VERSO UNA POLITICA MIGRATORIA COMUNE?

Le prospettive di applicazione del nuovo titolo IV TCE

tra interessi nazionali ed interesse comune europeo

di Ferruccio PASTORE

 

 

 

 

 

 

 

Rapporto elaborato per il Centro Studi di Politica Internazionale-CeSPi (Roma)

nell’ambito di una ricerca finalizzata ad attività formativa e di aggiornamento dei funzionari della Polizia di Stato sul tema "Lo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Implicazioni per l’Italia"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Roma, marzo 1999

SOMMARIO

 

 

1. Premessa: il contesto e gli obiettivi dell’indagine

2. Esposizione migratoria e interessi nazionali

3. Esiti possibili del processo di comunitarizzazione e sussidiarietà

4. L’acquis Schengen come base di una futura legislazione europea

5. Verso una legislazione europea: priorità nazionali e programmi comuni

6. La geometria dello spazio comune: opting out, cooperazioni rafforzate, allargamento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Premessa: il contesto e gli obiettivi dell’indagine

La fonte principale di questo rapporto - oltre, beninteso, ai testi normativi, ai documenti ufficiali ed alla letteratura specialistica - è rappresentata da una serie di interviste e colloqui condotti con funzionari, rappresentanti politici e studiosi in quattro Stati-membri dell’Unione europea (Francia, Germania, Italia, Spagna) e in un Paese attualmente impegnato nei negoziati per l’adesione (Slovenia), nonché presso la Commissione europea. Le interviste ed i colloqui sono stati realizzati tra la fine della primavera 1998 e i primi due mesi del 1999, in una fase in cui gli Stati membri si trovavano impegnati nelle procedure di ratifica del trattato di Amsterdam ed il trattato stesso non era, pertanto, ancora entrato in vigore.

La ricerca si colloca, dunque, all’inizio di una fase di transizione nel processo di integrazione europea sul terreno degli affari interni, e della politica migratoria in particolare. Il ciclo in cui l’azione europea in questo campo è stata dominata da logiche e modelli intergovernativi - soprattutto in ambito Schengen, ma anche all’interno di un terzo pilastro di cui non sono state sfruttate appieno le, pur limitate, potenzialità - sembra (per il momento, almeno) concluso. Il trattato firmato il 2 ottobre 1997 prefigura, infatti, un ciclo nuovo, caratterizzato da un ruolo assai più attivo, e per alcuni aspetti addirittura esclusivo, delle istituzioni europee.

Come è noto, tuttavia, il nuovo assetto decisionale europeo in materia di immigrazione e di asilo non conseguirà immediatamente all’entrata in vigore del trattato di Amsterdam, bensì risulterà progressivamente da due processi, l’uno (di natura prevalentemente, ma non esclusivamente, tecnica) propedeutico all’altro (di natura più spiccatamente politica): ci riferiamo, per un verso, all’incorporazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea, da completarsi prima dell’entrata in vigore del trattato, e, per l’altro verso, alla ‘comunitarizzazione’ delle politiche in materia di "visti asilo, immigrazione" nonché di "altre politiche connesse con la libera circolazione", prevista nell’arco del prossimo quinquennio dal nuovo titolo IV del trattato istitutivo della Comunità europea (TCE).

La transizione dal metodo intergovernativo al metodo comunitario, avviata dal nuovo trattato, è un processo dall’esito incerto, condizionato essenzialmente da due ordini di incognite che, in una certa misura, si influenzano a vicenda: a) l’andamento futuro dei movimenti migratori verso lo spazio comunitario e dei processi di integrazione delle comunità immigrate nelle società di arrivo; b) le scelte politiche che compiranno gli Stati membri e le istituzioni europee nella prossima fase. I tempi e i modi della "comunitarizzazione" ne risulteranno influenzati in modo decisivo: gli scenari astrattamente possibili variano, infatti, da un’ipotesi minimale (consistente nella semplice incorporazione dell’acquis di Schengen nel terzo pilastro) ad un’ipotesi di massima (il trasferimento sotto il primo pilastro, con il passaggio alla procedura ex art. 251 TCE [maggioranza qualificata + co-decisione], per l’intera tematica).

Come si è già detto, questa ricerca è stata realizzata nell’anno precedente l’entrata in vigore del trattato di Amsterdam. In tale periodo preparatorio, le istituzioni e le burocrazie degli Stati membri si sono dedicate prevalentemente allo studio del nuovo testo ed alla valutazione delle sue possibili implicazioni. Mentre le istituzioni comunitarie - con alcune importanti proposte di atti normativi presentate nel corso degli ultimi due anni dalla Commissione e, più recentemente, con il Piano d’azione elaborato congiuntamente da quest’ultima e dal Consiglio - hanno già enunciato alcuni capisaldi per una strategia di medio termine, gli Stati membri non sembrano avere ancora sviluppato un’iniziativa politico-normativa organica sulle materie oggetto della "comunitarizzazione". Esistono prese di posizione nazionali su singoli temi e ‘sensibilità’ nazionali in alcuni casi già ben delineate, ma mancano ancora vere e proprie strategie nazionali sulla tematica nel suo complesso.

Dato il periodo in cui è stata realizzata, la presente indagine si propone, dunque, come un’esplorazione preliminare di un policy field in via di rapida e, a tratti, convulsa strutturazione. Inoltre, come abbiamo già riferito, la ricerca è stata condotta in un numero limitato di Stati che, sebbene scelti per la loro importanza dal punto di vista delle dinamiche migratorie e delle politiche relative, non compongono che una parte di un quadro politico sovranazionale in cui, almeno per ora, l’unanimità a fini decisionali rimane la regola.

Per queste ragioni, la ricerca si propone obiettivi necessariamente circoscritti, che consistono, innanzitutto, nell’individuazione dei principali nodi problematici e delle opzioni tecnico-politiche fondamentali lungo il percorso di "comunitarizzazione"; su questa base, si cercherà di identificare gli atteggiamenti iniziali e le eventuali strategie progressivamente sviluppate dai principali attori (istituzioni e burocrazie nazionali; istituzioni comunitarie) di questa partita appena iniziata, che si annuncia assai vivace e complessa.

 

 

2. Esposizione migratoria e interessi nazionali

E’ difficile mettere in discussione che, tra i quindici Stati membri dell’Unione europea, esistano profonde differenze che si riflettono sulla percezione degli interessi nazionali e sulle connesse priorità politiche di ciascun Paese in materia di immigrazione e di asilo.

Per analizzare queste differenze ed il loro impatto sul processo di comunitarizzazione, è utile prendere le mosse da una classificazione schematica dei movimenti migratori che interessano l’Europa comunitaria in questa fase, distinguendoli in base ai caratteri fondamentali del loro trattamento giuridico e amministrativo da parte degli Stati membri di destinazione:

I) flussi per i quali l’eventuale ammissione consegue ad una valutazione discrezionale dello Stato di arrivo. Fanno parte di questa categoria i diversi tipi di immigrazione legale a scopo di lavoro (sia esso subordinato, autonomo, stagionale, domestico, etc.);

II) flussi che - in presenza di determinati requisiti, che variano nei diversi ordinamenti nazionali - gli Stati di destinazione sono giuridicamente tenuti ad ammettere. Rientrano in questa categoria, sociologicamente eterogenea, sia l’immigrazione per ricongiungimento famigliare, sia le migrazioni forzate ritenute meritevoli di accoglienza e protezione nei diversi ordinamenti (richiedenti asilo, rifugiati, profughi);

III) flussi non autorizzati o illegali, che gli Stati cercano legittimamente di prevenire e di reprimere attraverso un’attività di complessità crescente, articolata su più livelli (cooperazione con gli Stati di origine e di transito - controlli e sanzioni negli Stati di origine e di transito - controlli e sanzioni alla frontiera - controlli e sanzioni sul proprio territorio - misure di allontanamento).

A fianco di queste tre categorie di flussi migratori in senso proprio, cioè di movimenti di popolazione finalizzati a un certo periodo di permanenza nello Stato o negli Stati di destinazione, esiste un’ulteriore categoria di movimenti di popolazione che, sebbene non si possano definire propriamente "migrazioni", incidono sulle dinamiche migratorie in senso più ampio. Ci riferiamo ai soggiorni di breve durata (turismo, affari, cure mediche, visita a famigliari, motivi religiosi, etc.), generalmente autorizzati in base a una valutazione discrezionale dello Stato (o di un gruppo di Stati, come in ambito Schengen, in seguito all’instaurazione del regime di visto uniforme) di destinazione. Questo tipo di flussi rileva, ai fini del nostro discorso, perché non è infrequente che la permanenza oltre il termine consentito generi situazioni di irregolarità del soggiorno (overstayers).

Rispetto alle macro-categorie illustrate, la situazione dei principali Paesi europei di immigrazione (e degli Stati membi oggetto di questa indagine, in particolare) varia sensibilmente da diversi punti di vista, determinando, di conseguenza, differenze anche marcate nella percezione degli interessi nazionali e nel conseguente orientamento delle scelte politiche.

