LEGISLAZIONE ITALIANA SULL'ASILO PROBLEMI E PROSPETTIVE

SEMINARIO ISMU ROMA 17 maggio, 1999

La recente normativa sull'immigrazione (l.40/1998, poi confluita nel Testo Unico di cui al D.L.vo n. 286/98) ha solo marginalmente inciso sulla questione dei rifugiati e, più in generale, dell'asilo politico, avendo il Governo deciso, prima di presentare in parlamento il disegno di legge relativo, di scindere la materia dell'immigrazione da quella dell'asilo politico, considerando evidentemente come la prima competa principalmente alla strategia socioeconomica e demografica dello Stato mentre la seconda attenga al campo dei diritti fondamentali dell'individuo. Una strategia di distinzione delle due materie che era stata esplicitamente sollecitata anche dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

Vero è che, mentre l'iter parlamentare del disegno di legge sull'immigrazione è stato relativamente rapido, lo stesso non può dirsi di quello sull'asilo, che una volta approvato dal Senato il 5 novembre scorso, è stato trasmesso alla Commissione Affari Costituzionali della Camera, dove è tuttora bloccato.

La nuova normativa sull'immigrazione contiene peraltro almeno due disposizioni che incidono direttamente sulla tematica dell'asilo e che, proprio nell'attuale contingenza della crisi umanitaria posta dall'afflusso di rifugiati dalla regione del Kosovo, rivestono una notevole importanza operativa. La prima è quella di cui all'art. 5.6 D.L.vo n. 286/98, ripresa dalla legge di ratifica ed esecuzione degli accordi di Schengen, che nel prevedere il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno nei confronti di stranieri che non soddisfino le condizioni di soggiorno applicabili nel territorio di una delle parti contraenti, consente l'applicazione di deroghe, in caso di sussistenza di "seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano" (e dunque il riferimento qui non può che andare al diritto d'asilo costituzionale di cui all'art. 10.3 e al principio consuetudinario di diritto internazionale al "non refoulement"). La seconda è quella contenuta nell'art. 20 del TU che consente al Governo (mediante DPCM) di varare misure straordinarie di accoglienza temporanea derogatorie alla legislazione ordinaria, in occasione di esodi di massa provocati da conflitti, disastri naturali o eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all'Unione Europea (sebbene nel testo di legge non se ne faccia riferimento, si presuppone che nel definire provvedimenti di tutela temporanea di richiedenti asilo nel caso di esodi di massa, l'Italia resti vincolata agli standard minimi previsti dalla risoluzione del comitato esecutivo dell'ACNUR n. 22/1981).

E' risaputo che l'Italia, così come non era fino a tempi recenti un paese di immigrazione, non era nemmeno un paese di asilo definitivo per i rifugiati. Dal 1945 al 1989 almeno 250.000 persone avevano chiesto asilo in Italia, ma di queste solo 11.000 risultavano risiedere nel nostro paese all'entrata in vigore della "legge Martelli", il cui art. 1, che riporta la rubrica "rifugiati", è l'unico ad essere rimasto in vigore in attesa dell'auspicata riforma del diritto d'asilo. Le altre persone avevano conosciuto l'Italia soltanto come paese di transito, in attesa della definitiva migrazione oltreoceano (Canada, Stati Uniti, Australia).

Questa collocazione dell'Italia come paese di transito di rifugiati o richiedenti asilo solo in parte si è andata modificandosi dopo l'entrata in vigore della "legge Martelli", nonostante l'avvenuta abolizione con la medesima della riserva geografica, che precedentemente limitava la possibilità di riconoscimento dello status alle persone di cittadinanza europea. Infatti, nonostante la forte esposizione del nostro paese ai flussi migratori provenienti dall'area meridionali ed orientali del bacino mediterraneo, il numero dei richiedenti lo status di rifugiato convenzionale in Italia si è mantenuto su livelli bassi, in taluni anni addirittura insignificanti (fino alla punta minima di 675 richieste nel corso del 1996 aumentate a 1.869 nel 1997 ed in ulteriore sensibile aumento nel 1998, quando ci si è avvicinati, alle 9.000 unità ). E' vero che queste cifre non tengono conto del numero dei richiedenti asilo accolti al di fuori dello protezione convenzionale, sulla base di provvedimenti " derogatori" alla legislazione ordinaria e che hanno obbedito, più che a logiche giuridiche spesso ad opinabili criteri di "discrezionalità politica" e di tutela dell'ordine pubblico", in quanto mirati a gruppi ben determinati e circoscritti di richiedenti asilo (albanesi, somali, ex-jugoslavi).

