UN CONFRONTO TRA LA CONVENZIONE ONU SUI DIRITTI DEI LAVORATORI MIGRANTI E DEI MEMBRI DELLE LORO FAMIGLIE E LA LEGISLAZIONE ITALIANA SULL'IMMIGRAZIONE.

Sebbene la Convenzione sia stata approvata dall'Assemblea parlamentare delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1990, e quindi più di otto anni fa, non è certo casuale che in Italia non vi sia stato fino a tempi recenti un vero e proprio dibattito sulla sua eventuale ratifica, nonostante gli sforzi generosi profusi in questo senso dagli organizzatori di questo convegno.

La mancanza di una legislazione organica sull'immigrazione si è protratta per lunghi anni anche dopo il varo della "legge Martelli" del 1990, che doveva costituire soltanto il primo passo di una intelaiatura giuridica complessiva della materia. Non si poteva dunque prefigurare l'adesione dell'Italia ad uno strumento di diritto internazionale quale questa Convenzione, che intende definire ambiti di tutela molto precisi e dettagliati della condizione giuridica del lavoratore migrante, vincolanti per gli Stati e non solo a livello di principi.

Tali ragioni impeditive , di coerenza o compatibilità del quadro normativo interno rispetto agli obblighi internazionali scaturenti dall'eventuale adesione alla Convenzione, sono sicuramente superate con l'entrata in vigore della nuova legge sull'immigrazione e la condizione giuridica dello straniero, poi confluita nel testo unico di cui al D.L.vo n. 286/98.

E' positivo rilevare come la legge italiana sull'immigrazione e la Convenzione ONU muovono da un comune approccio alla tematica della migrazione e della condizione del lavoratore migrante, almeno sui seguenti aspetti fondamentali:

  1. L'attribuzione di un nucleo di diritti fondamentali a tutti i lavoratori migranti e dunque anche a quelli che si trovano in condizione di irregolarità;
  2. La considerazione del lavoratore migrante non come persona avulsa da un contesto di relazioni umane e definita secondo una logica esclusivamente di utilità economica (gastarbeiter), bensì come entità sociale, perlopiù coinvolto in legami familiari, che devono essere tenuti in considerazione nel paese di arrivo;
  3. La promozione di una politica di integrazione per gli immigrati regolari fondata sul principio di parità di trattamento e sulla previsione di specifiche azioni positive, alla ricerca di un giusto equilibro tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale (o eguaglianza di opportunità).

Per quanto concerne il primo aspetto, la Convenzione utilizza una definizione di lavoratore migrante che ricomprende tanto quelli regolari che gli irregolari assegnando a questi ultimi comunque un paniere di diritti essenziali ed irrinunciabili (quelli compresi nella parte III), ai quali debbono essere aggiunti per i regolari i diritti nel campo economico, sociale e culturale finalizzati all'integrazione nel paese di arrivo.

Sulla condizione dei lavoratori irregolari, vale la pena ricordare che una consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana maturata a partire dalla fine degli anni '60 aveva già riconosciuto l'applicazione del principio di uguaglianza allo straniero, anche irregolare, limitatamente all'ambito dei diritti inviolabili dell'uomo così come identificati in conformità dell'ordinamento internazionale. E a tale riguardo non si può mancare di notare che, anche in assenza dell'entrata in vigore della Convenzione ONU, l'obbligo degli Stati, almeno di quelli sviluppati, di garantire a tutte le persone la fruizione di un contenuto essenziale minimo (minimum core content) di diritti nella sfera sociale, culturale ed economica deriva già dall'interpretazione del Patto del Nazioni Unite sui diritti sociali, economici e culturali, data dall'apposito comitato ONU. Ciò nonostante, per lunghi anni non si era andati aldilà di mere affermazioni di principi, per cui solo di recente, prima del varo della normativa organica sull'immigrazione, importanti diritti fondamentali della persona sono stati resi ufficialmente accessibili anche agli stranieri irregolari, come quello all'istruzione obbligatoria ovvero alle prestazioni sanitarie urgenti ed essenziali e di tutela della maternità e gli interventi di medicina preventiva. Tuttavia si trattava di aspetti disciplinati sulla base di provvedimenti amministrativi, ordinanze o circolari ministeriali, sempre dunque revocabili a discrezionalità dell'esecutivo. Solo con la legge n. 40/1998, queste previsioni sono assunte al rango di vere e proprie norme legislative, che soddisfano appieno gli standard fissati dalla Convenzione ONU (artt. 28 e 30, rispetto ai temi dell'istruzione obbligatoria e della tutela della salute).

