Seminario. "Diritti Umani, Immigrazione e asilo"

Trieste, 8 giugno 1999.

DIRITTI CIVILI E SOCIALI NELLA NUOVA LEGISLAZIONE ITALIANA SULL'IMMIGRAZIONE.

 

Poiché risulterebbe impossibile riassumere nel tempo oggi concessoci tutta la recente legislazione sull'immigrazione e la condizione giuridica dello straniero in Italia, proveremo a descriverne i principali contenuti alla luce degli obiettivi che i promotori si sono posti. Obiettivi che si possono ricavare dall'analisi della relazione introduttiva al DDL, al momento della sua trasmissione al Parlamento, ma soprattutto dal documento programmatico relativo alla politica dell'immigrazione, che, in base ai commi 2 e 3 dell'art. 3 della legge n. 40/1998, costituisce la base di riferimento della politica dell'immigrazione per il triennio 1998-2000 (Suppl. Ord. N. 158 alla G.U. 15.09.1998).

Due sono le finalità della politica migratoria che l'Italia intende perseguire:

a) la riduzione della popolazione immigrata clandestina, da attuare mediante un mix di provvedimenti di regolarizzazione, di regolamentazione e controllo programmato di nuovi ingressi per motivi di lavoro e di repressione all'immigrazione clandestina.

b) La promozione di eguaglianza di opportunità e dell' integrazione sociale e culturale degli immigrati regolarmente residenti, in particolare di coloro che già risiedono nel paese da un certo numero di anni.

Per quanto concerne il primo punto, non occorre soffermarci più di tanto sui provvedimenti di regolarizzazione, limitandoci a sottolineare come essi si siano realizzati per fasi successive, su iniziativa del governo, prima mediante l'utilizzo del sistema delle quote di ingresso in Italia con il DPCM dd. 16.10.1998 e, poi, avvalendosi del potere di delega affidatogli dal Parlamento per il periodo di due anni, introducendo una vera e propria disposizione transitoria alla legge n. 40/1998, limitatamente a quei cittadini stranieri in possesso dei requisiti di presenza alla data di entrata in vigore della legge di riforma e di specifici requisiti alloggiativi e di lavoro.

Al contrario delle norme di regolarizzazione, i provvedimenti concernenti il controllo e la regolamentazione degli ingressi (programmazione dei flussi) e la lotta all'immigrazione clandestina (espulsioni) hanno natura definitiva, di norme cioè valevoli "a regime".

E' prematuro compiere una valutazione dei meccanismi di programmazione dei flussi di ingresso, visto che non hanno potuto ancora trovare effettiva attuazione per la mancata emanazione dell'apposito decreto, così come del regolamento attuativo della legge. E' tuttavia opportuno rimarcare che le possibilità prospettate di ingresso per ricerca di lavoro e per sponsorizzazione a prescindere da meccanismi di chiamata nominativa e, soprattutto, di verifica individuale di indisponibilità di manodopera già presente sul mercato del lavoro, corrispondono a scelte assai innovative e coraggiose del legislatore italiano anche rispetto a quelle che finora sono state le posizioni comuni, di segno restrittivo, assunte a livello europeo (risoluzione del Consiglio Europeo del 20 giugno 1994). Scelte che nascono dalla convinzione, sicuramente condivisibile, che la lotta all'immigrazione clandestina non può svolgersi soltanto sul piano repressivo, ma anche aprendo dei canali di immigrazione regolare.

In materia di espulsioni, vale la pena innanzitutto rimarcare come abbiano trovato recepimento nella legislazione italiana i limiti internazionali a tale provvedimento derivanti in particolare dagli art. 3 (pericolo di trattamenti inumani e degradanti nel paese di destinazione) e 8 (principio della tutela dell'integrità della vita familiare).