Con riferimento ai flussi del tipo I), prevalgono, in ciascuno degli Stati membri esaminati, valutazioni tecniche e politiche divergenti circa il bisogno che il Paese nel suo complesso ha, o potrà avere in un futuro prossimo, di lavoratori immigrati, sia per ragioni strettamente economiche, legate alla struttura e all’andamento del mercato del lavoro, sia per ragioni demografiche, connesse in particolare alla sostenibilità dei sistemi di Welfare nazionali.

Da questo punto di vista, con riferimento specifico ai Paesi oggetto della presente ricerca, emerge una netta distinzione tra Francia e Germania, da un lato, dove la necessità di ricorrere in misura massiccia a lavoro immigrato in un futuro politicamente rilevante viene generalmente esclusa, e Italia e Spagna, dall’altro lato, dove - nonostante il diverso orientamento politico delle maggioranze attualmente al governo - la maggior parte dei nostri intervistati, nonché voci autorevoli di esperti e rappresentanti delle istituzioni, riconoscono l’esistenza di un "bisogno strutturale di immigrazione" da parte delle rispettive società nazionali. Oltre che su considerazioni di portata strutturale, in alcuni casi, poi, l’orientamento favorevole all’ammissione di quote annue di lavoratori immigrati (non solo stagionali) è fondato su argomenti più legati alla contingenza, in particolare sulla convinzione che, attraverso una "politica degli ingressi" flessibile, si possa creare una "valvola di sfogo", capace di alleviare la pressione illegale.

Con riferimento, invece, ai flussi del tipo II) e III), non direttamente dipendenti dalle scelte degli Stati di destinazione, l’atteggiamento fondamentale di politica migratoria di ciascuno Stato dipende essenzialmente dal suo grado di "esposizione" ai diversi tipi di flusso o, detto in altri termini, dall’intensità degli specifici pull factors operanti a livello nazionale. A questo proposito, è utile sottolineare che la maggiore o minore "esposizione migratoria" di un Paese dipende da molteplici fattori:

a) fattori geografici. Sebbene i progressi nelle comunicazioni internazionali e la crescita economica, pur squilibrata, di molti tra i paesi meno sviluppati, abbiano aumentato la portata chilometrica dei flussi migratori internazionali, la vicinanza e l’accessibilità geografica rimangono indiscutibilmente pull factors di primaria importanza sia per le migrazioni clandestine, sia, sebbene in misura minore, per quelle regolari.

La maggiore o minore "esposizione" geografica alla pressione migratoria dipende da una una serie di caratteristiche geo-morfologiche di rilevanza perlopiù intuitiva, tra le quali spiccano: i) la distanza dai principali Paesi di origine o di transito di emigrazione clandestina, ii) l’eventuale presenza e l’estensione chilometrica di frontiere terrestri (‘frontiere verdi’) con detti Paesi, iii) l’eventuale presenza e l’estensione chilometrica di frontiere marittime (‘frontiere blu’) con acque internazionali su cui si affacciano detti Paesi.

Alla luce di questi criteri, tutti e quattro gli Stati membri oggetto della presente ricerca si devono considerare geograficamente esposti, sebbene non nella stessa misura e in forme diverse. Quanto alla Slovenia, si tratta di un Paese che, pur avendo un potenziale migratorio in sé ridottissimo, si trova collocato su un asse di grande rilevanza strategica per l’accesso non autorizzato (come, d’altra parte, anche per l’accesso legale) al territorio dell’Unione europea.

Ma la collocazione geografica e la morfologia del territorio nazionale non sono gli unici fattori che influiscono in misura rilevante sul grado di "esposizione" di un determinato Paese all’eventualità dell’immigrazione regolare ed al rischio dell’immigrazione clandestina. Poiché le migrazioni internazionali sono un fenomeno sociale complesso, non suscettibile di essere analizzato con gli strumenti della meccanica dei fluidi, accanto ai pull factors di natura geografica assumono importanza decisiva altri fattori di natura b) socio-demografica, c) economica, d) politico-giuridica.

b) fattori socio-demografici. La presenza sul territorio di uno Stato (o, su una scala inferiore, in una determinata regione, città, o addirittura in un certo quartiere) di comunità immigrate (o di origine immigrata) stabilmente insediate rappresenta un fattore di attrazione di primaria importanza. Le comunità straniere (o di origine straniera), infatti, costituiscono molto spesso il punto di partenza di "catene migratorie", sia legali (attraverso i ricongiungimenti famigliari o attraverso matrimoni contratti ex novo nel Paese d’origine), sia clandestine (ricongiungimenti famigliari "di fatto"; sostegno, ospitalità, impiego offerto a immigrati clandestini) e irregolari (inviti per visite che poi si trasformano in permanenze irregolari alla scadenza del periodo di soggiorno autorizzato).

Da questo punto di vista, il grado di esposizione a nuovi flussi degli Stati europei di più vecchia tradizione migratoria (la Francia, innanzitutto, ma anche la Germania) e dove risiedono comunità straniere (o di origine straniera) più consistenti risulta maggiore di quello degli Stati di immigrazione recente, come l’Italia e la Spagna;

c) fattori economici. Assumono importanza decisiva, da questo punto di vista, alcune variabili relative alla struttura del mercato del lavoro tra cui: i) l’estensione del settore sommerso ed il livello di legalità all’interno di ciascun mercato nazionale del lavoro; ii) le caratteristiche dell’offerta di lavoro proveniente dai cittadini, con particolare riferimento alla propensione alla mobilità interna, al grado di accettazione di lavori scarsamente qualificati, saltuari, particolarmente gravosi o sgradevoli; iii) il rapporto tra il livello di flessibilità della manodopera richiesto dalle imprese e quello consentito dalla legislazione nazionale.

In mancanza di indicatori affidabili e omogenei su cui fondare analisi comparative, è difficile valutare con oggettività l’incidenza rispettiva dei pull factors di natura economica nei quattro Paesi in esame.

d) fattori giuridico-amministrativi. Tra i pull factors di natura giuridico-amministrativa, assumono un’importanza preminente le caratteristiche dei sistemi di controllo delle frontiere e di lotta all’immigrazione irregolare e clandestina di ciascun possibile Stato di destinazione. Inoltre, per quanto concerne in particolare i flussi che - nella classificazione proposta in apertura di paragrafo - abbiamo classificato sub II), hanno un’influenza determinante le regole vigenti in ciascun Paese in materia di ingresso e soggiorno per motivi famigliari, nonché quelle relative all’ammissione dei richiedenti asilo, all’attribuzione della qualifica di rifugiato e alla protezione temporanea. Una notevole incidenza sulla capacità di attrazione di ciascun Paese hanno, infine, le caratteristiche dei sistemi di Welfare di ciascuno Stato membro, con particolare riferimento alle provvidenze eventualmente offerte a specifiche categorie di migranti (famigliari di immigrati già regolarmente presenti; richiedenti asilo; clandestini/irregolari bisognosi di prima accoglienza; etc.).

Con riferimento a quest’ultima categoria di fattori di esposizione alla pressione migratoria, sebbene permangano disparità significative tra i diversi contesti nazionali, si constata, negli ultimi anni, una marcata tendenza al ravvicinamento delle legislazioni ed all’armonizzazione delle prassi amministrative, che attenua decisamente i dislivelli precedentemente esistenti. Basti ricordare, a questo proposito, la riforma costituzionale del diritto d’asilo in Germania (1993) e la recente riforma italiana del diritto dell’immigrazione e, in particolare, della disciplina dell’espulsione (1998), che hanno modificato nel senso di un maggior rigore due legislazioni nazionali che, a diverso titolo, lasciavano aperti canali di permanenza (di diritto, nel caso tedesco, di fatto, in quello italiano) più ampi rispetto alla media europea.

 

 

3. Esiti possibili del processo di comunitarizzazione e sussidiarietà

L’insieme delle specificità nazionali che abbiamo sin qui tentato di analizzare con riferimento a una tipologia dei movimenti migratori e ad una schematica classificazione dei fattori di attrazione consente di spiegare alcune divergenze macroscopiche tra gli obiettivi fondamentali di politica migratoria dei diversi Stati membri. E’ importante sottolineare che tali divergenze appaiono prescindere, in larga misura, dai mutamenti delle maggioranze politiche volta a volta prevalenti a livello nazionale. Senza pretese di esaustività, si possono enucleare i seguenti blocchi di interessi:

A) interesse degli Stati attualmente o potenzialmente bisognosi di flussi del tipo I) a mantenere una gestione elastica del regime di ammissione;

B) interesse degli Stati più esposti sotto il profilo geografico ad ottimizzare il rapporto tra costo ed efficacia dei controlli alle proprie frontiere, eventualmente anche socializzando i maggiori costi che essi, rispetto agli Stati più "protetti", devono sostenere per tali controlli;

C) interesse degli Stati più esposti dal punto di vista socio-demografico a rendere quanto più rigorose possibile le norme e le procedure in materia di ricongiungimento famigliare e di visita a famigliari, per circoscriverne l’uso ed evitare abusi.

