N E W S PROGETTO ATLANTE

POLITICHE LEGISLATIVE n. 2/2000

14 febbraio 2000

a cura dell'

ASGI - Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione

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ASILO

1. La Corte di Cassazione attribuisce alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie concernenti i dinieghi al riconoscimento dello stato di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra.

Con una clamorosa sentenza datata 8.10.1999, la Corte di Cassazione sezioni unite civili ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie (ricorsi) relativi al mancato riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, da parte della Commissione centrale di cui all' articolo 1 della Legge 39/90 e al Dpr. 136/90.

La Corte di Cassazione ha preso le mosse dall'avvenuta espressa abrogazione - contenuta nell'articolo 46 della Legge 40/98 - della disposizione dell'articolo 5 della " Legge Martelli" che attribuiva al giudice amministrativo ( TAR) la decisione sull'impugnazione del provvedimento di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato. Di conseguenza l'attribuzione al TAR della competenza sui ricorsi avverso le decisioni assunte in prima istanza dalla Commissione centrale non può più ritenersi automatica, ma la giurisdizione in proposito deve essere determinata secondo al Corte di Cassazione in base ai principi generali dell'ordinamento secondo i quali tutte le controversie concernenti lo status delle persone rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario .In appoggio a tale argomento, la Corte di Cassazione ha fatto riferimento alla disposizione contenuta nella Convenzione di Ginevra del 1951 che garantisce ad ogni rifugiato il libero e facile accesso ai tribunali degli Stati contraenti (art. 16), parificando sostanzialmente la sua condizione a quella dei cittadini .

La Corte di Cassazione ha ulteriormente richiamato la sua precedente giurisprudenza volta a far rientrare nella giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria le controversie riguardanti il riconoscimento del diritto di asilo costituzionale ( Cass. Sez. unite 26.5.97 n° 4674) .La Cassazione ha messo in evidenza la convergenza tra le due situazioni, sebbene distinte sotto il profilo dei requisiti per il riconoscimento ( non richiedendo l'asilo costituzionale l'ulteriore requisito della persecuzione soggettiva richiesta al rifugiato), riferendosi entrambe ad uno status, o diritto soggettivo, con la conseguenza che tutti i provvedimenti assunti dagli organi competenti in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva . Ad ulteriore conferma del ragionamento, la Corte ha citato il trasferimento della giurisdizione dal giudice amministrativo a quello ordinario avvenuta con il varo della legge sull'immigrazione nelle controversie relative alle misure di espulsione degli stranieri.

Avendo la Cassazione pronunciato al sentenza a sezioni unite civili questa assume valore vincolante per l'autorità giudiziaria. D'ora in avanti, dunque, i ricorsi avverso i dinieghi al riconoscimento dello status di rifugiato emanati dalla Commissione centrale potranno essere presentati dinanzi al giudice ordinario anziché a quello amministrativo senza il timore che il primo possa pronunciare una propria incompetenza di giurisdizione. Copia della sentenza è reperibile sul sito Internet http: //briguglio.frascati.enea.it/immigrazione-e-asilo/2000/febbraio/cassazione-87-10-99.html.

2. Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che dispone la proroga fino al 30 giugno 2000 delle misure di protezione temporanea per i rifugiati dalla Repubblica Federale di Jugoslavia (Kosovo). Resta irrisolta la posizione dei richiedenti asilo giunti in Italia prima del 26 marzo 1999 cui viene negato il riconoscimento dello status convenzionale di rifugiato. Annunciato un programma di assistenza al rimpatrio nel periodo estivo, preceduto da una campagna informativa.

Sebbene con ritardo per gli effetti della crisi di governo e del successivo esame da parte della Corte dei Conti, ha trovato pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (n. 20 dd. 05.02.2000) il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 30.12.1999 che dispone la proroga fino al 30 giugno 2000 delle misure di protezione temporanea per i rifugiati dalla Repubblica Federale di Jugoslava (Kosovo). Già ai primi di gennaio, peraltro, al fine di evitare un vacuum nella condizione giuridica dei rifugiati dalla Repubblica Federale di Jugoslavia (Kosovo) titolari della protezione umanitaria introdotta dal DPCM del 12.05.1999, il Ministero dell'Interno aveva diramato una circolare amministrativa che anticipava i contenuti del decreto.