Questa limitata presenza di richiedenti lo status di rifugiati nel nostro Paese può ricondursi a mio avviso a due principali motivi: le più favorevoli condizioni normative, procedurali e di accoglienza e assistenza sociale di altri paesi europei e l'assenza in Italia di rilevanti comunità immigrate che finiscono per produrre un effetto di scoraggiamento alla permanenza dei richiedenti asilo. E' molto probabile tuttavia che questa situazione di ineguale ripartizione della popolazioni e di richiedenti asilo tra i paesi europei non sia destinata a perdurare, in ragione del combinato effetto della particolare esposizione geografica dell'Italia alle aree di crisi, dei Balcani e del Medio Oriente, così come dell'applicazione della Convenzione di Dublino, entrata in vigore nel settembre del 1997 e che definisce criteri univoci per la determinazione dell'unico Stato responsabile per l'esame dell'istanza di asilo (assumendo importanza in particolare quello nel quale il richiedente asilo ha fatto per primo ingresso, anche illegale).

Nel tentativo di spiegare le ragioni di questa inadeguatezza normativa e procedurale ma anche sociale e culturale del nostro paese rispetto alla questione dell'asilo, mi concentrerò su tre aspetti problematici:

a) La mancata attuazione del diritto costituzionale d'asilo.

b) L'incoerenza della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato agli standard e garanzie minime, in particolare per quanto concerne la fase di accesso alla medesima.

c) Le inadeguate ed insufficienti forme di accoglienza e assistenza sociale.

Per quanto concerne il primo punto, l'esperienza italiana dimostra la dimensione nettamente prevalente dei "rifugiati de facto" o "umanitari" rispetto a quella dei rifugiati convenzionali. Ciò a dimostrazione da un lato della inadeguatezza della definizione di rifugiato convenzionale a prendere in considerazione la natura dei nuovi flussi forzati di popolazioni determinati da situazioni di violenza generalizzata, ma soprattutto lo scivolamento degli Stati verso interpretazioni sempre più restrittive e personalistiche della Convenzione, per favorire forme di protezione alternativa di tipo temporanea che consentano di sottrarsi all'applicazione degli esigenti standard di tutela socio-economica dei rifugiati previsti dalla Convenzione (mentre la Convenzione di Ginevra enfatizza la scelta dell'assimilazione dei rifugiati nel paese di arrivo quale soluzione definitiva al problema dei rifugiati, la protezione temporanea privilegia quella del rimpatrio in condizioni di dignità e sicurezza).

Quello che certamente occorre rilevare è che l' approccio con il quale l'Italia ha cercato finora di introdurre forme di protezione temporanea a favore dei c.d. "rifugiati de facto" non soddisfa certamente le esigenza di una piena attuazione del dettato costituzionale in materia di asilo politico, di cui all'art. 10. 3 ("Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d'asilo nel territori della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge"). In sostanza, la Costituzione italiana considera ai fini del riconoscimento del diritto di asilo, dei criteri di natura oggettiva, più ampi e comprensivi rispetto a quelli soggettivi della Convenzione di Ginevra. Proprio in parallelo con l'iter del DDL sull'asilo, la Corte di Cassazione (Sent. 26 maggio 1997, n. 4674) ha riconosciuto il carattere precettivo ed immediatamente applicativo del diritto d'asilo costituzionale, quale diritto soggettivo perfetto, distinto per natura e procedura dal riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra. Così come quest'ultimo segue l'iter della procedura amministrativa, prevista dal dpr 136, l'asilo costituzionale può essere richiesto con azione dichiarativa al giudice ordinario, chiamato a valutare la sussistenza del requisito dell'impedimento-diniego di esercizio delle libertà democratiche, da accertare secondo criteri di effettività e che, in caso favorevole, pur in assenza di una legislazione applicativa, può in d'ora fondare per lo straniero una tutela minima da ogni atto di respingimento o espulsione (tutela dal non refoulement) e il rilascio del permesso di soggiorno richiamato all'art. 5.6 dl TU cui si è fatto cenno all'inizio.