Sempre in tema di immigrazione irregolare, alcune puntuali prescrizioni della Convenzione, sebbene non immediatamente corrispondenti a norme presenti nella legge n. 40/1998, potrebbero facilmente trovare spazio nelle norme regolamentari applicative. Così, ad esempio, l'art. 16. 3, in base al quale nei centri di detenzione amministrativa per stranieri in attesa di espulsione dovrebbero essere tenute separate le persone espellende per semplici violazioni delle norme sull'immigrazione da quelle pregiudicate. Peraltro, la formulazione della norma contenuta nella Convenzione si richiama a criteri di fattibilità piuttosto che di tassatività.

Per quanto concerne i limiti all'adozione al provvedimento espulsivo, un eventuale adesione dell'Italia alla Convenzione ONU non implicherebbe l'assunzione di ulteriori obblighi internazionali rispetto a quelli già assunti in particolare con la ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la quale come è noto, vietando all'art. 3 i trattamenti inumani e degradanti, è stata interpretata dalla Corte europea come vietante pure il respingimento o l'espulsione verso uno Stato ove lo straniero potrebbe essere sottoposto a tali trattamenti (e al riguardo non si può mancare di notare lo sviluppo in tempi recenti di una ricca giurisprudenza al riguardo, dal caso Ahmed v. Austria,, al caso Chabal v. Regno Unito). Anche il riferimento che si fa nella Convenzione ONU al divieto di espulsioni collettive (art. 22) non aggiungerebbe nulla di nuovo all' obbligo internazionale già assunto dall'Italia con la ratifica ed entrata in vigore del protocollo addizionale n.4 alla Convenzione europea, sebbene questo sia stato manifestamente violato in occasione dello sbarco di massa di cittadini albanesi dell'agosto 1991.

Nel contempo, non si può non rilevare che la Convenzione Onu è estremamente garantista nei confronti dello straniero oggetto di provvedimento espulsivo, riservandogli il diritto di ricorrere dinanzi ad una autorità competente, con effetti sospensivi del provvedimento. Qui certamente, vi è una certa discrepanza rispetto al dettato normativo vigente in Italia, soprattutto dopo le recentissime modifiche apportate con il decreto legislativo n. 113/1999, in quanto come è noto il ricorso avverso il provvedimento espulsivo non prevede un effetto sospensivo. Va peraltro detto che già finora, senza riferimento alla Convenzione ONU, tale disposizione interna non appare pienamente compatibile con il Protocollo n. 7 della Convenzione europea che prevede, almeno per gli stranieri che in passato godevano di un permesso di soggiorno, l'esperibilità di rimedi giuridici ed una serie di diritti esercitabili prima dell'espulsione.

La legge n. 40/1998 ha profondamente innovato la legislazione in materia di immigrazione proponendosi come normativa organica, che tratta non più solo gli aspetti dell'ingresso e del soggiorno, ma precisa in maniera compiuta i diritti sociali e civili dell'immigrato e gli strumenti volti alla sua integrazione socio-culturale. A tale riguardo, tra i tre modelli di riferimento per la classificazione delle politiche sociali rivolte agli immigrati: quello francese o "assimilazionista", quello tedesco o "separatista" e quello inglese o "pluralista ineguale", l'Italia sembra orientarsi verso il primo. Si mira cioè con la nuova normativa ad estendere anche agli immigrati regolari la fruizione dei diritti sociali di cui godono i cittadini, prevedendo in aggiunta azioni positive mirate in taluni settori dove la condizione di obiettiva debolezza e vulnerabilità sociale o di diversità culturale degli immigrati può costituire un handicap di partenza e una fonte di diseguaglianza di opportunità.

Al riguardo, le disposizioni in materia di assistenza sanitaria, di istruzione, di alloggio e assistenza sociale contenute nella nuova legislazione italiana sull'immigrazione (artt. 34, 38 e 40 del D.L.vo n. 286/98) soddisfano completamente gli standard contenuti nella Convenzione ONU (artt. 43 e 45).

