla formazione ricevuta), e ciascuno di essi e' disposto a lavorare per poche ore. Al crescere del numero di ore di lavoro pro capite, infatti, la fatica compiuta dal lavoratore aumenta, e, se il salario e' troppo basso, nessun lavoratore e' disposto ad aggiungere ulteriore fatica a quella gia' accumulata. A questa situazione corrispondera' un punto in basso a sinistra nel grafico. Al contrario, se il salario e' alto, molti lavoratori saranno disposti a lavorare, e per molte ore ciascuno. Un andamento ragionevole dell'offerta di lavoro potrebbe essere cosi' rappresentato dalla curva a in Fig.2; qualora i lavoratori fossero piu' esigenti, si otterrebbe un'inclinazione piu' accentuata, ovvero, a parita' di salario, una minor quantita' di ore di lavoro offerte (curva b).

E' interessante considerare alcune correzioni a questo andamento. La prima riguarda il fatto che, tipicamente, esiste, per il salario, una soglia al di sotto della quale nessun lavoratore e' disposto a lavorare, neanche per un minuto. Tra i motivi che giustificano l'esistenza di tale soglia vi e' il fatto che il lavoratore gode di una certo livello di protezione da parte della famiglia o della societa' (quando siano erogati sussidii di disoccupazione), al quale potrebbe essere costretto a rinunciare qualora arrivasse a percepire un salario; o il fatto che l'individuo investe tipicamente energie in attivita' di studio e di formazione mediante le quali conta di pervenire ad occupazioni piu' soddisfacenti - prospettiva che risulterebbe vanificata accettando la distrazione di un'occupazione di livello piu' basso, specialmente se a tempo pieno. Questa circostanza si traduce in una curva di offerta del tipo della curva c: la quantita' di lavoro offerta e' diversa da zero solo per un salario maggiore del salario di soglia; questo, poi, e' tanto piu' alto quanto piu' i lavoratori sono "viziati" dal contesto familiare e sociale.

La seconda modifica e' legata al fatto che il numero di lavoratori e la capacita' lavorativa di ciascuno di loro sono limitati. Ne segue che la quantita' massima di lavoro che puo' essere offerta e' fissata, e non dipende dal salario. Quando la curva dell'offerta di lavoro raggiunge quel valore massimo, non puo' che piegare verso la verticale (curva o). Trascurando i dettagli inutili, un andamento piuttosto generale dell'offerta puo' quindi essere rappresentato dalla spezzata ABC.

Riportando in uno stesso grafico la curva di domanda e quella di offerta (Fig.3), e' possibile determinare il punto di equilibrio tra domanda e offerta in una situazione di libero mercato (un mercato, cioe', in cui non giochino un ruolo rilevante fattori esterni rispetto alle esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori). La determinazione del punto di equilibrio consente poi di conoscere il salario e la quantita' di lavoro concretamente effettuata. Nel caso considerato in Fig.3 l'equilibrio corrisponde al punto E (salario=SE, quantita' di lavoro=QE) in cui le due curve si incrociano.

A fissato andamento della domanda e dell'offerta questo equilibrio e' stabile: di fronte a una perturbazione, il mercato reagisce riportando il salario e la quantita' di lavoro ai valori SE e QE rispettivamente. Se, per esempio, il salario fosse artificiosamente aumentato, i datori di lavoro tenderebbero a richiedere una minor quantita' di ore di lavoro (perche' piu' costose), mentre i lavoratori sarebbero felici di offrirne un maggior numero; si creerebbe cosi' un eccesso di offerta di lavoro rispetto alla domanda, e i lavoratori entrerebbero in concorrenza tra loro. Ciascuno di essi, allora, sarebbe disposto ad abbassare - sia pure impercettibilmente - le proprie richieste salariali, giacche' anche un salario lievemente diminuito rispetto a quello artificiosamente alto sarebbe considerato soggetivamente vantaggioso. La possibilita' di avere a disposizione ore di lavoro a un salario un po' piu' basso indurrebbe i datori di lavoro ad aumentare lievemente la domanda. Il processo proseguirebbe finche' rimangano lavoratori in concorrenza tra loro (con un'offerta di lavoro, cioe', superiore alla domanda), riportando cosi' il sistema verso il punto di equilibrio E.

Se al contrario il salario risultasse artificiosamente basso, sarebbe la domanda a eccedere l'offerta, e i datori di lavoro a entrare in concorrenza per aggiudicarsi la scarsa offerta di lavoro disponibile. Questo farebbe, in modo analogo a quello descritto in precedenza, aumentare progressivamente i salari, diminuire la domanda e aumentare l'offerta, fino a raggiungimento del punto di equilibrio E.

E' utile osservare come il punto di equilibrio corrisponda a una situazione in cui il salario percepito compensa esattamente lo sforzo fatto da ciascun lavoratore nell'effettuare l'ultima quantita' di lavoro richiestagli. L'effettuazione di una ulteriore quantita' risulterebbe per lui, a quel salario, svantaggiosa. Se il salario fosse stato piu' basso, il lavoratore avrebbe limitato la quantita' di lavoro offerta, giacche' questa situazione di pareggio sarebbe sopravvenuta in corrispondenza ad una minore quantita' di ore di lavoro effettuate. Questa osservazione (che corrisponde proprio all'andamento crescente della curva di offerta di lavoro) ci consente di misurare la soddisfazione (o "surplus") accumulata dal lavoratore (o, meglio, dai lavoratori nel loro complesso) nella loro attivita' lavorativa. Supponiamo, per semplicita', che la quantita' di lavoro complessivamente effettuata sia suddivisa in piccole quantita' discrete (unita'), come mostrato in Fig.4. Fermo restando che l'effettuazione dell'ultima unita' di lavoro e' esattamente compensata dal salario percepito dai lavoratori, l'effettuazione - precedente - della generica unita', allo stesso salario, comporta un vantaggio netto per i lavoratori. Si consideri, per esempio, l'unita' indicata da una freccia in Fig.4. I lavoratori si sarebbero arrestati esattamente al compimento di quell'unita' se il salario fosse stato S1 (minore di SE). Nella situazione reale essi ricavano quindi un vantaggio proporzionale alla differenza, SE-S1, tra quanto hanno ricevuto e quanto avrebbero preteso per svolgere quell'unita' di lavoro. La soddisfazione corrispondentemente accumulata e' misurata, approssimativamente, dall'area del rettangolo ombreggiato in Fig.4. L'approssimazione e' tanto migliore quanto piu' fine e' la suddivisione in unita' elementari di lavoro. Si puo' facilmente riconoscere come la soddisfazione complessiva sia misurata dall'area AEB.

Un ragionamento analogo si puo' applicare alla soddisfazione dei datori di lavoro. Per ciascuna unita' di lavoro ottenuta essa e' proporzionale alla differenza tra il salario che, per quella paticolare unita', i datori di lavoro sarebbero stati disposti a pagare e quello d'equilibrio effettivamente corrisposto ai lavoratori. La soddisfazione sara' misurata dall'area BED.

 

I.2 Salario minimo e distribuzione del lavoro

 

La condizione di libero mercato fin qui esaminata puo' non corrispondere a quella che si verifica in realta'. Uno dei principali elementi di differenza e' rappresentato tipicamente dall'esistenza di norme che impongono la corresponsione di un salario minimo ai lavoratori. La cosa, ovviamente, assume importanza solo in quelle situazioni in cui il valore del salario minimo imposto dalle regole vigenti e' superiore a quello che si otterrebbe con l'equilibrio di un mercato libero. La situazione corrispondente a un caso del genere e' rappresentata in Fig.5. Potendosi costringere i datori di lavoro a corrispondere un salario non inferiore a un valore minimo SM, ma non certo ad operare contro i propri interessi, la domanda di lavoro risulta ridotta rispetto a quella che si sarebbe ottenuta all'equilibrio, in condizioni di libero mercato. Al valore SM del salario, l'offerta eccede la domanda, ma l'esistenza di regole impedisce che la situazione si riporti automaticamente al punto di equilibrio. Ne risulta che i lavoratori restano in concorrenza tra loro per aggiudicarsi una porzione della (scarsa) domanda di lavoro. In una situazione del genere, la soddisfazione dei datori di lavoro e' data, in Fig.5, dall'area DCF, ed e' quindi ridotta rispetto a quella che si otterrebbe nel caso di libero mercato (area DBE).

Il calcolo della soddisfazione dei lavoratori richiede invece alcune considerazioni aggiuntive. Il risultato infatti dipende da come si distribuisce la domanda di lavoro tra i lavoratori disposti a lavorare. Per comprendere perche' questo avvenga, consideriamo la situazione particolare, rappresentata in Fig.6, di un'offerta di lavoro costituita dalla somma delle offerte di due soli lavoratori. Siano le curve o1 e o2 rappresentative delle offerte del primo e del secondo lavoratore, rispettivamente, e la curva o1+2 relativa all'offerta complessiva. La quantita' di lavoro richiesta, al salario minimo SM e', come nel caso di Fig.5, inferiore a quella di equilibrio. Consideriamo due situazioni estreme: la prima relativa al caso in cui uno dei due lavoratori (ad esempio, il primo) si aggiudichi tutta la porzione desiderata di domanda, saturando cosi' la propria disponibilita' e lasciando al secondo solo la quantita' residua; la seconda caratterizzata da una quantita' di ore di lavoro per lavoratore commisurata all'entita' della rispettiva offerta. Dal momento che, come si e' osservato commentando la Fig.4, le prime ore offerte da ciascun lavoratore sono quelle che comportano una maggior soddisfazione, si comprende come la situazione di distribuzione proporzionale all'entita' dell'offerta di ciascun lavoratore sia quella caratterizzata dalla massima soddisfazione complessiva. Nell'altra situazione, infatti, le ultime ore offerte dal lavoratore "prepotente" (e vicino a saturazione) provocano una minor soddisfazione di quella che avrebbero causato al piu' indifeso (ma anche, in quelle condizioni, piu' assetato di lavoro) dei due. Si puo' in effetti dimostrare facilmente che nel primo caso la soddisfazione complessiva e' massima (anche se non lo e', ovviamente, la soddisfazione di ciascuno dei due lavoratori) e corrisponde all'area ABCE. Nel secondo caso, invece, la soddisfazione complessiva corrisponde all'area ABCF. Il motto "lavorare meno, lavorare tutti" e' quindi effettivamente un buon principio-guida ai fini della massimizzazione della soddisfazione complessiva in situazioni di offerta non saturata dalla domanda.

Tornando alla Fig.5, allora, possiamo concludere che l'area ACFG misura la soddisfazione dei lavoratori solo in condizione di equa distribuzione del lavoro tra i lavoratori; vedremo che queste considerazioni risulteranno rilevanti al momento di esaminare il problema della distribuzione del lavoro tra diverse categorie di lavoratori concorrenti. E' bene osservare come in generale non si possa concludere nulla riguardo al guadagno o alla perdita di soddisfazione da parte dei lavoratori rispetto al caso di libero mercato: il percepire un salario piu' alto di quello di equilibrio puo', cioe', compensare o meno lo svantaggio di poter offrire una minor quantita' di lavoro di quella che si sarebe offerta all'equilibrio. In termini geometrici, si ha guadagno o perdita, a seconda che l'area CFHB in Fig.5 ecceda o meno l'area GHE. Complessivamente, pero' il sistema "datori di lavoro e lavoratori" subisce una perdita di soddisfazione (misurata dall'area FGE).

E' utile osservare come l'introduzione per legge di un salario minimo si giustifichi come tutela di una categoria verosimilmente piu' debole (i lavoratori) a spese di una verosimilmente piu' forte (i datori di lavoro). Tuttavia, mentre e' certa la diminuzione di soddisfazione dei datori di lavoro, non e' affatto certo (ma dipende dai dettagli delle curve di domanda e di offerta, nonche' dal modo di distribuire la scarsa domanda di lavoro) che i lavoratori vedano aumentare la propria soddisfazione.

 

I.3 Previdenza e tasse

Le considerazioni fin qui svolte sul salario minimo si applicano anche agli altri eventuali oneri imposti dalla legge al datore di lavoro che si traducano in un vantaggio evidente e diretto per il lavoratore occupato. In prima approssimazione, tra questi possono essere inclusi i versamenti previdenziali o gli accantonamenti per la liquidazione, che costituiscono una forma di retribuzione differita, ma di evidente convenienza, per il lavoratore e, verosimilmente, esercitano su di esso un'attrattiva solo di poco inferiore a quella esercitata dal salario. Gli oneri, invece, che vanno ad alimentare le entrate dell'amministrazione pubblica e che producono benefici al lavoratore solo in quanto facente parte della collettivita' (le tasse, ad esempio, o i contributi per l'assicurazione al Servizio sanitario nazionale) meritano una considerazione a parte. In presenza di questi, infatti, vi e' una discrepanza tra quanto il datore di lavoro paga e quanto il lavoratore percepisce direttamente (sia pure sotto forma di salario differito).

Indichiamo convenzionalmente come "tasse" gli oneri in questione e definiamo salario lordo quello versato dal datore di lavoro, "salario netto" quello percepito (immediatamente o sotto forma di salario differito) dal lavoratore. Consideriamo dapprima una condizione di libero mercato - in cui cioe' il salario sia determinato dall'equilibrio tra domanda e offerta, e non dall'esistenza di minimi stabiliti per legge. Riportiamo in Fig.7, in termini di salario lordo, le curve di domanda e offerta presentate in Fig.5. Dal momento che il datore di lavoro "vede", come salario, solo quello lordo, la curva di domanda non e' alterata. La curva di offerta dipendera' invece dal fatto che siano o non siano imposte tasse. In caso di mancanza di tasse, salario lordo e salario netto del lavoratore coincidono, e la curva di offerta (curva a) e' identica a quella riportata in Fig.5. Nel caso opposto, vi sara' una differenza tra salario lordo e salario netto, proporzionale al valore del salario. La curva b rappresenta, per ogni valore della quantita' di lavoro, l'ammontare del salario lordo corrispondente (una volta decurtato delle tasse) al salario netto capace di garantire un'offerta di lavoro pari a quella quantita'. In particolare, ad esempio, la completa fuga dei lavoratori dal mercato del lavoro si avra' in corrispondenza ad un valore del salario pagato dal datore di lavoro piu' alto (S1) di quello identificato in precedenza come minimo salario tollerabile (S0); in presenza di imposizione fiscale, infatti, dal salario S1, prima che finisca in tasca al lavoratore, dovra' essere trattenuta la tassa (S1-S0). Nei due casi considerati (con e senza tassazione), naturalmente il valore del minimo salario netto tollerabile e' il medesimo (si noti che l'offerta di lavoro in relazione al salario netto e' comunque rappresentata dalla curva a).

Riguardo alla distribuzione di soddisfazione, le due situazioni differiscono sensibilmente. Nel passaggio da un sistema senza tasse ad uno con tasse, i datori di lavoro vedono decrescere la loro soddisfazione di una quantita' pari all'area ABCE.

