LO SPAZIO EUROPEO DI LIBERTA,
SICUREZZA E GIUSTIZIA
Implicazioni per lItalia
Ricerca realizzata dal Centro Studi di Politica Internazionale-CeSPi, finalizzata
ad attività formativa e di aggiornamento dei funzionari della Polizia di Stato
DOSSIER
DIDATTICO
a cura di Ferruccio Pastore
Roma, ottobre 1998
INDICE
1. Introduzione: Globalizzazione e "affari interni"
1.1. Fine del bipolarismo, globalizzazione e funzioni dello Stato
1.2. Globalizzazione e nuove dimensioni della sicurezza
2. Lazione europea in materia di "affari interni" prima di Amsterdam
2.1. LEuropa post-1989 e le nuove dimensioni della sicurezza
2.2. Libertà di circolazione e deficit di sicurezza
2.3. Metodo intergovernativo / metodo comunitario
2.4. La fase iniziale della cooperazione intergovernativa
2.5. I caratteri fondamentali del Sistema Schengen
2.6. Espansione e crisi del Sistema Schengen
2.7. Il terzo pilastro e lo sviluppo di una soft law europea
3. Il trattato di Amsterdam e lo "spazio di libertà, sicurezza e giustizia"
3.1. Le scelte fondamentali della Conferenza intergovernativa
3.2. Lintegrazione dellacquis di Schengen nellambito dellUnione europea
3.3. Portata, tempi e procedure della comunitarizzazione della politica migratoria
3.4. La nuova fisionomia del terzo pilastro
3.5. SLSG e flessibilità: opting out e "cooperazioni rafforzate"
PREMESSA
Il presente Dossier ha lobiettivo di fornire, in forma sintetica ed accessibile, le informazioni essenziali in merito ai contenuti normativi e alle principali implicazioni politiche del trattato di Amsterdam (firmato il 2 ottobre 1997), con specifico riferimento alle materie dellimmigrazione, dellasilo, del controllo delle frontiere esterne e della cooperazione di polizia.
Il presente Dossier - a cui si accompagnerà un Rapporto di ricerca specificamente dedicato al processo di comunitarizzazione delle politiche in materia di immigrazione e di asilo avviato dal trattato di Amsterdam - è finalizzato ad attività formativa e di aggiornamento dei funzionari della Polizia di Stato. Il suo scopo non è, tuttavia, di fornire elementi tecnici di formazione professionale in senso stretto, bensì di mettere a disposizione del personale di polizia strumenti adeguati di comprensione generale del quadro politico-normativo - complesso e in piena evoluzione - in cui si inserisce la cooperazione tra polizie nazionali in materia di sicurezza interna e di gestione dei flussi migratori.
E infatti convinzione dellautore di questo Dossier che una comprensione adeguata del contesto storico e politico in cui si colloca lattività professionale quotidiana, anche quando sia non immediatamente indispensabile ai fini professionali, consenta di svolgere il proprio ruolo tecnico in maniera più consapevole e, quindi, più motivata.
1. Introduzione: Globalizzazione e "affari interni"
1.1. Fine del bipolarismo, globalizzazione e funzioni dello Stato
La "fine del bipolarismo" e la "globalizzazione" sono certamente le due categorie intepretative di portata generale più largamente utilizzate di fronte alle radicali trasformazioni del contesto internazionale verificatesi nel corso dellultimo decennio. Né luno né laltro di questi concetti, tuttavia, ha un significato univoco, condiviso dalla comunità scientifica internazionale.
Pur concordando nellidentificare la "fine del bipolarismo" con la dissoluzione del blocco socialista ed il crollo dellUnione Sovietica, gli studiosi si dividono su come interpretare lo scenario risultante: "nuovo ordine" o "nuovo disordine"? "Monopolarismo" o "multipolarismo"?
La confusione appare ancora maggiore in relazione al concetto di "globalizzazione". Inizialmente riferito alle dinamiche economiche, poi a quelle culturali, il processo di globalizzazione tende ora, sempre più spesso, ad essere rappresentato come una tendenza generale e ineluttabile, che investe indistintamente tutte le sfere dellattività umana. Ne risulta che i processi inversi, di accentuazione dei particolarismi, evidenti negli ambiti più diversi (nazionalismi politici, fondamentalismi religiosi, regionalismi, protezionismi, etc.), finiscono sovente per essere spiegati, semplicisticamente, come "reazioni alla globalizzazione".
E evidente che precisare questi paradigmi e diradare queste ambiguità sono compiti che eccedono gli scopi e i limiti di questo Dossier. Ciononostante, una fase storica caratterizzata dalla fine del bipolarismo e da avanzati processi di globalizzazione (in unaccezione limitata del termine, che preciseremo tra breve) rappresenta il contesto in cui si deve necessariamente collocare, oggi, una riflessione sulle politiche europee in materia di immigrazione, asilo e sicurezza interna. Con le necessarie cautele, dunque è proprio dalla fine del bipolarismo e dalla globalizzazione che occorre partire.
Per oltre quattro decenni, la suddivisione del sistema internazionale in blocchi ha ingabbiato le società nazionali, ponendo limiti rigidi agli scambi ed alla circolazione di persone, merci, capitali, tecniche e idee tra le due metà del mondo. La definitiva caduta della divisione tra i due blocchi, nel 1989, ha aperto spazi nuovi non solo nei rapporti tra gli Stati e per lazione delle organizzazioni internazionali, ma anche nelle relazioni (economiche, culturali, associative, etc.) tra le società. Si è aperto uno spazio (potenzialmente) globale di azione per attori non-istituzionali (cioè, distinti dagli Stati e dalle organizzazioni internazionali) di vario tipo: imprese, associazioni, mafie, chiese, sette, individui.
Questa tendenza si è innestata su un processo, già in corso, di internazionalizzazione sempre più spinta ("globalizzazione", appunto) dei processi economici, sociali e culturali, resa possibile dal potenziamento del sistema internazionale dei trasporti e dalla diffusione straordinaria delle nuove tecnologie dellinformazione. La fine del bipolarismo e la globalizzazione hanno interagito strettamente, dando luogo a dinamiche sociali transnazionali spontanee di intensità nuova e, spesso, di natura inedita.
Con lespressione "dinamiche sociali transnazionali spontanee", si intende qui fare riferimento a tutte le forme di interazione spontanea (nel senso di non riconducibile direttamente allazione di istituzioni nazionali o di organizzazioni internazionali) tra società nazionali, diverse dalle relazioni economiche e commerciali ufficiali (cioè, quelle intercorrenti tra attori economici riconosciuti come tali sul piano giuridico). In questa categoria rientrano fenomeni sociali anche molto diversi tra loro come le migrazioni internazionali di massa (anche quelle di natura forzata, come i flussi di profughi bellici, ecologici, etc.), lattività delle organizzazioni criminali operanti su scala trasnazionale, le reti commerciali informali e illegali dotate di unestensione sovranazionale, lattività di organizzazioni non governative operanti su scala sovranazionale e altri ancora.
Nonostante lampiezza delle differenze tra diversi tipi di dinamiche sociali transnazionali spontanee, individuare una categoria unitaria appare utile, soprattutto ai fini di una riflessione sulle funzioni dello Stato e sui rapporti tra Stati, come quella contenuta nel presente Dossier. Al di là delle differenze (che riguardano, innanzitutto, il loro diverso grado di utilità, o di pericolosità sociale), infatti, fenomeni quali le migrazioni internazionali, la diffusione di reti associative transnazionali, lo sviluppo di organizzazioni criminali transnazionali, la crescita esponenziale delle possibilità di scambio internazionale di informazioni (Internet, satelliti privati, etc.), lo straordinario potenziamento dei circuiti finanziari transnazionali, etc., sono accomunati dallimportanza delle sfide che pongono alla capacità di controllo e di indirizzo (in una parola, di governo) degli Stati.
Le dinamiche sociali transnazionali, più intense che mai in un contesto internazionale post-bipolare e globalizzato, tendono a sfuggire alla capacità di governo individuale dei singoli Stati nazionali. Nella maggior parte dei casi, il mancato governo di tali dinamiche fa sorgere problemi di ordine economico e sociale a livello interno: si pensi, con le dovute distinzioni, allinstabilità sociale che può derivare da flussi migratori imprevisti, rapidi e di grandi dimensioni, oppure ai costi sociali di una forte penetrazione del crimine organizzato nel tessuto economico nazionale, o ancora alle conseguenze destabilizzanti di ampi ed improvvisi movimenti finanziari di natura speculativa.
Questi rischi, e la conseguente perdita di legittimità degli Stati associata ad essi, fanno emergere un bisogno di cooperazione internazionale nuovo, non solo per la sua intensità e la sua urgenza, ma anche per la sua stessa natura. Il bisogno di cooperazione si estende, infatti, a settori di attività degli Stati nei quali la cooperazione internazionale era tradizionalmente assente, o tuttal più blanda e marginale. Si tratta di settori che corrispondono ad alcuni ambiti centrali (e, dal punto di vista storico, originari) della sovranità statuale: dalla tutela dellordine pubblico, alla raccolta e alla gestione delle informazioni riservate necessarie alla salvaguardia dello Stato, al controllo delle frontiere.
E opportuno aggiungere che, oltre ad esercitare una forte spinta alla cooperazione, le "dinamiche sociali transnazionali" possono introdurre fattori nuovi (o intensificare fattori preesistenti) di competizione, o anche di conflitto, tra Stati e/o gruppi di Stati e/o organizzazioni internazionali.
1.2. Globalizzazione e nuove dimensioni della sicurezza
Lemergere di nuovi rischi (e lintensificazione di alcuni tra i rischi già esistenti), in connessione con il processo di globalizzazione, produce modifiche sostanziali nel concetto di "sicurezza", intesa come bene pubblico di importanza fondamentale e, quindi, come obiettivo primario dellattività delle istituzioni. Prima di analizzare schematicamente quelle che ci paiono le principali mutazioni del concetto di sicurezza verificatesi nel corso dellultimo decennio, è bene premettere che - come ogni altro costrutto culturale di portata generale e dotato di forti implicazioni valoriali (p.e., concetti come "ordine", "giustizia", etc.) - esso è profondamente influenzato dal ruolo professionale (studioso, giornalista, politico professionista, etc.) e dagli orientamenti politici di base del soggetto. Cercheremo, tuttavia, di concentrarci su alcune linee evolutive del concetto di sicurezza che appaiono generalmente condivise e dotate di specifica rilevanza rispetto ai temi affrontati in questo Dossier.
Con la fine della "guerra fredda" e i progressi nel disarmo nucleare nei rapporti tra le maggiori potenze, vengono sostanzialmente meno le minacce militari dirette nei confronti degli interessi nazionali vitali dei paesi occidentali, tra cui lItalia. Nel contesto nuovo che emerge, le minacce provenienti dallesterno dei confini alla stabilità, alla sicurezza ed al benessere della società nazionale - tralasciando in questa sede le minacce di natura strettamente economica (come laccresciuta concorrenza commerciale da parte di altri Paesi) - si riducono essenzialmente a due vaste categorie:
A) dinamiche sociali transnazionali spontanee potenzialmente dotate di portata destabilizzante e/o socialmente dannosa;
B) conseguenze destabilizzanti e/o socialmente dannose di tipo indiretto di conflitti armati locali o regionali che pure non rappresentano una minaccia diretta per le istituzioni e la società nazionali. Tali conseguenze indirette si possono distinguere, a loro volta, in:
i) dinamiche sociali transnazionali indotte dal conflitto (p.e.: flussi massicci di profughi);
ii) interruzione di flussi di scambio di rilevante interesse nazionale con il Paese o la regione interessati dal conflitto (p.e.: approvigionamenti energetici).
E essenziale precisare che i diversi fenomeni appena richiamati - sebbene accomunati, nella prospettiva particolare di questo Dossier, dal fatto di rappresentare fattori esterni di rischio per la sicurezza e la stabilità nazionale - hanno una valenza sociale complessiva diversa e non paragonabile. Alcuni di essi (p.e., criminalità organizzata su base transnazionale) hanno esclusivamente una valenza negativa per la sicurezza dei cittadini, così come per il buon funzionamento delle istituzioni democratiche e del libero mercato, nonché per il benessere complessivo della società nazionale. Altri fenomeni - pensiamo innanzitutto ai diversi tipi di migrazioni internazionali, ma anche ai nuovi circuiti globali di circolazione dellinformazione - hanno una valenza più complessa: un loro sviluppo disordinato e incontrollato può portare con sé rischi, anche seri, per le società interessate (non solo quella di destinazione, ma spesso anche quella di partenza dei diversi flussi); ma, gli stessi fenomeni - se opportunamente regolati - possono avere conseguenze fortemente positive, in quanto favoriscono la circolazione, e quindi una migliore ripartizione su scala globale di risorse fondamentali come quelle umane e informative.
Questa fondamentale distinzione tra dinamiche sociali transnazionali spontanee dotate di valenza esclusivamente negativa ed altre, il cui impatto sociale è assai più articolato, ha evidentemente unimportanza decisiva ai fini dellelaborazione delle politiche e delle strategie tecniche di risposta; in particolare, dai modi e dai gradi di tale distinzione dipende il rapporto tra strumenti preventivi e strumenti repressivi, così come anche lintensità della repressione.
Naturalmente, però, la distinzione tra dinamiche sociali transnazionali necessariamente negative ed altre potenzialmente utili è unoperazione concettuale che riflette - analogamente a quanto si è detto a proposito della definizione della "sicurezza" - posizione, ruolo, valori e orientamenti di chi la compie. Inoltre, tale operazione risulta complicata dal fatto che, nella pratica, sorgono spesso interazioni complesse tra dinamiche transnazionali teoricamente distinte. E evidente, infatti, che una rete internazionale di comunicazione o di trasporto, una volta attivata, può aprirsi a flussi di natura diversa: così, il World Wide Web (WWW) può servire a scambiare materiale didattico, ma anche a riciclare denaro sporco o ad organizzare una rete di prostituzione infantile; un circuito di migrazione clandestina può essere utilizzato anche per trafficare in stupefacenti; una associazione transnazionale di carattere religioso può coprire, magari ad insaputa dei suoi stessi dirigenti, attività terroristiche.
I nuovi rischi (o le nuove sfide, a seconda delle valutazioni sui singoli fenomeni) connessi alla globalizzazione modificano il concetto di "sicurezza" e influiscono sullorganizzazione e sulle modalità di funzionamento degli apparati preposti ad essa.
Accanto alla sicurezza militare, acquista rilievo crescente la sicurezza non-militare, categoria vastissima in cui possono essere fatti rientrare la sicurezza economica e quella ecologica, la lotta al traffico di stupefacenti e quella alla corruzione, il controllo delle migrazioni clandestine e quella sullo smaltimento dei rifiuti tossici.