L'articolo testè citato è estremamente importante, perché può costituire un'indicazione di segno diverso rispetto alla prassi fin qui seguita in materia di "rifugio de facto" , potendo essere una base per l'introduzione di una protezione temporanea a carattere continuativo e a portata generale e non più esclusiva di determinati gruppi nazionali, soprattutto se connessa alla prassi della Commissione centrale competente per la determinazione dello status di rifugiato di raccomandarne l'applicazione quando pur non ritenendosi sussistenti i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, vi siano ragioni ostative di natura umanitaria al rientro del richiedente nel paese di origine o di provenienza (non possiamo peraltro nasconderci perplessità sulla reale effettività di questa raccomandazione , che resta lettera morta in molte questure in mancanza di una circolare applicativa che ne chiarisca la portata a tutte le questure. Del resto la norma stessa cui ci riferiamo può dare adito a non pochi dubbi interpretativi, che riguardano sia l'identificazione della sfera dei destinatari, sia la ricostruzione delle modalità di accertamento dei presupposti indicati e delle relative conseguenze giuridiche. In sostanza, non è definito il procedimento attraverso il quale deve essere accertata la sussistenza dei "seri motivi" ostativi al rifiuto del permesso di soggiorno, né sono precisate le conseguenze di tale accertamento).

Appare positivo che il testo del disegno di legge approvato dal Senato intenda disciplinare organicamente la materia dell'asilo costituzionale , che nel testo inizialmente proposto era delimitato alla fattispecie della protezione temporanea intesa come impossibilità temporanea al rimpatrio per motivi umanitari. In base al testo del DDL, tre sarebbero i livelli di protezione previsti per i richiedenti asilo in Italia:

a) il diritto d'asilo, disciplinato congiuntamente per i rifugiati convenzionali e per coloro che soddisferebbero la nozione costituzionale di asilo;

b) la protezione umanitaria in caso di diniego al riconoscimento del diritto d'asilo, ma di presenza di impedimenti ad un rimpatrio in condizioni di sicurezza e dignità per la persona;

c) la protezione temporanea "di gruppo" eventualmente decisa dal governo in caso di esodo di massa in base all'art. 20 del TU.

Nei primi due casi, lo status verrebbe concesso al temine di una procedura di determinazione individuale, sulla base di una decisione assunta dall'autorità centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Nel terzo, vi sarebbe una determinazione "di gruppo", decisa dalle autorità governative centrali e affidata per la sua implementazione alle istanze amministrative periferiche (senza procedura di determinazione individuale, inutile e non materialmente percorribile in caso di afflusso di massa).

In questa configurazione risultano tuttavia irrisolti alcuni problemi e la necessità di alcuni chiarimenti. Infatti, la definizione utilizzata nel testo del DDL sembra collegare l'impedimento all'esercizio alle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana al solo pericolo attuale per la propria vita o a restrizioni gravi della libertà personale, dimenticando che la Costituzione prevede molte altre libertà democratiche.

2) La Convenzione di Ginevra, come è noto, non detta disposizioni direttamente attinenti ala procedura di riconoscimento, la cui specificazione è lasciata alla discrezionalità del legislatore nazionale. In considerazione del fatto, tuttavia, che la determinazione dello status di rifugiato ha natura dichiarativa e non costitutiva dello status, cioè constata l'esistenza di uno status, non lo determina, è assolutamente indispensabile che la procedura sia equa ed efficiente tale da consentire l'identificazione effettiva dei beneficiari della tutela.

Indicazioni su garanzie minime di equità ed efficienza delle procedura di riconoscimento dello status di rifugiato possono trovarsi in apposite conclusioni del Comitato esecutivo dell'ACNUR, così come in raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa, ma il documento più significativo in questo senso è certamente la risoluzione sulle garanzie minime per le procedure di asilo, adottata da Consiglio europeo a Bruxelles il 20 giugno 1995.