La soddisfazione dei lavoratori passa da un valore corrispondente all'area BEG ad uno corrispondente all'area DFG: una volta individuata - infatti - dal nuovo equilibrio, la quantita' di lavoro effettuata, resta determinato il salario percepito dai lavoratori, ed e' questo - unitamente all'andamento dell'offerta di lavoro in termini di salario netto - a fissare la quantita' di soddisfazione.

Nel caso in cui, oltre all'imposizione fiscale, la legge imponga un salario minimo (superiore, s'intende, a quello di equilibrio in condizioni di libero mercato), la situazione si modifica come mostrato in Fig.8. La quantita' di lavoro richiesta e' fissata dal salario lordo minimo (SLM). Il salario netto percepito corrispondentemente dai lavoratori (SNM) si ricava con la semplice costruzione geometrica mostrata in figura. La soddisfazione dei datori di lavoro si riduce all'area AFC; quella dei lavoratori all'area BDHG (nell'ipotesi di distribuzione ottimale della scarsa quantita' di lavoro).

L'area ACFD in Fig.7 (AFDB in Fig.8) corrisponde, infine, nel caso con imposizione fiscale, all'ammontare delle tasse incamerate dalla pubblica amministrazione: e' il prodotto della quantita' di ore di lavoro effettuate per la frazione di paga oraria prelevata dal fisco; non misura di per se' alcuna soddisfazione, ma puo' corrispondere ad un aumento di soddisfazione delle categorie destinatarie dei servizi che, grazie a queste entrate, possono essere erogati. L'efficienza con cui il prelievo fiscale si tradurra' in soddisfazione dipendera' dalla qualita' dei servizi e dalla scelta dei destinatari. A parita' di servizio erogato, infatti, tanto piu' si riuscira' a destinarlo a utenti che ne abbiano effettivamente bisogno, tanto piu' alta sara' la soddisfazione prodotta: una mensa gratuita per i barboni produce piu' soddisfazione di una mensa gratuita per dirigenti d'azienda. In generale, tanto piu' imposizione fiscale e spesa pubblica riescono a funzionare come meccanismi di ridistribuzione del reddito, tanto piu' sono capaci di creare soddisfazione complessiva.

Notiamo come il fatto che, indirettamente, parte della soddisfazione sottratta a datori di lavoro e lavoratori dall'imposizione fiscale possa essere restituita (sotto forma di servizi) al singolo lavoratore o al singolo datore di lavoro non altera la valutazione che ciascuno di essi fa della propria soddisfazione al momento di decidere se offrire o richiedere lavoro, giacche' di quei servizi fruirebbe (forse in misura maggiore) anche se non fosse personalmente impegnato nel mercato del lavoro.

 

I.4 Lavori assolutamente o formalmente rifiutati e servizi rifiutati

A conclusione di questo capitolo e in vista della discussione che seguira', puo' essere interessante esaminare particolari situazioni del mercato del lavoro: quelle legate all'esistenza di lavori assolutamente rifiutati o formalmente rifiutati e, rispettivamente, dei servizi rifiutati. Adottiamo, a questo fine, un approccio lievemente diverso da quello utilizzato finora, in base al quale il mercato del lavoro era visto come un'unica entita', senza distinzione tra i diversi settori o le diverse qualifiche o le diverse mansioni (di modo che, parlando di salari, si faceva riferimento in realta' a salari medi, e parlando di domanda e offerta di lavoro ci si riferiva alle quantita' complessive). Estraiamo cioe', da tutto il complesso del mercato, il sottoinsieme relativo a un particolare settore o a una particolare mansione; domanda, offerta, salario e quantita' di lavoro si riferiranno ora a quel solo particolare segmento del mercato.

Diremo che un particolare lavoro e' assolutamente rifiutato se il mercato relativo e' descritto da un grafico del tipo riportato in Fig.9. In questo caso, la domanda e' nulla gia' per valori del salario inferiori a quello ritenuto il minimo tollerabile dai lavoratori. Non vi e' quindi alcuna possibilita' di incontro tra la convenienza dei datori di lavoro e quella dei lavoratori. Quel particolare lavoro, salvo che sopravvengano elementi nuovi, scompare dal mercato.

Una situazione simile, anche se un po' piu' complessa, si ha, nel caso raffigurato in Fig.10, in presenza di un'imposizione fiscale che renda impossibile l'incontro tra la curva di domanda e quella di offerta in termini di salario lordo (curva b). La situazione differisce significativamente dalla precedente solo in quei casi, come in Fig.10, in cui l'offerta in termini di salario netto (curva a) sarebbe stata tale da garantire un equilibrio non banale (con quantita' di lavoro effettuata, cioe', non nulla). In casi del genere, l'instaurazione di rapporti di lavoro in nero - in condizioni, quindi, di evasione fiscale - fornirebbe un risultato qualitativamente diverso da quello "legale", nei limiti quantitativi definiti dal punto di equilibrio C. Indicheremo come formalmente rifiutati quei lavori che generano situazioni di questo genere.

Considerazioni analoghe potrebbero essere svolte con riferimento al caso di Fig.11, in cui e' l'imposizione di un salario minimo a impedire la realizzazione di un equilibrio non banale, che risulta invece possibile in condizioni di lavoro illegale (irrispettose, cioe' delle norme sul minimo salariale). In questo caso tuttavia parleremo di servizi rifiutati, dal momento che il mancato accordo tra datori di lavoro e lavoratori dipende in primo luogo dal fatto che il salario minimo imposto dalla legge supera il salario massimo tollerabile per i datori di lavoro.

Vi e' quindi una sostanziale differenza tra il caso di lavori rifiutati e quello di servizi rifiutati: a fissata domanda, la situazione relativa ai servizi rifiutati (Fig.11) non puo' essere modificata da variazioni della curva di offerta; quelle relative ai lavori rifiutati, invece, dipendono fortemente da tali variazioni. La cosa e' del tutto evidente nel caso di lavori assolutamente rifiutati (Fig.9). Anche nel caso di lavori formalmente rifiutati (Fig.10), tuttavia, e' facile riconoscere come un significativo abbassamento della curva di offerta "senza tasse" (corrispondente a un aumento della quantita' di lavoro offerta per ciascun valore del salario) comporti un corrispondente abbassamento della curva di offerta "con tasse", e possa portare alla realizzazione di un equilibrio non banale, anche in condizioni di lavoro legale.

 

II. Effetti di un'offerta di lavoro straniera

II.1 Immigrazione e offerta di lavoro straniera: caratteristiche particolari

Fin qui abbiamo considerato un mercato del lavoro chiuso, nel quale, cioe', esista un'unica categoria di lavoratori, tutti soggetti alle stesse regole e caratterizzabili mediante un'unica curva di offerta complessiva. Vogliamo ora esaminare l'effetto di un ingresso nel mercato di una diversa categoria di lavoratori (diversa essendo anche la risposta che essa offre alle sollecitazioni del mercato), eventualmente assoggettabile a norme distinte da quelle che regolano il lavoro della categoria preesistente. Stiamo pensando, ovviamente, all'ingresso di immigrati nel mercato del lavoro del paese di accoglienza. Ci riferiremo pertanto alle due categorie come a quella dei lavoratori nazionali e quella dei lavoratori stranieri.

Vi sono almeno tre elementi che distinguono la condizione dei lavoratori stranieri da quella dei lavoratori nazionali. Il primo e' rappresentato dal fatto che l'offerta di lavoro e' caratterizzata da parametri molto diversi nei due casi. La manodopera straniera, infatti, proviene tipicamente da paesi economicamente arretrati e da situazioni familiari che di solito non offrono alla persona non occupata lo stesso livello di protezione di cui invece possono godere i non occupati nazionali. Inoltre, le difficolta' di inserimento nel paese straniero inducono gli immigrati a ridimensionare le aspettative associate ai titoli di studio o di formazione maturati. Ne segue che, come rappresentato in Fig.12, il minimo salario tollerabile e' considerevolmente piu' basso per gli stranieri (curva s) che per i nazionali (curva n). Data, poi, la dimensione del bacino di potenziale emigrazione dai paesi in via di sviluppo, il punto di piena occupazione, in corrispondenza al quale la curva di offerta piega verso la verticale, si trova a valori della quantita' di lavoro offerta molto elevati rispetto al tipico intervallo su cui si estende la domanda.

Il secondo elemento distintivo della condizione dei lavoratori stranieri e' correlato con il fatto che la corrispondente offerta di lavoro, a differenza di quella nazionale, puo' essere drasticamente limitata - rispetto al suo valore potenziale - da esplicite decisioni di politica dell'immigrazione, come pure da fattori legati all'attuazione pratica di questa politica. Tra le prime hanno un particolare rilievo le norme relative alla regolazione dei flussi di immigrazione e, in particolare, alle modalita' di ingresso nel paese di accoglienza per lavoro. Tra i secondi figurano, ad esempio, i comportamenti effettivi delle autorita' deputate al rilascio dei visti di ingresso, il grado di funzionamento effettivo degli istituti preposti all'immigrazione, il livello di accettazione dell'immigrato da parte della societa' di accoglienza. Affronteremo in maggior dettaglio questi aspetti nel seguito.

Il terzo elemento peculiare e' dato dal fatto che specifiche norme possono conferire ai lavoratori nazionali disoccupati un diritto di prelazione sui posti di lavoro disponibili, da far valere rispetto ai lavoratori stranieri. Il lavoratore straniero puo' essere cioe' autorizzato a stipulare un determinato rapporto di lavoro solo a valle del cosiddetto accertamento di indisponibilita' di manodopera nazionale. Questo elemento non altera, naturalmente, l'offerta di lavoro straniera, ma incide sulle modalita' di distribuzione della scarsa domanda di lavoro in condizioni di occupazione incompleta (tipiche come si e' visto - delle situazioni in cui e' imposto un salario minimo piu' alto del valore di equilibrio).

 

II.2 Frontiere aperte e bilancio di soddisfazione

Allo scopo di comprendere le cause e gli effetti delle attuali tendenze in materia di politica dell'immigrazione, conviene partire dal caso piu' semplice da analizzare: la situazione corrispondente ad una politica di completa apertura delle frontiere in un regime di libero mercato. Per quanto detto in precedenza, stante il grande bacino di potenziale emigrazione dai paesi in via di sviluppo e la notevole facilita' degli spostamenti da questi paesi a quelli industializzati - in mancanza, s'intende, di restrizioni sugli ingressi -, la curva relativa all'offerta di lavoro straniera puo' essere rappresentata da una retta (indicata in Fig.13 dalla lettera s) spostata, rispetto all'offerta nazionale (lettera n), verso l'asse delle ascisse (anche a bassi salari si trovano molti lavoratori disponibili a prestare la loro opera), e non limitata - almeno fino a che si considerano valori ragionevoli della quantita' di lavoro - dal raggiungimento della piena occupazione. L'offerta complessiva di lavoro (n+s) risulta incrementata rispetto al caso della sola presenza di lavoratori nazionali. Restando inalterata la curva di domanda (anch'essa rappresentata in figura), e' evidente come il punto di equilibrio tenda a spostarsi verso condizioni di salario piu' basso e quantita' di lavoro piu' alta. A dispetto della maggior quantita' di lavoro, tuttavia, la quantita' di lavoro offerta dai lavoratori nazionali (segmento DE) risultera' minore di quella che caratterizzava l'equilibrio in assenza di lavoratori stranieri (segmento AB). In termini di soddisfazione delle tre categorie presenti (datori di lavoro, lavoratori nazionali e lavoratori stranieri), notiamo che nel passaggio dal primo equilibrio (in mancanza di immigrazione - ossia a frontiere completamente chiuse) al secondo (in presenza di immigrazione), i datori di lavoro ottengono un incremento misurato dall'area ABCD; i lavoratori nazionali vedono diminuire la propria soddisfazione di una quantita' corrispondente all'area ABED; i lavoratori stranieri la vedono crescere da zero a una quantita' misurata dall'area FECHG. Il sistema complessivo ottiene un incremento pari all'area FBCHG.

Si comprende facilmente come il disappunto dei lavoratori nazionali possa indurre i politici - molto attenti a non scontentare larghe fasce dell'elettorato - a introdurre misure protezionistiche tendenti a comprimere l'offerta di lavoro straniera o a porla in posizione di inferiorita' rispetto a quella nazionale. Di fatto, le citate limitazioni causate dalle scelte - teoriche o pratiche - di politica dell'immigrazione o dalle norme relative all'accertamento di indisponibilita' non sono altro che il modo in cui questo atteggiamento protezionistico si esprime. Tuttavia, l'aver evidenziato come l'apertura delle frontiere si traduca in un vantaggio per i datori di lavoro (categoria certamente non meno importante, anche se certamente meno numerosa di quella dei lavoratori nazionali) e per il sistema nel suo complesso rende necessario un esame piu' approfondito della situazione.

Si potrebbe infatti ritenere che il guadagno complessivo del sistema sia dovuto principalmente al grande incremento di soddisfazione dei lavoratori stranieri (totalmente esclusi dal sistema iniziale a frontiere chiuse). Dalla Fig.13 si vede pero' che, in realta', anche il sottosistema nazionale (datori di lavoro e lavoratori) vede crescere la soddisfazione complessiva. Di piu': si vede che l'intera perdita di soddisfazione dei lavoratori nazionali confluisce nel guadagno dei datori di lavoro, senza pero' esaurirlo (l'area BEC rappresenta infatti l'ulteriore guadagno dei datori di lavoro, nonche' il guadagno netto nazionale). Questa circostanza non dipende in alcun modo dalle particolari caratteristiche dell'offerta di lavoro straniera, ma solo dal fatto che esista una simile offerta e che, quindi, quella complessiva risulti accresciuta rispetto alla semplice offerta nazionale.

A fronte, quindi, della giusta esigenza di tutelare da un arretramento i lavoratori nazionali, si pone la non meno importante esigenza di non vanificare il maggior guadagno dei datori di lavoro, del sottosistema nazionale nel suo complesso e - non va dimenticato - dell'intero sistema. Curiosamente, pero', di questa contrapposizione di esigenze si trova scarsa traccia nel dibattito relativo alla politica dell'immigrazione, sia a livello italiano, sia a livello europeo. Il quadro di riferimento sembra essere cioe' quello di un approccio protezionistico, mitigato (e solo in alcuni casi) non tanto da osservazioni concernenti il rischio di negare incrementi di soddisfazione a particolari categorie e all'intero sistema, quanto piuttosto da considerazioni, di carattere umanitario, relative al diritto di chi nasce in un paese a economia arretrata di sottrarsi a condizioni di intollerabile poverta'. Posta in questi termini la questione, sembra che sia in discussione il diritto degli stranieri di guadagnare soddisfazione a spese dei nazionali, in virtu' della loro condizione di originario disagio. Da quanto detto e' invece evidente che la quota di soddisfazione ottenuta, in caso di apertura delle frontiere, dagli stranieri, non intacca, di per se', il capitale di soddisfazione dei lavoratori nazionali, essendo questo eroso piuttosto dall'avanzamento dei datori di lavoro.