Unaltra distinzione effettuata spesso da studiosi e da tecnici è quella tra "hard security" e "soft security". Generalmente, però questi termini vengono riferiti a modalità diverse di utilizzo dello strumento militare: a fini di combattimento nel caso della "hard security", a fini di prevenzione del conflitto e mantenimento della pace (conflict prevention; peace-keeping) nel caso della sicurezza "soft".
Parallelamente ad una riflessione sugli strumenti (militari e non) delle politiche di sicurezza, è in corso un ripensamento degli ambiti in cui tali politiche si sviluppano. La consolidata distinzione tra sicurezza esterna, affidata tradizionalmente alle forze armate e ai servizi di informazione militari, e la sicurezza interna, la cui salvaguardia è sempre stata compito delle forze di polizia e dellintelligence civile, si trova oggi in crisi. In un mondo attraversato da intense dinamiche sociali transnazionali spontanee, accade continuamente che da un fenomeno originato fuori dai confini nazionali scaturisca un rischio che interessa i gangli interni della società o delleconomia nazionale; inversamente, è frequente che un fenomeno endogeno si proietti allesterno, mettendo a repentaglio la sicurezza di Stati stranieri e generando, così, tensione internazionale e un bisogno potenziale di cooperazione.
Questa stretta e crescente interdipendenza tra dinamiche sociali interne ed esterne rende indispensabile concepire ed attuare le politiche di sicurezza (così come, daltronde, le politiche di sviluppo, quelle ambientali, etc.) in un quadro sovranazionale, che sarà, volta a volta, a seconda delle circostanze e delle esigenze, sub-regionale, regionale, inter-regionale o addirittura globale.
Tutto ciò comporta, evidentemente, la necessità di una revisione degli strumenti istituzionali e amministrativi, ai diversi livelli:
A) a livello internazionale, sorge lesigenza di una più intensa cooperazione e, su alcuni terreni ed in alcuni ambiti specifici, della creazione di organismi ad hoc. Allesame di questi sviluppi in ambito europeo, nel corso degli ultimi anni, è dedicato il presente Dossier;
B) a livello nazionale, diventa necessario istituire forme di coordinamento tra settori dellamministrazione statale (ministeri degli Affari esteri e ministeri dellInterno, innanzitutto; ma anche servizi di informazione civili e militari) tradizionalmente funzionanti con autonomia reciproca pressoché totale. Laccresciuta interdipendenza tra dimensioni interne ed esterne della sicurezza nazionale preme, inoltre, in direzione di unadeguamento dellorganizzazione interna delle singole articolazioni dellamministrazione nazionale: in particolare, si constata una tendenza a costituire, in seno ai ministeri dellInterno, uffici o servizi preposti alle funzioni esterne, alle proiezioni internazionali della struttura.
2. Lazione europea in materia di "affari interni" prima di Amsterdam
2.1. LEuropa post-1989 e le nuove dimensioni della sicurezza
Le trasformazioni delle funzioni dello Stato e del concetto di "sicurezza" a cui si è fatto cenno nellIntroduzione si manifestano con particolare evidenza in Europa occidentale, nel corso degli anni Ottanta. Sul vecchio Continente, tali trasformazioni hanno - nel decennio scorso e ancor più in quello presente - un impatto particolarmente profondo e duraturo sugli sviluppi politici nazionali, sulle relazioni internazionali intra-europee e sullo stesso processo di integrazione regionale nel quadro delle Comunità europee e (a partire dal 1993) dellUnione europea.
Nel tentativo di cogliere gli aspetti salienti di un processo di grande complessità, ci soffermeremo brevemente su due ordini di fenomeni che segnano, a livelli diversi, la storia europea del decennio scorso e che incidono profondamente, in connessione tra loro, sulla genesi di una azione europea in materia di "affari interni". Ci riferiamo, per un verso, a una serie di attentati terroristici di matrice straniera che colpiscono diversi Paesi europei allinizio degli anni Ottanta e, per un altro verso, ad una profonda evoluzione della natura e delle modalità dellimmigrazione straniera verso il Continente.
Numerosi Stati europei avevano conosciuto, nel corso degli anni Settanta e, in molti casi, anche prima, fenomeni terroristici di ispirazione indipendentista, rivoluzionaria o eversiva. Si trattava sempre, comunque, di movimenti nati allinterno della società nazionale e aventi nello Stato nazionale il loro bersaglio specifico. Nel corso degli anni Ottanta, invece, si manifesta in Europa occidentale un terrorismo di tipo nuovo, di matrice straniera e, in particolare, medio-orientale. I primi episodi chiaramente connotati in questo modo si registrano allinizio del decennio (assalto alla sinagoga di Roma: 9 ottobre 1982), ma il maggior numero di episodi si registra qualche anno più tardi (sequestro "Achille Lauro": 7 ottobre 1985; assalto aeroporto Fiumicino: 27 dicembre 1985; attentato a discoteca di Berlino: 5 aprile 1986).
Nonostante questi ed altri eventi criminosi analoghi siano espressione delle strategie di gruppi terroristici diversi, che agiscono con la presunta copertura di Stati diversi (Libia, Siria, Iran, Sudan, etc.), per finalità distinte, presso i governi e le opinioni pubbliche occidentali prevale una interpretazione unificante che esalta la "minaccia del terrorismo islamico" alle democrazie occidentali e vede in questa il braccio armato dellIslam, identificato come il nuovo avversario geopolitico dellOccidente. Nelle versioni estreme di questo paradigma (particolarmente significativa, per lampia eco che ha avuto, anche al di fuori del mondo accademico, è lopera di Samuel Huntington), insomma, al pericolo rosso sarebbe subentrato il pericolo verde (il verde è il colore dellIslam).
Nel corso dello stesso decennio (1980-1990), si registra una profonda evoluzione nella composizione e nella natura dei flussi migratori che interessano lEuropa occidentale. Gli aspetti fondamentali di tale evoluzione si possono schematizzare così:
a) le migrazioni internazionali che interessano i paesi europei provengono ormai quasi esclusivamente da Paesi non appartenenti alla Comunità europea; nello stesso arco di tempo, infatti, le migrazioni intra-comunitarie (dallEuropa mediterranea verso quella continentale) cessano quasi totalmente e si innescano, anzi, flussi di ritorno;
b) la cerchia dei Paesi extra-europei emissari di flussi migratori si è allargata; non si tratta più soltanto, comera prevalentemente fino agli anni Settanta, di ex-colonie da cui i migranti si indirizzano verso la vecchia madrepatria; il flusso si è globalizzato e prescinde, ormai, dallesistenza di precedenti legami storici. A partire dal 1989, la caduta del Muro di Berlino e lapertura dei confini delle repubbliche ex-socialiste apre nuovi canali alle migrazioni verso lEuropa occidentale;
c) quanto agli Stati di destinazione, non si tratta più soltanto dei Paesi di vecchia industrializzazione dellEuropa continentale e atlantica, ma anche, dei Paesi dellEuropa mediterranea (Italia, in primo luogo, ma anche, in misura minore, Spagna, Grecia, Portogallo);
d) a partire dalla metà degli anni Settanta, limmigrazione straniera verso lEuropa occidentale non avviene più in risposta a una domanda esplicita e aggregata di manodopera (prevalentemente industriale) proveniente dal sistema delle imprese. Gli immigrati rispondono ancora, per la maggior parte, a una domanda di lavoro, ma si tratta di una domanda implicita, quando non occulta (lavoro nero), concentrata nel settore dei servizi e dellagricoltura;
e) conseguentemente a quanto esposto al punto d), dal punto di vista giuridico limmigrazione si polarizza: la componente regolare si riduce gradualmente e risulta composta prevalentemente (tralasciando gli ingressi di breve periodo, non qualificabili tecnicamente come immigrazione) da famigliari di lavoratori stranieri già regolarmente presenti; la componente irregolare, invece, cresce, creando le premesse per lo sviluppo di organizzazioni dedite allo sfruttamento dellimmigrazione clandestina;
f) parallelamente al perdurare di flussi significativi di immigrazione a carattere prevalentemente economico (con le caratteristiche illustrate ai punti d) ed e)), si manifesta un potenziale crescente di migrazioni forzate, originate dalla necessità di sfuggire a persecuzioni o a condizioni di guerra, carestia, oppressione, violenza generalizzata e diffusa nel Paese di origine. Questa tendenza si accentua dopo il 1989, quando la disgregazione del blocco socialista dà luogo a numerose situazioni locali di grave instabilità politica e di conflitto.
Lintensificazione del terrorismo internazionale e levoluzione del fenomeno migratorio sono fenomeni nettamente distinti e reciprocamente autonomi. La loro concomitanza, tuttavia, unita alla tensione ed allincertezza che contraddistinguono la fase di transizione che lEuropa attraversa a cavallo del 1989, favorisce una lettura coordinata dei due ordini di fenomeni.
Nellopinione degli esperti e dei governanti europei, così come nel senso comune di molti cittadini europei, tende ad affermarsi quella che diversi studiosi hanno definito "ideologia securitaria" (o, per non usare un francesismo discutibile, lideologia della sicurezza interna). Con questa espressione si vuole indicare un insieme coerente di convinzioni che pongono in stretta relazione alcune minacce esterne alla sicurezza interna delle società europee (il terrorismo, ma anche il traffico di stupefacenti, lattività delle nuove mafie sviluppatesi nei Paesi dellEuropa orientale durante la transizione, etc.) con il fenomeno delle migrazioni internazionali. Questa correlazione - istituita enfatizzando il coinvolgimento di immigrati in attività illegali, amplificando il ruolo di alcuni Stati di emigrazione nel coprire tali attività, teorizzando la coincidenza tra i canali dellimmigrazione clandestina e quelli di altri traffici illeciti - coglie alcune dinamiche reali, ma le generalizza, fornendo così una rappresentazione distorta della realtà.
Linconveniente principale di una simile rappresentazione è che, da un lato, rischia di criminalizzare limmigrazione in quanto tale, rinforzando così i sentimenti xenofobi che si vorrebbero combattere e rendendo più difficile qualsiasi politica di integrazione; dallaltro lato, la focalizzazione sulle minacce esterne rischia di far distogliere lattenzione da alcune perduranti minacce interne al buon funzionamento delle democrazie europee.
Nonostante questi inconvenienti, l"ideologia della sicurezza interna" ha ispirato, almeno in una prima fase, lazione comune degli Stati europei in materia di "affari interni", condizionandone i metodi, le priorità e la scelta degli strumenti.
2.2. Libertà di circolazione e deficit di sicurezza
La percezione allarmata delle nuove minacce esterne alla sicurezza che prevale in Europa nel corso degli anni Ottanta è favorita da una dinamica evolutiva interna alla Comunità europea.
Fin dalla sua nascita, la Comunità economica europea (Trattato di Roma, 15 marzo 1957) aveva tra i suoi obiettivi la creazione di un "mercato comune", ovvero di uno spazio geografico e giuridico in cui la libertà di iniziativa privata (degli individui come delle imprese) non trovasse ostacoli, salvo quelli imposti dalla tutela della concorrenza e di alcuni fondamentali valori sociali e ambientali, nonché dal principio di non discriminazione. A fronte dei ritardi nel conseguire questo scopo, il Consiglio europeo di Milano del 28-29 giugno 1985 convocò una Conferenza intergovernativa per modificare i trattati istitutivi delle Comunità europee. Ne scaturì lAtto Unico Europeo (AUE; Lussemburgo, 17 febbraio 1986; LAja, 28 febbraio 1986), che introdusse nel trattato istitutivo della Comunità europea (TCE) la fondamentale norma dellarticolo 8A (ora: art.14, comma 2), secondo cui entro la fine del 1992 avrebbe dovuto essere istituito un mercato interno, definito come "uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali". Sulle implicazioni di questa dicitura, esperti e responsabili politici non sono concordi; vi è tuttavia un ampio consenso sul fatto che vi rientri il principio dellabolizione dei controlli alle frontiere interne della Comunità (cioè le frontiere tra Paesi membri: non solo quelle terrestri, ma anche porti ed aeroporti, quando il mezzo di trasporto giunga da un altro Stato membro).
I controlli sulle persone e sulle merci in transito alle frontiere esistono probabilmente da quando esistono entità politiche su base territoriale e sono diventati sistematici con lo sviluppo, in Europa, degli Stati nazionali moderni, a partire dal XVII° secolo. NellEuropa moderna, ai diversi tipi di controllo delle frontiere si è venuta associando sempre più strettamente lidea di sicurezza: la sorveglianza militare dei confini garantisce la sicurezza esterna, i controlli di polizia salvaguardano la sicurezza interna.
In realtà, limportanza del controllo delle frontiere a fini di sicurezza diminuisce progressivamente in epoca contemporanea. Per quanto riguarda la sicurezza militare, questa diminuzione dimportanza, avviata da sviluppi tecnologici (p.e. uso crescente dellaviazione), è diventata massima con la fine del bipolarismo e la cessazione di un rischio attuale di attacco armato esterno. Per quanto riguarda la sicurezza non militare, invece, lefficacia dei controlli di frontiera è oggettivamente diminuita per effetto dellaccresciuta capacità di eluderli da parte della criminalità organizzata (mediante falsificazione di documenti, uso di documenti rubati, etc.) e per lo sviluppo di tecnologie che rendono spesso superfluo per i criminali lattraversamento fisico delle frontiere (p.e. trasferimenti elettronici di denaro e titoli).
Ciononostante, la spinta allabolizione dei controlli di polizia alle frontiere interne derivante dal processo di integrazione europea - raggiungendo il suo massimo in un momento di forte inquietudine per la sicurezza interna (cfr. par. precedente) - ha generato notevoli preoccupazioni allinterno delle forze di polizia, in seno alle istituzioni e presso le opinioni pubbliche europee. E nata così, presso una larga maggioranza dei governanti e dei partiti politici europei, la convinzione che lobiettivo politico della piena libertà di circolazione potesse essere perseguito solo contestualmente alladozione di adeguate misure finalizzate a compensare il deficit di sicurezza che ne sarebbe inevitabilmente derivato.
Le misure individuate come adeguate per evitare che allabolizione dei controlli si accompagnasse un calo complessivo della sicurezza del continente sono riconducibili essenzialmente a due categorie:
a) rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne;
b) intensificazione e miglioramento dellefficacia dei controlli allinterno dello spazio di libera circolazione.
Conformemente all"ideologia della sicurezza interna" richiamata nel paragrafo precedente, questo ampio disegno di potenziamento dei controlli di polizia alle frontiere esterne e allinterno dello spazio unitario di libera circolazione è stato concepito senza effettuare una distinzione netta tra controlli sul crimine e controlli sulle migrazioni non autorizzate. Daltra parte, va rilevato che, in alcuni Stati europei, la distinzione, sul piano giuridico è resa problematica dal fatto che limmigrazione clandestina vi è qualificata come illecito penale (reato), e non come semplice illecito amministrativo, come in Italia.