Nonostante queste divergenze, nel corso degli ultimi quindici anni, in ambito europeo, si è sviluppata un’intensa cooperazione internazionale in materia di affari interni e, in particolare, in tema di visti, controllo delle frontiere, libera circolazione, immigrazione ed asilo. L’intensificazione della cooperazione, pur in presenza delle divergenze strutturali illustrate, si spiega con i due caratteri fondamentali di tale cooperazione:

I) sotto il profilo istituzionale, con riferimento cioè al metodo decisionale, si è trattato essenzialmente di una cooperazione di tipo intergovernativo. Questa limitazione ha consentito agli Stati partecipanti di mantenere un controllo pieno e costante sull’evoluzione del processo, sia con riferimento alla definizione dell’agenda, sia rispetto alle decisioni adottate;

II) sotto il profilo tecnico e politico, quindi con riferimento al contenuto delle scelte compiute, si è trattato prevalentemente di una cooperazione di tipo difensivo. A fronte della "interdipendenza negativa" che si è venuta creando tra gli Stati membri della Comunità europea in seguito alla definizione, con l’Atto Unico del 1986, del mercato interno come spazio di libera circolazione, si è innescata una tendenza all’armonizzazione delle legislazioni e delle prassi amministrative nazionali in materia di immigrazione e di asilo. Questa tendenza, finalizzata a ridurre le disparità tra i pull factors di natura giuridico-amministrativa operanti nei diversi contesti nazionali (cfr. par. 2), si è tradotta - per effetto dello "stato d’animo" politico prevalente rispetto all’immigrazione, in Europa, nel periodo dato - in un’armonizzazione "verso il basso", in cui gli standard adottati dai Paesi più rigorosi hanno svolto il ruolo di parametri di riferimento. Questa evoluzione è stata accettata anche dagli Stati i cui interessi fondamentali di politica migratoria vanno nel senso di una maggiore apertura (Italia, Spagna), sia per ragioni politiche interne, sia perché la tendenza in questione non ha sinora pregiudicato la potestà dei singoli Stati di gestire con flessibilità la politica degli ingressi finalizzati a soggiorni di media e lunga durata (superiore a tre mesi).

In seno alla Conferenza intergovernativa che ha elaborato il trattato di Amsterdam, è emerso chiaramente che una cooperazione dotata delle caratteristiche appena illustrate non appariva più confacente alle esigenze comuni degli Stati dell’Unione. Sotto il profilo del metodo, i limiti di efficacia insiti nel metodo intergovernativo, fosse pure nella versione "istituzionalizzata" del terzo pilastro, sono stati giudicati ormai non più tollerabili, di fronte all’altezza ed all’urgenza delle sfide che gli Stati membri hanno di fronte in materia d’immigrazione. Sotto il profilo dei contenuti, la Commissione e alcuni Stati membri importanti hanno giudicato che una cooperazione puramente difensiva non fosse più sufficiente a soddisfare nel modo migliore gli interessi comuni dei Quindici. Queste ragioni di insoddisfazione, unite all’intenzione unanime di inviare alle opinioni pubbliche europee un segnale rassicurante su un terreno assai sensibile, hanno condotto all’inserimento nel trattato comunitario del nuovo titolo IV.

Ma, se la volontà di segnare uno stacco rispetto alla situazione precedente è emersa unanime in seno alla CIG, un consenso analogo è mancato, e tuttora manca, in merito ai reali obiettivi della riforma. Come d’altronde è accaduto altre volte, in occasione di svolte decisive nel processo di integrazione europea, l’esigenza di una riforma si è materializzata in un testo di carattere programmatico e procedurale, più che normativo.

Gli articoli 61-69 TCE, nella versione consolidata post-Amsterdam rappresentano, infatti, un programma d’azione vasto e flessibile, accompagnato dall’enunciazione di alcune norme fondamentali di carattere (in senso lato) procedurale, che segnano altrettante specificità nel processo decisionale e nel rapporto tra le istituzioni, rispetto all’assetto generalmente vigente in ambito comunitario.

Sul piano della disciplina sostanziale della materia migratoria, invece, la scelta-chiave fatta ad Amsterdam è, senza dubbio, quella dell’incorporazione dell’acquis di Schengen in ambito UE. Come abbiamo anticipato nel Dossier e vedremo meglio nel prossimo paragrafo, tuttavia, anche questa scelta si può definire aperta, nel senso che il suo effettivo significato politico e giuridico non è stato determinato in via definitiva dalla CIG e non risulterà che dalla conclusione del processo definito, nel gergo eurocratico, "ventilation", che è tuttora in corso e il cui esito appare ancora incerto.

La necessità, da tutti condivisa, di "fare qualcosa", controbilanciata dalle divergenze esistenti tra gli obiettivi fondamentali di politica migratoria degli Stati membri, ha dato origine a un compromesso "aperto". La "comunitarizzazione" decisa ad Amsterdam potrà, in effetti, dare luogo a una varietà di scenari politici, normativi e istituzionali diversi, a seconda delle opzioni concrete che prevarranno nei mesi e negli anni a venire. Come abbiamo anticipato nella Premessa, dal punto di vista istituzionale, la gamma degli esiti possibili oscilla tra due estremi:

I) ipotesi minimale: "pseudo-comunitarizzazione". E’ la situazione che si verificherebbe se il Consiglio dovesse rinunciare o tardare eccessivamente nella ripartizione dell’acquis Schengen tra il primo e il terzo pilastro. In questo caso, com’è noto, il protocollo ad hoc stabilisce che "le disposizioni o decisioni che costituiscono l’acquis di Schengen sono considerate atti fondati sul titolo VI del trattato sull’Unione europea" (art. 2, 1° comma, 4° cpv.);

II) ipotesi massimale: "comunitarizzazione piena". E’ la situazione che si verificherebbe qualora il Consiglio: i) decidesse, dapprima, l’incorporazione sotto il primo pilastro di tutti gli atti che compongono l’acquis in materia di visti, asilo e immigrazione; ii) nei cinque anni successivi, adottasse misure in tutti i settori elencati all’articolo 61 TCE; iii) allo scadere del quinquennio, decidesse all’unanimità di assoggettare integralmente gli stessi settori alla procedura di co-decisione.

Tra questi due estremi, esiste evidentemente un’ampio spettro di opzioni intermedie.

L’esito concreto del processo di comunitarizzazione dipenderà da un grande numero di variabili (politiche, economiche e sociali), oggi assai difficili da prevedere. Nei prossimi paragrafi prenderemo in esame alcune di queste variabili, tentando di valutarne il possibile impatto. Preliminarmente, appare utile, tuttavia, soffermarci brevemente su un criterio generale di delimitazione della competenza delle istituzioni comunitarie e di orientamento delle politiche corrispondenti, che sembra destinato ad esercitare una notevole influenza nel processo di elaborazione di misure comunitarie in materia di immigrazione e di asilo. Ci riferiamo al principio di sussidiarietà, ora regolato dall’articolo 5 (ex art. 3B) TCE - espressamente richiamato, per quanto riguarda l’Unione europea, dall’art. 2 (ex art. B) TUE - e da un apposito "Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità" allegato al TCE.

Si delinea nettamente, in alcuni importanti Paesi membri (in primo luogo, ma non solo, in Francia), la tendenza a fare esplicitamente e preventivamente appello al principio di sussidiarietà, per opporsi a ipotesi di comunitarizzazione piena e rapida e sostenere, al contrario, la preferibilità di un trasferimento di competenze parziale ed estremamente graduale. In questo tipo di prese di posizione, il principio di sussidiarietà è fatto valere sia in quanto garanzia di democrazia, poiché inteso a "far sì che le decisioni all’interno dell’Unione europea vengano prese il più vicino possibile ai cittadini", sia in quanto garanzia di efficacia, in opposizione a un metodo comunitario, percepito come viziato dalla farraginosità delle procedure e dagli eccessi tecnocratici di una burocrazia distante dai problemi reali. Questa posizione - non esente da intrinseche ambiguità - appare espressa chiaramente in un breve, ma significativo contributo redatto sotto pseudonimo da un funzionario francese, di cui è utile riportare alcuni passi. Vi si legge, per esempio, con riferimento agli scenari aperti dal nuovo trattato:

"[la] dimension démocratique de la politique d’immigration, dont le Parlement est le centre, risque donc de disparaître, tout au moins à l’échelon national, au profit d’une uniformisation qui risque de ne pas tenir compte des différences d’approches et de traditions";

o ancora che:

"Le traité d’Amsterdam ne comporte certes rien d’irrémédiable puisque le passage à la codécision, étape la plus cruciale, ne sera décidé qu’à l’unanimité. Il importe cependant de rester vigilant à l’égard de tout risque de dérive supranationale, susceptible de déboucher sur une approche technocratique de l’asile et de l’immigration";

e, infine, che:

"la question fondamentale est de savoir dans quelle mesure l’Union européenne est bien le cadre approprié pour définir une politique de l’asile et de l’immigration. Les travaux de l’Union européenne sont le plus souvent dominés par la défense des intérêts nationaux des Etats membres, il n’existe pas encore de véritable sens de l’intérêt européen, qui transcenderait les intérêts nationaux. Un contexte aussi hétéroclite, ou chacun tire à hue et à dia pour obtenir des avantages en sa faveur, ne semble pas se prêter à l’émergence d’une véritable volonté politique pouvant déboucher sur un projet cohérent en matière d’asile et d’immigration. On risque donc de priver les Etats membres de leurs outils de décision dans ce secteur, sans que l’Union européenne soit elle-même en mesure de tracer des orientations cohérentes. C’est alors la capacité d’agir de la ‘puissance publique’ en général qui serait gravement affectée".