I toni del dibattito sono resi poi ancor piu' confusi dalla tradizionale appartenenza ideologica delle parti coinvolte: i datori di lavoro, che avrebbero tutto l'interesse a sostenere un piano di apertura delle frontiere, fanno tipicamente riferimento a ideologie di tipo conservatore, spesso caratterizzate da un accentuato nazionalismo, che induce a sposare, con superficialita', politiche protezionistiche; i lavoratori nazionali - all'opposto - che potrebbero avere un immediato interesse a veder attuate siffatte politiche, si riconoscono in genere in ideologie progressiste, che, ispirandosi - almeno nominalmente - a valori di solidarieta' nei confronti dei piu' deboli, inducono a considerare con maggior benevolenza la posizione dei lavoratori stranieri. In tale confusione affonda le radici l'incapacita' di definire strategie chiare e lungimiranti in merito all'immigrazione. La scelta di linee politiche incoerenti da parte delle diverse categorie impedisce di ottenere chiarezza sulle vere esigenze in gioco, e di individuare le soluzioni capaci di contemperarle tutte. Non stupisce cosi' che le proposte che mirano a mettere in discussione la semplice soluzione di frontiere chiuse siano costrette, per trovare ascolto, a muoversi comunque entro limiti innaturalmente ridotti. Conseguentemente, lo spettro di soluzioni, tutte di stampo protezionistico, corrispondenti alle norme abitualmente adottate nelle legislazioni dei paesi meta di flussi migratori e' piuttosto ampio e merita di essere esaminato con attenzione alla luce del modello fin qui utilizzato. Di questo ci occuperemo nel prossimo capitolo.

 

III. Politiche dell'immigrazione protezionistiche

III.1 Barriere e quote

Consideriamo innanzi tutto come l'introduzione di disposizioni legislative (o l'attuazione che ad esse viene data) puo' modificare l'offerta di lavoro straniera effettivamente disponibile e le condizioni di equilibrio nel mercato del lavoro nazionale.

In Fig.14, la curva relativa all'offerta di lavoro straniera in presenza di una politica di frontiere effettivamente aperte (sa) e' confrontata con quella (sb) derivante dall'introduzione, in un contesto ancora formalmente aperto, di elementi di frizione di natura pratica. Esempi di tali elementi sono dati dalle difficolta' burocratiche imposte al lavoratore straniero ai fini del rilascio del visto, dalle eventuali pratiche corruttive in vigore, nei fatti, nelle rappresentanze diplomatiche o consolari preposte a tale rilascio, dalla durata del permesso di soggiorno cui il lavoratore accederebbe una volta giunto nel paese di accoglienza, dal livello di xenofobia presente in tale paese, dalle restrizioni poste dalla normativa sulla possibilita' di portare con se' i familiari ovvero di procedere al ricongiungimento con essi una volta raggiunto l'inserimento lavorativo. Questi ed altri elementi rendono meno appetibile la migrazione nella prospettiva di bassi salari. Tendono quindi a produrre uno spostamento verso l'alto della curva di offerta, che risulta cosi' caratterizzata da valori di minimo salario accettato piu' elevati e da inclinazione maggiore rispetto al caso di partenza.

Un elemento che puo' provocare uno spostamento molto significativo della curva di offerta - e che, per questo, merita una specifica considerazione - e' dato dalla difficolta' di pervenire, nei fatti, ad un efficace incontro con la domanda di lavoro. Anche in un contesto in cui l'ingresso sia formalmente non limitato, infatti, la presenza di norme che interpongano barriere tra datore di lavoro e lavoratore fa si' che, in pratica, l'offerta in grado di reagire, sul mercato nazionale, alla domanda sia fortemente compressa. Esempi di barriere di questo genere sono rappresentati, in ordine di efficacia crescente (ai fini della compressione dell'offerta), dal condizionare l'ingresso del lavoratore straniero alla disponibilita' di un garante che ne curi il sostentamento nella fase di ricerca di lavoro, dall'esigere che l'ingresso sia autorizzato solo in presenza di una preventiva assunzione con chiamata da una lista di prenotazione, dal pretendere, infine, in mancanza di liste, che questa chiamata sia nominativa. Rispetto, infatti, ad una situazione in cui l'incontro tra domanda e offerta di lavoro sia massimamente agevolato consentendo l'ingresso sul territorio di immigrati in cerca di lavoro, nei diversi esempi considerati si restringerebbero le possibilita' di incontro ai soli casi, rispettivamente, dei lavoratori che possano vantare l'appoggio di qualcuno nel paese di accoglienza, o dei datori di lavoro che siano disposti ad assumere lavoratori "alla cieca" (senza passare, cioe', attraverso una fase di conoscenza preventiva), o dei lavoratori che, per altre vie (comunque costose), siano gia' venuti a contatto con un datore di lavoro e ne abbiano conquistato la fiducia.

Una seconda modificazione della curva di offerta puo' essere causata dall'imposizione di tetti sugli ingressi consentiti in un periodo prefissato. Si tratta della cosiddetta politica delle quote. L'introduzione di un limite sugli ingressi produce, in analogia con il caso gia' esaminato per i lavoratori nazionali, il piegamento della curva di offerta (sc) verso la verticale, in corrispondenza alla situazione di piena occupazione dei lavoratori ammessi nell'ambito della quota programmata. Qualora si sommino i due effetti considerati (elementi di attrito e quote) l'offerta risulta ulteriormente compressa (sd).

In Fig.15 e Fig.16 sono riportate la curva della domanda di lavoro e quelle dell'offerta nazionale (n), straniera e complessiva nei due casi estremi considerati in Fig.14 (sa e sd, rispettivamente). E' evidente come, pur restando qualitativamente inalterato il confronto tra il caso a frontiere chiuse (sola offerta nazionale) e gli altri, da un punto di vista quantitativo le perturbazioni introdotte dalla possibilita' di ingresso di lavoratori stranieri risultano, in presenza di queste barriere, fortemente ridimensionate. Se e' vero, pero', che questo si traduce in una riduzione della possibile sofferenza dei lavoratori nazionali (e quindi dei trasferimenti necessari a compensarla), e' pur vero che un analogo e piu' corposo ridimensionamento colpisce l'incremento di soddisfazione complessivo e, separatamente, quelli dei datori di lavoro e dei lavoratori stranieri.

 

III.2 Salari minimi e accertamento di indisponibilita'

Ulteriori riduzioni degli effetti dell'immigrazione possono essere ottenute dall'imposizione di salari minimi o di oneri previdenziali minimi (che, per quanto detto nel Capitolo I, possono comunque essere inclusi nella voce salario). La situazione e' rappresentata in Fig.17, dove si sono riportate per semplicita' la sola curva di offerta di lavoro nazionale e quella di offerta complessiva relativa al caso di quote ostacolate - il caso, cioe', mostrato in Fig.16. Si e' visto come, in presenza di un salario minimo, sia il valore di questo a fissare la quantita' di lavoro effettivamente domandata dai datori di lavoro, a condizione, ovviamente, che esso sia piu' alto del salario di equilibrio in condizioni di libero mercato. Naturalmente, qualora il salario minimo sia piu' alto (SM1 in Fig.17) del valore di equilibrio a frontiere chiuse, l'ingresso di lavoratori stranieri non e' minimamente in grado di modificare la quantita' di lavoro domandata. Quando invece il valore minimo si situi in posizione intermedia (SM2 in Fig.17) tra i due valori di equilibrio pre e post immigrazione, l'ingresso di immigrati produce una perturbazione della quantita' domandata, che risulta pero' piu' contenuta di quella che si avrebbe in un equilibrio di libero mercato.

In ciascuno dei due casi considerati, tuttavia, la presenza o l'assenza di perturbazione della quantita' di lavoro effettivamente domandata non e' l'unico elemento di rilievo ai fini della distribuzione della soddisfazione tra le diverse categorie: quand'anche ci si trovi in situazioni tali da non avere, in corrispondenza con l'ingresso di lavoratori stranieri, alcun aumento della quantita' di lavoro effettivamente richiesta, e' possibile che i lavoratori nazionali perdano comunque una parte di tale quantita'. In generale, infatti, fissata dal salario minimo la domanda di lavoro effettiva, questa sara' in parte saturata dall'offerta straniera presente sul territorio nazionale. In assenza di ulteriori vincoli normativi, la distribuzione della scarsa domanda rispecchiera' la proporzione tra le offerte delle due categorie. In Fig.18 questa situazione, che corrisponde al caso che nella Fig.6 produceva una soddisfazione data dall'area ABCE, e' rappresentata nell'ipotesi di salario minimo superiore al valore del salario di equilibrio a frontiere chiuse. La soddisfazione di datori di lavoro, lavoratori nazionali e lavoratori stranieri e' data qui, rispettivamente dalle aree dei poligoni ACB, BIHG e ICEFGH. E' evidente come, mentre la condizione dei datori di lavoro non peggiora in presenza di immigrazione, quella dei lavoratori nazionali risulta impoverita della quantita' corrispondente all'area ICDH. Notiamo che, a differenza del passaggio, in condizioni di libero mercato, da frontiere chiuse a frontiere aperte, in questo caso la quantita' di soddisfazione perduta dai lavoratori nazionali e' incamerata dai lavoratori stranieri, anziche' dai datori di lavoro. L'obiettivo di compensare i lavoratori nazionali non puo' quindi essere perseguito con una politica di trasferimenti intra-nazionali, ma dovrebbe prevedere forme di risarcimento, difficilmente praticabili, da parte dei lavoratori stranieri.

Il caso corrispondente a un salario minimo intermedio tra i due valori di equilibrio di libero mercato e' raffiguato in Fig.19. Questa volta la soddisfazione delle tre categorie varia nel modo seguente: i datori di lavoro ottengono un incremento pari all'area del poligono BCDI; i lavoratori nazionali perdono la quantita' corrispondente all'area del poligono BCMHI; i lavoratori stranieri godono di una quantita' data dall'area del poligono GMHDEF. Lo shock per i lavoratori nazionali e' maggiore che nel caso precedente. Tuttavia, esso si traduce in parte in un maggior vantaggio per i datori di lavoro, e, in quella misura, puo' quindi essere recuperato mediante trasferimenti intra-nazionali.

Qualora, tuttavia, si voglia dare una piu' piena protezione ai lavoratori nazionali, e' possibile, come accennato in precedenza, introdurre un'ulteriore misura protezionistica: l'accertamento di indisponibilita' di manodopera nazionale, quale requisito necessario per l'autorizzazione a stipulare un rapporto di lavoro subordinato con un lavoratore straniero, fa si' che la distribuzione di una data (e scarsa) domanda di lavoro non penalizzi in alcun modo i lavoratori nazionali. Analogamente al caso elementare che in Fig.6 conduceva a una soddisfazione complessiva dei lavoratori data dall'area ABCF, la domanda e' infatti saturata in primo luogo dai lavoratori nazionali e, solo quando si esaurisce l'offerta di questi, dai lavoratori stranieri. Le distribuzioni di soddisfazione possono essere osservate, in corrispondenza alle due diverse scelte del salario minimo, nelle Figg.20 e 21. Fermo restando quanto detto a commento delle due precedenti figure in relazione ai datori di lavoro, in Fig.20 la soddisfazione dei lavoratori nazionali e' data dall'area del poligono BCDG (essendo nulla la soddisfazione dei lavoratori stranieri), laddove in Fig.21 la soddisfazione dei lavoratori nazionali e quella degli stranieri sono date dall'area dei poligoni GNI e GFMDN, rispettivamente. Nel primo caso, i lavoratori nazionali non subiscono alcun danno; nel secondo subiscono la perdita di una quantita' completamente incamerata dai datori di lavoro. E' da notare, infine, che, come osservato a commento della Fig.6, una distribuzione "non equa" del lavoro disponibile produce una perdita netta di soddisfazione del sistema complessivo (le aree GDEF e MDE nelle Figg.20 e 21 rispettivamente), tutta a carico dei lavoratori stranieri.

Si puo' concludere, in definitiva, che l'imposizione di salari minimi riduce o impedisce del tutto la caduta dei salari conseguente all'immigrazione, ma, allo stesso tempo, riduce o azzera la crescita di soddisfazione complessiva dell'intero sistema. Coniugata con l'accertamento di indisponibilita', poi, massimizza, per fissato valore del salario minimo, la protezione dei lavoratori nazionali e minimizza la soddisfazione del sistema e dei lavoratori stranieri.

 

IV. Ulteriori elementi di politica dell'immigrazione

IV.1 L'imposizione fiscale

Si e' visto, nel paragrafo I.3, come l'imposizione fiscale introduca una separazione tra quanto deve essere versato dal datore di lavoro e quanto rimane effettivamente nelle tasche del lavoratore. La situazione che si ottiene nel passaggio da frontiere chiuse a frontiere aperte e' rappresentata in Fig.22. I datori di lavoro ottengono un incremento di soddisfazione pari all'area del poligono BCDE; i lavoratori nazionali, per contro, subiscono una perdita di soddisfazione pari all'area del poligono HIMN. Benche' esista ovviamente una relazione precisa (una volta fissata l'aliquota fiscale) tra le variazioni di soddisfazione dei datori di lavoro e quelle dei lavoratori, non e' piu' possibile, per il fatto che le due aree di soddisfazione sono ora disgiunte, concludere immediatamente - come era invece possibile nel caso rappresentato in Fig.13 - che la perdita di soddisfazione dei lavoratori nazionali in presenza di immigrazione sia superata, in valore assoluto, dal guadagno dei datori di lavoro.

E' possibile pero' dimostrare in modo elementare come questa condizione sia effettivamente soddisfatta anche in questo caso, che non introduce quindi alcun elemento di particolare rilievo nell'analisi dei modelli ufficiali di immigrazione. Vedremo pero' che gli effetti di un'imposizione fiscale accentuano il divario tra le condizioni del mercato legale del lavoro e quelle di un mercato distorto dalla presenza di lavoro nero.

 

IV.2 I lavori rifiutati

Dal quadro presentato nel Capitolo III emerge come qualunque misura mirata a proteggere la categoria dei lavoratori nazionali finisca per arrecare danno al sistema nel suo complesso; e come, viceversa, la massimizzazione della soddisfazione complessiva danneggi sistematicamente questa categoria. Vi e' naturalmente una clamorosa eccezione a questo risultato, corrispondente al caso in cui l'offerta di lavoro nazionale sia assente per tutti i valori del salario per i quali la domanda sia diversa da zero. Difficilmente una situazione di questo genere puo' essere osservata quando si guardi al mercato del lavoro in un'ottica macroeconomica - che non ne distingua, cioe', i particolari settori. E' possibile infatti che al di sopra di un certo valore del salario (inferiore al minimo salario tollerabile) si riduca a zero la domanda per particolari tipi di lavoro (i lavori assolutamente o formalmente rifiutati); non e' credibile pero' che questo accada per tutti i lavori considerati complessivamente. Questa distinzione ci permettera' tra poco di comprendere il significato di un'altra forma di restrizione talvolta adottata nei confronti dei lavoratori stranieri.