2.3. Metodo intergovernativo / metodo comunitario
Intorno alla metà degli anni Ottanta, dunque, una duplice priorità si afferma nella politica europea:
I) abolizione dei controlli alle frontiere interne;
II) adozione di misure compensative (questa è la terminologia che, come vedremo, prevarrà in ambito Schengen) sul versante della sicurezza interna.
Abbiamo già detto (par.2.2.) che, per quanto riguarda gli obiettivi generali, le misure compensative si possono ricondurre essenzialmente a due categorie: rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne; intensificazione e miglioramento dellefficacia dei controlli allinterno dello spazio di libera circolazione.
Per quanto riguarda gli strumenti tecnici, invece, si forma progressivamente la convinzione che occorra rendere più efficace, intensa e coordinata lazione degli apparati di controllo nazionali mediante:
a) armonizzazione normativa. Larmonizzazione di leggi, regolamenti e standard di azione, è finalizzata ad eliminare gli anelli deboli in un sistema di controllo ormai caratterizzato da interdipendenze fortissime tra le sue componenti nazionali;
b) coordinamento operativo. Il coordinamento dellazione (di controllo e repressiva) delle diverse amministrazioni nazionali è finalizzato ad eliminare sovrapposizioni, ad evitare dispersioni di energie, a rafforzare la capacità di risposta e ad allargare lo spettro di azione;
c) integrazione informativa. Infine, si individua uno strumento decisivo nello scambio sistematico di informazioni attraverso lintegrazione permanente dei sistemi informativi (parleremo più avanti delle banche-dati SIS, EUROPOL, etc.) e, in una fase successiva, nellanalisi congiunta delle informazioni condivise.
Nella definizione degli obiettivi generali dellazione europea in materia di affari interni e nellindividuazione degli strumenti necessari non si sono registrati dissensi di fondo tra le principali forze politiche e tra gli Stati membri, nel corso degli ultimi quindici anni. Sul terreno politico, lunico dissenso organizzato davvero significativo è stato, probabilmente, quello espresso da una variegata galassia transnazionale di organizzazioni non governative. Da posizioni improntate a una rigorosa difesa dei diritti umani e dei principi dello Stato di diritto e ispirate a ideali di solidarietà internazionale, questa parte della società civile impegnata ha espresso una critica di fondo al progetto politico di legare libertà di circolazione e rafforzamento dei controlli, rifiutando lassimilazione di criminalità e immigrazione e denunciando la nascita di una "fortezza Europa".
Allampio consenso politico su obiettivi e strumenti si è, tuttavia, affiancata unintensa e talora aspra dialettica sui metodi politico-istituzionali più adeguati, per pervenire ad una azione comune europea sul terreno degli affari interni. Si sono contrapposti, in particolare, i fautori di un metodo esclusivamente intergovernativo e quelli di un metodo prevalentemente comunitario; tra queste due posizioni estreme, sono poi affiorate posizioni intermedie, che hanno progressivamente avuto la meglio.
Ogni volta che, in un determinato ambito geografico (sub-regionale, regionale, inter-regionale o globale), sorge unesigenza di cooperazione internazionale, la via normale per soddisfarla è quella della cooperazione diretta tra Stati (bilaterale o multilaterale), che può avere livelli diversi di formalizzazione (esistenza o meno di un trattato; coinvolgimento o meno dei parlamenti nazionali; etc.).
Nel caso dellEuropa occidentale contemporanea, però, esiste da oltre quarantanni una struttura istituzionalizzata di cooperazione, dotata di soggettività internazionale autonoma: la Comunità europea, o meglio le Comunità europee, considerando anche la Comunità europea del carbone e dellacciaio-CECA e la Comunità europea per lenergia atomica-CEEA, nota anche come EURATOM. Nello spirito dei trattati che le istituiscono, le istituzioni europee dovrebbero sostituirsi ai singoli Stati, od affiancarsi ad essi, nel prendere decisioni in una nutrita serie di materie in cui si è ritenuto che linteresse comune europeo fosse distinto e più forte, e dovesse quindi prevalere sulla somma degli interessi nazionali.
Le differenze esistenti tra le procedure decisionali internazionali normali (si parla di procedure intergovernative, invece che internazionali, quando il coinvolgimento dei parlamenti nazionali è scarso o inesistente) e quelle comunitarie sono profonde e significative. Non potendo, in questa sede, procedere ad unanalisi approfondita, ci limitiamo a indicare schematicamente che tali differenze riguardano:
A) il metodo decisionale in senso stretto: mentre in ambito internazionale/intergovernativo la regola fondamentale è quella dellunanimità, in ambito comunitario un numero crescente di decisioni è assunto a maggioranza qualificata;
B) lintensità del controllo democratico: nelle procedure decisionali internazionali (e soprattutto in quelle definite, proprio per questo, intergovernative), il livello di trasparenza e, di conseguenza, il controllo degli organi rappresentativi sulloperato di quelli esecutivi è scarso o inesistente e, comunque, esercitato a posteriori; in ambito comunitario, invece, il controllo parlamentare è più penetrante e, in certe materie, si traduce in un vero e proprio potere di co-decisione;
C) la presenza e lintensità del controllo giudiziario: mentre il controllo esercitato dai giudici nazionali sui contenuti e sulle violazioni del diritto internazionale è ancora, tutto sommato, scarso e sporadico, lesistenza di un organi giudiziari ad hoc (Corte di giustizia e Tribunale di primo grado delle Comunità europee) rende il controllo giudiziario in ambito comunitario assai più sistematico ed incisivo.
2.4. La fase iniziale della cooperazione intergovernativa
Nel corso degli anni Settanta, di fronte alle prime manifestazioni delle inedite minacce alla sicurezza interna europea a cui abbiamo fatto cenno nel par.2.1., i governi del vecchio Continente imboccano con decisione la strada della cooperazione intergovernativa. In pochi anni, nascono numerosi gruppi di cooperazione, che si differenziano fortemente tra loro con riferimento a: specializzazione tematica (terrorismo, droga, immigrazione, criminalità organizzata, cooperazione doganale, etc.), livello gerarchico (ministri, dirigenti, funzionari dotati di competenze operative), grado di complessità e di formalizzazione organizzativa, frequenza delle riunioni e continuità dellattività, livello di segretezza.
Si forma così una rete di cooperazione di estrema complessità, in continua evoluzione e caratterizzata da una scarsissima trasparenza, da una definizione flessibile dei compiti di ciascun gruppo e da frequenti sovrapposizioni. Non è questa la sede per tentare una mappatura di questa galassia, oggi in parte estinta e di cui molti aspetti rimangono tuttora avvolti in un velo di segreto (o di estrema riservatezza). Ci limitiamo, quindi, a nominare alcuni tra i gruppi che appaiono più significativi nella nostra prospettiva, per linfluenza che hanno avuto sugli sviluppi successivi della politica europea in materia di affari interni: MAG (Mututal Assistance Group, esistente dal 1972), TREVI (creato il 1° dicembre 1975), Police Working Group on Terrorism (PWGOT, costituito nel 1979), Gruppo ad hoc Immigrazione (creato il 20 ottobre 1986), Comité Européen de Lutte Anti-Drogue (CELAD, nato nel dicembre 1989), Gruppo dei Coordinatori (istituito dal Consiglio europeo di Rodi del dicembre 1988, nel tentativo di rimediare alla confusione generata dal proliferare dei gruppi tematici).
Tra tutti questi fori di cooperazione intergovernativa operanti in materia di affari interni spicca, comunque, per limportanza dei risultati concretamente ottenuti, quello istituito dagli accordi di Schengen (cfr. par.2.5.).
Di fronte allimpetuosa espansione della cooperazione intergovernativa in materia di sicurezza interna, le istituzioni comunitarie assumono atteggiamenti diversi.
Il Parlamento europeo sviluppa rapidamente, e successivamente mantiene, un atteggiamento critico, basato sullaffermazione della competenza comunitaria in alcune delle materie coinvolte (p.e. in relazione alla realizzazione della libertà di circolazione, anche con riferimento alla condizione dei cittadini di Paesi terzi) e sulla generale condanna delle carenze di controllo democratico e giudiziario insite nel metodo intergovernativo.
La Commissione europea, dal canto suo, dopo un tentativo, praticamente fallito, di affermare una sia pur limitata competenza comunitaria in materia di immigrazione (cfr. la decisione della Commissione dell8 luglio 1985, che istituisce una procedura di comunicazione obbligatoria e di consultazione preventiva tra Stati membri in materia di politiche migratorie, rimasta sostanzialmente inattuata), adotta una linea più conciliante. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, lorganismo titolare del potere di iniziativa in ambito comunitario riconosce pragmaticamente lutilità della cooperazione intergovernativa, al fine di dissodare un terreno rivelatosi non ancora pronto per un coinvolgimento diretto delle istituzioni comunitarie. Corrispettivamente, la Commissione ottiene dagli Stati membri il riconoscimento della facoltà di partecipare, mediante suoi osservatori, alle attività intergovernative più significative.
Questa sorta di compromesso, che sancisce il prevalere del metodo intergovernativo ma lascia aperta la strada al dialogo con le istituzioni comunitarie, trova una formulazione esplicita nella "Dichiarazione politica dei governi degli Stati membri relativa alla libera circolazione delle persone", allegata allAtto unico europeo del 1986 (cfr. par.2.2.); vi si riconosce, infatti, che "gli Stati membri cooperano, senza pregiudizio delle competenze della Comunità, in particolare per quanto riguarda lingresso, la circolazione ed il soggiorno dei cittadini di Paesi terzi [nonché] la lotta contro il terrorismo, la criminalità, gli stupefacenti e il traffico delle opere darte e delle antichità".
2.5. I caratteri fondamentali del Sistema Schengen
Il Sistema Schengen, ovvero il foro di cooperazione intergovernativa istituito dagli accordi firmati (nel 1985 e nel 1990) nellomonima cittadina lussemburghese, è liniziativa di cooperazione intergovernativa europea in materia di affari interni più importante, per ragioni non soltanto quantitative (durata; numero e importanza delle decisioni assunte), ma anche qualitative e strutturali. La specificità del Sistema Schengen deriva da due caratteri essenziali:
I) la presenza di una base normativa ampia e dettagliata (laccordo del 1985, ma soprattutto la Convenzione di applicazione del 1990), che definisce obiettivi, presupposti e modalità della cooperazione;
II) la presenza di un apparato permanente, preposto allamministrazione degli accordi, composto da un Segretariato e, soprattutto, da un Comitato esecutivo. Esiste, poi, una "Autorità di controllo comune", il cui compito, limitato ma assai importante, è quello di "esercitare il controllo dellunità di supporto tecnico del Sistema di Informazione Schengen [noto come SIS]" (art.115 Conv.).
Il Comitato esecutivo, istituito e regolato dagli articoli 131-133 della Convenzione, è composto da un rappresentante (ministro o delegato) per ogni Stato contraente, delibera allunanimità e può avvalersi di "Gruppi di lavoro" creati ad hoc e composti da rappresentanti delle amministrazioni nazionali. Il Comitato esecutivo ha "il compito generale di vigilare sulla corretta applicazione" della Convenzione; nella pratica, però, più che di unattività di vigilanza, si è trattato di una continua attività di indirizzo e regolativa, volta a far funzionare una Convenzione di grande ampiezza e complessità.
Per quanto riguarda i contenuti degli accordi di Schengen (e, in particolare, della Convenzione del 1990 che, pur configurandosi come testo applicativo, rappresenta il vero trattato istitutivo) si può sostenere, in termini generali e schematici, che essi coincidono con quelli indicati nel par.2.2.:
A) soppressione dei controlli di polizia sulle persone e alleggerimento dei controlli sulle merci alle frontiere interne (il concetto di "frontiere interne" ottiene una definizione analitica nellarticolo 1: "le frontiere terrestri comuni delle Parti contraenti, i loro aeroporti adibiti al traffico interno ed i porti marittimi per i collegamenti regolari di passeggeri in provenienza o a destinazione esclusiva di altri porti situati nel territorio delle Parti contraenti, senza scalo in porti situati al di fuori di tali territori");
B) rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne e, più in generale, miglioramento, sotto il profilo dellefficacia, dei controlli svolti dalle autorità nazionali sullimmigrazione clandestina e irregolare e sugli abusi del diritto dasilo;
C) intensificazione e miglioramento dellefficacia dei controlli di sicurezza (e dellattività giudiziaria in materia penale) allinterno dello spazio di libera circolazione.
Mentre il primo obiettivo, in sé relativamente semplice da realizzare, non occupa che pochi articoli della Convenzione (art.2, per le persone, artt.120-125, per le merci), agli obiettivi B e C sono dedicati rispettivamente gli articoli 3-38 (Capitolo 2: Passaggio delle frontiere esterne; Cap.3: Visti; Cap.4: Condizioni di circolazione degli stranieri; Cap.5: Titoli di soggiorno e segnalazioni ai fini della non ammissione; Cap.6: Misure di accompagnamento; Cap.7: Responsabilità per lesame delle domande di asilo) e gli articoli 39-91 (Titolo III: Polizia e sicurezza, suddiviso in: Capitolo 1: Cooperazione tra forze di polizia; Cap.2: Assistenza giudiziaria in materia penale; Cap.3: Applicazione del principio ne bis in idem; Cap.4: Estradizione; Cap.5: Trasmissione dellesecuzione delle sentenze penali; Cap.6: Stupefacenti; Cap.7: Armi da fuoco e munizioni).
Allobiettivo C è inoltre complessivamente riconducibile il Titolo IV, che istituisce e disciplina il Sistema di Informazione Schengen (SIS), una rete informatica che consente laccesso a un archivio comune, costantemente aggiornato, contenente segnalazioni di persone (a diversi fini: arresto a fini di estradizione; non ammissione nello spazio Schengen; comparizione davanti allautorità giudiziaria a fini di testimonianza; sorveglianza discreta; controllo specifico; etc.) e oggetti (veicoli segnalati a fini di sorveglianza discreta o controllo specifico; veicoli, armi da fuoco, documenti rubati o smarriti, banconote, ricercati a scopo di sequestro o di prova in un procedimento penale).
Strettamente complementari alle norme sul SIS sono, infine, le norme, numerose e dettagliate (artt.102-118 e 126-130) sulla protezione dei dati personali e sulla sicurezza dei dati allinterno del Sistema.
Una trattazione analitica delle implicazioni concrete della Convenzione di Schengen (e della normativa di applicazione adottata sulla sua base dal Comitato esecutivo) nei molteplici ed eterogenei settori da essa toccati richiederebbe un intero, e corposo, manuale. Ci limitiamo qui a sottolineare, in chiave sintetica, che gli accordi di Schengen danno vita a un sistema integrato e multisettoriale di cooperazione intergovernativa nel campo della sicurezza interna. Il Sistema Schengen, attraverso il suo funzionamento e il suo sviluppo, incide profondamente su alcuni aspetti fondamentali dellorganizzazione politica (in senso lato) delle società europee.