Posizioni di questo tipo - offrendo un appiglio giuridico, per quanto opinabile, agli avversari della comunitarizzazione - sono suscettibili di tradursi in un rallentamento e in una frammentazione, se non addirittura in una paralisi dell’intero processo. Torneremo più avanti sul rischio che questo rappresenta per la coerenza e l’efficacia dell’approccio europeo in questa materia; qui, vogliamo invece soffermarci brevemente sui limiti insiti in un uso del principio di sussidiarietà del tipo di quello appena descritto.

E’ noto che il Protocollo sulla sussidiarietà approvato ad Amsterdam individua tre principi-guida che dovrebbero servire a valutare, caso per caso, se una determinata azione comunitaria sia giustificata alla luce del principio generale:

"- il problema in esame presenta aspetti transnazionali che non possono essere disciplinati in maniera soddisfacente mediante l’azione degli Stati membri;

- le azioni dei soli Stati membri o la mancanza di un’azione comunitaria sarebbero in conflitto con le prescrizioni del trattato [...] o comunque pregiudicherebbero in modo rilevante gli interessi degli Stati membri;

- l’azione a livello comunitario produrrebbe evidenti vantaggi per la sua dimensione o i suoi effetti rispetto all’azione a livello di Stati membri".

Nell’interpretare a fini pratici questi criteri, applicandoli in particolare alle politiche in materia d’immigrazione e di asilo, acquista un rilievo decisivo l’orizzonte temporale che si assume come rilevante. Se quest’orizzonte è eccessivamente breve, infatti, non esistono argomenti incontrovertibili che spingano ad abbandonare il metodo intergovernativo, eventualmente nella versione ‘temperata’ del terzo pilastro, a favore del metodo comunitario. E’ probabile, anzi, che, in una fase iniziale, la comunitarizzazione debba attraversare una fase di rodaggio dei meccanismi istituzionali (si pensi al passaggio di competenze dal Comitato esecutivo Schengen al Consiglio, oppure al rompicapo istituzionale legato al particolare status di Norvegia e Islanda in seno al ‘sistema Schengen’) che potrebbe anche comportare intoppi e temporanei cali di efficacia rispetto ai meccanismi cooperativi preesistenti. Lo stesso si può forse dire del livello di controllo democratico sulla politica migratoria, dove pure la situazione precedente ad Amsterdam non era certo priva di gravi vizi e lacune. Ma, superata una fase di adeguamento delle istituzioni europee (e nazionali) ai nuovi compiti, la comunitarizzazione - specialmente una volta superata la soglia, cruciale e controversa, del passaggio alla co-decisione - sembra in grado di generare un forte ‘valore aggiunto’ in termini di efficacia e coerenza complessiva dell’azione europea su questo terrreno. Perlomeno, questa è la convinzione che sembra prevalere in seno alla Commissione e presso le cancellerie di alcuni Stati membri.

Ma l’argomento più robusto che viene utilizzato contro un uso della sussidiarietà quale freno al processo di comunitarizzazione non attiene alla dimensione procedurale, bensì a quella sostanziale, delle politiche in questione. Secondo un’impostazione da tempo presente in ambito scientifico, che va prendendo piede anche nel dibattito politico europeo, l’immigrazione deve essere trattata come un fenomeno strutturale di lunga durata, per governare il quale non sono sufficienti misure reattive di breve e medio periodo (come la maggior parte di quelle adottate in ambito Schengen), ma è invece necessaria una strategia complessiva di lungo periodo, orientata alla progressiva attenuazione dei push factors nei principali Paesi emissari di flussi migratori ed all’ottimizzazione dell’utilità socio-economica dei movimenti migratori residui, sia per gli Stati d’origine sia per quelli di destinazione. Ma è evidente che un approccio di tale ampiezza ed impegno trascende le capacità finanziarie ed operative di ogni singolo Stato membro: solo l’Unione europea in quanto tale appare all’altezza della sfida. Questa constatazione è contenuta, in termini espliciti, nello "Strategy Paper on Immigration and Asylum Policy", presentato dalla presidenza austriaca dell’Unione nel luglio 1998. In uno dei passaggi centrali di questo importante documento programmatico, si legge ad esempio:

"National interests still dominate the process of decision-making in the European Union’s migration policy. This is an anachronism insofar as it has in any case become clear in the decade now ending that migration policy challenges always concerned the Union as a whole and did not refer exclusively to one country. Three examples providing clear evidence of this are: the exodus of Croats, Bosnians and Kosovars; the illegal immigration of Iraqis, Kurds and other migrants accompanying them, organised on a large scale; and the emigration movement from the Maghreb. It is therefore obviously essential for a uniform European policy concept to be developed. The European Union should devise its future immigration policy as an entity and cannot expect such a policy to develop automatically, so to speak, from the product of national decisions" (punto 39).

L’approccio suggerito dal documento austriaco - a prescindere dalla valutazione dei suoi contenuti politici e giuridici concreti - si distingue per il suo carattere strategico e multidimensionale (o integrato). Ciò significa, innanzitutto, che si tratta di un approccio orientato al medio-lungo periodo, in opposizione ad uno reattivo, quando non addirittura emergenziale, che ha prevalso a lungo sia a livello europeo, sia soprattutto a livello nazionale. Si tratta, inoltre, di un’impostazione che tende a superare i confini tradizionali della politica dell’immigrazione: l’individuazione della riduzione della pressione migratoria come obiettivo strategico prioritario attrae, infatti, nella sfera della politica migratoria in senso lato, policies tradizionalmente afferenti ad altri ambiti, tra cui "intervention in conflict regions; extension of development aid and economic cooperation; political cooperation between host States and States of origin; raising of human rights standards" (punto 41). La politica migratoria, in quest’ottica, tende a confluire - dal punto di vista concettuale, istituzionale e operativo - in ampie strategie regionali di stabilizzazione socio-demografica, sviluppo economico sostenibile, democratizzazione e promozione della legalità. E’ evidente che l’adozione di una simile prospettiva implicherebbe un ripensamento radicale dell’azione esterna della Comunità e dell’Unione, nonché del loro stesso assetto istituzionale e, in particolare, dei rapporti tra i pilastri e tra le diverse istituzioni europee.

Senza soffermarci, qui, su queste implicazioni, ci sembra utile, invece, segnalare che l’approccio strategico e integrato sembra incontrare - in quanto scelta di metodo, a prescindere dai suoi contenuti tecnico-politici - un favore crescente presso le istituzioni europee. Acuni segnali in questa direzione sono contenuti, per esempio, nel "Piano d’azione sul modo migliore per attuare le disposizioni del trattato di Amsterdam concernenti uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia", strumento elaborato congiuntamente dal Consiglio UE e dalla Commissione sulla base di un mandato conferito dal Consiglio europeo di Cardiff, esaminato dapprima dal Consiglio giustizia e affari interni e successivamente approvato dal Consiglio europeo (Vienna, 11 e 12 dicembre 1998). L’approvazione del Piano d’azione - sui cui contenuti torneremo nel paragrafo 5 - segna una svolta importante nel modo di procedere su questo terreno (rispetto alla fase del dopo-Maastricht, per esempio), ma non rappresenta, di per sé, una scelta definitiva a favore del metodo strategico e integrato invocato da più parti. E’ assai significativo, tuttavia, che nelle Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Vienna, tra le materie a cui il Consiglio europeo auspica che venga prestata particolare attenzione, nel settore "giustizia e affari interni", vi sia lo "sviluppo di una strategia globale in materia di migrazione" (punto 84).

 

 

4. L’acquis Schengen come base di una futura legislazione europea

Il processo di comunitarizzazione si apre, dunque, in un contesto caratterizzato da importanti divergenze tra gli interessi fondamentali di politica migratoria degli Stati membri (par. 2) e dalla contrapposizione che si delinea tra fautori di un approccio gradualista e strettamente funzionalista, più rigidamente condizionato dal principio di sussidiarietà, e sostenitori di un approccio strategico-integrato, che si proietta nel medio-lungo periodo, valorizzando maggiormente il ruolo delle istituzioni europee (par. 3).

All’interno di questo quadro politico, dinamico e contrastato, prende il via un processo di costruzione normativa dall’esito estremamente incerto.