Nel decreto viene disposta la proroga del termine della protezione temporanea, scaduto il 31.12.1999, fino al 30 giugno 2000, ad esclusivo beneficio dei destinatari delle misure introdotte con il DPCM del 12.05.1999 tuttora presenti in Italia ed in possesso dei relativi permessi di soggiorno, cui dunque si deve provvedere al rinnovo. Conseguentemente al rinnovo del permesso di soggiorno, il titolare della protezione umanitaria potrà continuare a beneficiare delle misure di accoglienza ed assistenza, anche sanitaria, previste dal DPCM dd. 12.05.1999.

La decisione di prorogare il regime di protezione umanitaria per i rifugiati provenienti dalla Repubblica Federale di Jugoslavia giunti in relazione al conflitto bellico in Kosovo appare coerente con le direttive e le raccomandazioni espresse dagli organismi internazionali, primo fra tutti l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (in proposito, UNHCR, Kosovo Albanians in Asylum Countries. UNHCR Recommendations as regards Return, Ginevra, 1 ottobre, 1999) che avevano sottolineato come la ricostruzione in Kosovo si sia appena avviata e che una buona parte delle famiglie al di fuori della capitale Pristina sia costretta a trascorrere l'inverno nelle tende o in abitazioni solo parzialmente ricostruite.

Rimangono intatte, tuttavia, le preoccupazioni e le perplessità riguardo al trattamento riservato ai richiedenti asilo kosovari che non avevano potuto accedere a suo tempo alle misure di protezione temporanea, in genere perché entrati in Italia prima del 26 marzo 1999, in relazione ad alcune prassi adottate nelle ultime settimane da diverse questure italiane così come dalla Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Ci si riferisce al rifiuto della Commissione centrale, nel momento del diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, a raccomandare come era invece prassi, il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari (ex art. 5 comma 6 della legge n. 40/98). Ciò che è più grave ancora è che, in taluni casi, alcune questure hanno emanato un provvedimento di espulsione contestualmente alla notifica del diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, privo della suddetta raccomandazione, senza quindi nemmeno attendere la scadenza dei termini previsti per il ricorso al TAR (60 giorni).

Contro uno di questi provvedimenti, emesso dal prefetto di Trieste, un richiedente asilo kosovaro ha presentato ricorso, ottenendo dal giudice l'annullamento del decreto espulsivo in quanto non poteva trovare giustificazione l'espulsione dalla sola circostanza dell'originario ingresso illegale nel territorio dello Stato, essendo stata questa a suo tempo sanata con la tempestiva presentazione dell'istanza di riconoscimento dello status di rifugiato, in base a quanto previsto dall'art. 31 della Convenzione di Ginevra. Sebbene il decreto del Tribunale di Trieste datato 13.11.1999 sia motivo di soddisfazione, non risolve tutti i dubbi e le perplessità legate alla prassi espulsiva adottata dalle questure. Resta infatti irrisolta la questione se la presentazione del ricorso giurisdizionale al TAR avverso il provvedimento di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato possa consentire di per sé la proroga del permesso di soggiorno. L'art. 1 c. 5 della legge n. 39/90 prevede che al richiedente asilo sia rilasciato un permesso di soggiorno valido "sino alla definizione della procedura di riconoscimento dello status", potendosi dunque ritenere compresa anche la fase dell'eventuale esperimento dei mezzi di ricorso. Contro tale argomentazione, tuttavia, molte questure hanno fatto prevalere un'interpretazione restrittiva dell'art. 5 del DPR n. 136/90, per il quale il richiedente asilo cui sia negato il riconoscimento "deve lasciare il territorio nazionale", per effetto dunque della sola decisione negativa della Commissione centrale.