Di questi limiti si fa esplicito riferimento all'art. 19 del TU che vieta fra l'altro, in nome del principio dell'unità familiare, l'espulsione dello straniero coniugato con cittadino italiano o convivente con parenti di nazionalità italiana entro il 4° grado, ma si può ricondurre al principio di "non refoulement" anche il dettato di cui all'art. 5. 6 del TU, ripreso dalla legge di ratifica ed esecuzione degli accordi di Schengen, che nel prevedere il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno nei confronti di stranieri che non soddisfino le condizioni di soggiorno applicabili nel territorio di una delle parti contraenti, consente l'applicazione di deroghe, in caso di sussistenza di "seri motivi , in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano" (e dunque il riferimento qui non può non rivolgersi al diritto di asilo costituzionale di cui all'art. 10.3 e al principio consuetudinario di diritto internazionale al "non refoulement"). Certamente, la norma così formulata, al pari di quella di cui all'art. 19.1 che vieta in ogni caso l'espulsione dello straniero verso paesi ove possa essere soggetto a tortura o trattamenti inumani o degradanti o ove la sua vita o libertà personale possano essere minacciate per motivi di persecuzione, da adito a non pochi dubbi interpretativi, che riguardano sia l'identificazione della sfera dei destinatari, sia la ricostruzione delle modalità di accertamento dei presupposti indicati e delle relative conseguenze giuridiche. Di conseguenza, facendo un primo bilancio ad un anno di distanza dall'entrata in vigore della normativa, possiamo dire che tali disposizioni hanno trovato un'applicazione disomogenea sul territorio nazionale. Solo recentemente una circolare del Ministero dell'Interno ha disposto l'applicazione dell'art. 5.6 del TU nei casi di diniego al riconoscimento dello status di rifugiato pronunciati dall'apposita commissione, qualora quest'utima nel dispositivo della decisione faccia comunque riferimento a fondate ragioni per ritenere inopportuno il rientro dello straniero nel paese di origine. Parimenti, l'utilità della norma sul "non refoulement" consiste soprattutto nella possibilità di invocarla in sede di ricorso dinanzi al Pretore (ora giudice unico di primo grado) avverso un provvedimento espulsivo (ed in questo senso si è già formata un giurisprudenza favorevole (decreti Pretura di Trieste 22 agosto 1998, Bologna 19 settembre 1998, Pontedera 17 aprile 1998).

Per porre rimedio alla situazione esistente ai tempi della vigenza della precedente normativa, in cui ad un gran numero di provvedimenti espulsivi emanati faceva riscontro una bassa percentuale di esecuzioni effettive dei medesimi (attorno al 12%), la nuova legge e le modifiche che poi sono state apportate con il recente decreto legislativo n. 113/99 hanno profondamente modificato procedure di ricorso (restringendo notevolmente l'effettività del diritto di difesa, quanto ai termini e alle modalità di presentazione del ricorso) e di esecuzione del provvedimento espulsivo. Non potendo analizzare nel dettaglio tali provvedimenti, mi limito ad accennare all'introduzione delle misure di detenzione amministrativa cui può essere ora sottoposto lo straniero e che, unitamente alla stipula di appositi accordi bilaterali di riammissione con i paesi di origine, dovrebbero impedire allo straniero espulso di far perdere le proprie tracce e ottenere nel contempo la collaborazione delle autorità consolari del paesi di origine per il rilascio dei documenti di viaggio per il rimpatrio. Ritornando ancora una volta sui limiti internazionali in materia di espulsione dello straniero e sulle modalità di espulsione del medesimo, vorrei peraltro rimarcare un possibile elemento di incoerenza del quadro normativo interno con gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la ratifica del Protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e le libertà fondamentali, che prevede in caso di espulsione dello straniero già legalmente residente l'esperibilità di rimedi giuridici ed una serie di diritti esercitabili prima dell'espulsione. Poiché il ricorso avverso il provvedimento espulsivo, così come previsto dal D.Lvo n. 286/98, non ha carattere sospensivo, non appare pienamente compatibile con la norma internazionale citata, almeno rispetto agli stranieri già regolarmente soggiornanti (come ad esempio nei casi di espulsione per motivi di prevenzione di cui all'art. 13 c.2 p. c) D.L.vo n. 286/98) e dunque potrebbe qui avanzarsi un profilo di illegittimità costituzionale.