Abbandoniamo allora, per un momento, l'approccio di tipo macroeconomico e consideriamo i lavori assolutamente o formalmente rifiutati dai lavoratori nazionali. Si e' fatto notare, nel paragrafo I.4, come, a differenza del caso riportato in Fig.11 (servizi rifiutati per l'imposizione di un salario minimo troppo alto), nei casi rappresentati in Fig.9 e in Fig.10 (lavori assolutamente rifiutati o, rispettivamente, formalmente rifiutati a causa dell'imposizione fiscale) la variazione della curva di offerta possa dare risposta alla domanda di lavoro. La modificazione di queste due situazioni in presenza di immigrazione e' rappresentata in Fig.23 e in Fig.24 rispettivamente. E' evidente come, in questo caso, si registri un'aumento della soddisfazione dei datori di lavoro e dei lavoratori stranieri, senza che vi sia alcuna perdita per i lavoratori nazionali. Questa conclusione e' all'origine delle politiche di immigrazione fondate sulla ammissione di quote diversificate per le specifiche mansioni per le quali la domanda di lavoro non trovi adeguata risposta nell'offerta nazionale.

E' utile osservare come, non essendovi in questo caso alcun danno per la posizione dei lavoratori nazionali, l'adozione di qualsiasi misura protezionistica che comprima l'offerta di lavoro straniera sia destinata a produrre riduzione di soddisfazione senza vantaggio di alcuno.

E' altrettanto evidente pero' come queste considerazioni si applichino solo alla situazione qui considerata - un segmento del mercato del lavoro isolato dal resto. Qualora invece la manodopera ammessa con atteggiamento liberale vada a offrire il proprio lavoro anche in altri segmenti del mercato, il risultato netto e' quello di riportarsi alla trattazione complessiva, nell'ambito della quale non esistono, in pratica, possibilita' di mancato accordo tra datori di lavoro e lavoratori. Viene a cadere, in tal caso, la conclusione relativa all'assenza di danni per i lavoratori nazionali; si applicano invece le considerazioni svolte nei paragrafi precedenti: i danni ci sono, e vanno curati con opportuni trasferimenti.

Allo scopo di evitare che una politica fondata sull'ammissione liberale di immigrati destinati a lavori specifici assolutamente o formalmente rifiutati dalla manodopera nazionale si traduca nei fatti in una politica di frontiere aperte in relazione a tutto il mercato del lavoro, viene talvolta vietato dalla normativa l'accesso del lavoratore straniero a posizioni lavorative diverse da quelle per le quali sia stato originariamente autorizzato l'ingresso.

 

IV.3 L'immigrazione irregolare

Finora abbiamo preso in esame gli effetti delle diverse norme relative all'accesso dei lavoratori stranieri al mercato del lavoro, assumendo che la situazione non subisca distorsioni a causa di una mancata osservanza di tali norme. E' pero' facilmente immaginabile come il tentativo di imporre disposizioni restrittive sull'immigrazione sia accompagnato da un corrispondente tentativo di eluderle, stante il fatto che le politiche protezionistiche, mirando a proteggere il lavoratore nazionale, hanno il sistematico effetto di abbassare, rispetto al valore potenziale di frontiere aperte in libero mercato, la quota di soddisfazione effettivamente a disposizione dei lavoratori stranieri e dei datori di lavoro. Non puo' quindi sorprendere che i lavoratori stranieri cerchino comunque di penetrare nel mercato del lavoro, anche se non autorizzati legalmente, contribuendo cosi' all'incremento dell'offerta di lavoro.

A conclusione di questo capitolo vogliamo esaminare le principali alterazioni introdotte dalla presenza di una immigrazione irregolare nell'analisi fin qui svolta.

Rispetto a quella degli immigrati regolari, la posizione sul mercato del lavoro degli immigrati illegali si distingue per diversi elementi. Innanzi tutto, la loro offerta di lavoro non puo' essere compressa con i normali strumenti di politica protezionistica, ma solo mediante strumenti coercitivi di carattere preventivo (il respingimento alla frontiera) o repressivo (l'espulsione dal territorio dello Stato).

In secondo luogo, la loro assunzione da parte dei datori di lavoro avviene, per definizione, in violazione della legge, con la immediata conseguenza che le dinamiche che regolano la costituzione del rapporto di lavoro sono, in modo spinto, dinamiche di mercato libero (non trovano applicazione, ad esempio, le norme su salario minimo, imposizione fiscale, accertamento di indisponibilita', ne', tanto meno, quelle relative al divieto di accedere a mansioni diverse da quelle originariamente autorizzate).

Terzo, l'offerta di lavoro degli immigrati illegali e' caratterizzata da un valore del minimo salario tollerabile molto ridotto. In presenza di norme repressive che mettono a rischio la sua permanenza nel paese di immigrazione, e in assenza di qualunque forma di protezione sociale che lo tuteli nei periodi di disoccupazione, l'immigrato illegale e' spinto, ancor piu' che il suo connazionale in posizione regolare, ad accettare qualunque condizione di lavoro che gli garantisca condizioni di vita migliori di quelle da cui proviene.

 

In queste condizioni, qualora le condizioni del mercato del lavoro siano condizioni di libero mercato, la componente di immigrazione illegale va semplicemente a sommarsi a quella legale, in perfetta concorrenza con questa. L'effetto complessivo e' semplicemente quello di un ampliamento dell'offerta di manodopera straniera e di quella complessiva (con parziale attenuazione, quindi, degli effetti delle misure restrittive sugli ingressi). In presenza, invece, di deviazioni dalle condizioni di libero mercato, si assiste alla creazione di due distinti mercati: l'uno, legale, regolato dalle norme protezionistiche (salario minimo, imposizione fiscale, accertamento di indisponibilita', etc.), l'altro, illegale, con caratteristiche di libero mercato. In Fig.25 e' riportata, oltre alle curve gia' riportate in Fig.17, la curva di offerta di lavoro relativa agli immigrati in condizioni illegali (i). Si e' scelto, a mo' di esempio, il caso in cui il mercato legale sia regolato da una combinazione di rigide misure protezionistiche: l'ammissione di una quota limitata di immigrati, l'imposizione di un salario minimo, l'accertamento di indisponibilita' di manodopera nazionale. Si e' inoltre fatta l'ipotesi che il bacino di immigrazione illegale sia di portata confrontabile con quello di immigrazione legale. Finche', come nel caso rappresentato, il salario di equilibrio relativo al (libero) mercato illegale risulta piu' basso di quello, fissato per legge, vigente nel mercato legale, tutta la domanda di lavoro tende a essere saturata dall'offerta illegale. I lavoratori nazionali e quelli stranieri in condizioni legali, se restano ancorati a condizioni di impiego legale, vengono tagliati fuori dal mercato. Come conseguenza, molti dei lavoratori in condizioni legali finiscono per fluire nel mercato illegale; la curva di offerta del mercato illegale si sposta verso destra, mentre quela del mercato legale si sposta verso sinistra. Il processo e' quindi instabile, e presto l'intero mercato e' dominato da condizioni di libero mercato.

I datori di lavoro vedono, nel confronto con le condizioni di partenza, aumentare la propria soddisfazione; cosi' pure, certamente, i lavoratori stranieri immigrati illegalmente. I lavoratori nazionali subiscono un notevole danno. La categoria degli immigrati regolari puo', nel suo complesso, ottenere un vantaggio o uno svantaggio, a seconda del dettaglio degli equilibri (imposti o liberi) che si realizzano in assenza o in presenza della componente illegale. Rispetto al caso di frontiere aperte originariamente considerato, pero', l'obiettivo di riequilibrare la situazione con trasferimenti compensativi da datori di lavoro a lavoratori nazionali non e' piu' facilmente perseguibile. L'effettiva situazione del mercato del lavoro sfugge infatti a qualunque controllo, e risulta impossibile determinare chi debba mettere a disposizione parte della soddisfazione supplementare guadagnata, e in che misura.

Vi sono tre modi principali per contrastare questa situazione (quando si voglia mantenere l'approccio protezionistico, s'intende!). Il primo e' quello, gia' citato (ma difficilmente praticabile), di utilizzare gli strumenti delle espulsioni e dei respingimenti. Corrisponde ad una compressione dell'offerta illegale, come mostrato in Fig.26, ed e' efficace a condizione che il salario di equilibrio del mercato illegale, preso separatamente, risulti piu' alto di quello minimo vigente nel mercato legale.

 

Il secondo modo e' quello di rendere meno appetibile per i datori di lavoro l'assunzione di lavoratori in condizioni illegali, con l'introduzione di pesanti sanzioni. La possibilita' di incorrere in sanzioni viene percepita dai datori di lavoro, guardati nel loro complesso, come un costo aggiuntivo distribuito su ciascun rapporto di lavoro. Questo, con un'opportuna scelta dell'entita' delle sanzioni e della frequenza dei controlli a campione, equivale a portare il costo del lavoro irregolare a valori piu' alti del costo del lavoro regolare, con un meccanismo in tutto analogo all'imposizione di una tassa. In Fig.27 e' rappresentato l'effetto dell'adozione di sanzioni sulla situazione rappresentata dalla Fig.25: la curva i corrisponde all'offerta di lavoro illegale come vista dai datori di lavoro. Si vede come, nell'esempio considerato, dal punto di vista dei datori di lavoro - in termini cioe' di salario lordo, rischio di sanzioni incluso - il salario di equilibrio del mercato illegale sia piu' alto di quello minimo del mercato legale. Si noti come l'effetto prima ottenuto (Fig.26) con uno spostamento verso sinistra della curva di offerta illegale (diminuzione del numero di immigrati illegali) sia ottenuto qui con uno spostamento verso l'alto della stessa curva (aumento del costo del lavoro). E' comunque da osservare come, affinche' si realizzi la situazione rappresentata in Fig.27, e' necessario che il costo equivalente del rischio di incorrere in sanzioni eguagli, come ordine di grandezza, il divario tra il salario minimo (imposto dalla legge) e il minimo salario tollerabile per l'immigrato illegale. Nei fatti questo corrisponde a sanzioni di entita' enormemente superiore a quelle usualmente adottate o proposte.

 

Il terzo modo per combattere le distorsioni introdotte dall'immigrazione illegale e' rappresentato dall'adozione di provvedimenti di sanatoria delle posizioni illegali. Offrendo all'immigrato irregolare la possibilita' di regolarizzare la propria condizione se ne incentiva l'emersione. Non e' esluso, naturalmente, che, una volta regolarizzato, il lavoratore stipuli rapporti di lavoro in condizioni illegali. Tuttavia, con l'ausilio di disposizioni che condizionino il rinnovo del permesso di soggiorno alla dimostrazione di svolgimento di attivita' lavorativa regolare, si fa in modo che l'immigrato abbia un preciso interesse a ottenere impieghi in condizioni legali. Inoltre, la regolarita' della posizione in relazione al soggiorno conferisce al lavoratore straniero una maggior forza contrattuale: in questo caso, e' il rischio che egli si avvalga delle forme di tutela, anche retroattiva, che le organizzazioni sindacali e l'ordinamento giuridico gli offrono a rappresentare, per il datore di lavoro, il principale elemento di dissuasione rispetto alla costituzione di rapporti di lavoro illegali.

Da quanto detto si riconosce come, quando non si sappia (o non si voglia) adottare provvedimenti dei primi due tipi (espulsioni o sanzioni contro il lavoro illegale), un provvedimento di sanatoria si rende necessario (per venire incontro alla sofferenza dei lavoratori nazionali) non appena il bacino di immigrazione illegale superi dimensioni tali da corrispondere a un salario "libero" di equilibrio inferiore a quello legale minimo. Questa condizione di soglia, che corrisponde a una quantita' massima di lavoro offerta sul mercato illegale pari a quella che sarebbe impigata legalmente in mancanza di immigrazione illegale, puo' pero' riguardare anche solo un settore particolare del mercato del lavoro, che comunichi scarsamente con gli altri settori, e puo' quindi verificarsi molto piu' facilmente che se dovesse riguardare il mercato nel suo complesso. Puo' succedere cioe' che l'espulsione dei lavoratori legali dal mercato ad opera di quelli illegali diventi effettiva, per un particolare settore (esempio: i servizi alla persona) per il quale il rapporto tra lavoratori illegali e lavoratori legali sia significativamente piu' alto che in altri settori, molto prima che la presenza illegale possa sconvolgere l'intero mercato; sara' allora la sofferenza dei lavoratori nazionali impegnati in quel settore e impossibilitati a trovare collocazioni alternative a rendere urgente il provvedimento di sanatoria.

 

IV.4 Minimo vitale e mezzi di sostentamento

La conclusione cui siamo pervenuti nel Capitolo II riguardo alla generale convenienza di una politica di immigrazione impostata sulle frontiere aperte e sui trasferimenti compensativi a vantaggio dei lavoratori nazionali puo' essere inficiata dall'approssimazione fatta nel trascurare alcuni elementi importanti nel calcolo della soddisfazione dei lavoratori. Una trattazione piu' accurata del problema deve tener conto del fatto che ciascun lavoratore deve garantire a se stesso almeno il pareggio nel bilancio quotidiano tra le risorse che ottiene dall'esterno e quelle consumate per vivere. Fanno parte delle entrate le risorse guadagnate con il lavoro, quelle eventualmente provenienti da sussidi pubblici e quelle ottenute mediante prestiti. Le uscite sono costituite dalla "spesa di riposo" (l'energia, cioe', consumata - sotto forma di alimentazione, riscaldamento, etc. - per il semplice fatto di vivere), dalla fatica fatta per lavorare, dagli eventuali interessi passivi - quelli, cioe', che devono essere pagati sulle risorse ottenute in prestito.

In Fig.28 e' considerato il caso del singolo individuo. Assumiamo che la sua offerta di lavoro sia, in partenza, diversa da zero anche per valori estremamente bassi del salario (trascuriamo cioe' il fatto che il lavoratore possa godere di protezione familiare o che nutra aspettative particolari, tali da trattenerlo dall'accettare occupazioni di basso livello). Ad un salario S0 corrisponde una quantita' di lavoro offerta pari a Q0. La soddisfazione - cosi' come misurata finora - e' data dalla differenza (area ABO) tra le risorse guadagnate dal lavoro (area ABCO, prodotto del valore del salario orario e del numero di ore effettuate) e la fatica (anche psicologica) compiuta per lavorare (area OBC).