L’edificio della legislazione europea in materia di immigrazione e di asilo non nasce sul nulla, ma su fondamenta già esistenti, seppure incomplete e di consistenza diseguale: queste basi giuridiche preesistenti sono rappresentate, per un verso, dalla soft law sviluppatasi nell’ambito del terzo pilastro dell’Unione (sono oltre settanta gli atti adottati in materia di immigrazione ed asilo) e, per l’altro verso, dall’acquis di Schengen, ora in procinto di essere incorporato nell’ordinamento dell’Unione stessa. A questi due insiemi normativi, aventi estensione, consistenza e contenuti diversi, si aggiungono alcuni strumenti normativi la cui genesi è diversa, tra i quali spiccano la Convenzione di Dublino per la determinazione dello Stato competente ai fini dell’esame di una domanda d’asilo e gli atti già adottati nel quadro della competenza comunitaria, fissata a Maastricht, in materia di politica dei visti.

Senza dubbio, l’acquis di Schengen rappresenta - sia sul piano strettamente giuridico, sia su quello politico - il principale substrato della futura legislazione comunitaria nelle materie considerate dal nuovo titolo IV TCE. Com’è noto, la Conferenza intergovernativa in cui è stato negoziato il trattato di Amsterdam ha raggiunto un accordo di massima sulla necessità di ‘dissolvere’ il sistema Schengen nell’ambito dell’Unione, per far fronte ai primi evidenti segnali di una sua incipiente crisi di funzionalità e di legittimità. Ma la stessa CIG, impegnata a concludersi il più rapidamente possibile, ha evitato di definire le modalità concrete dell’incorporazione, limitandosi a enunciare, mediante un protocollo ad hoc, alcune regole procedurali per una loro definizione successiva. Questa scelta, dettata dalla fretta e dalle persistenti divergenze politiche tra gli Stati membri, ha sollevato numerose critiche. E’ evidente, infatti che demandare la decisione sulla ripartizione dell’acquis di Schengen in ambito UE al Consiglio, ponendola al di fuori del trattato, equivale a sottrarre una dimensione essenziale del nuovo assetto normativo e istituzionale in materia di affari interni alla valutazione dei parlamenti nazionali attraverso le procedure di ratifica. Tanto il Parlamento europeo quanto i Parlamenti nazionali hanno sottolineato questo aspetto, insistendo, presso il Consiglio ed i governi nazionali, al fine di ottenere un’informazione quanto più completa e tempestiva possibile sull’andamento dei lavori per l’incorporazione dell’acquis. Queste istanze di maggiore trasparenza hanno prodotto sinora risultati assai modesti.

All’inizio di marzo 1999, la procedura per l’integrazione dell’acquis Schengen in ambito UE risulta tuttora in corso. In particolare, non è stato ancora raggiunto un accordo né sulla determinazione dettagliata dell’acquis, né sulla sua ripartizione, mediante l’individuazione di una base giuridica specifica per ciascuna sua parte. Non è questa la sede per addentrarsi nei dettagli tecnici di questo complesso negoziato; è tuttavia utile segnalare alcune divergenze emerse tra le delegazioni nazionali in seno al gruppo di lavoro sull’acquis di Schengen, che appaiono utili a comprendere meglio le dinamiche iniziali del processo di comunitarizzazione.

A fronte delle difficoltà affiorate per determinare analiticamente la composizione di un acquis vasto, non sottoposto a pubblicità e poco sistematico come quello di Schengen, alcuni Stati (si tratterebbe, in particolare, di Francia e Grecia) sostengono la necessità di inserire nella decisione finale del Consiglio una clausola generale (cosiddetta "clause balai", cioè "clausola-scopa"), che consentirebbe di ‘salvare’, attribuendo loro una base giuridica, tutti gli atti che compongono l’acquis, anche se non identificati espressamente. Una simile posizione, che mira ad evitare qualsiasi impoverimento (e, in particolare, un indebolimento sotto il profilo della sicurezza) dell’acquis, genera però fortissime perplessità sotto il profilo della certezza del diritto.

Notevoli divergenze sembrano, inoltre, manifestarsi in merito alle modalità di pubblicazione dell’acquis. Le diverse delegazioni esprimono, infatti, visioni ancora contrastanti circa le vie concrete per giungere a contemperare le tre contrapposte esigenze della trasparenza, della certezza del diritto e della sicurezza pubblica.

Infine, da parte di alcuni Stati membri, emergono riserve - più o meno esplicite - in merito alla comunitarizzazione (cioè, all’individuazione di una base giuridica all’interno del nuovo titolo IV TCE) per le disposizioni dell’acquis che trattano, a vario titolo, di immigrazione e controllo delle frontiere. Tali riserve sono attualmente formulate in maniera generalizzata e particolarmente esplicita da parte della Spagna, che insiste su una linea ‘conservatrice’, diretta a collocare l’intero acquis, compresa dunque la parte che tocca la materia migratoria, all’interno del terzo pilastro. Questa posizione, espressa all’interno del "gruppo acquis di Schengen", appare assai difficile da conciliare con gli orientamenti ufficiali del governo e delle principali forze politiche spagnole, generalmente favorevoli a un deciso avanzamento del processo di integrazione europea, anche sul terreno degli affari interni. Questa contraddizione - che esemplifica bene il modo, spesso opaco, in cui interesse nazionale ed interesse europeo si contemperano nella prassi dei singoli Stati membri - sembra doversi spiegare essenzialmente con il persistere di tensioni irrisolte tra Spagna e Gran Bretagna in merito alla situazione di Gibilterra. In relazione a quella specifica situazione, infatti, il mantenimento della piena sovranità sui controlli alle frontiere interne (come dovrebbero essere considerate quelle tra Spagna e Gibilterra) rappresenta, dal punto di vista delle autorità spagnole, un importante strumento di pressione.

La maniera strumentale in cui la problematica generale della ventilation dell’acquis Schengen viene affrontata dalla Spagna in questa fase è certamente criticabile. Come abbiamo già sottolineato, tuttavia, la posizione spagnola non è l’unico ostacolo a una ripartizione dell’acquis coerente con lo spirito di Amsterdam e con l’idea stessa di comunitarizzazione. Altre resistenze, meno dichiarate ma forse non meno radicate e ostinate, esistono e sono ancora suscettibili di manifestarsi nel seguito del negoziato e di condizionarne l’esito finale.

L’eventualità di un’incorporazione, anche solo temporanea, di tutto o parte dell’acquis Schengen che attiene alla materia migratoria, nel terzo pilastro suscita le preoccupazioni e la contrarietà delle istituzioni europee che beneficierebbero direttamente, sotto forma di un ampliamento delle proprie competenze, di una sostanziale ripartizione dell’acquis.

La parlamentare europea Anne Van Lancker, esponente del partito socialista belga, in un progetto di raccomandazione redatto per conto della Commissione libertà pubbliche del Parlamento europeo, utilizza una formula particolarmente netta:

"Le recours à la clause de sauvegarde [...] qui transfèrerait tout au troisième pilier serait à considérer comme un très grave échec dont la Présidence et le Conseil porteraient toute la responsabilité du point de vue institutionnel et du point de vue politique".

D’altra parte, la stessa Commissione europea, riferendosi all’eventualità della mancata ventilation, ha dichiarato senza mezzi termini che:

"Tale risultato non sarebbe accettabile per la Commissione e con il tempo dovrebbero essere prese delle misure di correzione adottando gli strumenti comunitari appropriati allo scopo di recuperare le parti dell’acquis di Schengen di pertinenza del futuro ‘primo’ pilastro".

Sarebbe azzardato, in questa fase, fare previsioni sull’esito finale della complessa trattativa. Le decise prese di posizione assunte dal Parlamento europeo e dalla Commissione allontanano forse la prospettiva di un totale fallimento del processo di ventilazione; nella situazione attuale, infatti, un tale risultato rappresenterebbe un fattore serio di tensione interistituzionale e rischierebbe pertanto di pregiudicare, almeno per il futuro prossimo, le concrete possibilità di sviluppare una più intensa cooperazione tra le istituzioni europee, individuata da molti come precondizione per la riuscita del processo di comunitarizzazione e, più in generale, per l’effettiva e rapida edificazione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Si deve ritenere che una paralisi su questo terreno, uno dei pochi nuovi aperti ad Amsterdam, non corrisponda oggi agli interessi di alcun governo europeo. E’ quindi forse più probabile che, almeno in parte, la ripartizione dell’acquis si compia, e che solo la sua componente più controversa sia temporaneamente ‘parcheggiata’ nel terzo pilastro.

Prima di passare all’esame delle principali problematiche collegate alla fase successiva all’entrata in vigore del trattato di Amsterdam, è utile soffermarsi ancora brevemente su un aspetto particolare, ma cruciale, dell’integrazione del sistema Schengen all’interno dell’Unione. Ci riferiamo al destino giuridico e istituzionale del SIS e, quindi, alla determinazione della base giuridica appropriata per gli articoli 92-119 della Convenzione Schengen.

Come abbiamo sommariamente illustrato nel già citato Dossier didattico (in part. vd par. 3.2.), esistono in proposito visioni contrastanti: in particolare, le due presidenze avvicendatesi nel corso del 1998 (Regno Unito e Austria) hanno messo in evidenza quattro possibili opzioni: due più nette e antitetiche ("base giuridica mista"; "base giuridica nell’ambito del terzo pilastro") e due intermedie ("riferimento al terzo pilastro per le disposizioni relative alla gestione"; "quadro giuridico speciale per il SIS").