Venendo alla seconda parte della mia relazione, quella relativa all' integrazione degli immigrati regolari, una delle misure che già da tempo erano state introdotte nei paesi di tradizionale immigrazione del Nord Europa è la distinzione tra permesso di soggiorno e carta di soggiorno, a seconda della durata della permanenza dell'immigrato nel paese. A tale distinzione di titolo di soggiorno corrispondono diversi livelli di garanzia di permanenza nel paese e, quindi, di protezione dal provvedimento espulsivo, nonché di partecipazione alla vita pubblica, innanzitutto al livello locale. Questa distinzione tra status all'interno della popolazione immigrata è fondata sulla convinzione che con il passare del tempo il centro degli interessi dell'immigrato e delle sue relazioni sociali si sposta progressivamente dal paese di origine a quello di immigrazione.

Con la nuova legislazione, l'Italia ha voluto adottare tale distinzione, che potrà dispiegare i suoi effetti solo con l'entrata in vigore del regolamento applicativo.

Se tuttavia dovessimo dare fin d'ora una valutazione sull'efficacia di tali disposizioni a conferire certezza di diritto e di permanenza sul territorio nazionale agli immigrati stabilmente residenti, non potremmo che sollevare alcuni elementi di dubbio e di perplessità. Innanzitutto perché il rilascio della carta di soggiorno avviene sulla base di un requisito di censo (ugualmente peraltro a quanto avviene in Germania); poi perché il rilascio della carta di soggiorno non può avvenire in presenza dell'apertura di procedimento giudiziario anche per delitti di modesta entità (come taluni di quelli ricompresi negli artt. 380 e 381 cpp); infine perché è sempre revocabile in caso di condanna anche non definitiva per uno di questi delitti. Inoltre, i diritti civili di elettorato attivo e passivo alle elezioni amministrative per i titolari di carta di soggiorno (già previsti nell'ordinamento olandese, svedese e danese e contemplati anche nella Convenzione del Consiglio d'Europa sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale del 5 febbraio 1992) non hanno potuto trovare collocazione nella legge di riforma perché non ritenuti conciliabili con l'art. 48 della Costituzione che li riserva ai soli cittadini.

Considerato che la carta di soggiorno si consegue dopo cinque anni di residenza regolare, appaiono di decisiva importanza le regole che presiedono al rinnovo del permesso di soggiorno, la cui durata, in caso di permessi di lavoro, è di norma biennale. E' fonte di notevole preoccupazione il fatto che di tali regole non venga fatta pressoché menzione nel testo di legge che si limita di fatto ad un rinvio al regolamento attuativo, che è pur sempre un documento governativo, lasciato quindi alla sostanziale e mutevole discrezionalità dell'esecutivo. Aldilà quindi delle perplessità di natura costituzionale legate al mancato rispetto del criterio di "riserva legislativa" fissato dall'art. 10.2 della Costituzione, non si può non rilevare che il regolamento dovrà altresì tenere conto di due disposizioni che nel testo legislativo sembrano adombrare l'ipotesi della subordinazione e del rinnovo del permesso di soggiorno alla dimostrazione dell'autosufficienza economica dell'immigrato, esponendolo dunque alle variabili contingenze del ciclo economico. Ci riferiamo qui all'art. 6.5 del TU che stabilisce la possibilità di rifiuto o revoca del permesso di soggiorno nel caso in cui vengano a mancare i requisiti per l'ingresso ed il soggiorno, tra cui vi è anche quello del reddito, così come l'art. 22.9 che afferma che in caso di perdita del posto di lavoro, lo straniero ha diritto ad essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno e, comunque, per un periodo non inferiore ad un anno. Certamente le norme formalmente corrispondono a quelli che sono gli standard internazionali nella materia con riferimento all'art. 8 della Convenzione OIL n. 143 che stabilisce che la perdita del posto di lavoro non debba implicare l'automatica revoca del permesso di soggiorno del lavoratore migrante e che ad esso debba essere concesso un periodo di tempo minimo per trovare una nuova occupazione. Anzi, il periodo di tempo fissato dalla legislazione italiana è in questo senso più generoso di quello stabilito dalla Commissione di esperti dell'OIL che, verificando la compatibilità di un progetto di legge francese sull'immigrazione di qualche anno fa, affermò che "il periodo di tempo di sei mesi per la ricerca di una nuova occupazione prima che il permesso di soggiorno venga ritirato sembra soddisfare le esigenze della disposizione convenzionale". Tuttavia, alla luce della situazione del mercato del lavoro in Italia, caratterizzata da una significativa incidenza del settore informale (lavoro nero), nel quale opera la manodopera meno protetta e qualificata tra cui quella immigrata, non possiamo nasconderci che un'applicazione rigida e sistematica della norma, che non dia spazio per esempio all'autocertificazione dei rapporti di lavoro "irregolari o informali", come già effettuato ai tempi della vigenza della legge "Martelli", potrebbe condurre al mancato rinnovo dei permessi di soggiorno di un gran numero di immigrati e creare così un nuovo significativo bacino di clandestinità che il governo ha inteso ridurre con l'approvazione delle norme transitorie di regolarizzazione.