Considerando unicamente queste due voci, il bilancio del lavoratore risulta in attivo, quale che sia il valore del salario e quello della corrispondente quantita' di lavoro effettuata. In realta', tuttavia, parte dell'attivo ottenuto dal lavoratore e' consumata dal lavoratore per vivere (spesa di riposo) e per pagare gli interessi sui debiti contratti in precedenza. E' possibile individuare un valore di soglia del salario (Ss) tale che la soddisfazione che il lavoratore otterrebbe percependolo ed effettuando la quantita' di lavoro corrispondente (area OED) bilanci esattamente spesa di riposo e interessi sui debiti.

In Fig.29, oltre alla curva d'offerta complessiva, riportiamo la curva (AB) del salario di sopravvivenza, indicando con questa espressione il valore del salario per cui ciascun lavoratore raggiungerebbe il pareggio tra entrate e uscite. Se la domanda di lavoro e' sufficientemente grande, il punto di equilibrio tra domanda e offerta cade al di sopra del punto B e tutti i lavoratori ottengono dal lavoro risorse sufficienti a compensare pienamente la fatica compiuta e a coprire la spesa di riposo (e gli eventuali interessi sui debiti). E' opportuno notare come, mentre la soddisfazione guadagnata dal lavoro e' misurata dall'area OCD, la soddisfazione al netto della spesa di riposo e degli eventuali interessi sui debiti e' misurata dall'area ABCD.

Se invece la domanda e' modesta (Fig.30), il punto di equilibrio cade al di sotto del punto B e il valore del salario di equilibrio risulta superiore a quello di sopravvivenza solo per una parte dei lavoratori. Gli altri lavoratori, pur percependo lo stesso salario, non riescono a ottenere il pareggio tra entrate e uscite (o perche' piu' soggetti alla fatica, o perche' gravati da spese di riposo o interessi sui debiti piu' elevati).

Un individuo per il quale le uscite sopravanzino le entrate e' costretto a contrarre nuovi debiti per pareggiare il conto. Questo si tradurra', nell'intervallo di tempo successivo in un aggravio della voce "interessi passivi", e, se trascuriamo variazioni nel tempo dei tassi di interesse, dei salari, dei sussidi e della spesa di riposo, in una crescita esponenziale del debito contratto. Rapidamente la posizione del lavoratore "sotto soglia" diventa insostenibile.

Il lavoratore debole puo' sottrarsi a questa condizione uscendo dal sistema, cosa che puo' effettuare - schematizzando drasticamente - in tre modi: suicidandosi, dedicandosi ad attivita' malavitose, lasciando il paese. Se fosse possibile trascurare la drammaticita' di queste vie d'uscita (particolarmente delle prime due), il fenomeno non darebbe luogo a problemi particolari, giacche' ci si puo' rendere facilmente conto di come l'uscita dei lavoratori piu' deboli dal sistema abbia un effetto stabilizzante. La diminuzione di offerta corrispondente a tale uscita fa si', infatti, che il salario di equilibrio si innalzi. Parte dei lavoratori fino a quel momento sotto soglia diventano autosufficienti, mentre altri vedono ulteriormente aggravarsi la propria posizione e lasciano a loro volta il sistema. Il processo va avanti finche' non il salario di equilibrio non si alza a tal punto da garantire l'autosufficienza per tutti i lavoratori ancora presenti nel sistema.

Il carico di sofferenza associato alle modalita' di uscita dal sistema, tuttavia, impone che si adottino misure adeguate ad evitare che condizioni di questo genere si verifichino o si incancreniscano. Una soluzione consiste nell'adozione di una politica di sussidi pubblici. Si puo', per esempio, scegliere di fornire ai disoccupati un sussidio tale da compensare esattamente la spesa di riposo. Se il sussidio e' erogato fin dal momento in cui l'individuo cessa di essere a carico della famiglia d'origine, una misura del genere e' sufficiente a garantire il minimo vitale, giacche' il ricorso a prestiti cessa di essere necessario.

Una tale scelta altera la curva di offerta di ciascun lavoratore e, conseguentemente, quella complessiva. Ciascun individuo, infatti, non avra' alcun interesse a lavorare finche' il salario si mantiene al di sotto della soglia di sopravvivenza. Accettando di lavorare, uscirebbe infatti dalla condizione di disoccupazione, perdendo il diritto al sussidio, e, d'altra parte, l'attivo ottenuto dal bilancio dei guadagni da lavoro e della fatica compiuta per lavorare non sarebbe sufficiente a garantirgli la copertura della spesa di riposo. La nuova curva d'offerta complessiva e' cosi' data dalla spezzata FBH (Fig.31). A parita' di domanda, la quantita' di lavoro di equilibrio risulta piu' bassa di quella che si otterrebbe in assenza di sussidi, mentre il salario di equilibrio risulta piu' alto. In queste condizioni risultano occupati quei lavoratori che, con il salario di equilibrio, non hanno difficolta' a provvedere alla copertura delle proprie esigenze vitali; la copertura per i lavoratori disoccupati (area EOB) deve essere garantita dallo Stato, e, quindi, da un ricorso al prelievo fiscale.

Il fatto che l'erogazione di sussidi ha comunque un costo notevole porta, in molte situazioni, a ritenere tollerabile l'eventualita' che i lavoratori deboli escano dal sistema lasciando il paese. E se questa soluzione puo' destare perplessita' quando si tratti di lavoratori nazionali, essa appare in genere assolutamente natrale quando la si applichi a lavoratori stranieri "sotto soglia", per i quali l'erogazione di sussidi difficilmente incontrerebbe il consenso dei ceti piu' deboli nella popolazione nazionale.

Una misura che viene spesso adottata nei confronti dei lavoratori stranieri, allo scopo di evitare che, trovandosi al di sotto della soglia di sopravvivenza, cadano nelle mani degli usurai o della criminalita' organizzata consiste nel pretendere, ai fini del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno, la dimostrazione, da parte dello straniero, della disponibilita' di un reddito non inferiore a quello tipicamente considerato necessario per la sopravvivenza. Un'ulteriore precauzione puo' tradursi nell'esigere, ai fini del rilascio del visto di ingresso, la dimostrazione del possesso di un titolo di viaggio di andata e ritorno, da utilizzare in caso di urgenza di rimpatrio. In tal modo si provvede all'allontanamento dei soggetti piu' deboli, prevenendo forme di uscita dal sistema piu' drammatiche.

E' evidente come, in periodi in cui la domanda di lavoro risulti pericolosamente contenuta, una politica di completa apertura delle frontiere (priva, cioe', di misure correttive quali quelle qui menzionate, e tale da fornire un'offerta complessiva di lavoro eccessivamente ampia) rischi di dar luogo a situazioni di pericolosa marginalita'. Il rischio e' assente quando la domanda sia tale da garantire salari di equilibrio cosi' elevati da situarsi al di sopra dei valori di sopravvivenza.

E' anche evidente, pero', come niente assicuri che i lavoratori stranieri allontanati dal sistema pervengano a condizioni qualitativamente migliori di quelle la cui costituzione, con l'allontanamento, si e' prevenuta. Anche l'erogazione di contributi per un rimpatrio agevolato (simile all'erogazione di sussidi, ma meno impegnativa e duratura di quella) puo' risultare discutibile, per gli effetti distorsivi sul mercato del lavoro del paese d'origine del lavoratore. Quale che sia il tentativo di mitigare le difficolta' in cui il lavoratore allontanato si verra' a trovare, il dato essenziale rimane quello della sostanziale differenza tra la condizione del lavoratore nazionale e quella del lavoratore straniero: mentre il primo e' di diritto incluso nel sistema, il secondo - come puo' essere respinto - puo' essere allontanato. Rimane, cioe', radicalmente estraneo al sistema, e, come tale, il sistema puo' decidere di disinteressarsi della sua sorte, una volta che abbia provveduto a respingerlo o ad allontanarlo. Quando un sistema decide di farsi carico dello straniero anche a precindere dalla sua presenza sul territorio nazionale, di fatto lo sta includendo nel novero dei cittadini. La questione cessa, in quel caso, di riguardare la politica di immigrazione propriamente detta.

 

V. Le linee di tendenza in Europa e in Italia

V.1 L'Unione europea e i tre principi mutuamente incompatibili

Il Trattato di Amsterdam apporta rilevanti modifiche al Trattato della Comunita' europea e al Trattato dell'Unione europea. Alcune di queste presentano legami - diretti o indiretti - con il problema dell'immigrazione. In particolare, l'inserimento del capitolo su immigrazione e asilo nell'ambito del Trattato della Comunita' prelude alla costituzione (a valle di una fase transitoria di cinque anni) di processi decisionali capaci di vincolare le decisioni dei singoli Stati membri, non dissimilmente da quanto gia' oggi accade, a seguito della ratifica del Trattato di Mahastricht, nell'ambito delle scelte economiche.

E' possibile immaginare lo scenario che derivera' da questi mutamenti? Fino ad oggi, a livello europeo, l'immigrazione e' stata affrontata nel contesto delle politiche di sicurezza interna (il cosiddetto Terzo Pilastro, quello della giustizia e degli affari interni). L'approccio utilizzato e' stato quindi, ed e' tuttora, un approccio ispirato alle esigenze di tutela dell'ordine pubblico e della giustizia, piuttosto che alle esigenze dello sviluppo economico. Un segno evidente di questo modo di intendere la politica dell'immigrazione puo' facilmente essere riconosciuto nei contenuti della Risoluzione di Lussemburgo del Consiglio degli Affari interni e Giustizia del 20 Giugno 1994, che invita a restringere gli ingressi per lavoro a pochissime, irrilevanti categorie, escludendo in ogni caso che la manodopera immigrata possa porsi in concorrenza con quella comunitaria. La stessa Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sulle Politiche di Immigrazione e Asilo del 23 Febbraio 1994, che pure presenta una visione certamente piu' articolata del problema, finisce col cedere all'impostazione imperante. Il quadro che ne deriva sembra infatti riassumibile nel modo seguente: massima attenzione, anche in sede di autorizzazione degli ingressi, alla tutela di diritti fondamentali, quale il diritto di asilo; pieno sostegno all'integrazione degli immigrati regolari; individuazione di efficaci strumenti di lotta contro l'immigrazione irregolare. Viene cioe' accreditata la tesi secondo la quale l'immigrazione e' cosa ottima, ma limitatamente alla sua porzione regolare, l'immigrazione irregolare essendo invece qualcosa da cui e' fondamentale difendersi. Pochissimo sforzo viene pero' dedicato ai criteri da utilizzare per segnare lo spartiacque tra le due modalita' di immigrazione: nella Comunicazione, infatti, si afferma che, perdurando la crisi occupazionale in Europa, non e' ipotizzabile, sul breve periodo, l'ammissione di quote di lavoratori stranieri. In questo modo, si condanna in pratica il lavoratore straniero a percorrere vie di immigrazione illegale, trasformandolo ipso facto in presenza sgradita da respingere.

Volendo sintetizzare in una affermazione la posizione delle istituzioni europee si potrebbe dire che non vi e' stata alcuna politica dell'immigrazione (relativa cioe' al movimento migratorio), ma, al piu', una politica della condizione degli stranieri gia' presenti nel territorio dell'Unione. E' auspicabile che, nel momento in cui saranno chiamate ad assumere decisioni vincolanti sulle politiche degli Stati membri, quelle istituzioni siano in grado di affrontare il problema con maggior attenzione all'immigrazione per lavoro.

Una visione pessimistica in proposito trova pero' giustificazione in una analisi piu' generale del Progetto di Trattato di Amsterdam. I principi che vi sono contenuti (o almeno quelli di rilievo nell'ambito di questa discussione) sembrano infatti insufficienti, se non opportunamente reinterpretati, a determinare le scelte di politica dell'immigrazione. E' possibile riassumerli nel modo seguente:

a) deve essere promosso un elevato grado di sviluppo e di competitivita' economica;

b) deve essere garantito un elevato grado di protezione sociale;

c) deve essere combattuta la discriminazione tra persone, a qualunque livello si manifesti - in particolare, la discriminazione su base etnica.

Vogliamo mostrare come questi principi, che a prima vista possono sembrare capaci di indicare la via per uno sviluppo equilibrato e rispettoso dei valori della giustizia sociale, siano in realta', se applicati a un sistema nel quale possa esservi un flusso entrante di lavoratori stranieri, mutuamente incompatibili. Facciamo riferimento alla situazione considerata in Fig.13. Possiamo immaginare che, applicati in assenza di immigrazione, i principi appena enunciati conducano, passando attraverso fasi di crescita economica, ma anche attraverso fasi di conflitto sociale, ad una situazione - che immaginiamo rappresentata dall'equilibrio a frontiere chiuse in figura - in cui il salario di equilibrio sia tale da garantire la massima competitivita' economica compatibile con un sufficiente livello di protezione sociale. Intendiamo dire che il perseguire l'obiettivo di una adeguata protezione sociale fa crescere, col passar degli anni, l'inclinazione della curva dell'offerta di lavoro nazionale (i lavoratori sono sempre meno disposti a lavorare in condizioni che non assicurino loro una sufficiente sicurezza), facendo si' che il punto di equilibrio di un mercato libero sia di per se' idoneo a garantire elevati livelli minimi di benessere. In questo contesto, non si rende necessaria l'imposizione per legge di salari minimi (atti a salvaguardare i ceti piu' deboli dal rischio che la loro condizione si situi al di sotto dei livelli minimi tollerabili di sicurezza), ne' un'eccessiva imposizione fiscale (indispensabile laddove sia necessario operare ridistribuzioni del reddito atte a sanare situazioni di esclusione sociale). Risultano quindi drasticamente ridotti quegli interventi correttivi da parte dello Stato che, sebbene motivati da validissime esigenze di giustizia sociale, provocano indiscutibilmente un'allocazione meno efficiente delle risorse e, quindi, uno spreco delle possibilita' di sviluppo del sistema.

In una situazione di questo genere, per di piu', puo' essere - almeno in linea di principio - perseguito senza difficolta' l'obiettivo dell'eliminazione di ogni discriminazione. I lavoratori nazionali sono infatti protetti, a questo riguardo, da leggi e principi costituzionali che pongono tutti i cittadini sullo stesso piano, e non sembra facile individuare argomenti che giustifichino la corresponsione di un diverso compenso o l'erogazione di una diversa quantita' di servizi a cittadini che svolgano le medesime mansioni, abbiano le medesime esigenze e godano del medesimo diritto di soggiornare sul territorio nazionale.

In presenza, pero', di immigrazione, abbiamo osservato come il salario di equilibrio si abbassi, a fronte di una accresciuta quantita' di lavoro svolto e di una aumentata soddisfazione complessiva del sistema. L'abbassamento del salario di equilibrio puo' in linea di principio essere tale da far discendere la condizione di molti dei lavoratori al di sotto di quelli che sono ritenuti, nel sistema chiuso, i livelli minimi tollerabili.