La considerazione del migrante come persona e soggetto sociale, fruitore dunque di una serie di diritti che ne salvaguardino la complessità della personalità e dignità umana, e non come semplice entità economica, accomuna tanto l'approccio del legislatore italiano quanto quello usato dagli estensori della Convenzione ONU. Ciò si rivela innanzitutto nella portata estremamente aperta e garantista della disciplina del ricongiungimento familiare nella nuova legislazione italiana (artt. 29 e 30 D.L.vo n. 286/98), sia per quanto concerne la sfera dei beneficiari, sia nelle modalità procedurali per l'esercizio concreto del diritto, sia per la previsione delle forme di ricorso in sede giurisdizionale (il rimando al giudice civile anziché a quello amministrativo sottolinea la natura di diritto soggettivo che si è voluto assegnare alla coesione familiare dell'immigrato). Si può pertanto affermare che trova piena rispondenza il principio della salvaguardia dell'unità della famiglia come base naturale e fondamentale della società, proclamato dall'art. 44 della Convenzione ONU.

Ugualmente, nella legislazione italiana trova collocazione il principio per cui la perdita del posto di lavoro non deve implicare l'automatica revoca del permesso di soggiorno del lavoratore migrante; principio contenuto nell'art. 49 della Convenzione ONU, che stabilisce ulteriormente il diritto del lavoratore migrante ad usufruire di un periodo di tempo minimo per trovare una nuova occupazione, identificato in quello corrispondente al godimento dell'indennità di disoccupazione.

Qui la Convenzione ONU riprende esattamente quanto già stabilito dall'art. 8 della Convenzione OIL n. 143 e dalle conclusioni della Commissione di esperti OIL incaricata di interpretarne correttamente il significato. Tale commissione infatti, esaminando la normativa vigente nell'ordinamento austriaco, in base alla quale il permesso di soggiorno non è rinnovato al lavoratore straniero disoccupato che, una volta trascorso il periodo durante il quale aveva diritto ad ottenere le prestazioni di disoccupazione, sia rimasto privo di mezzi, ha ritenuto che tale disposizione non è contraria all'art. 8 della Convenzione OIL, in quanto pur sempre concede allo straniero rimasto disoccupato un lasso di tempo ragionevole per cercare un nuovo impiego, cioè quello corrispondente alla durata dell'indennità di disoccupazione. Nel tentativo di specificare meglio quale debba essere questo lasso di tempo ragionevole, la Commissione di esperti, in una successiva deliberazione, aveva giudicato conforme all'art. 8 della Convenzione OIL un progetto di legge sull'immigrazione in Francia, che mirava a ridurre da un anno a sei mesi il periodo di tempo concesso allo straniero disoccupato e privo di mezzi per ricercare un nuovo lavoro, affermando che "un lasso di tempo di sei mesi prima che il permesso di lavoro venga ritirato sembra soddisfare le esigenze della disposizione convenzionale". La legislazione italiana, peraltro già vincolata dagli standard ed obblighi della Convenzione OIL n. 143 che il nostro paese ha ratificato e reso esecutiva fin dal 1981, rispetto ai quali dunque la Convenzione ONU nulla aggiungerebbe, all'art. 22.9 precisa che in caso di perdita del posto di lavoro, lo straniero possa conservare il diritto all'iscrizione alle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno e, comunque, per un periodo non inferiore ad un anno. Di conseguenza, gli standard minimi della Convenzione OIL n. 143 risultano soddisfatti, anche se a mio avviso tale disposizione non salvaguarda sufficientemente l'immigrato dal rischio che la sua permanenza legale in Italia sia esposta alle variabili contingenze del ciclo economico, visto anche la norma di cui all'art. 6.5 del TU che sostanzialmente vincola il rinnovo del permesso di soggiorno alla dimostrazione dell'autosufficienza economica e alla luce della situazione del mercato del lavoro in Italia, caratterizzato da una significativa incidenza del settore "informale" (lavoro nero) nel quale opera la manodopera meno protetta e meno qualificata, come quella immigrata.

La Convenzione ONU ha raccolto anche le critiche di taluni studiosi che vi hanno ravvisato una riproposizione di quanto già in gran parte contenuto nelle Convenzioni OIL aventi per oggetto le migrazioni per motivi di lavoro e il trattamento dei lavoratori migranti (la n. 97 del 1949 e la già citata n. 143/1975). In taluni casi, anzi, le Convenzioni OIL prevedono un trattamento migliore. Ad esempio non trova rispondenza nella Convenzione ONU quanto invece previsto all'art. 8 par. 1 della Convenzione OIL n. 97/1949 che comporta il divieto di espulsione o di revoca del permesso di soggiorno dello straniero che sia rimasto vittima di malattia o infortunio da cui derivi l'impossibilità a procurarsi i mezzi di sostentamento.