Per un verso, labolizione dei controlli sistematici di polizia alle frontiere interne facilita gli spostamenti di milioni di persone e genera un senso di maggiore libertà, assai importante sotto il profilo simbolico (dal punto di vista strettamente giuridico, però, parlare di una libertà individuale corrispondente alla soppressione dei controlli è improprio, perché, sebbene siano soppressi i controlli sistematici, controlli occasionali o a campione sono tuttora possibili e assolutamente leciti).
Per un altro verso - e questo è laspetto che ci interessa di più in questa sede - la nascita del Sistema Schengen avvia (o meglio, incoraggia ed accelera) una trasformazione strutturale di portata storica nella tecnica dei controlli di polizia in Europa. Le principali linee direttive di questa trasformazione sono le seguenti:
a) passaggio da una cooperazione sporadica a una cooperazione sistematica tra forze di polizia (p.e. mediante attivazione di circuiti di comunicazione permanenti: cfr. art.44 Conv.);
b) attenuazione (attraverso gli istituti dellosservazione e dellinseguimento oltrefrontiera: vd. artt.40-43) dei limiti derivanti dalle frontiere di Stato alla sfera di azione legittima delle polizie nazionali;
c) transizione da un modello di gestione esclusiva (su base nazionale) delle risorse informative verso un modello di gestione integrata e di utilizzo condiviso;
d) per quanto riguarda lo spazio interno comune, abbandono progressivo di un modello di controllo incentrato prevalentemente sul territorio (controllo localizzato e statico) - e, in particolare, su specifiche linee territoriali, quali sono le frontiere - a favore di un modello di controllo incentrato sulle persone (controllo diffuso e dinamico) - e, in particolare, su categorie particolari di persone (p.e. gli stranieri) suscettibili a priori di forme specifiche di segnalazione;
e) viceversa, per quanto riguarda le frontiere esterne dello spazio comune, tendenza allarmonizzazione ed al rafforzamento dei controlli localizzati, accompagnata però da una tendenza alla esternalizzazione dei controlli stessi, mediante il coinvolgimento di Stati terzi (attraverso gli accordi di riammissione) o di soggetti privati (mediante la responsabilità del vettore) nellattività di controllo.
2.6. Espansione e crisi del Sistema Schengen
Nella prospettiva degli Stati fondatori, ledificazione del Sistema Schengen si configura come un esperimento politico-istituzionale: un modo per tentare di realizzare alcuni obiettivi fondamentali del processo di integrazione europea (innanzitutto la piena libertà di circolazione), senza cedere quote di sovranità in un ambito - quello degli affari interni - politicamente molto sensibile. In altri termini, gli accordi di Schengen nascono come uno strumento per rendere possibile il necessario salto di qualità nella cooperazione in materia di sicurezza interna, anche in una fase storica in cui la fiducia reciproca tra i governi e gli apparati di polizia europei (nel campo del controllo dellimmigrazione, della lotta alla criminalità organizzata, etc.) non è ancora piena.
Fin dalle prime fasi dellesperimento Schengen, gli Stati promotori hanno cura di non contrapporre tale iniziativa al processo di integrazione ed alle eventuali competenze comunitarie. Nel preambolo alla Convenzione del 1990, anzi, è espressamente detto che il fine perseguito dalle Parti contraenti coincide con lobiettivo individuato dal TCE, come modificato dallAUE, di completare il mercato interno mediante uno "spazio interno senza frontiere" e non pregiudica "le misure che saranno adottate in applicazione delle disposizioni del Trattato"; sul piano pratico, inoltre, è importante rilevare che la Commissione è invitata a partecipare, in qualità di osservatore, alle riunioni del Comitato esecutivo; dal punto di vista normativo, infine, il Sistema Schengen si fonda su una rigorosa clausola che esclude lapplicabilità della normativa Schengen qualora essa si ponga in contrasto con il diritto comunitario (Art.134 Conv. applicazione).
La necessità di costruire una fiducia internazionale ancora insufficiente spiega perché lesperimento Schengen venga inizialmente avviato allinterno di un nucleo di Paesi (Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi) ristretto e relativamente omogeneo (rispetto p.e. alle caratteristiche dellimmigrazione e della presenza straniera), tra i quali esiste già una tradizione di cooperazione in materia di sicurezza interna e di libera circolazione (Benelux), nonché un dialogo politico profondo e costante (in part. tra Francia e Germania). Per le stesse ragioni, è comprensibile come eventi sopravvenuti della portata della caduta del Muro di Berlino e della riunificazione tedesca, modificando sostanzialmente il contesto in cui era iniziato il processo, rallentino la piena ed effettiva applicazione degli accordi.
Dopo le esitazioni iniziali, il processo avviato nel 1985 e consolidato nel 1990 acquista progressivamente unampiezza e una credibilità che portano ad una sua significativa espansione.
Mentre gli Stati fondatori proseguono il percorso di adeguamento che porta dallentrata in vigore formale alla messa in applicazione integrale sul piano pratico (26 marzo 1995), una cerchia di Paesi esterna rispetto al nucleo originario aderisce al Sistema, firmando gli atti di adesione ai trattati istitutivi. In ordine cronologico, le tappe dellallargamento sono le seguenti: Italia (27 novembre 1990), Spagna (25 giugno 1991), Portogallo (25 giugno 1991), Grecia (5 novembre 1992), Austria (28 aprile 1995), Danimarca, Finlandia e Svezia (dicembre 1996). Nello stesso dicembre 1996, infine, la Norvegia e lIslanda, che in quanto Stati non membri delle Comunità europee non possono diventare parti degli accordi di Schengen (art.140 Conv.), e tuttavia desiderosi di non compromettere il regime di libera circolazione da tempo vigente con gli altri paesi scandinavi (Nordic Passport Union), firmano con i Paesi Schengen accordi di cooperazione che conferiscono loro lo status di membri associati del Sistema.
Lallargamento formale dellarea di libera circolazione governata dagli accordi di Schengen non va di pari passo con il suo allargamento effettivo. La messa in applicazione degli accordi per i nuovi membri è infatti subordinata allaccertamento da parte del Comitato esecutivo della realizzazione di una serie di condizioni sostanziali, che possono essere così sintetizzate:
a) realizzazione di un controllo efficace delle frontiere esterne (art.3 Conv.);
b) istituzione di una sezione nazionale del SIS (art.92 Conv.);
c) adempimento degli obblighi in materia dasilo derivanti dal Cap.7 Conv.;
d) armonizzazione della politica nazionale in materia di visti con i criteri elaborati in ambito Schengen;
e) esistenza di una legislazione nazionale sulla protezione dei dati personali conforme ai criteri indicati nella Convenzione (artt.117 e 126);
f) rispetto degli obblighi in materia di stupefacenti derivanti dalla Convenzione (artt. 70 ss.);
g) adeguamento delle strutture aeroportuali (artt.2 e 4 Conv.).
La soddisfazione di queste condizioni ha richiesto a tutti gli Stati aderenti al Sistema Schengen uno sforzo, più o meno intenso, di riorganizzazione e potenziamento amministrativo, di rinnovamento infrastrutturale e di modernizzazione legislativa. E noto che questo sforzo ha richiesto tempi diversi agli Stati che hanno aderito al Sistema Schengen dopo la sua costituzione: mentre Spagna e Portogallo sono riusciti a riempire i requisiti in tempo per la messa in applicazione iniziale (26 marzo 1995), lingresso a pieno titolo dellItalia e dellAustria è avvenuto soltanto il 31 marzo 1998, quello della Grecia potrebbe avere luogo prima della fine del 1999, mentre il completamento delle procedure di ratifica è atteso per Danimarca, Finlandia e Svezia.
Nonostante landamento a ondate del processo di espansione dellarea Schengen abbia generato sporadiche tensioni tra i nuovi entrati e alcuni degli Stati fondatori, si deve considerare indubbiamente un successo politico il fatto che oggi tredici dei quindici Stati membri dellUnione europea (rimangono escluse, per loro volontà, la Gran Bretagna e lIrlanda, a loro volta unite da un regime bilaterale di libera circolazione) facciano oggi parte (sebbene non ancora tutti a pieno titolo) del Sistema. E più difficile dire in che misura al successo politico corrisponda un successo pratico: mentre è palpabile la soddisfazione di milioni di cittadini europei per la soppressione dei controlli alle frontiere interne ed è tangibile il risparmio che questo comporta per molte imprese, è difficilissimo individuare indicatori attendibili per misurare limpatto delle misure elaborate in ambito Schengen su fenomeni ampi, mutevoli e diversificati come limmigrazione clandestina e la criminalità organizzata.
Paradossalmente, proprio nel successo del modello Schengen si annidano le cause della sua crisi e della necessità di un suo superamento. Questo è vero in un duplice senso.
Per un verso, laumento del numero degli Stati facenti parte del Sistema e la perdita di omogeneità che ne deriva fanno sì che lassunzione di decisioni allunanimità diventi sempre più problematica. La natura intergovernativa del Sistema diventa, di conseguenza, un fattore sempre più evidente di lentezza e di scarsa incisività decisionale.
Per un altro verso, la messa in applicazione degli accordi determina un oggettivo e significativo aumento della loro rilevanza pratica e politica. A partire dal 1995, il funzionamento del Sistema Schengen incide sempre più profondamente sulla vita economica e sociale del Continente, sulle relazioni internazionali interne ed esterne ad esso, sui diritti e sulle opportunità dei cittadini europei e, soprattutto, dei cittadini di Stati terzi. In queste circostanze, il grave deficit di democrazia e di trasparenza che affligge il Sistema diventa sempre più difficile da giustificare e da accettare. La legittimità stessa del progetto politico di unEuropa senza frontiere e della sicurezza interna rischia di venire compromessa.
Entrambi questi fattori innescano un ripensamento politico e tecnico, che maturerà in seno alla Conferenza intergovernativa del 1996-1997 e produrrà i suoi frutti con il trattato di Amsterdam (firmato il 2 ottobre 1997; cfr. cap.2).
2.7. Il terzo pilastro e lo sviluppo di una soft law europea
Ben prima che quella che abbiamo definito "crisi del Sistema Schengen" si manifestasse come tale, è venuta delineandosi, presso gli Stati membri e le istituzioni comunitarie, lesigenza di mettere a punto unalternativa istituzionale a quello che era stato configurato, fin dallinizio, come un esperimento (cfr. par.2.6.). Questa ricerca è approdata a un primo risultato importante con il Trattato sullUnione europea (TUE), firmato a Maastricht (Paesi Bassi) il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore, dopo una tormentata fase di ratifica da parte dei Parlamenti nazionali dei Paesi membri, il 1° novembre 1993.
Il TUE è un testo profondamente innovativo, che modifica in maniera radicale larchitettura delledificio europeo; se prima si trattava di un blocco unitario rappresentato essenzialmente dalla Comunità europea (a cui si affiancavano, ma con un rilievo decisamente secondario, CECA e EURATOM), adesso si trasforma in una struttura complessa: alloriginaria componente comunitaria - che viene arricchita del progetto di Unione monetaria - si aggiungono due componenti ulteriori: il "secondo pilastro", consacrato allelaborazione di una "politica estera e di sicurezza comune", e il "terzo pilastro", dedicato alla "cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni" (GAI). Questi due nuovi "pilastri" costituiscono degli ambiti istituzionali nuovi, in cui le stesse istituzioni della Comunità europea (in particolare, la Commissione, il Consiglio e, in misura limitata, il Parlamento e la Corte di giustizia) vengono abilitate ad operare secondo regole e modalità nuove e specifiche, per trattare argomenti e perseguire obiettivi che erano (e rimangono) esclusi dalla sfera di competenza comunitaria.
Per quanto riguarda in particolare il "terzo pilastro", il suo obiettivo di fondo, come sinteticamente enunciato nel preambolo del Trattato, è "di agevolare la libera circolazione delle persone, garantendo nel contempo la sicurezza dei [...] popoli". Questo obiettivo generale, coerente con lazione precedentemente condotta in ambito intergovernativo, viene perseguito individuando una serie di "questioni di interesse comune", di cui le istituzioni europee sono chiamate ad occuparsi "fatte salve le competenze della Comunità europea" (art.K.1, TUE), nel rispetto del principio di sussidiarietà e "delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell'ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna" (art.K.2, comma 2), nonché nel rispetto "della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951" (art.K.2, comma 1).
Le "questioni di interesse comune", che delimitano la sfera di competenza del terzo pilastro, coincidono con i seguenti settori (art.K.1):
"1) la politica di asilo;
2) le norme che disciplinano l'attraversamento delle frontiere esterne degli Stati membri da parte delle persone e l'espletamento dei relativi controlli;
3) la politica d'immigrazione e la politica da seguire nei confronti dei cittadini dei paesi terzi:
a) le condizioni di entrata e circolazione dei cittadini dei paesi terzi nel territorio degli Stati membri;
b) le condizioni di soggiorno dei cittadini dei paesi terzi nel territorio degli Stati membri, compresi il ricongiungimento delle famiglie e l'accesso all'occupazione;
c) la lotta contro l'immigrazione, il soggiorno e il lavoro irregolari di cittadini dei paesi terzi nel territorio degli Stati membri;
4) la lotta contro la tossicodipendenza, nella misura in cui questo settore non sia già contemplato dai punti 7, 8 e 9;
5) la lotta contro la frode su scala internazionale, nella misura in cui questo settore non sia già contemplato dai punti 7, 8 e 9;
6) la cooperazione giudiziaria in materia civile;
7) la cooperazione giudiziaria in materia penale;
8) la cooperazione doganale;
9) la cooperazione di polizia ai fini della prevenzione e della lotta contro il terrorismo, il traffico illecito di droga e altre forme gravi di criminalità internazionale, compresi, se necessario, taluni aspetti di cooperazione doganale, in connessione con l'organizzazione a livello dell'Unione di un sistema di scambio di informazioni in seno ad un Ufficio europeo di polizia (Europol)".
Come si può vedere, si tratta sostanzialmente delle stesse materie già da tempo oggetto di cooperazione intergovernativa. La novità di maggior rilievo riguarda forse la possibilità di elaborare linee comuni di "politica dimmigrazione" e di "politica da seguire nei confonti dei cittadini di paesi terzi", in un senso ben più ampio di quello sino ad allora prevalso, per esempio allinterno del sistema Schengen.
Il successivo art.K.3 individua gli strumenti normativi e di indirizzo mediante i quali elaborare unazione europea su questi terreni:
"1. Nei settori di cui all'articolo K.1, gli Stati membri si informano e si consultano reciprocamente, in seno al Consiglio, per coordinare la loro azione; essi instaurano a tal fine una collaborazione tra i servizi competenti delle loro amministrazioni.