La fase più delicata della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato è certamente quella dell'accesso alla medesima. La legge attualmente in vigore prevede quattro casi di inammissibilità qui di seguito elencati:

a) il riconoscimento dello status di rifugiato in altro Stato;

b) la provenienza da uno Stato diverso da quello di appartenenza che abbia aderito alla Convenzione di Ginevra, nel quale l'interessato abbia trascorso un periodo di soggiorno, non considerato tale il tempo necessario per il transito sino alla frontiera italiana

c) l'aver commesso crimini di guerra, contro la pace e contro i principi delle Nazioni Unite

d) l'avvenuta condanna in Italia per uno dei delitti previsti dall'art. 380 commi 1 e 2 del codice di procedura penale, la pericolosità per la sicurezza dello Stato o l'adesione ad associazioni di tipo mafioso o dedite al traffico di stupefacenti o ad organizzazioni terroristiche.

Nei punti a) e b) si esprimono le modalità attraverso le quali ha trovato attuazione in Italia il principio del paese terzo di asilo sicuro. Il senso dell'articolo è evidentemente quello di impedire l'accesso alla procedura di asilo in Italia a persone che avrebbero potuto beneficiare altrove della protezione accordata dalla Convenzione di Ginevra. Una prima precisazione fa peraltro fatta sottolineando l'impossibilità di invocare l'applicazione dell'art. 1.4 b) nel caso in cui l'interessato abbia transitato in un Paese che all'atto di adesione alla Convenzione di Ginevra abbia apposto la riserva geografica che gli avrebbe comunque impedito di invocare la protezione (in Europa c'è l'esempio dell'Ungheria e della Turchia). Ciò che più importa è che per molti paesi all'atto formale dell'adesione alla Convenzione non ha fatto riscontro un'effettiva applicazione della stessa. Un esempio recente è dato da una sentenza della Corte suprema austriaca dd. 11.11.1998 che ha ritenuto di annullare la decisione di inammissibilità alla procedura di asilo di un richiedente proveniente dal Kosovo decisa sulla sola base del suo transito attraverso l'Ungheria, ed in base alla clausola del primo paese di asilo sicuro. La decisione della Corte Suprema austriaca è stata adottata sulla base di dossier e relazioni raccolte da organismi parlamentari ed umanitari austriaci, dimostranti l'insufficiente livello di effettiva attuazione della Convenzione di Ginevra in Ungheria per i richiedenti asilo kosovari e il rischio di un loro rientro forzato nel paese di origine attraverso successivi atti di refoulement (chain refoulement). Per quanto concerne la realtà italiana, vale la pena citare una cospicua giurisprudenza maturata da alcuni tribunali amministrativi chiamati ad esprimersi su ricorsi avverso decisioni di inammissibilità: "Il mero fatto della provenienza da uno Stato diverso da quello di appartenenza, che abbia aderito alla Convenzione di Ginevra, non sarebbe sufficiente di per sé ad escludere lo straniero dall'ammissione al procedimento per il riconoscimento dello status di rifugiato, occorrendo a tale fine una congrua motivazione che dia conto della esistenza in detto Stato di condizioni reali di sicurezza e libertà delle persone" (TAR Lazio n. 155/1992). Lascia tuttavia perplessi che tali complessi e delicati compiti di valutazione non siano attribuiti a funzionari distinti dalla polizia di frontiera, con competenze specifiche in materia di asilo e che possano invece operare in stretto collegamento con l'autorità centrale preposta all'attribuzione dello status o ne siano diretta espressione. In questo senso si indirizzano le raccomandazioni a livello internazionale testè citate che mirano ad escludere l'esercizio da parte della polizia di frontiera di qualsivoglia potere decisionale attinente all'ammissibilità e al merito di istanze di asilo, che dovrebbero in ogni caso essere riferite per una decisione in proposito ad un'autorità superiore e centrale.

Tali ragionamenti appaiono ancora più fondati se facciamo riferimento alla clausola di esclusione di cui alla lettera c) dell'art. 1.4, che richiama alle condizioni previste dall'art. 1 paragrafo F della Convenzione di Ginevra. Alla polizia di frontiera e non ad un'autorità specificatamente competente in materia di asilo viene demandata l'applicazione di una delle clausole di più difficile interpretazione della Convenzione, che ha generato una molteplice e contrastante giurisprudenza internazionale. Possiamo solo qui fare un breve accenno alle decisioni della Commissione di ricorso francese che nel corso del 1994 accolse i ricorsi presentati da richiedenti asilo srilankesi di etnia tamil, ai quali era stata applicata in prima istanza la clausola di esclusione del paragrafo 1 F perché appartenenti al movimento del LTTE praticante il terrorismo. La commissione sottolineò in quella occasione che "la semplice appartenenza ad un movimento praticante anche la lotta armata ed il terrorismo non era sufficiente per l'applicazione della clausola di esclusione, dovendosi dimostrare in aggiunta l'effettiva partecipazione del richiedenti alle decisione, alla preparazione o all'esecuzione di azioni che possono essere ricondotte alla fattispecie del grave crimine di diritto comune".