L'atteggiamento della Commissione centrale di non raccomandare più l'applicazione della "clausola umanitaria", congiuntamente a quello di alcune questure di espellere i richiedenti asilo al momento della notifica del diniego, prima dello scadere dei termini per l'eventuale ricorso al TAR o, eventualmente, anche successivamente, nelle more del giudizio dell'organo giurisdizionale, appaiono inconciliabili con le regole consacrate in sede internazionale in merito al rispetto del principio di "non-refoulement", nonché con quelle riferite al diritto d'asilo costituzionale, almeno rispetto a richiedenti asilo che possano temere un rischio di essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti in caso di espulsione ovvero nel paese di origine non possano godere dell'effettivo esercizio delle libertà democratiche.

Nel caso specifico dei cittadini kosovari che non hanno potuto accedere alla protezione umanitaria per il solo dato temporale dell'ingresso sul territorio italiano prima del 26 marzo 1999, e che, congiuntamente al diniego al riconoscimento dello status di rifugiato, vengono invitati a rimpatriare, ciò che si lamenta è innanzitutto un'irragionevole disparità di trattamento rispetto alle motivazioni sostanziali per cui la protezione temporanea viene ora prorogata, cioè l'impossibilità di un rimpatrio dignitoso nell'inverno rigido del Kosovo a processo di ricostruzione appena avviato; motivazioni che, pertanto, dovrebbero valere per tutti i richiedenti asilo del Kosovo. Per tale ragione, alcuni richiedenti asilo , una volta ottenuta la notifica del diniego al riconoscimento dello status di rifugiato, hanno inviato alla Commissione centrale, con l'assistenza di associazioni umanitarie, un'istanza di riesame del provvedimento, con la richiesta che venga perlomeno disposta la raccomandazione di proroga del soggiorno per le ragioni umanitarie richiamate dall'art. 5.6 del D.lgs. n. 286/98. L'ufficio rifugiati dell'ICS (Consorzio Italiano di Solidarietà) segnala l'avvenuto accoglimento di talune di queste richieste da parte della Commissione centrale (Per informazioni: Ufficio rifugiati ICS, Via Marconi, 36/b, Trieste, tel. 040/52248, Fax 040/51572, e-mail: icsts@tin.it).

Un'altra fonte di perplessità sollevata dalle associazioni umanitarie era stata la circolare telegrafica datata 5 agosto 1999, con la quale il Ministero dell'Interno aveva disposto la cessazione dell'applicazione delle misure di protezione temporanea per i nuovi arrivati dal territorio della Repubblica Federale di Jugoslavia, a seguito dell'arrivo sulle coste pugliesi di diverse centinaia di profughi, prevalentemente di etnia rom, in fuga dal Kosovo a seguito delle rappresaglie, intimidazioni e violenze cui sono sottoposti da parte di gruppi armati albanesi, presumibilmente appartenenti all'UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo).

Le associazioni di tutela dei diritti dei richiedenti asilo avevano espresso dubbi sul fatto che la revoca dell'applicazione delle misure di protezione temporanea veniva disposta per mezzo di una circolare amministrativa, e cioè di una fonte di diritto gerarchicamente inferiore al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che aveva introdotto tali misure. A conferma della bontà di tale argomentazione è giunta successivamente la notizia dell'accoglimento da parte del Tribunale civile di Brindisi di una decina di ricorsi presentati per il tramite dell'ufficio CIR di Lecce avverso altrettanti decreti di espulsione emanati nei confronti di cittadini jugoslavi di etnia rom provenienti dal Kosovo (ad es. Sent. 1179/99 dd. 21.10.1999/causa di illegittimità violazione di legge). Il giudice civile di Brindisi afferma, infatti, nel dispositivo che "se l'Esecutivo, in base ad una propria valutazione discrezionale e politica, ha ritenuto di individuare nel 31.12.1999 la data di presumibile cessazione degli eventi bellici o almeno di apparente normalizzazione, formalizzandola in un decreto avente forza di legge, non si comprende come tale valutazione possa essere posta nel nulla in base ad una circolare del Ministero dell'Interno, fonte normativa di valore secondario". Secondo il Tribunale di Brindisi, dunque, il DPCM del 12.05.1999 è da considerarsi ancora in vigore anche per i richiedenti asilo che siano giunti dal Kosovo dopo il 5 agosto e fino al 31 dicembre e abbiano richiesto in Italia la protezione temporanea facendo valere situazioni persecutorie e discriminatorie nel paese di origine, risultando così illegittimi provvedimenti di respingimento ed espulsione adottati nei loro confronti.