2. Il Consiglio può,
…
su iniziativa di qualsiasi Stato membro o della Commissione nei settori di cui ai punti da 1 a 6 dell'articolo K.1,…
su iniziativa di qualsiasi Stato membro nei settori di cui ai punti 7, 8 e 9 dell'articolo K.1:a) adottare posizioni comuni e promuovere, nella forma e secondo le procedure appropriate, ogni cooperazione utile al conseguimento degli obiettivi dell'Unione;
b) adottare azioni comuni, nella misura in cui gli obiettivi dell'Unione, data la portata o gli effetti dell'azione prevista, possono essere realizzati meglio con un'azione comune che con azioni dei singoli Stati membri; esso può decidere che le misure di applicazione di un'azione comune siano adottate a maggioranza qualificata;
c) fatto salvo il disposto dell'articolo 220 del trattato che istituisce la Comunità europea, elaborare convenzioni di cui raccomanderà l'adozione da parte degli Stati membri conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.
Salvo disposizioni contrarie previste da tali convenzioni, le eventuali misure di applicazione di queste ultime sono adottate in seno al Consiglio a maggioranza dei due terzi delle Alte Parti Contraenti [...]".
Il vizio principale di questa norma-chiave, reso evidente dalla pratica successiva, consiste nellassenza di chiarezza in merito alla portata vincolante delle fonti delineate (in particolare, delle posizioni comuni e delle azioni comuni) nei confronti degli Stati membri. Questa incertezza ha avuto riflessi negativi sul funzionamento successivo del terzo pilastro, contribuendo al suo mancato decollo come strumento effettivo di uniniziativa europea organica in materia di affari interni.
Le dinamiche istituzionali del terzo pilastro non si discostano di molto da quelle tradizionalmente vigenti in ambito intergovernativo.
Il potere decisionale risiede in capo al Consiglio della giustizia e degli affari interni (designato, in gergo, come Consiglio GAI), che lo esercita decidendo allunanimità (tranne che per le questioni di procedura e, eventualmente, per le misure di applicazione delle azioni comuni e delle convenzioni).
Un ruolo importante di ausilio al Consiglio è svolto dal "Comitato di coordinamento", composto di alti funzionari, istituito dallart.K.4 (da cui la denominazione corrente di "Comitato K.4). Il Comitato, ai cui lavori partecipa la Commissione, è incaricato, in particolare, di formulare pareri per il Consiglio e di prepararne i lavori.
Il potere di iniziativa, in base al citato art.K.3, spetta singolarmente agli Stati membri, che lo condividono con la Commissione (salvo che nelle materia più direttamente legate alla sicurezza interna: cooperazione giudiziaria in materia penale, cooperazione doganale, cooperazione di polizia, nelle quali gli Stati mantengono un potere di iniziativa esclusiva).
Le forme di controllo parlamentare sul funzionamento del terzo pilastro, disciplinate dallart.K.6, risultano assai poco penetranti:
"La presidenza e la Commissione informano regolarmente il Parlamento europeo dei lavori svolti nei settori che rientrano nel presente titolo.
La presidenza consulta il Parlamento europeo sui principali aspetti dell'attività nei settori di cui al presente titolo e si adopera affinché le opinioni del Parlamento europeo siano tenute in debito conto.
Il Parlamento europeo può rivolgere al Consiglio interrogazioni o raccomandazioni. Esso procede ogni anno ad un dibattito sui progressi compiuti nell'attuazione delle disposizioni di cui al presente titolo".
Anche sotto il profilo del controllo giudiziale, la soluzione contenuta nel trattato di Maastricht (art.K3, ultimo comma) non offre garanzie generali:
"Le convenzioni possono prevedere che la Corte di giustizia sia competente per interpretarne le disposizioni e per comporre le controversie connesse con la loro applicazione, secondo modalità che saranno precisate dalle medesime convenzioni".
Nel complesso, il terzo pilastro dellUnione europea nasce come un prodotto ingegnoso di ingegneria istituzionale, che sancisce un compromesso tra chi (come la presidenza olandese nellultima fase della Conferenza intergovernativa) premeva per unestensione delle competenze comunitarie e chi, al contrario, riteneva (è il caso della Gran Bretagna) che sarebbe stato sufficiente intensificare la cooperazione intergovernativa classica. Il compromesso nasconde però lassenza di una volontà politica unitaria, chiaramente riflessa nella mancata individuazione di priorità politiche reali allinterno della lista, ampia e generica, di "questioni di interesse comune".
La mancanza di una volontà politica solida e concorde, alla radice del terzo pilastro, è confermata dalla norma dellarticolo K.7:
"Le disposizioni del presente titolo non ostano all'instaurazione o allo sviluppo di una cooperazione più stretta tra due o più Stati membri, sempre che tale cooperazione non sia in contrasto con quella prevista nel presente titolo né la ostacoli".
Questa disposizione consente di mantenere in vita il sistema Schengen, così come altri fori già esistenti di cooperazione intergovernativa, nonché di attivare in futuro nuove iniziative analoghe. Ne risulta confermata una visione riduttiva del terzo pilastro come una mera ipotesi istituzionale, ovvero come una alternativa eventuale alle vie perseguite sino a quel momento, che però, per il momento, non vengono abbandonate.
Frutto di una scelta politicamente debole, il terzo pilastro ha prodotto risultati complessivamente assai limitati. In cinque anni di attività il suo bilancio di attività consiste in ununica convenzione entrata in vigore (convenzione EUROPOL, entrata in vigore il 1° ottobre 1998; vd. infra) e di una serie di altri atti tipici (posizioni comuni e azioni comuni) e atipici (raccomandazioni, risoluzioni, conclusioni), talvolta significativi sotto il profilo politico, ma di rilevanza giuridica limitata ed incerta.
Gli atti adottati dal Consiglio GAI da quando esso è stato istituito formano, considerati nel loro complesso, un corpus di indirizzi politico-normativi che ha ormai raggiunto una certa ampiezza. La maggior parte di questi atti ha per oggetto la politica degli Stati membri in materia di controllo delle frontiere esterne, di immmigrazione e di asilo.
Come è già stato detto, nel trattato di Maastricht mancano indicazioni univoche sulla efficacia vincolante nei confronti degli Stati membri degli atti adottati nel quadro del terzo pilastro. Per questa ragione, è spesso usato in proposito il termine di "soft law" (diritto morbido, o flessibile). Malgrado la sua flessibilità, tuttavia, è indubbio che la normativa del terzo pilastro ha svolto un ruolo importante ai fini di estendere, anche al di fuori dellambito Schengen, gli effetti di un vasto processo di armonizzazione, nel senso di un maggior rigore, delle normative e delle prassi nazionali in materia di immigrazione e di asilo.
2.8. Le competenze comunitarie in materia di visti
In seno alla Conferenza intergovernativa che ha negoziato il trattato di Maastricht alcuni Paesi membri si erano mostrati favorevoli a una piena comunitarizzazione delle politiche in materia di immigrazione e di asilo. Come abbiamo visto, la contrarietà di altri Stati e la necessità di raggiungere lunanimità hanno fatto portato allabbandono di tali posizioni più avanzate, a favore del compromesso che ha condotto alla creazione del terzo pilastro. Una traccia dellopzione più innovativa è, tuttavia, sopravvissuta nellarticolo 100C, introdotto dal TUE nel corpo del Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE). Tale articolo attribuisce infatti alla Comunità europea alcune competenze in materia di politica dei visti. In particolare, è previsto che:
"Il Consiglio, deliberando allunanimità [ma, dal 1° gennaio 1996, è sufficiente la maggioranza qualificata] su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, determina quali siano i paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso di un visto per lattraversamento delle frontiere esterne degli Stati membri" (art.100C TCE, 1° comma).
Lo stesso Consiglio è dichiarato, inoltre, competente per adottare, a maggioranza qualificata, "le misure relative allinstaurazione di un modello uniforme per i visti" (3° comma).
Sullestensione della competenza comunitaria in materia di visti si sono registrate, fin dallentrata in vigore del trattato di Maastricht, divergenze di interpretazioni fra il Parlamento europeo e la Commissione, da una parte, il Consiglio e la maggioranza degli Stati membri, dallaltra. La Commissione e, in termini ancora più radicali, il Parlamento hanno sostenuto uninterpretazione estensiva della norma descritta, affermando in particolare che:
a) la Comunità sarebbe stata investita di competenza non solo per definire una lista negativa di Paesi a cui tutti gli Stati membri devono imporre lobbligo di visto, ma anche una lista positiva, i cui cittadini non necessitano del visto per essere ammessi, per soggiorni di breve periodo, nel territorio dellUnione;
b) la competenza relativa allinstaurazione di un modello uniforme di visto avrebbe implicato il riconoscimento reciproco della validità dei visti nazionali da parte di tutti i Paesi membri;
c) la competenza in materia di visti avrebbe riguardato non soltanto i visti di ingresso in uno degli Stati membri, ma anche i visti di transito, compresi quelli finalizzati al transito aeroportuale, attraverso il territorio dellUnione.
E evidente che una simile interpretazione dellarticolo 100C aveva come obiettivo lattribuzione alle istituzioni comunitarie di alcune leve decisive di elaborazione della politica migratoria generale, andando probabilmente al di là delle intenzioni degli Stati membri, al momento della firma del trattato di Maastricht. Non deve stupire, pertanto, che, in sede di applicazione, sia invece prevalsa una linea interpretativa restrittiva in relazione a tutti i punti sopra indicati.
3. Il trattato di Amsterdam e lo "spazio di libertà, sicurezza e giustizia"
3.1. Le scelte fondamentali della Conferenza intergovernativa
Il passo successivo nella costruzione di un approccio comune europeo in materia di affari interni, quello che apre la fase in cui ci troviamo attualmente, è rappresentato dal trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997, la cui entrata in vigore, a meno di rallentamenti imprevisti nel processo di ratifica in qualche Stato membro, è attesa per la prima metà del 1999.
Il nuovo trattato, che modifica sia il trattato sullUnione europea sia i trattati istitutivi delle Comunità europee, è il frutto di negoziati di una durata senza precedenti nella storia dellintegrazione europea: la Conferenza intergovernativa (CIG) che ha redatto il testo, infatti, si è aperta a Torino il 29 marzo 1996 e non si è chiusa che il 17 giugno 1997, con il Consiglio europeo di Amsterdam.
Allindomani della sua approvazione, il trattato di Amsterdam è stato accolto, negli Stati tradizionalmente più favorevoli allintegrazione europea tra cui lItalia, con complessiva delusione. La persistenza di disaccordi di fondo tra gli Stati membri aveva infatti impedito di conseguire quello che molti consideravano lobiettivo principale della CIG, cioè conformare la struttura istituzionale dellUnione europea a tre ordini di esigenze:
a) maggiore democraticità e trasparenza;
b) maggiore efficienza e rapidità di decisione;
c) adeguamento ad una Unione più ampia (21 Paesi o più), quale quella che risulterà dalla conclusione dei negoziati per lallargamento, aperti ufficialmente con sei Paesi terzi (Cipro, Estonia, Polonia, Repubblica ceca, Slovenia, Ungheria) nel mese di novembre 1998.
Non è possibile, né sarebbe appropriato, in questa sede, procedere ad unanalisi complessiva del nuovo trattato. In termini generali, si può comunque sostenere che, per quanto complessivamente giustificata, la delusione post-Amsterdam è stata probabilmente esagerata. In alcuni campi, infatti, il trattato apre la strada a cambiamenti di grande portata; il settore della giustizia e degli affari interni è uno di questi.
Il trattato di Amsterdam ha riformato il settore della giustizia e degli affari interni, corrispondente al terzo pilastro di Maastricht, lungo tre direttrici fondamentali:
I) Incorporazione del sistema Schengen (Protocollo ad hoc allegato al TUE e al TCE). Per far fronte ai segni di crisi del sistema Schengen (cfr. supra par.2.6.), si è deciso di procedere, in tempi relativamente rapidi, al suo smantellamento, mediante lincorporazione dellacquis di Schengen nellambito dellUnione europea e la sostituzione degli organi Schengen da parte di quelli dellUE (tecnicamente, lincorporazione dellacquis di Schengen in ambito UE è qualificata come una cooperazione rafforzata [vd. par. 3.5.] instaurata da tredici Stati membri su autorizzazione unanime delle parti contraenti del trattato di Amsterdam);
II) Comunitarizzazione di alcune materie già afferenti al terzo pilastro (nuovo titolo IV TCE; artt.61-69 versione consolidata con il trattato di Amsterdam). Per migliorare lefficacia dellazione comune in questo campo, si è deciso di trasferire gradualmente nella sfera di competenza delle istituzioni comunitarie le politiche in materia di visti, asilo, immigrazione e "altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone" (cooperazione giudiziaria in materia civile);
III) Riforma terzo pilastro (titolo VI TUE; artt.29-42 versione consolidata con il trattato di Amsterdam). Per dare un impulso alla cooperazione europea in materia di polizia e nel campo della giustizia penale, superando la sostanziale impasse seguita allentrata in vigore del trattato di Maastricht (cfr. supra par. 2.7.), si è proceduto a una riforma sostanziale dei meccanismi istituzionali propri del terzo pilastro, i cui contenuti sostanziali risultano ormai notevolmente ridotti per effetto della comunitarizzazione (cfr. punto II).
Nei prossimi paragrafi descriveremo in maniera più dettagliata le singole direttrici di questa riforma. Fin dora è, tuttavia, possibile effettuare qualche considerazione di carattere generale sul significato complessivo delle scelte intraprese:
A) Lincorporazione dellacquis di Schengen nellambito dellUE segna labbandono, da parte degli Stati membri, di quella sorta di strategia del doppio binario, in base alla quale obiettivi in larga parte coincidenti potevano essere perseguiti, a seconda delle circostanze e delle convenienze, mediante gli strumenti disponibili in ambito Schengen o mediante quelli propri del terzo pilastro. La scelta dellincorporazione segna la presa di coscienza dei segni di crisi emersi in seno al sistema Schengen (cfr. par.2.6.) e rappresenta una decisa presa di posizione a favore di una più profonda istituzionalizzazione delle politiche degli affari interni in ambito europeo. Con lincorporazione, lesperimento Schengen si chiude con un successo, in quanto i suoi risultati diventano patrimonio dellordinamento dellUE;
B) Con la comunitarizzazione, le politiche in materia di immigrazione e di asilo verranno progressivamente sottratte al terzo pilastro, che rimane dedicato esclusivamente alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Si scioglie, così, in prospettiva almeno, quella discutibile associazione tra politica migratoria e politica criminale che aveva caratterizzato il terzo pilastro al suo nascere e che rifletteva una percezione indistinta delle minacce esterne alla sicurezza interna europea caratteristica degli anni Ottanta (cfr. par.2.1.). La dissociazione della politica migratoria dalla politica criminale, con la loro collocazione in ambiti giuridico-istituzionali distinti (rispettivamente primo e terzo pilastro) è la premessa necessaria (anche se non, di per sé, sufficiente) per impostare un approccio comune, di segno non solo repressivo, alla gestione dei flussi migratori in ambito europeo. E importante sottolineare, tuttavia, che i redattori del trattato di Amsterdam, pur tracciando una linea di demarcazione netta tra politiche migratorie e politiche della sicurezza interna, hanno voluto conservare un rapporto tra le due sfere di azione politica e giuridica. A questo fine, è stato coniato il concetto di "spazio di libertà, sicurezza e giustizia", che larticolo 2 TUE (nella versione consolidata con il trattato di Amsterdam) descrive come uno spazio
"in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, lasilo, limmigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro questultima".