Di fronte al contrasto tra l'esigenza di perseguire il massimo sviluppo economico e quella di garantire la sicurezza sociale dei cittadini sono possibili tre diverse strategie. La prima strategia consiste nell'accettare questa situazione. In condizioni estreme essa equivale a scegliere la linea di maggiore sviluppo economico, in un contesto non discriminatorio (i salari dei lavoratori nazionali si adeguano ai livelli salariali dei lavoratori stranieri). Cessa pero' di essere garantita la protezione sociale minima per i cittadini.

La seconda strategia consiste nell'introdurre meccanismi che impediscano l'immigrazione. Lo scenario a cui tende questa strategia e' ovviamente quello della situazione a frontiere chiuse. I livelli di sicurezza dei cittadini tornano ad essere adeguatamente difesi. Il principio di non discriminazione e' fatto salvo (almeno quando si guardi alla sola discriminazione interna ai confini del sistema). Lo sviluppo economico e' pero' certamente sacrificato (tutto l'incremento di soddisfazione associato alla variazione di equilibrio va perso, e con esso, in particolare, va perso l'incremento di soddisfazione nazionale).

L'altra strategia possibile consiste nel salvaguardare il massimo sviluppo economico, tutelando al contempo i livelli di sicurezza sociale dei cittadini. Si puo' vedere che questo obiettivo e' aggiungibile ricordando che la soddisfazione persa dai lavoratori nazionali e' completamente incamerata dai datori di lavoro. E' possibile quindi, come si e' detto, far si', con l'introduzione di meccanismi di trasferimento compensativo, che quanto e' stato tolto con l'apertura delle frontiere ai lavoratori nazionali sia restituito loro a spese dei datori di lavoro. Commentando la Fig.13, si e' fatto osservare come la condizione di questi ultimi continui comunque a risultare vantaggiosa, rispetto al vecchio equilibrio a frontiere chiuse, a causa del supplemento di soddisfazione (l'area BEC della Fig.13) ottenuto senza danno dei lavoratori nazionali. Dei tre principi di partenza questa volta ad avere la peggio e' il principio di non discriminazione, dal momento che del trasferimento compensativo vanno a beneficiare solo i lavoratori nazionali. I lavoratori stranieri, tuttavia, benche' discriminati, ottengono soddisfazione non minore che nel primo scenario e, addirittura, molto maggiore che nel secondo, che pure li vedeva formalmente non discriminati.

Quest'ultima considerazione mette in luce una sostanziale, seppure ovvia, differenza tra sistemi chiusi e sistemi aperti riguardo al problema della tutela dei livelli minimi di protezione sociale. In un sistema chiuso, infatti, una volta definiti i livelli minimi tollerabili, l'azione di lotta contro l'esclusione sociale e' univocamente definita: benche' il compito possa in pratica risultare arduo, si tratta semplicemente di portare le condizioni di tutti i cittadini al di sopra di quei livelli. In un sistema aperto, di fronte alla difficolta' - o, addirittura, all'impossibilita' - di garantire a tutti i presenti condizioni superiori ai livelli di soglia, si possono operare due scelte: escludere lo straniero, facendo prevalere un principio formale di non discriminazione intra moenia, ovvero accettarne la presenza, lasciando pero' che il suo inserimento avvenga a livelli inferiori alla soglia minima di protezione sociale, in nome del maggior vantaggio dello straniero stesso e del sistema nel suo complesso.

A dispetto dei maggiori vantaggi (o, almeno, della mancanza di svantaggi), per ciascuna delle categorie coinvolte, nell'ambito della terza strategia (frontiere aperte, massimo sviluppo e trasferimenti compensativi discriminatori), l'orientamento che fino ad oggi ha prevalso in ambito europeo corrisponde certamente alla seconda strategia (frontiere chiuse, assenza di discriminazione interna e sviluppo ridotto). In pratica, pero', quando i meccanismi di respingimento e di allontanamento dell'immigrazione indesiderata, che di questa linea sono parte integrante, non sortiscano gli effetti sperati da chi li invoca, essa puo' finire, per le ragioni indicate quando si e' trattato dell'immigrazione illegale, per somigliare maggiormente alla prima strategia esaminata (frontiere aperte, nessuna forma di trasferimento compensativo).

L'atteggiamento che ha informato la politica di cooperazione intergovernativa a livello dell'Unione non deve essere visto come il frutto della prevalenza dell'approccio restrittivo di pochi stati membri, quanto piuttosto come l'espressione di quello dominante in ciascun paese. Che le cose stiano cosi' puo' essere rilevato osservando l'uso strumentale che viene fatto, da parte dei singoli governi e, in generale, delle forze politiche dei vari paesi, del quadro di impegni derivanti dall'Accordo di Schengen. Vi e' infatti un tentativo continuo e generalizzato, di far apparire l'Accordo e la sua Convenzione di applicazione come quadro di riferimento per la definizione delle scelte in materia di immigrazione, a dispetto del fatto che essi vertono essenzialmente sul rafforzamento dei controlli alle frontiere finalizzati a garantire uno spazio interno sicuro di libera circolazione delle persone, non contenendo, viceversa, alcun vincolo applicabile a quelle scelte.

Sembra improbabile, allora, che una comunitarizzazione della politica dell'immigrazione, di cui il Trattato di Amsterdam pone le basi, possa tradursi nell'adozione di una diversa e piu' opportuna strategia (la terza, tra quelle descritte). Le scarse possibilita' che questo accada sono legate al prevalere di un quadro di principi comuni che consenta di superare le logiche finora dominanti. I principi esaminati in questo paragrafo possono costituire quel quadro, ma solo a condizione che si proceda ad una rivisitazione del concetto di discriminazione; che si passi cioe' da un principio di non discriminazione puramente formale ad uno di "discriminazione vantaggiosa", molto piu' ricco di sostanza.

 

V.2 Le forze politiche italiane

Il dibattito tra le forze politiche in Italia non si discosta in modo significativo - se non per poche eccezioni di rilievo - dalla tendenza generale fin qui descritta. Benche' in questi anni i toni di questo dibattito siano stati spesso molto aspri, tanto da far apparire la materia come una delle (poche) discriminanti tra centrodestra e centrosinistra, le posizioni dei diversi poli corrispondono in gran parte a modi differenti di esprimere la medesima sostanza. La destra, infatti, sottolinea l'esigenza di rendere piu' efficaci le norme sulle espulsioni degli immigrati irregolari, e di condizionare la possibilita' di ingresso regolare alla previa dimostrazione dell'esistenza di un rapporto di lavoro (senza, per altro, garantire alcun meccanismo che consenta l'effettiva instaurazione di tale rapporto). Questa posizione, che corrisponde esplicitamente, a tutti gli effetti, alla strategia di frontiere chiuse, e' poi resa piu' accettabile, ma allo stesso tempo ancor piu' esplicita, dall'affermazione dell'imperativo di cooperare, con aiuti in patria, al raggiungimento, da parte dei potenziali migranti, di migliori condizioni economiche.

La sinistra, per parte sua, preferisce fare della piena parificazione degli stranieri ai cittadini italiani in materia di diritti civili e politici la propria piattaforma. I toni usati sulle espulsioni sono apparentemente piu' sfumati, ma finiscono per convergere con quelli della destra quando si tratti dell'espulsione di particolari categorie di stranieri. Nel corso degli anni, pero' si e' assistito ad una sorta di oscillazione nella definizione di queste categorie "non meritevoli di protezione". Si e' cosi' passati dal sospendere il tradizionale garantismo nei soli casi di "stranieri che delinquono" al puntare il dito contro il sottoinsieme dei "clandestini che delinquono", probabilmente al solo scopo di allargare, col passo successivo (che e' stato puntualmente compiuto) all'intero novero dei "clandestini" tout court. In tal modo, si e' data tautologica soluzione al problema delle presenze non gradite, senza pero', neanche in questo caso, dedicare soverchia attenzione a quello dell'individuazione delle presenze gradite (vale a dire alla determinazione dei criteri per l'ingresso regolare). Anzi, avvalendosi della giustificazione che deriva dall'assegnare una elevata quota di diritti allo straniero regolare, si e' sposata teoricamente e praticamente - almeno fino al momento in cui questa nota viene scritta - la linea di ingressi per lavoro riservati a pochi "chiamati". Il quadro che corrisponde a queste scelte e', come per la destra, quello della strategia di frontiere chiuse e lotta contro la discriminazione interna.

Qualche eccezione puo' essere riscontrata nella posizione della sinistra estrema e in quella dei partiti di ispirazione cattolica. Tuttavia, forse perche' frutto acerbo delle rispettive impostazioni ideologiche, piuttosto che conseguenza di una riflessione approfondita, queste posizioni rischiano di coincidere con l'affermazione simultanea dei tre principi analizzati nel paragrafo precedente (e li' dimostrati mutuamente in contrasto), e di non prospettare alcuna via effettivamente percorribile.

In una situazione del genere, non stupisce che la strategia di frontiere aperte corrette da trasferimenti compensativi non possa neanche essere posta all'attenzione delle forze politiche e delle istituzioni preposte al governo dell'immigrazione, poco importando il fatto che risulti palesemente l'unica, tra quelle considerate, capace di causare aumento di soddisfazione per alcune categorie senza che questo vada a scapito di altre (a dimostrazione del fatto che le altre scelte non corrispondono certamente a punti di ottimalita' paretiana). La destra, infatti, insorgerebbe di fronte alla prospettiva di una politica che rinunci alla sua connotazione di politica di ordine e sicurezza; la sinistra di fronte all'affermazione della ammissibilita' di una discriminazione tra persone legittimate a vivere nello stesso territorio.

 

VI. Conclusioni

In questa nota abbiamo cercato di esaminare le diverse scelte di politica dell'immigrazione da un punto di vista esclusivamente macroeconomico. Richiamiamo di seguito i risultati principali di questa analisi.

L'ammissione nel mercato del lavoro di una offerta di lavoro straniera produce, in condizioni di libero mercato, un abbassamento dei salari. La categoria dei datori di lavoro e quella dei lavoratori stranieri ottengono, in queste circostanze, evidenti benefici. I lavoratori nazionali, al contrario, risultano danneggiati. Tuttavia, il vantaggio ottenuto dai datori di lavoro supera, in valore assoluto, il danno subito dai lavoratori nazionali. E' possibile quindi, a condizione di effettuare un trasferimento compensativo dai datori di lavoro ai lavoratori nazionali, raggiungere una situazione in cui tutte le categorie ottengono una soddisfazione non minore di quella ottenuta nel caso di frontiere chiuse. In particolare, l'incremento percentuale di soddisfazione puo' essere estremamente elevato per i lavoratori stranieri (per via della loro condizione di partenza assai precaria).

La condizione di frontiere chiuse, pur avendo agli occhi dei politici il grande merito di non turbare la categoria dei lavoratori nazionali e di non richiedere l'elaborazione di alcuna misura di aggiustamento, rappresenta quindi un evidente spreco di risorse.

Qualunque soluzione mirata a comprimere l'offerta di lavoro straniera che si ponga in posizione intermedia tra i due estremi - frontiere chiuse e frontiere aperte - corrisponde ad un analogo spreco, tanto maggiore quanto piu' accentuato e' il carattere protezionistico delle misure adottate (quanto piu', cioe', la soluzione si avvicina alla completa chiusura delle frontiere). Sebbene un simile spreco possa trovare in alcuni casi (come si dira' piu' sotto) giustificazione nelle correzioni di cui il modello qui considerato certamente necessita, in generale dovrebbe costituire uno dei principali elementi da considerare in fase di definizione delle misure di politica dell'immigrazione.

A dispetto di queste conclusioni, si assiste in Europa alla crescita di un consenso pressoche' unanime intorno all'adozione di linee protezionistiche. Paradossalmente, queste linee, che potrebbero essere giustificate dal punto di vista ristretto della categoria dei lavoratori nazionali (sia pure solo in assenza delle misure di trasferimento compensativo di cui si e' detto), trovano paladini anche nelle parti politiche che dovrebbero rappresentare gli interessi dei datori di lavoro e in quelle che dovrebbero, per tradizione, risultare piu' attente alle istanze dei cittadini stranieri. Le prime si lasciano sopraffare da superficiali richiami a una cultura nazionalistica e da irrazionali paure in relazione all'ordine pubblico. Le seconde tendono a privilegiare un principio di non discriminazione, che le induce a ritenere non accettabile la soluzione dei trasferimenti compensativi (evidentemente fondati sulla discriminazione tra lavoratori nazionali e stranieri).

Benche' queste due posizioni rischino - sia pure inconsapevolmente - di trovarsi alleate, difficilmente puo' essere disconosciuta la grande differenza qualitativa che tra esse intercorre. E, mentre di una chiusura fondata sul nazionalismo o sulla paura puo' facilmente essere pronosticato e auspicato un superamento che non ne lasci traccia (cosi' come e' avvenuto, nella storia italiana, delle chiusure tra le diverse realta' comunali), la ricerca di condizioni che tutelino l'uguaglianza tra tutti gli uomini merita ben altra considerazione.

L'aver evidenziato come, nel passaggio da frontiere chiuse a frontiere aperte, la soddisfazione di alcune categorie possa crescere senza che alcuna altra categoria ne abbia a soffrire, mostra che la prima di queste situazioni e' lontana dalla frontiera delle possibili utilita' e che l'apertura delle frontiere rappresenta un positivo movimento verso di essa. Invocare questo movimento non significa idealizzare quella frontiera: nessuno garantisce che un punto su di essa equivalga ad una situazione di giustizia e di benessere per tutti gli uomini. Anzi, la ricerca, lungo la frontiera, delle condizioni che garantiscano livelli sufficienti di giustizia e di benessere per tutti gli uomini dovrebbe essere l'obiettivo di ogni azione politica. Questa ricerca di una maggior giustizia e di un maggior benessere per tutti puo' e deve essere compiuta anche quando la frontiera delle possibili utilita' non sia stata ancora raggiunta. Non deve pero' impedire i movimenti, come quello descritto in questa nota, che ad essa avvicinino senza danno di alcuno; neanche quando tali movimenti accrescano le disparita' tra le condizioni dei diversi individui nella societa'.

La sofferenza delle persone e' sempre scandalosa. Ma occorre sempre tenere presente che ci sono due modi radicalmente diversi di dare risposta a questo scandalo: rimuovere la sofferenza, o rimuovere gli uomini che ne portano il carico! Un'applicazione del principio di non discriminazione troppo rigida o che punti a tutelare l'uguaglianza entro un orizzonte troppo ristretto (i presenti sul territorio nazionale) puo' tradursi - e in Europa si sta traducendo - nella seconda di queste soluzioni.

E' opportuno quindi diffidare delle massime del tipo "diritti di cittadinanza agli stranieri regolari, pugno di ferro con gli irregolari" e, in generale, di quelle politiche che prevedono percorsi di integrazione non accompagnati da una sostanziale stabilizzazione del soggiorno. Finche' lo straniero e' considerato straniero (cioe' allontanabile), e' probabilmente preferibile per lui un inserimento discriminato ma tollerato, rispetto ad un inserimento paritario che lo renda soggetto ingombrante e possibile oggetto di espulsione.