La precaria situazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali degli appartenenti alle minoranze etniche in Kosovo, ed in particolare di quelle serba e rom, vittime di atti quotidiani di uccisione sommaria, rapimento, intimidazione e limitazioni nella libertà di circolazione e nell'accesso ai mezzi di sostentamento, è confermata dai rapporti dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e della missione OSCE in Kosovo ("Preliminary and Second assessment of the Situation of Ethnic Minorities in Kosovo", 26 luglio e 15 settembre 1999, nonché il rapporto generale sulle violazioni dei diritti umani in Kosovo (giugno-dicembre 1999), diffuso dalla missione OSCE nel dicembre 1999). I testi possono essere richiesti alla delegazione italiana dell'ACNUR (e-mail: itaro@unhcr.ch) ovvero consultando il sito Internet dell'OSCE: www.osce.org/kosovo

C'è infine da sottolineare che il decreto di proroga della protezione umanitaria, annuncia la predisposizione di un programma di rimpatrio assistito dei profughi presenti in Italia che dovrebbe svolgersi tra il 1 luglio ed il 31 agosto 2000 con l'assistenza e la collaborazione dell'ACNUR e dell'OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e i cui contenuti dovrebbero essere resi noti a partire dal prossimo 1 aprile mediante una campagna informativa nazionale. I rifugiati kosovari, così come quelli delle altre aree della ex-Jugoslavia, che intendono rimpatriare volontariamente nei luoghi di origine anche prima del 1 luglio 2000 possono fin d'ora accedere ad un progetto di rimpatrio assistito, gestito dall'OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) che assicura il finanziamento delle spese di viaggio, nonché un contributo economico ed un'assistenza in loco per il reinserimento sociale nei luoghi di origine. Per informazioni, ci si può rivolgere all'ufficio dell'OIM a Roma, via Nomentana 62 -tel. 06/44231428, fax 06/4402533, e-Mail: iomrome@iom.int, oppure al Consiglio Italiano per i Rifugiati, via del Velabro, 5/a, ROMA tel. 06/69200114, e-mail: c.i.r.@flashnet.it

3. La circolare del Ministero dell'Interno relativa al regolamento di applicazione della legge sull'immigrazione ribadisce la possibilità del rilascio del permesso di soggiorno umanitario nei casi in cui venga sollecitato della Commissione centrale nonostante il diniego al riconoscimento dello status di rifugiato.

La circolare diffusa ai primi di gennaio dal Ministero dell'Interno e firmata dal capo della polizia, Masone, conferma per la prima volta per iscritto la possibilità, già ampiamente diffusa e consolidata nella prassi dall'entrata in vigore della legge n. 40/1998, per le questure di rilasciare appositi permessi di soggiorno umanitari, di durata di norma annuale e validi per lavoro, ai richiedenti asilo che si siano visti respingere l'istanza di riconoscimento dello status di rifugiato, ma ai quali l'apposita commissione centrale abbia riconosciuto valide ragioni per non fare ritorno nel paese di origine, per le motivazioni richiamate dall'art. 5 comma 6 del TU e riconducibili a ragioni di carattere umanitario o derivanti dagli obblighi internazionali di "non refoulement" ovvero da quelli costituzionali inerenti al diritto d'asilo. Sebbene la timida e prudente formulazione usata dalla circolare ministeriale sembra sottolineare il carattere di raccomandazione della segnalazione della commissione centrale, non giuridicamente vincolante per la questura almeno in via ultimativa, il richiamo contenuto nella circolare non può che essere accolto positivamente, nell'attesa che il DDL sull'asilo possa completare il suo iter parlamentare e consentire finalmente una piena attuazione nel nostro paese di un sistema normativo organico in materia di protezione temporanea e di diritto d'asilo costituzionale.

