Si e' da poco conclusa la prima fase del processo di regolarizzazione del bacino di immigrazione clandestina presente in Italia. Le istanze di regolarizzazione presentate ammontano a un numero compreso tra trecento e quattrocentomila, coerentemente con le previsioni effettuate sulla base dei dati forniti dalle associazioni impegnate a servizio degli stranieri. Il governo D'Alema si e' mosso con grande intelligenza, fino a questo momento, grazie soprattutto al ruolo giocato dalla Jervolino, curando cosi' molte delle ferite aperte dalla pessima gestione Prodi-Napolitano. C'e' pero' il rischio che, in ossequio alla pochezza politica di qualcuno dei rospi e delle lepri marzoline che ne assicurano la maggioranza parlamentare, l'Esecutivo si fermi a meta' del guado e ricada nell'atteggiamento insipiente e timoroso che ha caratterizzato la gestione dell'immigrazione negli ultimi dieci anni. Proviamo a indicare i tre passi necessari perche' questo non accada.

Primo: completare la regolarizzazione. Il Governo ha dato assicurazione riguardo al fatto che tutti coloro che, avendo presentato domanda, risulteranno in possesso dei requisiti previsti dal decreto-flussi del 16 Ottobre scorso otterranno il permesso di soggiorno. Non basta: i requisiti fissati da quel decreto erano frutto della logica punitiva che ha ispirato l'azione del governo Prodi, l'unico, dai tempi della seconda guerra mondiale, che sia riuscito a provocare la morte, per eccesso di zelo, di un centinaio di uomini, donne e bambini stranieri del tutto inoffensivi. E' necessario ora che quei requisiti siano rilassati, e che si guardi precipuamente alla volonta' degli immigrati che richiedono la regolarizzazione di inserirsi in un circuito di legalita' e di produttivita'. Non si puo' far dipendere, cioe', la regolarizzabilita' dello straniero da fattori dei quali lo stesso straniero non ha la minima responsabilita' (la volonta' di un datore di lavoro di far emergere un rapporto in nero, la disponibilita' di un proprietario di casa a denunciare un contratto d'affitto o a presentare una dichiarazione di ospitalita', quella di una associazione a certificare la pregressa erogazione di un servizio), ne' da fattori che, per definizione, lo straniero non puo' provare (il possesso di un reddito superiore a una certa soglia). Meno che mai si puo' immaginare di irrogare provvedimenti di espulsione per quei due o trecentomila immigrati che non saranno in grado di soddisfare i criteri stabiliti con cosi' scarso senso della realta' dalla formidabile accoppiata Napolitano-Treu.

Secondo: prevenire la formazione di una nuova sacca di clandestinita'. A questo scopo occorre una lettura seria delle modalita' con cui il fenomeno migratorio si e' sviluppato in questi anni. Un'applicazione ottusa della legge Martelli, pretendendo di ammettere in Italia solo quei lavoratori stranieri che fossero preventivamente chiamati, al buio, da un datore di lavoro, si e' tradotta in una sostanziale chiusura dei valichi di frontiera ufficiali. E non sembra che la lezione del passato sia stata sufficientemente digerita, se e' vero che il decreto-flussi di Ottobre, emanato a riforma gia' varata, contemplava quote privilegiate di ingressi con chiamata preventiva: tremila dall'Albania, millecinquecento dalla Tunisia, millecinquecento dal Marocco; col risultato di ottenere, nei fatti, l'ingresso di una ventina di albanesi, una dozzina di marocchini e sei tunisini!

A dispetto di questa chiusura formale, si sono registrati, negli ultimi dieci anni, flussi di immigrazione di circa centomila lavoratori per anno, costretti a percorrere vie illegali, costose e rischiose, ma capaci, una volta entrati in Italia, di inserirsi efficacemente in un mercato affamato di manodopera flessibile. La chiave di questo inserimento e' rappresentata dalla possibilita', che gli immigrati hanno conquistato de facto, di cercare occupazione sul posto. La nuova legge sull'immigrazione consente l'ammissione di immigrati per ricerca di lavoro (anche in assenza, cioe', di una preventiva chiamata), con selezione basata su semplici criteri di anzianita' di iscrizione in liste di prenotazione da tenersi nelle rappresentanze diplomatiche e consolari italiane. Si tratta ora di applicarla con coraggio. A meno di voler lasciare l'appalto dell'immigrazione agli scafisti.

Terzo: rieducare l'Europa. C'e' il rischio che l'intera Unione europea adotti norme sostanzialmente equivalenti a quelle che in Italia si sono rivelate fallimentari. Le proposte avanzate recentemente dalla Commissione europea sembrano dettate dalla parte piu' retrograda della burocrazia italiana: l'ingresso del lavoratore straniero in Europa sarebbe consentito solo in presenza di un solidissimo contratto di lavoro, autorizzato solo in caso di accertata indisponibilita' di manodopera; quasi impossibile sarebbe l'ingresso per lavoro autonomo (e in questa categoria rientrano i lavori saltuari e le prestazioni di servizi); difficilissima la conversione in permesso per lavoro di quello originariamente ottenuto per altri motivi.

Sono norme ispirate a un protezionismo che chiunque riconoscerebbe come deleterio se solo si avesse a che fare dell'importazione di auto o di computer. Nel caso dell'immigrazione, invece, paradossalmente, la chiusura delle frontiere viene scambiata per conseguenza ragionevole e necessaria del principio della piena integrazione dello straniero. Si afferma, cioe': "lo straniero deve godere esattamente degli stessi diritti del cittadino nazionale; dal momento che, disgraziatamente, non possiamo accogliere tutti, dobbiamo limitarci ad accettare solo coloro che ci e' possibile integrare e garantire pienamente; gli altri li definiamo clandestini e li espelliamo o li respingiamo alla frontiera". Cosi', in nome dell'intollerabilita' di qualunque forma di discriminazione tra cittadino nazionale e straniero regolare, si finisce per dare a quasi tutti gli stranieri la patente di clandestino e per rinviarli in paesi in cui vivranno una condizione incommensurabilmente peggiore di quella - discriminata - che avrebbero ottenuto qui. Non solo: in questo modo il costo del lavoro resta alto, e il posto di lavoro risulta troppo protetto per chi lo ha gia', troppo lontano per chi non lo ha. Tutto il sistema ne soffre. Solo gli slogan vetero-sindacali che inneggiano alla bellezza di un mondo ideale di uguali restano intatti a proteggere il sonno di chi non ha capito che un conto e' la giustizia sociale in un sistema chiuso, altro conto quella in un sistema aperto.

L'Italia ha sperimentato, in questi anni, quanto sia priva di senso una politica dell'immigrazione fondata sul protezionismo. Le successive sanatorie, sebbene criticate come e' sempre criticata qualunque forma di condono, hanno costituito il positivo riconoscimento ex post della positivita' della liberalizzazione degli ingressi: neanche le forze politiche piu' fieramente avverse all'immigrazione si sognerebbero, infatti, di valutare negativamente il ruolo che gli immigrati "sanati" giocano oggi nella nostra economia. Si tratta ora di giocare un ruolo protagonistico, in ambito europeo, perche' la prossima comunitarizzazione della politica dell'immigrazione non si traduca in una generale reiterazione di scelte irragionevoli. Il riconoscimento della importanza fondamentale dell'ingresso di immigrati per ricerca di lavoro non rappresenta certamente la meta di questo processo, ma puo' rappresentarne la prima - importantissima - tappa.