Venendo alla questione dei diritti dei cittadini immigrati, mi preme sottolineare che la nuova legislazione italiana sull'immigrazione segue un approccio -che considero estremamente positivo - similare a quello contenuto nella Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1990, ma non ancora entrata in vigore per l'insufficiente numero di ratifiche da parte degli Stati membri. In sostanza, tanto nella Convenzione citata che nella legislazione italiana, si attribuisce un nucleo di diritti fondamentali, essenziali ed irrinunciabili, a tutti i cittadini migranti e dunque anche a quelli che si trovano in condizioni di irregolarità. A tali diritti essenziali sono aggiunti per i regolari i diritti nel campo economico, sociale e culturale fondati sul principio di parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali e sulla previsione di azioni positive, alla ricerca di un giusto equilibrio tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale (o eguaglianza di opportunità).

Solo con la legge n. 40/1998 l'istruzione obbligatoria ovvero il diritto alle prestazioni sanitarie urgenti ed essenziali e di tutela della maternità, così come gli interventi di medicina preventiva, sono stati resi accessibili agli stranieri irregolari sulla base di previsioni normative legislative, mentre in precedenza erano stati introdotti solo sulla base di provvedimenti amministrativi, ordinanze o circolari ministeriali, sempre dunque revocabili e soggetti alla discrezionalità dell'esecutivo.

Il sistema etico-politico di riferimento in materia di politiche sociali a favore dell'integrazione degli immigrati nella società italiana che si può desumere dall'impianto normativo della nuova legge, è di impronta sostanzialmente "assimilazionista" o "francese", mirante cioè ad estendere anche agli immigrati in regola la fruizione dei medesimi diritti sociali di cui godono i cittadini, prevedendo in aggiunta "azioni" positive" mirate in alcuni settori dove la condizione di obiettiva debolezza e vulnerabilità sociale o di diversità culturale degli immigrati richiede interventi specifici (nella scuola attraverso i mediatori culturali o le attività di sostegno all'apprendimento linguistico, nelle politiche abitative mediante l'accesso a speciali programmi definiti da agenzie sociali che operano nell'intermediazione nel mercato della locazione). Così dunque la nuova legge ha previsto la parità tra immigrati con permesso di soggiorno della durata di almeno un anno e cittadini nell'iscrizione al servizio sanitario, nell'accesso ai concorsi per l'assegnazione di alloggi in edilizia residenziale pubblica, nell'assistenza sociale, ivi compreso l'accesso alle provvidenze relative alle situazioni di invalidità civile e all'assegno sociale, in precedenza prerogativa dei soli cittadini italiani, comunitari e dei rifugiati politici.

Si può dire che con la nuova legge ha trovato definiva attuazione il principio di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità cui il nostro paese doveva ritenersi vincolato peraltro già in virtù delle Convenzioni OIL n. 97 e 143, richiamate anche dalla prima legislazione italiana sull'immigrazione, la n. 943/86.