Il concetto di spazio di libertà, sicurezza e giustizia, per quanto piuttosto vago e non dotato di una specifica consistenza giuridica, ha un notevole significato politico; con esso, infatti, i Governi europei sembrano voler affermare che obiettivi autonomi e distinti (come la soppressione dei controlli alle frontiere intra-europee, lelaborazione di un approccio comune in materia di asilo e di immigrazione, lo sviluppo di unazione comune di lotta alla criminalità) devono però essere perseguiti congiuntamente - anche se con strumenti e in ambiti istituzionali diversi - per evitare squilibri nello sviluppo della costruzione europea e per non alterare lequilibrio democratico tra i diversi poteri pubblici e tra essi e i cittadini.
C) la riforma del terzo pilastro, sui cui contenuti specifici torneremo più avanti (par.3.4.), fornisce alcune risposte puntuali ai tre ordini di esigenze a cui - come abbiamo sottolineato allinizio di questo paragrafo - il trattato di Amsterdam era chiamato a rispondere (maggiore democraticità e trasparenza / maggiore efficienza e rapidità di decisione / adeguamento a unUnione più ampia).
3.2. Lintegrazione dellacquis di Schengen nellambito dellUnione europea
Nei cinque anni trascorsi dallentrata in vigore della Convenzione di Schengen (1° settembre 1993), il Comitato esecutivo e gli organi da esso delegati hanno prodotto un vasto corpus di norme e di standard di comportamento, che ha trovato progressivamente applicazione, producendo modificazioni di rilievo nellorganizzazione dei controlli alle frontiere, nella politica migratoria e nelle modalità della cooperazione tra le polizie nazionali degli Stati coinvolti (cfr. parr.2.5. e 2.6.). Linsieme di queste norme e di questi standard, a cui si devono aggiungere i trattati istitutivi e gli atti di adesione, forma il cosiddetto acquis di Schengen [acquis è un termine francese (participio passato del verbo "acquisire": "ciò che è acquisito") utilizzato anche in ambito comunitario ("acquis communautaire")]. Un Allegato al Protocollo sullincorporazione specifica il contenuto dellacquis come segue:
"1. L'accordo, firmato a Schengen il 14 giugno 1985, tra i Governi degli Stati dell'Unione economica del Benelux, la Repubblica federale di Germania e la Repubblica francese, relativo all'eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni.
2. La Convenzione, firmata a Schengen il 19 giugno 1990, tra il Regno del Belgio, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica francese, il Granducato di Lussemburgo e il Regno dei Paesi Bassi, recante applicazione dell'accordo relativo all'eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, firmato a Schengen il 14 giugno 1985, nonché l'atto finale e le dichiarazioni comuni relativi.
3. I protocolli e gli accordi di adesione all'accordo del 1985 e la Convenzione di applicazione del 1990 con l'Italia (firmata a Parigi il 27 novembre 1990), la Spagna e il Portogallo (entrambe firmate a Bonn il 25 giugno 1991), la Grecia (firmata a Madrid il 6 novembre 1992), l'Austria (firmata a Bruxelles il 28 aprile 1995) e la Danimarca, la Finlandia e la Svezia (tutte firmate a Lussemburgo il 19 dicembre 1996), con i relativi atti finali e dichiarazioni.
4. Le decisioni e le dichiarazioni adottate dal Comitato esecutivo istituito dalla Convenzione di applicazione del 1990, nonché gli atti per l'attuazione della Convenzione adottati dagli organi cui il Comitato esecutivo ha conferito poteri decisionali".
Incorporare (o integrare) questo ricco insieme di disposizioni nellambito dellUnione europea significa trasferire il loro contenuto normativo nellordinamento giuridico dellUnione europea, con tutte le conseguenze che questo comporta con riferimento , per esempio, alla giurisdizione della Corte di giustizia.
Lincorporazione dellacquis è unoperazione tecnicamente complessa, che consta di due passaggi fondamentali:
I) determinazione dettagliata del contenuto dellacquis. Questoperazione, che potrebbe apparire banale, è invece assai complicata, perché si tratta di raggiungere un accordo unanime su quali siano le disposizioni ancora rilevanti e in vigore, e quali invece risultino abrogate da disposizioni successive o rese obsolete dai fatti.
La decisione finale sulla composizione dellacquis - trattandosi di una valutazione che riguarda innanzitutto il sistema Schengen in quanto tale - dovrà essere adottata dal Consiglio dei ministri (nella configurazione che comprende i ministri dellinterno e della giustizia) allunanimità, ma con lesclusione dei due Stati membri dellUnione che non aderivano invece a Schengen (Regno Unito e Irlanda): si tratterà, dunque, di una decisione a tredici;
II) attribuzione di una base giuridica, allinterno dellordinamento dellUE, a ognuno degli atti che compongono lacquis (questa operazione è spesso designata con il termine inglese "ventilation"). Per ognuna delle disposizioni che compongono lacquis (si tratta, oltre ai trattati istitutivi e agli atti di adesione, di circa 120 decisioni e di oltre 50 dichiarazioni), occorre decidere se recepirla nellordinamento comunitario oppure se ricondurla al terzo pilastro. Le differenze che conseguono alluna o allaltra soluzione riguardano prevalentemente lestensione dei poteri giurisdizionali spettanti alla Corte di giustizia in relazione allatto in questione. Siccome la giurisdizione della Corte - particolarmente con riferimento alla possibilità o meno di presentare ricorsi individuali ed alle modalità con cui la Corte esercita la propria competenza interpretativa in via pregiudiziale - incide sulla sovranità degli Stati membri, oltreché sui poteri delle altre istituzioni europee, si può capire come la ventilation dellacquis non sia unoperazione dal contenuto meramente tecnico, ma, al contrario, implichi scelte di notevole rilevanza politica.
La decisione sullattribuzione di una base giuridica agli atti che compongono lacquis di Schengen spetta al Consiglio dei ministri dellUnione, che in questo caso delibera allunanimità piena, ossia con la partecipazione alla votazione anche dei Paesi che non aderivano agli accordi di Schengen.
Al fine di preparare le decisioni del Consiglio sullincorporazione, subito dopo la firma del trattato di Amsterdam sono stati costituiti i seguenti tre gruppi di lavoro:
I) gruppo "acquis di Schengen": incaricato di determinare il contenuto e attribuire una base giuridica allacquis;
II) gruppo di lavoro incaricato di esaminare le possibili forme di partecipazione della Norvegia e dellIslanda (Paesi non membri dellUE, ma legati al gruppo Schengen da un accordo di cooperazione) alle future attività dellUnione europea nei settori che corrispondono alle materie precedentemente trattate in ambito Schengen;
III) gruppo di lavoro incaricato di studiare le modalità di integrazione del personale del segretariato Schengen (circa 70 persone, di cui 5 italiani) nellorganico dellUnione europea.
Il lavoro del primo di questi tre gruppi ha portato allelaborazione di due progetti di decisione del Consiglio (uno sulla determinazione del contenuto dellacquis, uno sulla sua distribuzione tra i pilastri), presentati in luglio dalla presidenza austriaca dellUnione europea ai rappresentanti permanenti degli Stati membri (COREPER). Il primo contiene una definizione pressoché completa dellacquis, su cui però sussistono ancora alcune divergenze tra Stati membri. Merita però soffermarsi brevemente, qui, soprattutto il secondo progetto di decisione, che sembra indicare un approccio chiaro alla questione cruciale della ventilation. Limpostazione seguita è coerente con la scelta di comunitarizzare le politiche in materia di visti, immigrazione ed asilo suggellata dal trattato di Amsterdam: la base giuridica suggerita dal gruppo di lavoro per gli articoli che compongono il titolo II della Convenzione Schengen (dedicato a "Soppressione dei controlli alle frontiere interne e circolazione delle persone") è infatti rinvenuta essenzialmente negli articoli 62 e 63 del TCE, così come modificato ad Amsterdam; questi articoli - come vedremo nel prossimo paragrafo - sono quelli che disciplinano il processo di comunitarizzazione.
La parte dellacquis di Schengen sulla cui futura base giuridica sussistono , a tuttoggi, le divergenze e le incertezze maggiori è quella relativa al SIS (cfr. par.2.5.). La banca-dati situata a Strasburgo, infatti, costituisce un essenziale strumento di lavoro sia ai fini della politica in materia di visti e di immigrazione, sia ai fini della cooperazione giudiziaria e di polizia. La Commissione europea ritiene che i diversi schedari del SIS debbano avere una base giuridica diversa a seconda del loro contenuto: primo pilastro se si tratta di schedari connessi alla politica migratoria (come quello relativo agli "stranieri segnalati ai fini della non ammissione"), terzo pilastro se strumenti di cooperazione di polizia o giudiziaria (come quello relativo alle "persone ricercate per larresto ai fini di estradizione"). Gli Stati membri, al contrario, ritengono in maggioranza preferibile collocare lintero SIS nellambito normativo e istituzionale del terzo pilastro, temendo che una soluzione diversa possa ostacolarne il funzionamento.
3.3. Portata, tempi e procedure della comunitarizzazione della politica migratoria
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, con lincorporazione dellacquis di Schengen, un articolato blocco di disposizioni in materia di controlli alle frontiere interne ed esterne, di visti e di condizioni di circolazione degli stranieri dovrebbe entrare a far parte dellordinamento comunitario. Questo corpus di norme, di origine intergovernativa, formerà lo zoccolo su cui, nei prossimi anni, dovrebbe essere costruito ledificio della politica migratoria europea. Lintegrazione dellacquis Schengen nellambito dellUE, in altri termini, si può considerare il primo passo concreto verso la comunitarizzazione delle politiche in materia di immigrazione, visti ed asilo decisa ad Amsterdam.
Ma la comunitarizzazione delineata nel nuovo titolo IV del TCE va ben al di là, in prospettiva, della semplice incorporazione della normativa Schengen. Gli articoli 61 e seguenti del TCE modificato, infatti, contengono un nutrito elenco di materie in cui previsto che, in un arco di tempo relativamente limitato (salvo alcune eccezioni, si tratta di cinque anni dallentrata in vigore del trattato di Amsterdam), il Consiglio dei ministri della Comunità adotti una serie di misure. Lo scopo complessivo del vasto compito normativo che il trattato affida al Consiglio è enunciato sinteticamente dallarticolo 61 TCE: "... istituire progressivamente uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia" (su questultimo concetto, cfr. par.3.1.).
Oltre alle "misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile" (art.65) e alle "misure atte a garantire la cooperazione tra i pertinenti servizi delle amministrazioni degli Stati membri nelle materie disciplinate dal presente titolo, nonché tra tali servizi e la Commissione" (art.66), le misure che il Consiglio è chiamato ad adottare si possono ricondurre a sette nuclei tematici:
I) soppressione controlli alle frontiere interne: "misure volte a garantire, in conformità all'articolo 14, che non vi siano controlli sulle persone, sia cittadini dell'Unione sia cittadini di paesi terzi, all'atto dell'attraversamento delle frontiere interne" (art.62, punto 1);
II) controlli alle frontiere esterne: questa vasta categoria comprende, in particolare:
"a) norme e procedure cui gli Stati membri devono attenersi per l'effettuazione di controlli sulle persone alle suddette frontiere;
b) regole in materia di visti relativi a soggiorni previsti di durata non superiore a tre mesi, che comprendono:
i)un elenco dei paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso del visto all'atto dell'attraversamento delle frontiere esterne e di quelli i cui cittadini sono esenti da tale obbligo;
ii) le procedure e condizioni per il rilascio dei visti da parte degli Stati membri;
iii) un modello uniforme di visto;
iv) norme relative a un visto uniforme" (art.62, punto 2);
III) libertà di circolazione dei cittadini di paesi terzi: "misure che stabiliscono a quali condizioni i cittadini dei paesi terzi hanno libertà di spostarsi all'interno del territorio degli Stati membri per un periodo non superiore a tre mesi" (art.62, punto 3);
IV) asilo (ex Convenzione di Ginevra): "misure in materia di asilo, a norma della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e del protocollo del 31 gennaio 1967, relativo allo status dei rifugiati, e degli altri trattati pertinenti, nei seguenti settori:
a) criteri e meccanismi per determinare quale Stato membro è competente per l'esame della domanda di asilo presentata da un cittadino di un paese terzo in uno degli Stati membri,
b) norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri,
c) norme minime relative all'attribuzione della qualifica di rifugiato a cittadini di paesi terzi,
d) norme minime sulle procedure applicabili negli Stati membri per la concessione o la revoca dello status di rifugiato" (art.63, punto 1);
V) rifugiati e sfollati: "misure applicabili ai rifugiati ed agli sfollati nei seguenti settori:
a) norme minime per assicurare protezione temporanea agli sfollati di paesi terzi che non possono ritornare nel paese di origine e per le persone che altrimenti necessitano di protezione internazionale,
b) promozione di un equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono i rifugiati e gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi" (art.63, punto 2);
VI) politica dellimmigrazione: "misure in materia di politica dell'immigrazione nei seguenti settori:
a) condizioni di ingresso e soggiorno e norme sulle procedure per il rilascio da parte degli Stati membri di visti a lungo termine e di permessi di soggiorno, compresi quelli rilasciati a scopo di ricongiungimento familiare,
b) immigrazione e soggiorno irregolari, compreso il rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare" (art.63, punto 3);
VII) condizioni di soggiorno dei cittadini di paesi terzi: "misure che definiscono con quali diritti e a quali condizioni i cittadini di paesi terzi che soggiornano legalmente in uno Stato membro possono soggiornare in altri Stati membri" (art.63, punto 4).
Come si può vedere, si tratta di un ricco programma di azione, che copre gran parte degli ambiti di cui si compone una politica migratoria (intesa in senso lato: frontiere esterne, visti, asilo, immigrazione). E controverso se questo elenco di materie sia chiuso - e siano dunque precluse decisioni su aspetti non direttamente ricompresi nelle categorie elencate - oppure se sia da considerarsi un elenco aperto, che indica un programma di azione minimo, ma non impedisce di assumere decisioni in altre materie connesse (per esempio, laccesso alloccupazione dei cittadini di paesi terzi, che era inserito dal trattato di Maastricht tra le "questioni di interesse comune" da affrontare sotto il terzo pilastro, e che non si ritrova più nel trattato di Amsterdam).