Certamente, comunque, e' preferibile l'inserimento discriminato al "non inserimento". E questa ovvia considerazione dovrebbe indurre una riflessione su quale sia il contesto in cui si misura la discriminazione: se sia prioritario, cioe', rimuovere le discriminazioni tra coloro che vivono nella nostra societa', o piuttosto ridurre le discriminazioni tra chi vive nella nostra societa' e chi vive fuori di essa.

Questa riflessione dovrebbe intrecciarsi strettamente con quelle in corso sulla riforma dello Stato sociale. Molte sono infatti le analogie tra il dualismo nazionali-stranieri qui considerato e il dualismo anziani-giovani, che e' alla base della necessita' di revisione del modo di concepire mercato del lavoro e protezione sociale. E, quale che sia lo specifico argomento considerato, l'obiettivo di una massimizzazione di soddisfazione del sistema complessivo corretta da trasferimenti compensativi potrebbe oppotunamente indirizzare la ridefinizione del ruolo statale di fronte al mercato e alla tutela sociale. Uno Stato attento a trasferire soddisfazione da chi ne ha in eccesso a chi ne ha perso, piu' di quanto non sia a bloccare chi non ne ha per niente, potrebbe essere il risultato non trascurabile di questa ridefinizione.

Non e' da trascurare poi come, evidentemente, una soluzione fondata sulla liberta' di attraversamento delle frontiere spazzi via definitivamente il problema delle espulsioni e dei respingimenti e il carico di sofferenza ad esso associato. E' pero' certamente vero che il modello qui presentato e' sovrasemplificato e necessita, in ogni caso, di correzioni. In primo luogo, si e' assunto che il lavoratore straniero possa liberamente entrare e uscire, in base alla propria convenienza, dal sistema, dando cosi' luogo ad una autoregolazione dei flussi. Questo, pero', potrebbe non risultare vero con riferimento alla fase di uscita. Lo straniero che non riesca a percepire un salario tale da garantirgli il minimo vitale potrebbe infatti trovarsi in condizioni di eccessiva debolezza economica per far ritorno nel proprio paese e potrebbe rischiare di finire preda di usurai o recluta di organizzazioni criminali. Il rimpatrio (eventualmente incentivato) di quanti non riescano a dimostrare la disponibilita' di mezzi di sostentamento sufficienti (da fonte lecita) o un preventivo controllo, in fase di ingresso, sulla effettiva disponibilita' dei mezzi necessari allo stesso rimpatrio potrebbero quindi costituire un opportuno correttivo a un quadro di completa liberalizzazione.

Una seconda e piu' rilevante correzione, concerne il rischio che accanto agli aspetti salariali diventino oggetto di libera contrattazione anche i livelli di sicurezza fisica e di tutela della salute del lavoratore. E' necessario chiarire che questi aspetti afferiscono alla sfera dei beni indisponibili alla contrattazione tra le parti. Il salario puo' cioe' compensare il lavoratore della fatica compiuta - indicando con questo termine l'effetto negativo ma reversibile del lavoro -, e in questo senso non puo' che essere lasciata al lavoratore stesso la valutazione di quale sia un livello retributivo conveniente. Gli effetti irreversibili invece - quelli che mettono a repentaglio, cioe', la salute o la vita del lavoratore, lo sviluppo equilibrato dei minori, etc. - non possono essere oggetto di commercio da parte di alcuno.

Una terza correzione ha a che fare con la necessita' di temperare il quadro presentato in questa nota allo scopo di evitare che esso corrisponda alla formazione, nella societa', di una casta subalterna - quella dei lavoratori stranieri e dei loro familiari. E' quindi richiesto un meccanismo che tenda, per il singolo individuo, ad annullare il livello di discriminazione con il passare del tempo. Si tratta cioe' di limitare alla fase di inserimento nel mercato del lavoro l'applicazione del modello presentato, prevedendo, per il percorso successivo, una progressione di diritti che riporti il cittadino straniero al livello di tutela del cittadino nazionale. Questo, naturalmente, ha un costo che, ove non sia pienamente compensato dal beneficio economico che la presenza dell'immigrato reca al sistema, puo' - in linea di principio - motivare un parziale ridimensionamento della completa apertura delle frontiere.

Un'ultima considerazione deve essere infine dedicata a quello che di solito viene visto come un accettabile bilanciamento di una politica di frontiere chiuse: la politica di investimenti a sostegno dello sviluppo nei paesi d'origine dei flussi migratori. Si e' gia' fatto osservare come l'investimento e, quindi, il trasferimento di attivita' produttive nei paesi in via di sviluppo possa facilmente essere visto come un ingresso di lavoratori stranieri nel mercato del lavoro, la principale differenza rispetto alla condizione di frontiere aperte risiedendo nel fatto che in un caso l'ingresso si ha per un movimento della produzione, nell'altro per un movimento dei lavoratori. Per il resto gli effetti sono sovrapponibili: aumento dei livelli di produzione; vantaggio per i datori di lavoro e per i lavoratori stranieri; svantaggio per i lavoratori nazionali, che, in qualche modo, devono essere compensati con una politica fiscale che sottragga parte dei maggiori proventi dei datori di lavoro e li restituisca agli stessi lavoratori nazionali. Rispetto alla politica di frontiere chiuse e investimenti, quella di libera immigrazione ha pero' il pregio di non limitarsi ad una pura dichiarazione di intenti (i processi produttivi hanno bisogno di qualcuno che li esporti, i lavoratori si muovono da soli) e di disfarsi - come accennato - di ogni aspetto, costoso e penoso, di politica repressiva; inoltre, essa consente - molto piu' dell'altra - di controllare effettivamente se i "beni indisponibili" (vita e salute del lavoratore, equilibrato sviluppo del minore, etc.) siano effettivamente tutelati nel mercato del lavoro.

 

Appendice. Il quadro legislativo in Italia

Il quadro delle norme sull'immigrazione in vigore in questi anni in Italia, dell'attuazione che ad esse e' stata data in questi anni e delle principali proposte discusse di recente in Parlamento offre una esemplificazione di molte delle situazioni considerate, sul piano teorico, nei Capitoli III e IV.

 

A.1 La legge 943

La prima legge di rilievo sull'immigrazione e' la legge 943 del 1986. Concerne quasi esclusivamente l'immigrazione per lavoro subordinato. In essa vengono definiti i criteri per l'accesso al mercato del lavoro da parte dei lavoratori stranieri. In particolare, la legge istituisce liste di collocamento speciali, nelle quali possano iscriversi, in primo luogo, gli stranieri presenti sul territorio italiano; in secondo luogo, quelli ancora residenti all'estero. In questo senso, tali liste dovrebbero funzionare come vere e proprie liste di prenotazione per chi aspiri a migrare in Italia.

Dalle liste i datori di lavoro possono attingere, con chiamata numerica o nominativa (nei casi in cui questa e' consentita anche per i lavoratori italiani), a condizione che sia stata accertata, per un mese, l'indisponibilita' di disoccupati italiani con la stessa qualifica richiesta. In questo caso lo straniero ottiene l'autorizzazione al lavoro e, se residente all'estero, puo' fare ingresso regolare in Italia.

L'autorizzazione ha durata di due anni e riguarda solo le mansioni per cui e' stata chiesta l'assunzione. Successivamente, il lavoratore straniero che rimanga disoccupato puo' iscriversi nelle liste ordinarie di collocamento e accedere a qualunque attivita' lavorativa per la quale possegga la qualifica.

La legge 943 stabilisce anche che il lavoratore straniero regolarmente occupato ha diritto a ricongiungersi con i familiari piu' stretti (coniuge, figli minorenni e genitori a carico), a condizione di poter assicurare loro normali condizioni di vita. Il coniuge e i figli possono, trascorso un anno dall'ingresso in Italia, iscriversi anch'essi nelle liste speciali di collocamento. Il ricongiungimento familiare diventa cosi', nei fatti, un ulteriore canale di accesso al mercato del lavoro.

Una certa attenzione e' dedicata dalla legge alle sanzioni penali contro il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e lo sfruttamento del lavoro nero (e' prevista la reclusione fino a cinque anni e la multa, per ogni lavoratore straniero reclutato, fino a dieci milioni), e a quelle amministrative contro l'impiego di lavoratori stranieri privi di autorizzazione (ammenda fino a due milioni e, nei casi piu' gravi, reclusione fino a un anno).

Con un provvedimento di sanatoria, infine, si consente l'emersione delle situazioni lavorative irregolari presenti al momento dell'entrata in vigore della legge.

Il limite piu' evidente della legge 943 e' rappresentato, sul piano teorico, dal non consentire, per i lavoratori residenti all'estero, il preventivo incontro diretto tra datore di lavoro e lavoratore, necessario alla costituzione del rapporto di lavoro, soprattutto in relazione a quelle mansioni - quali i sevizi alla persona - che maggiormente assorbono manodopera straniera in Italia. Il lavoratore dovrebbe cioe' aspettare all'estero una chiamata che difficilmente potra' essere effettuata da un datore di lavoro che non ha avuto modo di incontrare e conoscere il lavoratore stesso.

Non meno grave risulta pero', nei fatti, l'aver solo previsto la possibilita' di inserire nelle liste speciali le domande dei lavoratori residenti all'estero che aspirino a migrare in Italia, senza pero' rendere obbligatorio per la pubblica amministrazione il censimento di tali domande. In conseguenza dell'assenza di questo vincolo, le liste speciali non hanno mai svolto la loro funzione di liste di prenotazione. In mancanza di liste di prenotazione, poi, l'alternativa della chiamata numerica di lavoratori residenti all'estero e' risultata del tutto preclusa, lasciando come unica chance di ingresso per lavoro la chiamata nominativa.

E' immediato riconoscere come la combinazione di questi due elementi (il richiedere una chiamata nominativa e l'impedire che si stabilisca quel contatto che tale chiamata rende possibile) costituisce il principale ostacolo a che la domanda di lavoro entri in contatto con un'offerta che formalmente non risulta compressa da vincoli numerici (la legge 943 non prevede infatti alcuna determinazione di limiti sul numero di ingressi).

 

A.2 La legge Martelli

Novita' importanti sono introdotte nel quadro legislativo dall'entrata in vigore della legge 39 del 1990 (nota come legge Martelli), che pure lascia in vigore la legge 943. Quelle rilevanti ai fini della nostra trattazione sono rappresentate, oltre che da una seconda sanatoria (piu' generale della prima), dalle norme relative alla programmazione annuale dei flussi: il Governo stabilisce, entro la fine dell'anno, le modalita' di ammissione di lavoratori stranieri in Italia per l'anno successivo. Nel farlo, il Governo deve tener conto delle esigenze dell'economia e delle capacita' di accoglienza del Paese. Deve tener conto, pero', anche del numero di domande di permesso di soggiorno per lavoro avanzate da cittadini stranieri presenti in Italia ad altro titolo (ad esempio, per turismo).

Quest'ultima disposizione implica, evidentemente, che, in presenza di domande di questo genere avanzate da stranieri che abbiano reperito sul posto una possibile occupazione, convenga accoglierle, piuttosto che autorizzare l'ingresso dall'estero di altri lavoratori che vadano a colmare quella domanda di lavoro. Si riconosce cioe' come, soprattutto in quelle situazioni in cui una efficace programmazione sia ostacolata dalla difficolta' di censire una domanda di lavoro capillarmente diffusa, debba essere guardato con favore il processo di autonoma ricerca del lavoro da parte degli immigrati, anche quando questo si sviluppi nell'ambito di un soggiorno - come quello per turismo - che di per se' non abilita al lavoro.

La legge 39 prevede anche, ma in modo troppo superficiale, che possano essere autorizzati ingressi per soggiorni piu' limitati nel tempo, finalizzati allo svolgimento di lavori che abbiano carattere stagionale (quelli di raccolta nell'agricoltura, ad esempio, o nel campo turistico-alberghiero). Questa previsione, tuttavia non e' accompagnata da una normativa precisa che chiarisca le modalita' di ammissione di tali flussi stagionali, ne' i diritti o gli obblighi connessi con questa condizione di soggiorno. Nulla impedisce, tuttavia, che, almeno per quanto concerne gli aspetti di piu' immediata rilevanza pratica, queste lacune siano colmate dai decreti annuali di programmazione.

Quanto alla necessita' di dimostrare la disponibilita' di mezzi di sostentamento, essa e' prevista solo ai fini del primo rinnovo del permesso di soggiorno. L'ammontare minimo delle risorse - di provenienza lecita qualsiasi - e' fissato pari all'importo della pensione sociale.

La parte repressiva della legge presenta un'indubbia ispirazione garantista. Salvo che sia adottata per gravi motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato o in seguito alla commissione di gravi reati o per irregolarita' recidiva, l'espulsione consiste nell'intimazione a lasciare l'Italia entro quindici giorni. Nel medesimo tempo lo straniero colpito dal provvedimento puo' presentare ricorso al Tribunale amministrativo regionale. Quando il ricorso sia accompagnato da domanda incidentale di sospensione, il provvedimento di espulsione e' automaticamente sospeso fino alla decisione definitiva (possibilmente, quindi, da parte del Consiglio di Stato) su tale domanda.

Uno strumento perfino piu' efficace nel privare di effettivita' i provvedimenti di espulsione e' stato rapidamente individuato dagli interessati nella distruzione (o, piu' semplicemente, nell'occultamento) dei documenti di identita', senza i quali il rimpatrio dello straniero presenta difficolta' praticamente insormontabili per l'amministrazione. Il tentativo di introdurre, con il Decreto Conso (convertito in legge nel 1993), specifiche sanzioni che colpiscano questo comportamento e' stato bocciato dalla Corte costituzionale, che ha sottolineato la sostanziale impossibilita' di distinguere, ai fini dell'applicazione di sanzioni, il comportamento penalmente rilevante da un effettivo - e incolpevole - smarrimento dei documenti.

Quanto alle misure contro l'impiego di manodopera in condizioni illegali, infine, la legge Martelli stabilisce che siano triplicate le sanzioni gia' previste dalla legge 264 del 1949 (modificata dalla legge 56 del 1987), portandone cosi' il massimo a un'ammenda di nove milioni, a carico del datore di lavoro, per ogni lavoratore impiegato in violazione delle norme sul collocamento.