La formulazione aperta della norma di cui all'art. 5 c. 6 del TU non pregiudica tuttavia la possibilità, almeno teorica, che la scelta di rinnovare un permesso di soggiorno, anche in deroga alle norma vigenti, possa essere adottata dalle autorità locali di polizia anche in assenza di una specifica raccomandazione della commissione centrale, così come dell' accesso dell'interessato alla procedura di riconoscimento dello status di rifugiato, in presenza di comprovate ragioni che richiamino ai suddetti obblighi internazionali o costituzionali dello Stato italiano.

4. Il Tribunale Civile di Roma riconosce il diritto di asilo costituzionale a Abdullah Ocalan.

Con sentenza depositata il 1 ottobre scorso, il Tribunale Civile di Roma ha riconosciuto il diritto di asilo politico in Italia, ai sensi e per gli effetti dell'art. 10.3 della Costituzione ("Lo straniero al quale sia impedito l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni della legge") , al leader curdo Abdullah Ocalan, a seguito dell'istanza da questi presentata il 21 dicembre 1998.

Senza sottovalutare l'importanza della pronuncia del tribunale romano per il diretto interessato, quale anche mezzo di pressione nei confronti delle autorità turche per impedire la conferma della sua condanna a morte pronunciata in primo grado e confermata in appello, la sentenza trascende certamente il caso in questione. Non può sfuggire il fatto che si tratta del primo caso di un pronunciamento giudiziario volto a dichiarare il riconoscimento del diritto costituzionale di asilo politico, rimasto tuttora inattuato.

Il dispositivo della sentenza conferma innanzitutto la giurisprudenza avviata con la famosa pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. Unite 12.12.1996-26.05.1997, n. 4674, circa la natura precettiva ed immediatamente operativa e non meramente programmatica della norma costituzionale sull'asilo, tale dunque da vincolare l'autorità giudiziaria civile anche in assenza di una disciplina attuativa. Ugualmente, viene ribadita la distinzione concettuale tra la nozione di asilo costituzione e quella di rifugiato ricavabile dalla Convenzione di Ginevra del 1951: la prima legata a criteri di natura oggettiva (la mancanza di libertà democratiche nel paese di origine dell'asilante), la seconda a presupposti di natura soggettiva (il timore individuale di persecuzione).

Va rilevato inoltre il modo esemplare con il quale il giudice civile ha respinto uno dei motivi di inammissibilità che erano stati addotti dall'Amministrazione Italiana quale parte convenuta, cioè la sostanziale inopportunità politica, in mancanza di una normativa di attuazione del diritto d'asilo costituzionale, di affidare al giudice la valutazione sulla democraticità di un ordinamento straniero che "significherebbe accettare ipotesi di responsabilità internazionale dello Stato italiano per attività del suo potere giudiziario". Giustamente, qui il giudice ha ricordato i contenuti della Dichiarazione sull'Asilo territoriale adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 15 dicembre 1967 che stabilisce che "la concessione da parte di uno Stato dell'asilo a persone che possano invocare l'art. 14 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo costituisce un atto pacifico e umanitario che, in quanto tale, non deve essere considerato un atto ostile nei confronti di un altro Stato".