Senza addentrarci qui nei dettagli tecnici delle singole opzioni, è opportuno invece interrogarsi brevemente sulle diverse posizioni che si delineano a questo proposito e sulle implicazioni relative. Com’è noto, sia il Parlamento sia la Commissione si sono schierati, anche su questo specifico punto, a favore di una effettiva ripartizione dell’acquis Schengen tra primo e terzo pilastro (opzione detta "base giuridica mista"), sostenendo che, con riferimento alla sua funzione quantitativamente prevalente (quella di segnalazione di stranieri a fini di non ammissione, ai sensi dell’art. 96 Conv. Schengen), il SIS è anche uno strumento di politica migratoria. Alcuni Stati membri (Austria, Francia, Italia, Portogallo, Spagna), al contrario, sostengono che l’intera disciplina del SIS debba trovare la sua base giuridica nel titolo IV TUE, in quanto la connotazione poliziesca dello strumento sarebbe assolutamente prevalente e, in ogni caso, una frammentazione della sua base giuridica rischierebbe di comprometterne gravemente il funzionamento.

L’ampiezza e l’apparente coesione dello schieramento esplicitamente contrario a ogni ‘ventilazione’ in materia di SIS rende assai probabile che questa sia l’opzione che, almeno in una prima fase, prevarrà. E’ significativo, tuttavia, che anche in alcuni dei Paesi citati affiorino, persino in sedi ufficiali, dubbi in materia. Interessante, in proposito, il contenuto di una recente audizione parlamentare del ministro degli esteri italiano. Dopo aver esposto la posizione ufficiale dell’Italia sulla futura collocazione giuridico-istituzionale del SIS, il ministro Dini - a cui era stato chiesto se non potessero sorgere contraddizioni, per effetto della collocazione del SIS nell’ambito del terzo pilastro, in quanto, oltre che strumento di sicurezza, la banca-dati di Strasburgo è anche strumento essenziale di politica migratoria - riconosceva che:

"E’ vero, per quanto riguarda il SIS e la sua incorporazione, che si tratta di materie che non sono mai tutte bianche o nere. [...] Per il SIS per noi sembrano prevalere gli aspetti della sicurezza pubblica, che riguardano proprio il meccanismo di gestione degli arrivi in Italia. Però è anche vero che la cosa potrebbe essere vista diversamente".

 

 

5. Verso una legislazione europea: priorità nazionali e programmi comuni

Qualunque sia l’esito dei negoziati sulla ‘ventilazione’, l’acquis di Schengen integrato nell’ordinamento dell’Unione è destinato a formare il nucleo originario della futura legislazione europea in materia di immigrazione e di asilo. Ma, nella sua dimensione attuale, questo nucleo normativo appare insufficiente a soddisfare le esigenze regolative crescenti degli Stati membri.

Vi è, in effetti, un consenso assai ampio, se non unanime, tra i Quindici (compresi, sembrerebbe, quelli che del ‘sistema Schengen’ non fanno parte), sul fatto che la disciplina Schengen oggi non sia più sufficiente e non possa, quindi, che costituire una base per una costruzione normativa ben più estesa e articolata. Manca del tutto, invece, il consenso su quali debbano essere le tappe, i ritmi e i contenuti di questa ulteriore costruzione.

In realtà, da alcuni anni ormai, le idee su quali potrebbero essere le linee-guida di una più organica iniziativa europea in materia di immigrazione e di asilo non mancano. La comunicazione, approfondita e innovativa, sottoposta nel 1994 dalla Commissione al Consiglio e al Parlamento, rappresenta, da questo punto di vista, un riferimento storicamente importante e ancora rilevante sul piano tecnico-politico. Ma, nonostante il suo valore, il documento della Commissione non ebbe ripercussioni sostanziali sulle attività svolte all’interno del terzo pilastro. Mancò, infatti, un raccordo efficace tra il livello analitico-propositivo di elaborazione delle politiche, rappresentato appunto dalla Commissione, e il livello decisionale, corrispondente al Consiglio. Questo collegamento fu carente sia sotto il profilo organizzativo, sia sotto quello politico-istituzionale (nel senso che mancò quello spirito di cooperazione inter-istituzionale, che nella discussione odierna viene individuato come una condizione necessaria di riuscita per sviluppare un set di politiche di tale ampiezza e complessità).

Queste carenze dell’approccio seguito in passato sono state messe in evidenza con estrema chiarezza nell’Introduzione al già citato documento strategico austriaco del luglio 1998 (cfr. par. 3):

"The discrepancy - which can be established without doubt - between what was claimed and what has been implemented seems primarily due to the fact that the strategy debate initiated by the Commission was not conducted on a broad basis, no comprehensive political approach was laid down, no operational work programme was derived therefrom and no action plans following a uniform concept were developed and implemented"

La consapevolezza della necessità di un profondo rinnovamento sul piano del metodo di elaborazione delle politiche, come condizione per l’effettiva applicazione del nuovo titolo IV TCE, si è manifestata al massimo livello al Consiglio europeo di Cardiff (giugno 1998). In quell’occasione, i capi di Stato e di Governo dei Quindici, hanno dato mandato al Consiglio e alla Commissione, affinché elaborassero, in vista del Consiglio europeo di Vienna, un piano d’azione "che indichi il miglior modo per attuare le disposizioni del trattato di Amsterdam concernenti uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia". Il Piano d’azione è stato messo a punto nei tempi previsti e, dopo essere stato sottoposto all’esame dei Consigli GAI e Affari generali, è stato infine approvato dal Consiglio europeo, riunito a Vienna l’11 e il 12 dicembre 1998.

Sul piano del metodo, il Piano d’azione rappresenta un esercizio ambizioso di programmazione su base quinquennale delle attività dell’Unione, ispirato a un modello innovativo di cooperazione interistituzionale e interdisciplinare.

Per quanto riguarda il primo livello di cooperazione (interistituzionale), esso ha riguardato essenzialmente i rapporti tra Commissione e Consiglio, mentre si riscontrano ancora gravi carenze nella cooperazione con i Parlamenti nazionali e con il Parlamento europeo (cfr. nota 39).

Con riferimento, invece, alla dimensione interdisciplinare della cooperazione che è alla base del piano d’azione, essa riguarda prevalentemente i rapporti tra primo e terzo pilastro. Indubbiamente, però, il Piano d’azione solleva anche problemi di rapporti con il secondo pilastro. Questo è evidente nella parte introduttiva, laddove si sottolinea come il processo d’allargamento (punto 21) e le "relazioni con i Paesi terzi e le organizzazioni internazionali" (punto 22) siano componenti necessarie di una strategia comprensiva finalizzata alla realizzazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Ma, anche nella parte del Piano specificamente dedicata all’individuazione delle priorità in materia di asilo, frontiere esterne e immigrazione e alla pianificazione delle misure relative, emerge la necessità di un coordinamento con la politica estera dell’Unione: ciò vale, innanzitutto, per il riferimento ad una "strategia globale in materia di immigrazione" (punto 34), ripreso - anche se in termini più generici e meno impegnativi - dallo Strategy paper austriaco (cfr. par. 3); ma considerazioni analoghe valgono, ad esempio, per le priorità di cui al punto 36, lett. a) ("Valutazione dei paesi d’origine al fine di elaborare un’impostazione integrata specifica per i singoli paesi") e lett. c) ii) ("Istituzione di una coerente politica dell’UE in materia di riammissione e rimpatrio").

Considerata la necessità, che emerge chiaramente dal Piano d’azione, di un coordinamento delle politiche finalizzate all’instaurazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia con la politica estera dell’Unione, l’assenza di una riflessione specifica sugli adeguamenti organizzativi ed eventualmente istituzionali che potrebbero servire a garantire questa forma di coordinamento tra pilastri rappresenta indubbiamente una lacuna e un fattore di debolezza dello stesso Piano d’azione.

Dal punto di vista dei contenuti - con riferimento specifico alle parti che trattano delle politiche in materia di visti, immigrazione, asilo e controllo delle frontiere - il Piano d’azione rappresenta un’ipotesi di compromesso tra le diverse accezioni del processo di comunitarizzazione che prevalgono in seno alla Commissione, al Consiglio ed agli Stati membri.