Per i primi anni di applicazione della legge (fino, cioe', al 1994), i decreti di programmazione dei flussi non hanno posto alcun tetto al numero di ingressi per lavoro. Hanno pero' limitato la possibilita' di accesso ai lavoratori chiamati nominativamente ai sensi della legge 943 per i quali, pero', il datore di lavoro assicurasse anche l'alloggio. Per contro, si e' stabilito, con circolare, di prescindere dall'accertamento di indisponibilita' nel caso di assunzioni di collaboratori familiari. Tali scelte equivalgono a lasciare sostanzialmente immutato il contesto normativo e applicativo preesistente. Unica eccezione e' rappresentata dal decreto per l'anno 1993, nel quale si stabilisce che possano accedere a posizioni lavorative gli stranieri originariamente accolti come profughi dalla Jugoslavia e dalla Somalia. Questa eccezione assume un particolare rilievo, anche al di la' della sua portata pratica, perche' dimostra come l'Esecutivo abbia colto, senza incontrare censure da parte del Parlamento, la sostanziale assenza di vincoli che la Legge garantisce all'azione di programmazione degli accessi al mercato del lavoro; non puo' quindi che suscitare un piu' grande rammarico la constatazione dello scarsissimo uso fatto, negli anni, di questa liberta' di azione.

La mancanza di liste di prenotazione e la formale impossibilita' di incontro preventivo tra domanda e offerta di lavoro lasciano ai lavoratori stranieri un unico canale effettivo di immigrazione: l'ingresso per turismo (o, nei casi in cui questo sia impedito da una rigida politica dei visti, l'ingresso clandestino) e la ricerca diretta di un lavoro - irregolare, per definizione - sul posto. Da queste condizioni sommerse e' possibile emergere solo nei casi in cui un datore di lavoro particolarmente scrupoloso voglia avviare la pratica della chiamata nominativa, fingendo che lo straniero si trovi ancora nel proprio paese, ovvero in occasione di sanatorie, come quella disposta dal Decreto Dini nel 1995. Il primo meccanismo ha portato al rilascio, nei primi cinque anni di applicazione della legge, di circa ventimila permessi di soggiorno per anno; il secondo ha regolarizzato circa duecentoquarantamila posizioni di stranieri gia' in qualche misura inseriti nel mercato del lavoro.

Con i decreti degli ultimi anni e' stata introdotta una limitazione numerica sugli ingressi per lavoro, di carattere, per altro, eminentemente formale. I numeri fissati sono stati fatti coincidere, sostanzialmente, con quelli delle chiamate nominative registrate, in media, negli anni precedenti. La fissazione di quote ha quindi perturbato assai poco il canale di accesso al lavoro regolare, lasciandone a tutti gli effetti il controllo alla volonta' dei datori di lavoro.

La situazione di complessiva conservazione del quadro gia' offerto dalla legge 943 e' stata rafforzata dal fallimento di tutti i tentativi di apportare correzioni alla disciplina delle espulsioni: con l'eccezione del citato decreto Conso (mutilato poi, come si e' detto, dalla Corte costituzionale), nessuno dei decreti-legge emanati in proposito dal 1992 ad oggi e' stato convertito in legge dal Parlamento.

 

A.3 La legge 40

La necessita' di dare sistemazione legislativa alla condizione giuridica dello straniero - come imposto dalla Costituzione - e, piu' superficialmente, la constatazione delle evidenti lacune della politica dell'immigrazione in Italia hanno indotto il governo Prodi a presentare, nel Febbraio 1997, un disegno di legge di riforma complessiva della materia, poi approvato (con alcune modifiche di rilievo) come legge n. 40/1998. Riguardo alle problematiche qui affrontate, la versione originaria del disegno di legge presenta novita' assai modeste. La disciplina dell'accesso al lavoro prevede che il Governo programmi annualmente quote massime di ingresso. Il lavoratore residente all'estero e' chiamato nominativamente dal datore di lavoro. Qualora siano state istituite liste di prenotazione (non obbligatorie), perche' cosi' stabilito da accordi bilaterali (anch'essi, ovviamente, non obbligatori), si puo' procedere anche alla chiamata numerica. Una differenza rispetto alla normativa dettata dalla legge 943 consiste comunque nel fatto che si prescinde dall'accertamento di indisponibilita' di manodopera nazionale, e che non e' preclusa al lavoratore, successivamente all'ingresso, la stipulazione di contratti di lavoro per mansioni diverse da quella per cui e' stato originariamente autorizzato.

Similmente e' disciplinato l'ingresso per lo svolgimento di lavori con carattere stagionale. Il lavoratore ottiene un permesso di durata piu' limitata di quello ordinario (tipicamente sei mesi, anziche' due anni), che puo' convertire, a partire dalla seconda stagione di lavoro, in permesso di lunga durata in caso di assunzione a tempo indeterminato. Il titolare del permesso gode anche, a condizione di lasciare l'Italia nei termini previsti, di un incerto diritto di precedenza rispetto ai connazionali per l'ingresso nell'anno successivo.

Una forma di ingresso per ricerca di lavoro sul posto e' comunque contemplata dal disegno di legge: sono ammessi in Italia, infatti, anche quei lavoratori per i quali un privato o un'associazione siano disposti garantire la copertura delle spese per il sostentamento e per le prestazioni sanitarie.

La dimostrazione di disponibilita' di mezzi di sostentamento sufficienti al sostentamento proprio e dei fmiliari a carico e' prevista, senza una piu' precisa quantificazione dell'ammontare minimo delle risorse richieste, sia ai fini dell'ingresso nel territorio dello Stato, sia ai fini del rinnovo e, comunque, del mantenimento del permesso di soggiorno.

La disciplina delle espulsioni e' resa certamente piu' severa dall'istituzione di centri di custodia nei quali lo straniero da espellere possa essere trattenuto (ma per non piu' di trenta giorni) in caso di impossibilita' di procedere al suo allontanamento nei termini ordinari (ad esempio, per la mancanza di documenti). Resta la possibilita' per lo straniero di ricorrere - davanti al pretore, in questo caso - contro il provvedimento di espulsione. In un novero piuttosto ampio di casi, tuttavia, in luogo della semplice intimazione a lasciare il Paese entro quindici giorni, puo' essere disposto l'accompagnamento immediato alla frontiera. In questi casi, il ricorso puo' essere formalmente presentato dall'estero. Anche nei casi in cui e' consentito il ricorso sul posto, comunque, e' previsto che la decisione del pretore sia adottata in tempi brevi - tali, cioe', da non ritardare l'allontanamento dello straniero qualora il ricorso stesso sia respinto.

La precisa delimitazione della durata del provvedimento di custodia sembra comunque funzionare da incentivo, soprattutto in presenza delle restrizioni altrimenti introdotte, per la distruzione o l'occultamento dei documenti, che restano l'ostacolo piu' rilevante al raggiungimento di una significativa efficacia nell'esecuzione delle espulsioni. Al fine di rimuovere, per quanto possibile, questo ostacolo, il disegno di legge stabilisce che possano essere stipulati accordi bilaterali con i principali paesi di emigrazione verso l'Italia finalizzati alla riammissione degli stranieri espulsi dal nostro paese.

Sono previste pene pesantissime per il favoreggiamento dell'ingresso clandestino. Non e' previsto invece alcun inasprimento delle sanzioni contro l'impiego di manodopera in condizioni illegali; di fatto, anzi, la sanzione prevista per chi impieghi lavoratori privi di valido permesso di soggiorno risulta ridotta (il massimo e' di sei milioni per lavoratore impiegato) rispetto a quella prevista dalla legge Martelli.

Una sostanziale equiparazione tra cittadino straniero e cittadino italiano e' infine stabilita per quanto riguarda il godimento dei diritti in materia di tutela sanitaria e sociale. Laddove siano in gioco diritti fondamentali della persona (come nel caso delle cure mediche urgenti o comunque essenziali o della condizione dei minori) l'equiparazione e' estesa anche agli stranieri in posizione irregolare.

Accanto al disegno di legge del Governo, vengono depositate in Parlamento, nello stesso periodo, altre proposte di legge sull'immigrazione, che, pur non ricevendo sufficiente attenzione in fase di dibattito parlamentare, ispirano certamente molti degli emendamenti presentati in relazione al disegno di legge. Tra queste, le principali - per il loro carattere di proposte organiche - appaiono essere la proposta dell'On. Masi e la proposta di cui prima firmataria e' l'On. Jervolino.

La proposta di legge Masi differisce dal disegno di legge del Governo sotto diversi aspetti. Tra questi meritano attenzione la previsione di liste di prenotazione obbligatorie tenute dalle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane e la possibilita' di ingresso, oltre a quelle gia' contemplate, per ricerca di lavoro (sulla base di semplice richiesta di visto, nell'ambito dei limiti numerici stabiliti dalla programmazione governativa e in corrispondenza alle particolari mansioni ivi indicate); il lavoratore che entra in cerca di lavoro ha diritto ad un permesso di soggiorno della durata di sei mesi.

Per il primo anno di soggiorno, i lavoratori ammessi in Italia (per ricerca di lavoro o previa chiamata di un datore di lavoro) possono instaurare solo rapporti di lavoro relativi alle mansioni per le quali sono stati originariamente autorizzati. Successivamente, tale vincolo e' rimosso.

Sono consentiti anche ingressi "fuori programmazione", condizionati pero' ad accertamento di indisponibilita' di manodopera nazionale (non richiesto nei casi ordinari).

Di rilievo anche le disposizioni sulle sanzioni contro l'impiego illegale di manodopera: sono previste una multa fino a trenta milioni di lire per lavoratore, in caso di impiego di straniero non autorizzato a lavorare, la reclusione fino a sei anni e la medesima multa per chi impieghi lavoratori stranieri in violazione delle norme sulle condizioni di lavoro. Quanto alle espulsioni, infine, e' stabilito che in caso di presentazione di ricorso si sospenda l'accompagnamento immediato alla frontiera e si dia luogo al provvedimento di custodia dello straniero.

Non si riscontrano invece differenze sostanziali rispetto al testo del Governo in relazione alla tutela dei diritti fondamentali e di quelli in materia civile. Lo stesso puo' dirsi, a questo proposito, della proposta Jervolino, che riprende in gran parte i suggerimenti presentati dalla Consulta per l'immigrazione istituita presso il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Gli elementi distintivi di questa proposta, rispetto alle problematiche qui considerate, vanno invece cercati in un approccio piu' aperto alla questione dell'accesso al mercato del lavoro e nella individuazione di una particolare soluzione del problema associato all'occultamento e alla distruzione dei documenti di identita'. Riguardo al primo di questi punti, la proposta Jervolino mantiene nella determinazione annuale da parte del Governo di una quota complessiva (o, a discrezione, di piu' quote differenziate per mansione) un residuo di protezionismo. Per il resto, il quadro che ne deriva e' quello di un sostanziale abbattimento di ogni altra barriera: i lavoratori possono entrare per cercare lavoro sulla base della semplice richiesta di visto, fino a completamento della quota stabilita, nell'ordine corrispondente alla data di iscrizione in liste obbligatorie; ottengono, una volta in Italia, un permesso di lunga durata (due anni); salvo che in casi particolari e per tempi comunque molto limitati, non e' prescritto l'accertamento di indisponibilita' di manodopera nazionale; il lavoratore straniero ammesso in Italia e' libero di instaurare qualunque rapporto di lavoro per il quale possegga i requisiti; il rinnovo del permesso e' condizionato alla dimostrazione della capacita' di provvedere in modo minimale al proprio sostentamento, anche sulla base di attivita' lavorativa svolta in condizioni illegali (della quale si richiede la semplice autocertificazione).

In caso di espulsione dello straniero in posizione irregolare, poi, e' stabilito che l'esame del ricorso verta, oltre che sulla legittimita' del provvedimento, anche sulla sua congruita' - con riguardo, in particolare, alle condizioni di inserimento effettivo nel tessuto sociale e lavorativo del Paese. Si prefigura, con questo riconoscimento degli inserimenti de facto, un primo passo verso una strategia di immigrazione a frontiere aperte.

L'accettabilita' sociale di questa posizione (resa problematica dalla crescente richiesta di sicurezza e di ordine pubblico) sembra garantita, nell'ambito della proposta Jervolino, da una piu' efficace gestione del problema dell'espulsione di stranieri privi di documenti. E' previsto infatti che il Governo concluda accordi bilaterali con altri paesi, finalizzati alla ammissione di stranieri che debbano essere espulsi dall'Italia, prescindendo dalla effettiva appartenenza di quegli stranieri al paese disposto ad accoglierli (non si tratta cioe' degli usuali accordi di riammissione, per i quali tale appartenenza e' condizione essenziale). Avvalendosi di tali accordi, lo Stato puo' allora porre lo straniero da espellere di fronte alla scelta tra una certificazione della propria identita' e della propria nazionalita', a fronte della quale e' previsto un ricorso che tuteli - come si e' detto - anche le condizioni di inserimento di fatto nella societa', e il mantenimento dell'incognito, in conseguenza del quale deve pero' optare per la destinazione in uno qualunque dei paesi di ammissione, che saranno comunque disposti ad accoglierlo. Il vantaggio rappresentato dalla prima alternativa indurrebbe, nei fatti, ogni straniero a manifestare la propria identita', riducendo drasticamente il ricorso a modalita' di allontanamento che possono certamente apparire discutibili.

Tra gli elementi delle due proposte di iniziativa parlamentare qui considerate che trovano accoglienza nella revisione del testo governativo operato dalla Camera dei deputati, il piu' rilevante e' certamente quello dell'ingresso per ricerca di lavoro. E' approvato infatti un emendamento che modifica la disciplina dell'ingresso in seguito a prestazione di garanzia (la cosiddetta sponsorizzazione) da parte di privato o associazione, stabilendo che, fissata dal Governo una quota da ammettere in Italia per favorire l'incontro diretto tra domanda e offerta di lavoro, si consenta l'ingresso a fronte di sponsorizzazione per i primi due mesi successivi all'emanazione dei decreti di programmazione, e si lascino entrare successivamente i lavoratori iscritti in liste di prenotazione (con graduatoria basata sull'anzianita' di iscrizione), sulla base di semplice richiesta di visto, fino a completamento della quota. A tali ingressi, come pure a quelli coperti da sponsorizzazione, corrisponde il rilascio di un permesso di soggiorno della durata di un anno (una media geometrica tra le previsioni della proposta Masi e della proposta Jervolino). L'adozione di una disposizione di questo genere, se non viziata dall'imposizione (in sede di definizione dei decreti di programmazione) di ulteriori condizioni capaci di vanificarla (ad esempio, la previa conclusione di accordi bilaterali con i paesi di provenienza o il soddisfacimento di stringenti requisiti in relazione alla capacita' di autosostentamento del migrante), puo' segnare un'inversione di tendenza rispetto all'acritico adattamento alle linee europee finora praticato.

Un altro elemento di rilievo - la previsione di un ricorso contro l'espulsione che tenga nel dovuto conto le condizioni di radicamento sociale dello straniero - e' oggetto di un ordine del giorno, fatto proprio dal Relatore e accolto dal Governo durante il dibattito in Senato, che raccomanda l'adozione di disposizioni correttive in tal senso nell'ambito della delega legislativa prevista dallo stesso testo in esame. Questo punto e' anche recepito, in misura ridotta, in relazione all'adozione, o meno, di modalita' di accompagnamento immediato dell'espulso alla frontiera.