Una volta respinti i presupposti di inammissibilità avanzati dal Governo italiano, il giudice ha riconosciuto il diritto di asilo costituzionale a Ocalan ritenendo, in base alla documentazione prodotta ( i dossier sulla situazione dei diritti umani in Turchia redatti tra l'altro dal Dipartimento di Stato USA, dal Parlamento europeo, da Amnesty International, le pronunce di condanna della Turchia da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, ecc) e alle risultanze di prove testimoniali, l'esistenza del presupposto di base dell'assenza in Turchia delle libertà democratiche riconosciute, invece, dalla nostra Costituzione, con particolare accenno al rispetto dell'integrità della persona, al rispetto delle libertà civili, alla proibizione della discriminazione in relazione alla razza. Secondo il giudice, inoltre, la previsione costituzionale dell'asilo politico va integrata e completata alla luce di quella sul divieto di estradizione dello straniero per motivi politici (art. 10.4 Cost.) successivamente ribadito sul piano internazionale dalla Convenzione Europea di estradizione di Parigi del 1957 che stabilisce, ad ulteriore garanzia dell'estradando, che l'estradizione non verrà concessa nel caso in cui lo Stato richiesto "abbia dei seri motivi di credere che la domanda, pur motivata da un reato di diritto comune, sia stata presentata per perseguire o punire un individuo per considerazioni di razza, religione, nazionalità ed opinioni politiche oppure che la situazione di detto individuo rischi di essere aggravata da una qualsiasi di queste ragioni". Il giudice non ha ritenuto nemmeno che il riconoscimento del diritto di asilo per Ocalan debba essere negativamente condizionato dall'entità, indubbia, dell'attività delittuosa a lui contestata, in base all' orientamento giurisprudenziale per cui occorra ai fini estradizionali contemperare il rilievo del delitto politico con la tutela dei valori umani di carattere universale che il delitto invece ha offeso o posto in pericolo (Cass. I^ Sez. pen. 27.02.1989; Cass. I^ Sez. Pen. 17.02.1992). Secondo il giudice, infatti, la motivazione dell'attività di Ocalan -"politica sul piano dei valori assoluti e certamente degna di considerazione sia nell'attuale contesto (della lotta per il riconoscimento dei diritti del popolo curdo, diritti fino ad ora contestati e conculcati) che in una prospettiva storica - funge da contrappeso all'entità delle offese arrecate".

Va rilevato, infine, come il giudice abbia respinto la tesi del Governo italiano dell'infondatezza dell'istanza di asilo per la sopravvenuta mancanza nell'attore dell'interesse ad agire, in ragione del suo abbandono del territorio italiano e della sua attuale condizione di detenuto in Turchia.

Il giudice di Roma non ha ritenuto di dover ricondurre il caso Ocalan alla fattispecie prevista dalla giurisprudenza di Cassazione (Cass. 9.10.98 n. 10062 e Cass. 23.05.1982 n. 3198), secondo la quale "è inibito al giudice di risolvere questioni meramente teoriche al fine di una pronuncia dal contenuto astratto e congetturale", sostenendo al contrario che "permanga tuttora un interesse concreto e attuale dell'attore (Ocalan ndr) ad una pronuncia favorevole", per le implicite implicazioni politiche scaturenti da "un accertamento - in una sede giudiziaria neutra ed imparziale - dell'esistenza del problema del popolo curdo e del suo diritto all'autodeterminazione o, comunque, a spazi di libertà e democrazia, obiettivi dell'azione politica di Ocalan" medesimo.

La sentenza "Ocalan" è motivo di particolare soddisfazione per l'ASGI, che era intervenuta in giudizio a sostegno dell'istanza, assieme ad altre associazioni, quali il CIR e l'Associazione Giuristi Democratici.

5. Nuove disposizioni in materia di ingresso e soggiorno di cittadini somali in Italia. Notevoli difficoltà per i cittadini somali ad esercitare il diritto al ricongiungimento familiare per il mancato riconoscimento da parte italiana di documenti anagrafici e di viaggio rilasciati o rinnovati da autorità "de facto" somale dopo il 31 gennaio 1991.

Ritenendo non più attuale la situazione di eccezionalità che aveva determinato l'automatico rilascio di appositi permessi di soggiorno umanitari per i cittadini somali fuggiti dalla guerra civile, il Ministero Affari Esteri con decreto 1 febbraio 1999 (G.U. 17.2.1999 n. 39) ha abrogato le precedenti disposizioni contenute nel decreto ministeriale dd 9.09.1992. Il nuovo decreto prevede di conseguenza che i cittadini somali che facciano soltanto ora ingresso in Italia potranno accedere eventualmente alla procedura individuale di riconoscimento dello status di rifugiato. Per coloro che hanno già beneficiato della protezione umanitaria in base alle disposizioni ora abrogate varranno le disposizioni emanate con direttiva del PdCdM del 6 agosto 1998, con la possibilità di convertire il permesso di soggiorno umanitario in permesso per motivi di lavoro della durata biennale in caso di rapporto di lavoro in corso o di formale impegno di assunzione ovvero con la permanenza del possesso di un permesso annuale in caso di stato di disoccupazione.