La parte II del Piano è preceduta da un elenco dei criteri che hanno guidato il Consiglio e la Commissione nell’individuazione, settore per settore, delle priorità generali e delle misure relative, e che dovrebbero avere un peso determinante anche nella fase attuativa. Questa ‘tavola’ dei "principi", al di là di alcune affermazioni pleonastiche e di un’inevitabile indeterminatezza complessiva, riveste un certo interesse soprattutto per:

- l’enfasi posta sul principio di sussidiarietà (cfr. par. 3), di cui si afferma che "riveste particolare importanza per la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia";

- il richiamo esplicito al "principio della solidarietà tra gli Stati membri e tra questi ultimi e le istituzioni europee", che dovrebbe essere applicato "nell’affrontare le sfide transnazionali costituite dalla criminalità organizzata e dai movimenti migratori";

- la sottolineatura del fatto che la "responsabilità per la salvaguardia della sicurezza interna incombe agli Stati membri", dal che discende l’importanza di "tener conto degli interessi nazionali nonché delle comunanze e differenze di approccio" nello sviluppo della cooperazione europea. A quest’ultimo punto si ricollega anche la stretta e necessaria interdipendenza - ribadita più volte nel Piano - tra le tre dimensioni della libertà, della sicurezza e della giustizia. Questa interdipendenza, già centrale in ambito Schengen, sembra quasi assumere la portata di un principio operativo, laddove si dice che:

"E’ [...] necessario, ai fini del più elevato livello di sicurezza possibile per i cittadini che determinate attività di un settore siano coerenti, in termini di scadenze e contenuti, con le analoghe attività dell’altro settore" (punto 25, corsivo aggiunto).

Sulla base dei criteri suddetti, il Piano procede, settore per settore, all’individuazione delle priorità specifiche, suddivise in due categorie:

A) misure più urgenti, da adottare entro due anni. All’interno di questa categoria, si distingue un blocco di misure "particolarmente urgenti", che "potrebbero dover essere avviate immediatamente dopo l’adozione del presente piano d’azione, in quanto richiedono lavori preparatori - per esempio nell’ambito di gruppi tecnici - che devono essere conclusi, nella misura del possibile, per la data dell’entrata in vigore del trattato".

B) misure meno urgenti, da adottare entro cinque anni.

Passando all’esame dei suoi contenuti specifici, occorre constatare, innanzitutto, che il Piano appare formulato sulla base del presupposto dichiarato che:

"Come conseguenza dell’integrazione dell’acquis di di Schengen nell’ambito dell’Unione europea gli obiettivi comunitari definiti nell’intero articolo 62 del TCE e in ampia misura nell’articolo 63, punto 3, lettera b), del TCE, nelle versioni figuranti nel trattato di Amsterdam, saranno stati in gran parte realizzati, per quanto riguarda 10 Stati membri, a decorrere dall’entrata in vigore del trattato di Amsterdam e per quanto riguarda 13 Stati membri a decorrere dalla data della decisione del Consiglio di cui all’articolo 2, paragrafo 2, del protocollo Schengen".

Questo assunto di partenza lascia, in realtà, assai perplessi, giacché - come abbiamo visto al par. 4 - non appare affatto scontato, al momento attuale, che l’acquis di Schengen attinente alla materia migratoria venga davvero comunitarizzato integralmente prima dell’entrata in vigore del nuovo trattato. Ma, se ciò non accadesse, il Piano d’azione risulterebbe di fatto gravemente incompleto, rischiando così di perdere, a meno di variazioni sostanziali, gran parte della sua potenziale rilevanza.

Il Piano d’azione si colloca dunque in un’ottica di completamento e sviluppo di un acquis di Schengen ormai comunitarizzato. In questa prospettiva, il nucleo principale di priorità contenuto nel Piano appare indubbiamente rappresentato dalle misure in materia di asilo e protezione temporanea, decisamente prevalenti tra le misure urgenti (quelle da adottare entro due anni) e generalmente definite in maniera più dettagliata rispetto alle misure in materia di immigrazione. E’ significativo, ad esempio, di questo diverso grado di intensità e maturità delle priorità in materia d’asilo e di immigrazione che, con riferimento alla lotta contro l’immigrazione clandestina, venga usata una formula piuttosto blanda:

"Conformemente alla priorità del controllo dei flussi migratori, sarebbe necessario presentare rapidamente proposte concrete volte a migliorare la lotta contro l’immigrazione clandestina" (punto 36, lett. c).

Altrettanto significativa è la scelta delle misure particolarmente urgenti (quelle per cui l’attività preparatoria è avviata immediatamente); si tratta infatti di:

"a) norme minime per assicurare protezione temporanea agli sfollati di paesi terzi che non possono ritornare nei paesi di origine (articolo 63, punto 2, lettera a) del TCE).

b) Promozione di un equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono i rifugiati e gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi (articolo 63, punto 2, lettera b) del TCE)" (punto 37).

Abbiamo detto in precedenza che il Piano d’azione si configura come un’ipotesi di compromesso tra diverse interpretazioni possibili del processo di comunitarizzazione, ciascuna delle quali prevalente presso singoli governi nazionali o presso le istituzioni europee coinvolte nell’elaborazione del documento. E’ innegabile, tuttavia, che, in questa ipotesi di mediazione, sia più marcata l’impronta politica e tecnica di alcuni attori nazionali che non di altri. In particolare, vi è innanzitutto una traccia evidente (soprattutto sul piano metodologico) dell’impostazione austriaca, espressa nel più volte citato "Strategy paper". Ma, a livello dei contenuti, appare dominante l’impronta di alcuni Paesi dell’Europa centro-settentrionale (Germania e Paesi Bassi, in primis), che si manifesta nella già citata preminenza accordata, nel breve e medio termine, alle misure in materia di asilo e di protezione temporanea (miglioramento di efficacia ed eventuale revisione Convenzione di Dublino; attuazione di Eurodac; norme procedurali minime per la concessione e la revoca dello status di rifugiato; norme minime in materia di accoglienza dei richiedenti asilo; protezione temporanea degli sfollati e burden sharing).

Non è difficile, in effetti, constatare che questo primo ordine di priorità corrisponde, per un verso, a uno dei principali filoni di attività recente della Commissione, ma rispecchia, per un altro verso, le priorità dichiarate dalla Presidenza tedesca del Consiglio UE. Conformemente agli orientamenti manifestati precocemente dal governo Schroeder, la Presidenza tedesca appare infatti concentrata su alcune priorità in materia di asilo, dotate di implicazioni normative (Dublino, Eurodac, protezione temporanea); per quanto riguarda, invece, il tema dell’immigrazione, la Presidenza in corso si mostra tiepida verso ipotesi di riforma degli strumenti giuridici e sembra invece puntare più decisamente su innovazioni prevalentemente non normative ("Task Force" in materia di asilo e immigrazione; miglioramento dell’efficacia dei meccanismi di riammissione).

Nella situazione attuale, dunque, il Piano d’azione rappresenta - salva l’incertezza sull’esito dei negoziati per l’integrazione dell’acquis di Schengen in ambito UE - il principale strumento di indirizzo del processo di comunitarizzazione, che verrà avviato ufficialmente non appena il trattato di Amsterdam sarà entrato in vigore.

Ma, come abbiamo illustrato, il Piano d’azione risente di alcune carenze genetiche: un’approvazione forse un po’ frettolosa; la mancata presa in conto del parere del Parlamento europeo; la totale assenza di dibattito in merito nei Parlamenti nazionali; l’assenza, nel Piano, di previsioni per l’eventualità in cui l’acquis di Schengen non venga ripartito o venga ripartito solo in parte; l’influsso predominante di alcuni Paesi sulla definizione delle priorità.

Queste carenze rappresentano altrettanti fattori di fragilità del Piano stesso, poiché, in un contesto decisionale ancora caratterizzato dal principio di unanimità, nulla impedirà a singoli Stati membri (e, in particolare, a quelli che eserciteranno prossimamente la presidenza dell’Unione: Finlandia e Portogallo) o a coalizioni di Stati membri, che non si riconoscono nell’agenda elaborata dal Consiglio e dalla Commissione, di esercitare un’azione frenante o di premere apertamente per una revisione del Piano.

E’ auspicabile quindi che - nei mesi che ci separano dal Consiglio europeo straordinario che si terrà a Tampere, sotto presidenza finlandese, il 15 ottobre 1999 - la riflessione sul Piano d’azione venga allargata e approfondita nella misura massima possibile, creando così le condizioni perché dal vertice autunnale possa davvero uscire una strategia di comunitarizzazione organica, coerente e praticabile.

 

 

6. La geometria dello spazio comune: opting out, cooperazioni rafforzate, allargamento

Abbiamo sin qui tentato di analizzare la fase preparatoria del processo di comunitarizzazione, avendo come riferimento geografico e politico il complesso degli Stati membri. Ma, per ottenere un quadro realistico e completo delle future prospettive di applicazione del nuovo titolo IV TCE, occorre tenere presente la natura storicamente flessibile della cooperazione europea in materia di immigrazione e di asilo, che si rifletterà inevitabilmente anche sul processo di comunitarizzazione.

La diversità delle tradizioni nazionali in materia di gestione degli affari interni, unita alla profonda varietà della situazione dell’immigrazione nei quindici Stati del’Unione (e alla conseguente, almeno parziale, divergenza degli interessi di politica migratoria: cfr. par. 2), preclude infatti la possibilità che l’approccio comune europeo in materia di immigrazione e di asilo coinvolga, con lo stesso ritmo e la stessa intensità, tutti gli Stati membri. La politica migratoria europea (ammesso che si possa usare un termine così comprensivo) nasce, insomma, intrinsecamente flessibile.