Soltanto uninterpretazione aperta della sfera di competenza comunitaria consentirebbe di parlare a pieno titolo di politica migratoria comune. Daltra parte, sembra che la natura complessa e dinamica dei fenomeni migratori contemporanei richieda un approccio integrato e flessibile, difficilmente conciliabile con una definizione rigida delle competenze di governo. Bisogna sottolineare, comunque, che, anche se dovesse prevalere una interpretazione tassativa delle materie di competenza comunitaria di cui al titolo IV TCE, gli strumenti per colmare eventuali lacune sarebbero offerti dagli articoli 94 (ex art.100) e 308 (ex 235) TCE; questultimo articolo, in particolare, prevede che:
"Quando unazione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente trattato abbia previsto i poteri dazione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando allunanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso".
A prescindere dalla sua portata potenziale, occorre sottolineare che la comunitarizzazione prevista dal nuovo titolo IV TCE è un processo graduale e sottoposto a condizioni politiche che ne rendono incerto lesito finale.
Per quanto riguarda i tempi della riforma, abbiamo già ricordato il termine quinquennale imposto dal trattato al Consiglio per ladozione di misure nelle materie indicate. Fanno eccezione soltanto tre blocchi tematici, tra quelli sopra elencati, per affrontare i quali il Consiglio non ha limiti di tempo:
A) "promozione di un equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono i rifugiati e gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi";
B) "condizioni di ingresso e soggiorno e norme sulle procedure per il rilascio da parte degli Stati membri di visti a lungo termine e di permessi di soggiorno, compresi quelli rilasciati a scopo di ricongiungimento familiare";
C) "misure che definiscono con quali diritti e a quali condizioni i cittadini di paesi terzi che soggiornano legalmente in uno Stato membro possono soggiornare in altri Stati membri".
E evidente che si tratta di aspetti particolarmente delicati sotto il profilo politico, per i quali il raggiungimento di unintesa tra gli Stati membri richiederà probabilmente tempi più lunghi.
Ma bisogna precisare che, anche per le altre materie oggetto della comunitarizzazione, il termine di cinque anni non sembra da considerare perentorio. E difficile, infatti, immaginare un meccanismo idoneo a sanzionare uneventuale inerzia del Consiglio, a meno di ritenere praticabile la via del ricorso in carenza (o per omissione), che uno Stato membro o la Commissione potrebbero presentare alla Corte di giustizia ai sensi dellarticolo 232 (ex 175) TCE.
Ma, soprattutto, lesito del processo di comunitarizzazione è condizionato dal fatto che ciascuna misura, in ognuno degli ambiti tematici sopra elencati, richiede una deliberazione ad hoc, da adottarsi mediante la procedura seguente (art.67 TCE):
"1. Per un periodo transitorio di cinque anni dall'entrata in vigore del trattato di Amsterdam, il Consiglio delibera all'unanimità su proposta della Commissione o su iniziativa di uno Stato membro e previa consultazione del Parlamento europeo.
2. Trascorso tale periodo di cinque anni:
- il Consiglio delibera su proposta della Commissione; la Commissione esamina qualsiasi richiesta formulata da uno Stato membro affinché essa sottoponga una proposta al Consiglio;
- il Consiglio, deliberando all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo, prende una decisione al fine di assoggettare tutti o parte dei settori contemplati dal presente titolo alla procedura di cui all'articolo 251 [si tratta di una procedura denominata "co-decisione", che comporta un ruolo attivo e determinante del Parlamento europeo e che si basa sulla regola della maggioranza qualificata per le decisioni da adottare in seno al Consiglio] e di adattare le disposizioni relative alle competenze della Corte di giustizia".
Come si vede, lunanimità degli Stati membri è individuata come condizione necessaria per poter avviare la comunitarizzazione. Fanno eccezione soltanto le regole in materia di visti relativi a soggiorni di durata inferiore a tre mesi, adottabili a maggioranza qualificata fin dal momento dellentrata in vigore del trattato di Amsterdam (per quanto riguarda l"elenco dei paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso del visto all'atto dell'attraversamento delle frontiere esterne e di quelli i cui cittadini sono esenti da tale obbligo" e il "modello uniforme di visto") o dopo la scadenza del termine di cinque anni, anche in assenza di unulteriore deliberazione del Consiglio (per quanto riguarda le "procedure e condizioni per il rilascio dei visti da parte degli Stati membri" e le "norme relative a un visto uniforme") (art.67, 3° e 4° comma).
3.4. La nuova fisionomia del terzo pilastro
Abbiamo sottolineato in precedenza (cfr. par.3.1.) il significato politico della scelta, fatta ad Amsterdam, di accentuare la distinzione tra la politica migratoria (comunitarizzata), da un lato, e la politica criminale e giudiziaria in materia penale (che rimangono, invece, allinterno del terzo pilastro), dallaltro.
Il terzo pilastro, dunque, non viene cancellato dal nuovo trattato, ma semplicemente si assottiglia e si specializza maggiormente, diventando un ambito politico-istituzionale esclusivamente deputato alla "cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale".
Lobiettivo istituzionale del terzo pilastro riformato è indicato in apertura del nuovo titolo VI del trattato istitutivo dellUnione europea (art.29, TUE):
"Fatte salve le competenze della Comunità europea, l'obiettivo che l'Unione si prefigge è fornire ai cittadini un livello elevato di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sviluppando tra gli Stati membri un'azione in comune nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e prevenendo e reprimendo il razzismo e la xenofobia.
Tale obiettivo è perseguito prevenendo e reprimendo la criminalità, organizzata o di altro tipo, in particolare il terrorismo, la tratta degli esseri umani ed i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la frode, mediante:
- una più stretta cooperazione fra le forze di polizia, le autorità doganali e le altre autorità competenti degli Stati membri, sia direttamente che tramite l'Ufficio europeo di polizia (Europol) [...];
- una più stretta cooperazione tra le autorità giudiziarie e altre autorità competenti degli Stati membri [...];
- il ravvicinamento, ove necessario, delle normative degli Stati membri in materia penale".
Come si può vedere, dunque, lUnione coopera, attraverso il terzo pilastro, alla costruzione di quello "spazio di libertà, sicurezza e giustizia", di cui anche la politica comune in materia di visti, asilo e immigrazione è una componente importante (cfr. par.3.1.).
Lapporto specifico del terzo pilastro riformato alla costruzione dello "spazio di libertà, sicurezza e giustizia" è rappresentato dalla lotta alla criminalità. Larticolo 29, appena citato, individua alcune fattispecie criminose (terrorismo, tratta degli esseri umani, reati contro i minori, traffico di droga e di armi, corruzione, frode); questo elenco non ha natura esclusiva, nel senso che la cooperazione di polizia e giudiziaria penale in ambito europeo ben potrà indirizzarsi verso altri tipi di attività criminale; tuttavia, non si tratta neppure soltanto di un elenco esemplificativo: le tipologie criminali indicate rappresentano, infatti, in questa fase perlomeno, le principali priorità della politica criminale europea, su cui i Governi hanno inteso porre laccento in sede di redazione del nuovo trattato.
Il testo citato, inoltre, indica chiaramente quali sono i tre ordini di strumenti, mediante cui, in seno al terzo pilastro, si intende condurre la lotta alla criminalità operante sul territorio dellUnione:
A) cooperazione di polizia (e tra autorità doganali e "altre autorità competenti degli Stati membri");
B) cooperazione giudiziaria;
C) armonizzazione legislativa (della normativa penale sostanziale, in particolare).
Definiti, con il citato articolo 29, gli obiettivi di fondo del terzo pilastro, il TUE (come modificato dal trattato di Amsterdam) illustra - con un grado di dettaglio che era assente nel trattato di Maastricht - quali sono le principali aree tematiche in cui si dovrà esplicare la cooperazione di polizia (art.30, comma 1) e la cooperazione giudiziaria in materia penale (art.31).
Per quanto riguarda, in particolare, la cooperazione di polizia, assume un rilievo centrale il secondo comma dellart.30, che consacra il ruolo strategico di EUROPOL nella lotta alla criminalità organizzata operante su base transnazionale; la norma in questione, infatti, prefigura la trasformazione di EUROPOL, nellarco di cinque anni dallentrata in vigore del nuovo trattato, da organismo di raccordo e di scambio di informazioni a vero e proprio organo di coordinamento e di guida dellattività di contrasto al crimine organizzato in ambito continentale. A questo fine, il Consiglio:
"a) mette Europol in condizione di agevolare e sostenere la preparazione, nonché di promuovere il coordinamento e l'effettuazione di specifiche operazioni investigative da parte delle autorità competenti degli Stati membri, comprese azioni operative di unità miste cui partecipano rappresentanti di Europol con funzioni di supporto;
b) adotta misure che consentono ad Europol di richiedere alle autorità competenti degli Stati membri di svolgere e coordinare le loro indagini su casi specifici e di sviluppare competenze specifiche che possono essere messe a disposizione degli Stati membri per assisterli nelle indagini relative a casi di criminalità organizzata;
c) promuove accordi di collegamento tra organi inquirenti sia di magistratura che di polizia che si specializzano nella lotta contro la criminalità organizzata in stretta cooperazione con Europol;
d) istituisce una rete di ricerca, documentazione e statistica sulla criminalità transnazionale".
Ma, per quanta importanza possano avere, sul piano politico, le disposizioni programmatiche (come quelle, appena citate, con cui vengono stabiliti obiettivi per lazione futura del Consiglio), le innovazioni più significative rispetto alla vecchia struttura del terzo pilastro sono contenute nelle (poche) disposizioni normative adottate ad Amsterdam, che riguardano essenzialmente la dimensione istituzionale. Senza addentrarci, qui, in dettagli che richiederebbero un maggiore livello di approfondimento, ci limitiamo a segnalare tre blocchi di disposizioni che modificheranno profondamente i meccanismi decisionali allinterno del terzo pilastro:
A) lart.34 TUE riforma profondamente il sistema delle fonti normative proprie del terzo pilastro. Viene cancellato lo strumento delle "azioni comuni" (per i dubbi sulla natura giuridica e sullefficacia di questo tipo di atto, cfr. par.2.7.); in compenso, si prevede che il Consiglio può:
"- adottare decisioni-quadro per il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Le decisioni-quadro sono vincolanti per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Esse non hanno efficacia diretta;
- adottare decisioni aventi qualsiasi altro scopo coerente con gli obiettivi del presente titolo, escluso qualsiasi ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Queste decisioni sono vincolanti e non hanno efficacia diretta. Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, adotta le misure necessarie per l'attuazione di tali decisioni a livello dell'Unione" (art.34, 2° comma, lett. b) e c)).
Queste due nuove categorie di atti vincolano sul piano giuridico gli Stati membri a conseguire determinati risultati e sono già state ribattezzate, per analogia con le direttive comunitarie, "direttive del terzo pilastro". Il loro utilizzo dovrebbe rafforzare sensibilmente il processo di cooperazione.
Un altro importante passo avanti in questa direzione dovrebbe essere assicurato dalla norma, contenuta nello stesso articolo, in base alla quale, "salvo disposizioni contrarie da esse previste, le convenzioni, una volta adottate da almeno la metà degli Stati membri, entrano in vigore per detti Stati membri. Le relative misure di applicazione sono adottate in seno al Consiglio a maggioranza dei due terzi delle Parti contraenti". La possibilità dellentrata in vigore anticipata dovrebbe evitare che, in futuro, si verifichino nuovamente i forti ritardi, originati perlopiù dalle resistenze di uno o di pochi Paesi, che in passato hanno impedito o notevolmente rallentato lentrata in vigore delle convenzioni del terzo pilastro.
B) la seconda direttrice della riforma istituzionale del terzo pilastro riguarda il ruolo della Corte di giustizia che, nella vigenza del trattato di Maastricht, aveva una competenza limitata ed eventuale per linterpretazione e la composizione delle controversie connesse con lapplicazione di singole convenzioni del terzo pilastro.
A questo aspetto, delicato e cruciale, il nuovo trattato dedica il lungo art.35:
"1. La Corte di giustizia delle Comunità europee, alle condizioni previste dal presente articolo, è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla validità o l'interpretazione delle decisioni-quadro e delle decisioni, sull'interpretazione di convenzioni stabilite ai sensi del presente titolo e sulla validità e sull'interpretazione delle misure di applicazione delle stesse.
2. Con una dichiarazione effettuata all'atto della firma del trattato di Amsterdam o, successivamente, in qualsiasi momento, ogni Stato membro può accettare che la Corte di giustizia sia competente a pronunciarsi in via pregiudiziale, come previsto dal paragrafo 1.
3. Lo Stato membro che effettui una dichiarazione a norma del paragrafo 2 precisa che:
a) ogni giurisdizione di tale Stato avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno può chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi in via pregiudiziale su una questione sollevata in un giudizio pendente davanti a tale giurisdizione e concernente la validità o l'interpretazione di un atto di cui al paragrafo 1, se detta giurisdizione reputi necessaria una decisione su tale punto per emanare la sua sentenza, o
b) ogni giurisdizione di tale Stato può chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi in via pregiudiziale su una questione sollevata in un giudizio pendente davanti a tale giurisdizione e concernente la validità o l'interpretazione di un atto di cui al paragrafo 1, se detta giurisdizione reputi necessaria una decisione su tale punto per emanare la sua sentenza.
4. Ogni Stato membro, che abbia o meno fatto una dichiarazione a norma del paragrafo 2, ha la facoltà di presentare alla Corte memorie od osservazioni scritte nei procedimenti di cui al paragrafo 1.
5. La Corte di giustizia non è competente a riesaminare la validità o la proporzionalità di operazioni effettuate dalla polizia o da altri servizi incaricati dell'applicazione della legge di uno Stato membro o l'esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell'ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna.
6. La Corte di giustizia è competente a riesaminare la legittimità delle decisioni-quadro e delle decisioni nei ricorsi proposti da uno Stato membro o dalla Commissione per incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione del presente trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione, ovvero per sviamento di potere. I ricorsi di cui al presente paragrafo devono essere promossi entro due mesi dalla pubblicazione dell'atto.
7. La Corte di giustizia è competente a statuire su ogni controversia tra Stati membri concernente l'interpretazione o l'applicazione di atti adottati a norma dell'articolo 34, paragrafo 2, ogniqualvolta detta controversia non possa essere risolta dal Consiglio entro sei mesi dalla data nella quale esso è stato adito da uno dei suoi membri. La Corte è inoltre competente a statuire su ogni controversia tra Stati membri e Commissione concernente l'interpretazione o l'applicazione delle convenzioni stabilite a norma dell'articolo 34, paragrafo 2, lettera d)".