Dove la nuova legge non è arrivata in modo esplicito, ha provveduto la Corte costituzionale ad affermare questi principi con la sentenza n. 454/98, con la quale è stata dichiarata illegittima la posizione del Ministero del lavoro che si ostinava a negare, anche dopo l 'entrata in vigore del nuovo assetto normativo, l'accesso degli stranieri extracomunitari regolarmente soggiornanti invalidi civili al collocamento obbligatorio previsto dalla legge n. 482/1968, che costituisce una forma di intervento promozionale all'accesso al diritto al lavoro di particolare categorie svantaggiate perlopiù per effetto di handicap fisici e/ psichici. Ciò in virtù del fatto che, come sottolineato dalla Corte, il legislatore italiano con la nuova normativa sull'immigrazione ha voluto andare ancora più in là rispetto agli stessi standard di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità nell'accesso all'occupazione dei lavoratori migranti regolarmente soggiornanti di cui all'art. 8 della Convenzione OIL n. 143, stabilendo per gli stranieri extracomunitari la garanzia del godimento dei diritti in materia civile in condizione di piena uguaglianza con i cittadini italiani (art. 2.2 del D.L.vo n. 286/98).

Appare dal contenuto letterale dell'articolo citato una deroga, se non una vera e propria abrogazione tacita, della condizione di reciprocità di cui all'art. 16 delle preleggi, la cui applicazione verrebbe limitata solo alla ristretta casistica esplicitamente citata nel testo unico e nelle convenzioni internazionali. Tale norma dunque spiana la strada all'esercizio dell'attività di lavoro autonomo da parte degli immigrati ( tra cui anche l'esercizio delle attività di socio in cooperative di produzione lavoro, ovvero la costituzione di società, anche di capitali, come riconosciuto tra l'altro da una circolare del Ministero degli Esteri del 11 giugno 1998) , così come dovrebbe consentire allo straniero di procedere all'acquisto di beni immobili, in particolare ad uso abitativo, senza che questo sia sottoposto dal notaio alla verifica della condizione di reciprocità e dunque al requisito dell'esistenza di un accordo bilaterale in materia di reciproca protezione degli investimenti. Nel caso di acquisto di beni immobili da parte dello straniero nel territorio della provincia di Trieste, quale zona di confine, l'equiparazione nel godimento dei diritti civili rispetto al cittadino italiano, dovrebbe a mio avviso significare anche l' abrogazione tacita della legge 3 giugno 1935 n. 1095 e successive modifiche, che prevede la necessaria autorizzazione prefettizia, previo parere del Ministero della Difesa; una normativa anacronistica, alla luce del nuovo contesto delle relazioni internazionali e confinarie con la vicina Repubblica di Slovenia e non compatibile con gli standard comunitari, come risulta anche da diversi pronunciamenti della Corte di Giustizia europea su analoghe disposizioni limitative all'acquisto di immobili da parte di cittadini stranieri in aree di confine vigenti nell'ordinamento greco.

Certamente è ancora tutta da verificare la reale portata delle politiche di integrazione socio-culturale prefigurate dalla legge, in quanto la loro effettività dipenderà tanto dalle risorse economiche che verranno messe a disposizione, quanto dalla volontà politica delle regioni e degli enti locali cui sono sostanzialmente demandate senza dimenticare infine la necessità di una profonda riorganizzazione della macchina burocratica dell'amministrazione statuale a fronte dei nuovi ed ambizioni compiti. Sono in questo senso preoccupanti i ritardi nell'emanazione del regolamento attuativo, che doveva uscire già alla fine di settembre dell'anno scorso, e del decreto di programmazione dei flussi per l'anno 1999. Tali ritardi fanno sì che siano proprio le disposizioni della normativa legate al complesso dei diritti esercitabili dallo straniero a risultare ancora per lo più inapplicate. Se dunque il primo degli obiettivi e degli impegni cui si faceva riferimento all'inizio della relazione può dirsi nel complesso mantenuto, per il secondo c'è ancora da attendere per una verifica più puntuale.

Walter Citti

ASGI