La fisionomia dello spazio geografico e politico all’interno del quale troveranno applicazione misure comuni in materia di immigrazione e d’asilo è suscettibile di differenziarsi dalla fisionomia attuale dello spazio comunitario sotto tre profili:

a) alcuni Stati membri (Danimarca, Irlanda, Regno Unito) sono inizialmente esclusi (parzialmente, nel caso della Danimarca) dallo spazio comune risultante dall’incorporazione dell’acquis di Schengen e dai suoi successivi approfondimenti in ambito comunitario, per effetto degli opting out disciplinati con gli appositi protocolli allegati al TUE e al TCE come modificati ad Amsterdam;

b) un numero limitato di Stati membri (comunque superiore alla metà) potrà approfondire la cooperazione in specifici settori, instaurando cooperazioni rafforzate ai sensi dell’articolo 40 TUE o 11 TCE;

c) nuovi Stati membri che, al termine dei negoziati in corso per l’adesione, entreranno a far parte dello spazio comune con l’obbligo di accettare integralmente "l’acquis di Schengen e le ulteriori misure adottate dalle istituzioni nell’ambito del suo campo d’applicazione".

La combinazione di questi tre profili di differenziazione rende oggi estremamente incerta la fisionomia geografica e politica che assumerà lo spazio europeo di gestione comune dei flussi migratori, nel medio-lungo periodo.

Gli scenari astrattamente possibili variano infatti sensibilmente: a un estremo dello spettro troviamo un’Europa migratoria minima, in cui il blocco di Paesi che attualmente compongono il gruppo di Schengen procede nell’integrazione delle rispettive politiche nazionali (magari con l’emergere, all'interno del gruppo, di un ‘nocciolo duro’ creato mediante cooperazione rafforzata), senza, per un verso, incorporare gli "outs" (Danimarca, Irlanda e Regno Unito), o per loro mancanza di interesse o per l’insorgere di veti da parte di membri del club degli "ins", e costringendo, per l’altro verso, i Paesi candidati all’adesione a una lunga anticamera; all’estremo opposto, possiamo collocare idealmente un’Europa migratoria massima, omogenea dal punto di vista normativo ed estesa geograficamente da Gibilterra a Tallinn, dalla Scozia a Cipro.

Nella fase attuale, qualsiasi previsione in merito agli sviluppi di questo complesso puzzle sarebbe azzardata. Si possono tuttavia identificare alcuni segnali, che indicano possibili tendenze evolutive meritevoli di considerazione e di approfondimenti.

Per quanto riguarda, in particolare, i rapporti tra gli Stati membri vincolati dall’acquis di Schengen e gli altri, si registra un interesse crescente della Gran Bretagna a guida laburista nei confronti di alcune forme di cooperazione nate in quell’ambito intergovernativo e adesso in procinto di essere integrate nell’Unione. Nel medio periodo, il processo di avvicinamento britannico alla sfera di cooperazione derivante dagli accordi di Schengen è senz’altro possibile; questo avvicinamento potrebbe tuttavia compiersi seguendo due percorsi diversi: l’ipotesi più probabile è forse che questa convergenza sia limitata alla cooperazione di polizia e all’accesso al SIS, cioè alle parti dell’acquis che appaiono destinate all’incorporazione nel terzo pilastro. Tuttavia, non mancano - sia all’interno del Regno Unito, sia fuori - le voci che premono autorevolmente per una convergenza più ampia. E' significativo, ad esempio, il punto di vista contenuto nella versione originaria del progetto di raccomandazione del Parlamento europeo sul programma d’attività in ambito Schengen per il primo semestre 1999, dove si suggeriva che il Parlamento raccomandasse al Consiglio di invitare "le Royaume-Uni ainsi que l’Irlande à s’associer autant que possible aux politique prévues au Titre IV du Traité afin d’éviter que les citoyens de ces pays ne soient soumis à des contrôles qui ne seraient plus d’application pour tous les autres citoyens de l’Union (et pour les citoyens de Norvège et d’Islande)" (punto 17). Secondo lo stesso documento, inoltre:

"Se limiter à la seule coopération policière et à l’accès au SIS reflèterait une approche décidément minimaliste, mais si le besoin ne concernait que des données afférentes à des exigences sécuritaires, il devrait être davantage satisfait dans le cadre de la convention EUROPOL dont ces deux Etats sont membres, que dans celui de la coopération Schengen à laquelle ils ont décidé jusqu’à ce jour de ne pas adhérer" (punto 18).

Ma, prese di posizioni favorevoli a un coinvolgimento del Regno Unito nella politica europea in materia di giustizia e affari interni non limitato al versante poliziesco si registrano anche da parte di osservatori nazionali. Si legga, ad esempio, quanto scrive in proposito Charles Grant, direttore del Centre for European Reform, un istituto di ricerche considerato vicino al New Labour:

"Britain’s broad objective of becoming a more influential member of the Union requires a more constructive approach to JHA. It should be possible for Britain to retain passport controls and yet pursue more positive policies in other areas. Britain could then more easily urge its partners to strengthen, where necessary, their own stretches of the EU’s external frontier. [...] Britain should view the free movement policies of the first pillar with a pragmatic spirit. Britain has a strong interest in opting in to asylum policy. For if the others adopted a more restrictive common policy than Britain, asylum seekers would flock to its shores. Another reason for involvement in a common policy is to try and prevent member-states from competing against each other to impose even-tighter restrictions on asylum seekers, to the detriment of their rights".

Questi ed altri segnali di stampo analogo, indicano come lo stato dei rapporti tra il ‘nocciolo duro’ della cooperazione europea in materia migratoria (il gruppo Schengen) e alcuni ‘auto-esclusi’ di peso sia in evoluzione. E' prematuro dire quale sarà l’esito di questo processo, ma certamente si tratta di un terreno su cui, in tempi relativamente brevi, potrebbero maturare cambiamenti significativi.

Passando ad un altro profilo di possibile differenziazione dello spazio europeo di elaborazione comune in materia migratoria, cioè alla cooperazione rafforzata, bisogna rilevare che l’istituto è ancora considerato con estrema prudenza da parte dei governi europei.

Per alcuni Paesi, questa prudenza ha la sua radice principale in un più generale scontento circa i modi in cui la cooperazione rafforzata è stata disciplinata dal trattato di Amsterdam. Questo sembra essere, in particolare, l'atteggiamento prevalente in un Paese come la Francia, che in seno alla Conferenza intergovernativa aveva sostenuto la necessità di disciplinare il nuovo istituto in maniera meno rigorosa, lasciando agli Stati membri poteri più ampi in relazione alle scelte sull'instaurazione e sull'allargamento successivo delle singole iniziative di cooperazione rafforzata. E' emblematico di questo atteggiamento francese il passaggio seguente di un importante rapporto del Senato sulla ratifica del trattato di Amsterdam:

"La possibilité de soumettre au Conseil des propositions de coopérations renforcées aurait dû relever de l’initiative partagée de la Commission et des Etats membres. Une telle solution serait apparue particulièrement opportune au moment où le traité d’Amsterdam opérait le transfert du troisième au premier pilier des compétences en matière de libre circulation des personnes. Or ce domaine - champ privilégié de la coopération conduite dans le cadre des accords de Schengen - justifie encore des approfondissements et le recours éventuel à des coopérations renforcées. Dans cette perspective et compte tenu de la nature même d’un sujet si étroitement lié aux intérêts souverains de l’Etat, l’exclusivité réservée à la Commission n’a aucun véritable fondement"

Ma la possibilità di procedere a iniziative di cooperazione rafforzata nel settore degli affari interni e specificamente in materia di immigrazione e di asilo è considerata con prudenza, se non con scetticismo, anche per ragioni più direttamente legate alle caratteristiche specifiche di questi policy fields.

Dai segnali ancora parziali e non decisivi che emergono in materia, si ha per esempio l'impressione che alcuni Stati membri vedano nella cooperazione rafforzata in materie così delicate un'arma a doppio taglio. Se, per un verso, essa viene percepita come uno strumento potenzialmente utile per perseguire più efficacemente interessi non condivisi dall'insieme dei partner, per un altro verso, si teme che questa forma di flessibilità - nonostante le condizioni rigorose a cui è sottoposta - possa dare luogo a spaccature e a forme di isolamento penalizzante, per singoli Stati o gruppi minoritari di Stati aventi interessi di politica migratoria nettamente divergenti rispetto alla maggioranza degli altri Paesi membri.

In altri casi, la prospettiva dell’instaurazione di nuove cooperazioni rafforzate in un campo che, come abbiamo visto, è già caratterizzato da un elevato livello di flessibilità, è considerata negativamente per l’incremento del livello di confusione politica, normativa e istituzionale che ne deriverebbe e che si ripercuoterebbe negativamente sia sull’efficienza operativa in questo settore, sia sulla sua percezione da parte dell’opinione pubblica.

Questi molteplici indizi inducono a ritenere improbabile che, almeno durante la prima fase del processo di comunitarizzazione, l'istituto della cooperazione rafforzata possa giocare un ruolo decisivo. Ma, la situazione potrebbe cambiare radicalmente quando, dopo un primo periodo di assestamento, i blocchi di interesse e i potenziali schieramenti plurinazionali in materia di politica migratoria si saranno precisati.