Del tutto incompatibile con gli obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione, è la condizione ostativa di cui alla lettera d) dell'art. 1 comma 4 che si riferisce agli stranieri condannati per uno dei reati previsti dall'art . 380 c. 1 e 2 del cpp. L'obbligatorietà dell'esclusione dall'ammissione alla procedura di asilo collide con in modo diretto con la sfera di applicazione dell'art. 33 della Convenzione che ammette, come uniche deroghe al divieto di refoulement, quelle legate ai principi di sicurezza nazionale di minaccia per la comunità nazionale, che debbono essere valutati secondo un criterio di proporzionalità, soppensandoli in confronto con la gravità delle persecuzioni alle quali il richiedente potrebbe incorrere in caso di rinvio nel paese di origine.

L'applicazione delle condizioni di inammissibilità alla procedura di asilo non è di stretta competenza, nell'attuale legislazione, soltanto dell'autorità di polizia di frontiera, ma riguarda anche le questure, nei casi, che sono poi la quasi totalità, di richieste di asilo presentate da stranieri che hanno già fatto ingresso, regolare o meno, sul territorio nazionale. Sulla legittimità dell'istanza di asilo anche successivamente all'ingresso irregolare il riferimento va innanzitutto all'art. 31 della Convenzione di Ginevra, che prevedendo nei confronti del rifugiato che versi in situazione irregolare, l'esenzione dall'applicazione di sanzioni penali, non può non includere il precetto ulteriore secondo cui la situazione di irregolarità non può essere di per sé preclusiva del riconoscimento dello status di rifugiato e, quindi, dell'accesso alla conseguente procedura. Una certa giurisprudenza amministrativa accogliendo e sviluppando questa tesi, ha avuto modo di sottolineare che il richiamo fatto nell'art. 31 della Convenzione alla necessità che l'interessato si presenti "senza indugio" all'autorità competente dopo l'ingresso irregolare, possa essere interpretato come fondante un requisito di tempestività dell'istanza di asilo, da presentare magari entro gli otto giorni, di norma previsti per la richiesta di permesso di soggiorno dello straniero e la cui violazione costituirebbe pertanto di fatto un' ulteriore condizione di inammissibilità non prevista dalla legge (in questo senso TAR Emilia Romagna n. 776/1994). Contro questa tesi, ha avuto modo di esprimersi il Consiglio di Stato in una serie di sentenze (Sez. IV n.149/1995) che hanno in sostanza enfatizzato la prevalenza da accordare all'esame nel merito dell'istanza di asilo ad opera dell'apposita commissione centrale, assegnando alla medesima una competenza esclusiva di valutazione anche quanto alla sussistenza o meno di presupposti formali, ivi compresi quelli relativi alla tempestività della domanda stessa.