La competenza che ne risulta in capo alla Corte è assai articolata; schematicamente, si può dire che essa riguarda sia (seppure a discrezione di ciascuno Stato membro) lo scioglimento dei dubbi interpretativi che sorgono in capo ai singoli organi giudiziari nazionali tenuti ad applicare atti normativi tipici del terzo pilastro, sia la risoluzione di ogni eventuale controversia tra gli Stati membri e le istituzioni europee in merito alla legittimità, allinterpretazione o allapplicazione di quegli stessi atti normativi.
C) il terzo asse della riforma istituzionale del terzo pilastro su cui è opportuno soffermarsi è rappresentato dal potenziamento del ruolo del Parlamento europeo che, pur senza acquistare un peso vincolante nel processo legislativo, assume funzioni consultive e di indirizzo assai più incisive che in precedenza. A questo proposito, lart.39 dispone:
1. Il Consiglio consulta il Parlamento europeo prima di adottare qualsiasi misura di cui all'articolo34, paragrafo 2, lettere b), c) e d) [si tratta delle decisioni-quadro, delle decisioni e delle convenzioni]. Il Parlamento europeo esprime il suo parere entro un termine che il Consiglio può fissare; tale termine non può essere inferiore a tre mesi. In mancanza di parere entro detto termine, il Consiglio può deliberare.
2. La Presidenza e la Commissione informano regolarmente il Parlamento europeo dei lavori svolti nei settori che rientrano nel presente titolo.
3. Il Parlamento europeo può rivolgere al Consiglio interrogazioni o raccomandazioni. Esso procede ogni anno a un dibattito sui progressi compiuti nei settori di cui al presente titolo".
Nel complesso, il terzo pilastro riformato si configura come un ambito decisionale nuovo che, pur rimanendo sostanzialmente intergovernativo, nel senso che le decisioni continuano ad essere assunte dai rappresentanti dei Governi in seno al Consiglio, dovrebbe caratterizzarsi, rispetto al vecchio terzo pilastro, per una maggiore efficienza decisionale, per una maggiore omogeneità interpretativa ed applicativa e, infine, per una maggiore trasparenza.
3.5. SLSG e flessibilità: opting out e "cooperazioni rafforzate"
Rispetto alle scelte fondamentali compiute dallultima Conferenza intergovernativa in materia di affari interni (cfr. par. 3.1.), le valutazioni e le prospettive degli Stati membri dellUnione europea si differenziano, in alcuni casi anche assai sensibilmente.
Queste differenze si manifestano, e si manifesteranno con sempre maggiore evidenza nel corso dei prossimi mesi, nellattività quotidiana delle istituzioni europee e dei governi degli Stati membri in sede europea, dove questi saranno chiamati a dare attuazione ai propositi sanciti ad Amsterdam. Un approfondimento di questa dialettica e dei suoi esiti possibili sarà contenuto nel rapporto di ricerca dal titolo "Verso una politica migratoria comune? Le prospettive di applicazione del nuovo titolo IV TCE tra interessi nazionali ed interesse comune europeo", che verrà elaborato dal CeSPI nel quadro della stessa ricerca (complessivamente dedicata a "Lo Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Implicazioni per lItalia") in cui si inserisce il presente Dossier.
Ma, in una certa misura, le divergenze tra gli Stati membri dellUnione europea in merito allevoluzione auspicabile dellazione europea in materia di affari interni hanno già trovato espressione nello stesso testo del trattato di Amsterdam. Il nuovo trattato disegna, infatti, una "Europa degli affari interni" dalla geometria variabile e dalla composizione flessibile. Ciò significa che:
a) lo Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia (sulla portata e sui limiti di questo concetto, vd. par. 3.1.), fin dalla sua nascita, non comprenderà tutti gli Stati membri allo stesso titolo
e che:
b) alle diverse tappe della sua evoluzione futura, gli Stati membri potranno concorrere in misura diversa, a seconda della valutazione tecnica e politica che daranno delle singole iniziative.
Questa flessibilità, originaria e successiva, della nuova architettura europea in materia di affari interni è la conseguenza di due istituti disciplinati dal trattato di Amsterdam:
A) gli opting out (che si potrebbe tradurre come "scegliere di rimanere fuori") di alcuni Paesi rispetto a parti determinate del trattato;
B) le "cooperazioni rafforzate" che alcuni Stati possono instaurare tra loro in alcuni campi, anche senza la partecipazione degli Stati rimanenti.
Esaminiamo brevemente i presupposti e le caratteristiche di questi due fattori di flessibilità politica e istituzionale del nascente spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia:
A) il Regno Unito e lIrlanda (Paesi che non sono parti degli accordi di Schengen) e la Danimarca (Paese che gode di una particolare posizione allinterno del sistema Schengen, in virtù della quale è autorizzata a mantenere i controlli alle frontiere interne con gli altri Stati contraenti) hanno deciso di non seguire la maggioranza degli Stati membri dellUE sulla via tracciata ad Amsterdam in materia di affari interni. A questo fine, ciascuno dei tre Stati in questione ha pattuito con gli altri Stati membri un articolato regime di deroghe.
Per quanto riguarda il Regno Unito e lIrlanda (vincolate luna allaltra, in questa materia, dalla preesistenza di intese bilaterali in materia di libertà di circolazione), i principi-cardine della loro particolare posizione allinterno del costituendo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia sono i seguenti:
i) non sottoposizione ai vincoli derivanti dallacquis Schengen, ma possibilità di aderire ad esso (o a parti di esso) in seguito:
"L'Irlanda e il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, i quali non sono vincolati dall'acquis di Schengen, possono, in qualsiasi momento, chiedere di partecipare, in tutto o in parte, alle disposizioni di detto acquis.
Il Consiglio decide in merito a tale richiesta all'unanimità dei suoi membri di cui all'articolo 1 e del rappresentante del governo dello Stato interessato" (art. 4, Protocollo sullintegrazione dellacquis di Schengen nellambito dellUnione europea);
ii) mantenimento dei controlli alle frontiere:
"Il Regno Unito [e lIrlanda, finché rimarrà legata al Regno Unito da intese in materia di libera circolazione] è autorizzato ad esercitare, alle sue frontiere con altri Stati membri , sulle persone che intendono entrare nel Regno Unito, quei controlli che ritenga necessari al fine di: a) verificare il diritto di accesso al Regno Unito per i cittadini di Stati che sono parti contraenti dellaccordo sullo Spazio economico europeo e per le persone a loro carico, che esercitano diritti conferiti loro dal diritto comunitario, nonché per cittadini di altri Stati cui tali diritti sono stati conferiti mediante un accordo vincolante per il Regno Unito; e b) stabilire se concedere o meno ad altre persone il diritto di entrare nel Regno Unito"; correlativamente "Gli Stati membri hanno la facoltà di esercitare, alle loro frontiere e in ogni punto di entrata nel loro territorio, controlli analoghi sulle persone che intendono entrare nel loro territorio dal Regno Unito ..." (artt. 1 e 3, Protocollo sullapplicazione di alcuni aspetti dellarticolo 7A [ora art. 14] del trattato che istituisce la Comunità europea al Regno Unito e allIrlanda);
iii) non sottoposizione ai vincoli derivanti dalle misure adottate in base al nuovo titolo IV TCE, ma possibilità di partecipare alladozione e allapplicazione o di aderire successivamente a singole misure (Protocollo sulla posizione del Regno Unito e dellIrlanda).
Per quanto riguarda, invece, la Danimarca, i termini fondamentali della sua partecipazione alledificazione dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia sono i seguenti:
i) mantenimento posizione autonoma rispetto allacquis di Schengen (art. 3, Protocollo sullintegrazione dellacquis di Schengen nellambito dellUnione europea);
ii) non sottoposizione ai vincoli derivanti dalle decisioni adottate in base al nuovo titolo IV TCE, ma possibilità di recepire singolarmente alcune di tali decisioni nel proprio diritto interno in base alle regole del diritto internazionale (Protocollo sulla posizione della Danimarca).
Come si può vedere, per effetto del complesso e farraginoso meccanismo di opting out disciplinato dai diversi protocolli, la nuova "Europa degli affari interni" nasce, di fatto, come un aggregato di soli dodici Stati a cui, di volta in volta, potranno unirsi, con scopi limitati, gli Stati auto-esclusi.
B) Gli opting out appena descritti fotografano la situazione europea sul terreno degli affari interni nel momento presente. Viene così formalizzata a livello di Unione europea lesistenza di due classi di Stati membri: una maggioranza di volonterosi e una piccola pattuglia di riluttanti.
Ma anche tra gli Stati membri volonterosi, non tutti hanno lo stesso grado di interesse collettivo, di volontà politica e di capacità tecnica di contribuire alla costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Consapevoli di queste disparità, i redattori del trattato di Amsterdam hanno messo a punto un meccanismo istituzionale finalizzato a permettere ad un certo numero di Stati membri (pari almeno alla maggioranza di essi) di avviare una specifica iniziativa comune, anche quando una minoranza di Stati non sia interessata a parteciparvi. Questo tipo di meccanismo, denominato "cooperazione rafforzata", rappresenta listituzionalizzazione di una flessibilità che ha caratterizzato, di fatto, lintero processo di integrazione europea.
Il trattato di Amsterdam ha introdotto la possibilità di avviare cooperazioni rafforzate nel primo e nel terzo pilastro (quindi, per quanto ci riguarda qui, sia in materia di immigrazione, asilo, etc., sia in materia di cooperazione di polizia e giudiziaria penale). La disciplina della cooperazione rafforzata varia nei due ambiti. Prima di illustrare schematicamente tali differenze, occorre tuttavia soffermarsi brevemente sulla disciplina generale della cooperazione rafforzata, valida sia per il primo sia per il terzo pilastro. A questo proposito, il nuovo titolo VII del TUE regola i seguenti aspetti:
i) presupposti di legittimità:
"1. Gli Stati membri che intendono instaurare tra loro una cooperazione rafforzata possono far ricorso alle istituzioni, alle procedure e ai meccanismi previsti dal presente trattato e dal trattato che istituisce la Comunità europea, a condizione che la cooperazione:
a) sia diretta a promuovere gli obiettivi dell'Unione e a proteggere e servire i suoi interessi;
b) rispetti i principi dei suddetti trattati e il quadro istituzionale unico dell'Unione;
c) venga utilizzata solo in ultima istanza, qualora non sia stato possibile raggiungere gli obiettivi dei suddetti trattati applicando le procedure pertinenti ivi contemplate;
d) riguardi almeno la maggioranza degli Stati membri;
e) non pregiudichi l'acquis comunitario e le misure adottate a norma delle altre disposizioni dei suddetti trattati;
f) non pregiudichi le competenze, i diritti, gli obblighi e gli interessi degli Stati membri che non vi partecipano;
g) sia aperta a tutti gli Stati membri e consenta loro di aderirvi in qualsiasi momento, fatto salvo il rispetto della decisione di base e delle decisioni adottate in tale ambito;
h) ottemperi agli ulteriori criteri specifici definiti rispettivamente nell'articolo 11 del trattato che istituisce la Comunità europea e nell'articolo 40 del presente trattato, a seconda dei settori interessati, e sia autorizzata dal Consiglio secondo le procedure da essi previste.
2. Gli Stati membri applicano, per quanto li riguarda, gli atti e le decisioni adottati per l'attuazione della cooperazione cui partecipano. Gli Stati membri che non partecipano a tale cooperazione non ne ostacolano l'attuazione da parte degli Stati membri che vi partecipano" (art. 43).
ii) partecipazione alle decisioni: solo gli Stati partecipanti alla cooperazione rafforzata prendono parte alladozione "degli atti e delle decisioni necessari per lattuazione della cooperazione" (art. 44, 1° comma);
iii) costi: "Le spese derivanti dall'attuazione della cooperazione, diverse dalle spese amministrative che devono sostenere le istituzioni, sono a carico degli Stati membri partecipanti, salvo che il Consiglio, deliberando all'unanimità, decida altrimenti" (art. 44, 2° comma);
iii) controllo parlamentare: "Il Consiglio e la Commissione informano periodicamente il Parlamento europeo sugli sviluppi della cooperazione rafforzata instaurata sulla base del presente titolo" (art. 45).
Ad integrazione di tali disposizioni di portata generale, il TCE (art. 11) e il TUE (art. 40) dettano norme specifiche, valide rispettivamente per le cooperazioni rafforzate instaurate nelle materie afferenti al primo e al terzo pilastro. In sintesi, le principali differenze riguardano:
I) i presupposti ulteriori di legittimità:
sotto il primo pilastro sono i seguenti:
"a) non riguardi settori che rientrano nell'ambito della competenza esclusiva della Comunità;
b) non incida sulle politiche, sulle azioni o sui programmi comunitari;
c) non riguardi la cittadinanza dell'Unione, né crei discriminazioni tra cittadini degli Stati membri;
d) rimanga entro i limiti delle competenze conferite alla Comunità dal presente trattato;
e) non costituisca una discriminazione né una restrizione negli scambi tra Stati membri e non produca una distorsione delle condizioni di concorrenza tra questi ultimi",
mentre nellambito del terzo pilastro sono i seguenti:
"a) rispetti le competenze della Comunità europea e gli obiettivi stabiliti dal presente titolo;
b) abbia il fine di consentire all'Unione di svilupparsi più rapidamente come spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia";
II) la procedura per linstaurazione della cooperazione rafforzata (e, in particolare, la titolarità del diritto di iniziativa):
mentre in ambito comunitario "L'autorizzazione [...] è concessa dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, previa consultazione del Parlamento europeo", nel quadro del terzo pilastro "L'autorizzazione [...] è concessa dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata su richiesta degli Stati membri interessati e dopo aver invitato la Commissione a presentare il suo parere; la domanda è trasmessa anche al Parlamento europeo";
III) la procedura per la partecipazione di un altro Stato membro a una cooperazione rafforzata già instaurata:
mentre in ambito comunitario, la decisione finale spetta alla Commissione, in seno al terzo pilastro, tale decisione è di competenza del Consiglio dei ministri ("Entro quattro mesi dalla data di tale notifica [la notifica della domanda di partecipazione da parte dello Stato], il Consiglio decide sulla richiesta e sulle misure specifiche che può ritenere necessarie. La decisione si intende adottata a meno che il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, decida di tenerla in sospeso; in tal caso il Consiglio dichiara i motivi della sua decisione e stabilisce un termine per il suo riesame").
Entrambi i trattati contengono poi (con formulazioni sostanzialmente identiche) una norma di importanza decisiva, che attribuisce ad ogni singolo Stato membro una sorta di potere di veto sullinstaurazione di una cooperazione rafforzata. Ecco limportante disposizione nella versione inserita nel TCE (art. 11, 2° comma, 2° cpv.):
"Se un membro del Consiglio dichiara che per importanti e specificati motivi di politica interna, intende opporsi alla concessione di un'autorizzazione a maggioranza qualificata, non si procede alla votazione. Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può chiedere che la questione venga sottoposta al Consiglio, riunito nella composizione di Capi di Stato o di Governo, per una decisione all'unanimità".