Anche se non condivido tali critiche, è innegabile che l'adesione dell'Italia alle convenzioni OIL fa sì che molti dei principi e delle prescrizioni contenuti nelle disposizioni della parte IV della Convenzione ONU relativa ai diritti dei migranti in condizione regolare sono già immediatamente applicativi in Italia. Il legislatore italiano, peraltro, ha voluto andare ancora più in là rispetto agli stessi standard di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità nell'accesso all'occupazione dei lavoratori migranti regolarmente soggiornanti di cui all'art. 8 della Convenzione OIL n. 143, stabilendo per gli stranieri extracomunitari la garanzia del godimento dei diritti in materia civile in condizioni di piena uguaglianza con i cittadini italiani (art. 2.2 D.L.vo n. 286/98). Così ha riconosciuto di recente la Corte Costituzionale, con sentenza n. 454/1998, dichiarando illegittima la posizione del Ministero del Lavoro che si ostinava a negare, anche dopo l'entrata in vigore della nuova legge, l'accesso degli stranieri extracomunitari regolarmente soggiornanti invalidi civili al collocamento obbligatorio previsto dalla legge n. 482/1968, che costituisce una forma di intervento promozionale all'accesso al diritto al lavoro di particolari categorie svantaggiate perlopiù per effetto di handicap fisici e/o psichici.

Anche in questo caso, pertanto, emerge come la legislazione interna e gli obblighi internazionali già assunti dal nostro Paese, sono pienamente corrispondenti ai criteri della Convenzione ONU, che nulla aggiungerebbe al riguardo in caso di adesione, ratifica ed entrata in vigore per l'Italia di questo strumento .

Ciò spinge a chiederci se sia poi tanto importante in Italia dibattere sulla Convenzione ONU e promuovere una campagna per la sua ratifica o se non sia più opportuno invece concentrare i nostri sforzi sui prossimi processi di progressiva comunitarizzazione delle politiche in materia di immigrazione e asilo dopo l'entrata in vigore del Trattato di Amsterdam; processi che potrebbero significativamente incidere e svuotare anche di contenuto le parti più coraggiose della legislazione interna del nostro paese (si pensi alla previsione della possibilità di ingresso per ricerca di lavoro e per sponsorizzazione nell'ambito della politica di programmazione dei flussi che sicuramente confligge con le posizioni finora ufficialmente espresse dall'Unione Europea con la risoluzione del 20 giugno 1994 che invita gli Stati a rifiutare nuovi ingressi di immigrati per motivi di lavoro a meno che non sia verificata una condizione di indisponibilità di manodopera già presente).

E' innegabile l'urgenza e la necessità di un confronto sulle possibili linee di sviluppo delle politiche europee in materia di immigrazione e asilo che potranno prospettarsi a partire dal prossimo vertice europeo di Tampere. A mio avviso, tuttavia, ciò non toglie importanza ad una eventuale ed auspicata adesione dell'Italia alla Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori migranti, non solo perché sarebbe il primo paese "di arrivo" o "di destinazione" degli immigrati ad aderire a tale strumento, dando così impulso ad una politica internazionale di protezione dei diritti fondamentali dei migranti, ma anche perché verrebbe assicurato un ulteriore ancoraggio di natura costituzionale ai diritti degli immigrati in virtù dell'art. 10.2 della Carta Costituzionale ("la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali"). Infatti, le norme internazionali possono operare direttamente nel nostro ordinamento se il loro contenuto è suscettibile di immediata applicazione (self-executing) e le disposizioni della Convenzione Onu certamente lo sono proprio perché non norme di principio astratte e generiche, ma dettagliate e concrete. Con l'adesione alla Convenzione e in caso di sua effettiva entrata in vigore, qualora venisse conseguito il traguardo della ratifica da parte di almeno 20 Stati membri dell'ONU, i diritti degli immigrati previsti da una legislazione senza dubbio avanzata quale quella di cui al D.L. vo n. 286/98, ne risulterebbero rafforzati, quasi una sorta di "diritti acquisiti", non più sottoposti alla volatilità delle maggioranze parlamentari e politiche, così come rafforzata sarebbe la stabilità della condizione giuridica degli immigrati, presupposto indispensabile per una loro migliore integrazione.

Walter Citti

Segretario dell'ASGI

Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione

Roma, 12 maggio, 1999