Uno degli aspetti sui quali il quadro normativo, sommato alla prassi applicativa, si è dimostrato maggiormente carente ed inadeguato a fornire garanzie minime di carattere procedurale al richiedente asilo, è stato quello del ricorso in sede giurisdizionale contro il provvedimento di diniego al riconoscimento dello status di rifugiato, pronunciato in prima istanza dall'apposita commissione centrale. L'art. 1 co. 5 della legge n. 39/90 prevede che al richiedente asilo sia rilasciato un permesso di soggiorno valido "sino alla definizione della procedura di riconoscimento dello status", nella quale andrebbe ricompresa anche la fase dell'eventuale esperimento dei mezzi di ricorso. A tale norma si è fatta prevalere un'interpretazione restrittiva dell'art. 5 del D.P.R. n. 136/90, per il quale il richiedente asilo cui sia stato negato il riconoscimento "deve lasciare il territorio nazionale". Si è inteso così che l'obbligo di lasciare il territorio nazionale sorga per effetto della sola decisione negativa della Commissione e risulti sospendibile solo con apposita ordinanza pronunciata dal TAR. Di conseguenza, si è instaurata una prassi di dubbia legittimità che colloca l'Italia tra quei pochissimi paesi europei che non garantiscono di fatto al richiedente asilo l'accesso ad una procedura di appello con effetto sospensivo contro il diniego al riconoscimento dello status di rifugiato pronunciato in prima istanza. Ciò anche creando una situazione poco coerente con regole consacrate in sede internazionale in merito al rispetto del principio di "non refoulement". La Commissione e la Corte europea dei diritti umani hanno ritenuto che ogniqualvolta vi sia una doglianza riferibile all'art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell'Uomo per un pericolo di tortura o di trattamento inumano o degradante cui verrebbe esposto lo straniero per effetto della sua espulsione, questi avrebbe diritto di avvalersi di un mezzo di ricorso effettivo ai sensi dell'art. 13 della Convenzione e dunque con effetto sospensivo e possibilità di riesame nel merito (Vilvariah e altri c. Regno Unito sulla procedura di asilo britannica). Lo strumento del ricorso in sede giurisdizionale amministrativa si rivela peraltro manifestamente inadeguato, tanto per i tempi lunghissimi che comporta per arrivare a conclusione (da 2 a più di 5 anni a seconda di tribunali regionali), quanto perché non consente un giudizio di merito, ma soltanto di mera legittimità. Pertanto al giudice amministrativo non è consentito di porre rimedio alla doglianza che gli viene sottoposta, potendo egli annullare la decisione della Commissione adottata in prima istanza, rinviando tuttavia alla Commissione medesima il caso per una nuova decisione.

Alla luce di tale esperienza non proprio positiva, non può che suscitare perplessità l'intenzione manifestata finora dal governo e dal Parlamento, attraverso il DDL approvato al Senato, di continuare ad individuare nei TAR, cioè nel giudice amministrativo, l'organo giurisdizionale cui affidare i ricorsi avverso i dinieghi al riconoscimento dello status di rifugiati pronunciati in prima istanza, sebbene con alcune modifiche migliorative rispetto alla situazione attuale (quali la giurisdizione estesa al merito e la previsione di termini tassativi per la fissazione dell'udienza per la discussione) . Ciò soprattutto avendo in considerazione l'intenzione del governo e del parlamento di dare con tale disegno di legge finalmente attuazione al diritto costituzionale d'asilo, che in quanto diritto soggettivo perfetto e non mero "interesse legittimo" richiederebbe una procedura di ricorso giurisdizionale dinanzi al giudice ordinario e non dinanzi a quello amministrativo (la proposta che come ASGI abbiamo avanzato è quella di affidare tali ricorsi al Pretore secondo la procedura rito lavoro, per assicurare anche un effettiva gratuità degli atti giurisdizionali per il richiedente asilo, spesso privi di mezzi di sussistenza).

Aldilà delle questioni di ordine procedurale, una delle principali ragioni per cui l'Italia continua a non essere paese di elezione per molti richiedenti asilo è di natura prettamente assistenziale. Le insufficienti misure di accoglienza e assistenza predisposte dal nostro paese nei confronti dei richiedenti asilo, almeno di quelli che rientrano nella procedura ordinaria e non hanno beneficiato o beneficiano tuttora di misure straordinarie di accoglienza richiamate in precedenza, unitamente alla mancanza di una tradizione di asilo ed immigrazione e conseguentemente di consolidate e ampie comunità di diaspora che rendano possibili forma di "self-help " comunitario, fa sì che i richiedenti asilo non trovando possibilità di una dignitosa sussistenza, finiscano per ritornare spesso alla situazione iniziale di clandestinità ovvero cerchino di aggirare le regole di Schengen e Dublino , raggiungendo altri paesi europei sotto false generalità. Questo fenomeno è evidente se pensiamo che solo una netta minoranza dei richiedenti asilo si presentano effettivamente dinanzi alla Commissione centrale per sostenere l'audizione prevista, mentre degli altri si perde ogni traccia. E tanto più evidente se pensiamo che la percentuale di richiedenti asilo che si presentano dinanzi alla Commissione per l'audizione completando la prima fase della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato appare in stretta connessione con le possibilità di accoglienza offerte loro successivamente all'arrivo in Italia .

Questo pone con urgenza la questione di una riforma sostanziale delle misure soio-assistenziali a favore dei richiedenti asilo, non potendosi considerare assolutamente sufficienti le 34.000 lire al giorno previste dal regolamento n. 284/1998 per una durata di soli 45 giorni, periodo entro il quale la Commissione dovrebbe per legge esprimersi sull'istanza, ma che non corrisponde allo stato attuale minimamente ai tempi di effettiva durata della procedura, varianti tra i 6 e gli 8 mesi o anche più, durante i quali al richiedente viene peraltro negato l'accesso al lavoro subordinato.

Le proposte avanzate nel DDL sono interessanti, in quanto assegnano all'ente locale al responsabilità dell'assistenza e dell'accoglienza del richiedente asilo per tutta la durata della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato, vi compresa quella del ricorso, con assicurazione di rimborso delle spese da parte del Ministero dell'Interno.

Al fine di garantire che le previste misure di assistenza in favore dei richiedenti asilo e dei rifugiati possano essere concretamente applicate, sarà necessario assicurare una adeguata copertura finanziaria che corrisponda, fra l'altro, al numero effettivo dei richiedenti asilo e dei rifugiati riconosciuti, così come una rapidità nelle procedure burocratiche di rimborso.

Le insufficienti previsioni normative volte ad assicurare effettive misure socio-assistenziali a favore dei richiedenti asilo nel nostro Paese, costituiscono a mio avviso una indiretta violazione dell'art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti economici sociali e culturali che prevede l'obbligo degli Stati di assicurare a tutti il diritto ad un adeguato standard di vita. Così come ha scritto un noto studioso scandinavo della tematica dei rifugiati, , Asbjorn Eide, commentando questo articolo, "i richiedenti asilo non hanno le stesse opportunità degli altri di raggiungere un adeguato standard di vita in base ai loro sforzi. Perciò essi richiedono, maggiormente rispetto alle altre persone, azioni positive e disposizioni particolari che rendano possibile la soddisfazione delle loro esigenze".

Al riguardo, vale la pena citare anche la sentenza della Corte di appello del Regno Unito dell'8 ottobre 1996 che bocciò le disposizioni di quel paese che avevano previsto l'esclusione da qualsiasi prestazione assistenziale pubblica di tutti i richiedenti asilo che non richiedevano l'accesso alla procedura immediatamente alle frontiere del paese. La Corte inglese motivò che la negazione delle misure socio-assistenziali. per i richiedenti asilo poteva avere ripercussioni negative indirette anche sul principio di non refoulEment, cosi' come violare il diritto delle persone a non essere sottoposte a trattamenti inumani e degradanti sancito dalla Convenzione europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali. Considerazioni analoghe sono state in parte sviluppate dalla Corte Suprema austriaca nella sentenza del novembre scorso già citata in precedenza che rifiutò di considerare l'Ungheria un paese di primo asilo sicuro perché la prolungata detenzione di richiedenti asilo nei centri di detenzione amministrativa per stranieri non in regola, così come le condizioni di sovraffollamento e di deprivazione di bisogni elementari in detti centri, poteva condurre i richiedenti asilo ad una indebita pressione fisica e psichica tale da indurli a fare ritorno nel paese di origine con conseguente rischio di refoulement e violazione della Convenzione di Ginevra e della Convenzione europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali.

Certamente, la situazione socio-assistenziale dei richiedenti asilo in Italia non è paragonabile a quella venutasi determinare nel Regno unito a seguito delle citate disposizioni, né a quella ungherese sopra richiamata, ma l'insufficiente portata delle azioni positive di accoglienza di richiedenti asilo a livello locale, così come le difficoltà e lungaggini burocratiche nell'accesso stesso al limitato contributo finanziario previsto, evidenziano una situazione non conforme agli standard previsti a livello internazionale, almeno per un paese ad economia avanzata quale il nostro.

Saranno i mesi a seguire, le decisioni che saranno prese con riferimento all'accoglienza al trattamento dei richiedenti asilo provenienti dal Kosovo e rispetto all'iter del disegno di legge sull'asilo inspiegabilmente arenatosi, ad indicarci se l'Italia intenderà compiere un processo di definiva maturazione, assumendo oneri ed impegni derivanti dal mutamento del ruolo che gli deriva dalla mutata condizione geopolitica realizzatasi in questi anni, da paese di transito a paese di destinazione di richiedenti asilo

WALTER CITTI

Consulente legale sui problemi dell'immigrazione e dell'asilo,

ASGI.