Il Ministero degli Affari Esteri italiano ha inoltre ritenuto di non riconoscere più alcuna validità ai passaporti somali o altri documenti di identità o anagrafici rilasciati o rinnovati da autorità "de facto" somale dopo il 31 gennaio 1991, in conseguenza della dissoluzione delle strutture statuali della Somalia. Pertanto, i cittadini somali presenti in Italia, per recarsi all'estero al di fuori dello Spazio Schengen. e fare poi rientro in Italia, debbono chiedere alle questure il rilascio di un apposito titolo di viaggio per stranieri, della stessa durata del permesso di soggiorno. In mancanza del passaporto, il rilascio o adeguamento del permesso di soggiorno può avvenire previa esibizione della carta di identità rilasciata dal Comune italiano di residenza. Il mancato riconoscimento della validità dei documenti anagrafici sta comportando notevoli difficoltà per l'esercizio del ricongiungimento familiare, di fatto provocando il mancato rilascio dei visti di ingresso per l'impossibilità della dimostrazione del legame familiare in base a documenti consentiti. Le autorità diplomatico-consolari italiane non sembrano più disposte ad accettare eventuali autocertificazioni da parte dei cittadini somali interessati, sebbene tale procedura era in precedenza consentita in base ad una vecchia circolare del Ministero dell'Interno ( n. 48 dd. 27 giugno 1992), ritenuta non più compatibile con le disposizioni nel frattempo impartite in materia di dichiarazioni sostitutive per i cittadini stranieri.

6. Fermo alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati l'iter del disegno di legge in materia di asilo e protezione temporanea. L'ACNUR e gli organismi non governativi elaborano un documento con puntuali e sostanziali richieste di emendamento.

Dopo la pausa estiva, è ripresa in settembre in seno alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati - (presidente l'on. Cananzi (Partito Popolare), relatore l'on. Soda (Democratici di Sinistra) - la discussione sul disegno di legge in materia di asilo e di protezione temporanea, già approvato al Senato il 5 novembre scorso.

Già prima della pausa estiva, il relatore, on. Soda, aveva illustrato sommariamente i contenuti del provvedimento, sottolineando anche alcuni limiti del testo approvato dal Senato che necessiterebbe di modifiche e correzioni durante la discussione alla Camera dei Deputati. In particolare, l'on. Soda ha rilevato l'eccessiva limitazione dei presupposti per la concessione del diritto d'asilo, facenti riferimento al pericolo di vita, rispetto ai contenuti del testo costituzionale, che fanno riferimento unicamente all'impedimento all'esercizio delle libertà democratiche. L'on. Soda inoltre ha sottolineato l'esigenza di escludere dal pre-esame i richiedenti asilo costituzionali, che non dovrebbero essere sottoposti alle procedure di determinazione del paese d'asilo in base alla Convenzione di Dublino, da riservare esclusivamente ai richiedenti lo status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra del 1951.

In contemporanea alla ripresa dell'iter del DDL, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati aveva convocato un gruppo di lavoro delle ONG per la formulazione di proposte di emendamento migliorative del testo approvato dal Senato. A tale gruppo di lavoro hanno preso parte il Consiglio Italiano per i Rifugiati, l'ASGI, l'ICS, il Gruppo di riflessione dell'area religiosa e Médicins sans frontières. Le richieste di emendamento sono state ufficialmente consegnate all'on. Maritati, Sottosegretario agli Interni, e all'on. Soda, durante un incontro svoltosi a Roma martedì 12 ottobre. Gli elementi più rilevanti delle proposte avanzate dal gruppo di lavoro dell'associazionismo e dell'ACNUR riguardano: a) la ridefinizione dei criteri in base ai quale concedere il diritto d'asilo costituzionale, con l'inclusione delle persone in fuga da situazioni di violenza generalizzata; b) la previsione di un effetto sospensivo del ricorso in caso di esito negativo del pre-esame; c) l'assegnazione al giudice ordinario piuttosto che al TAR della competenza dell'esame del ricorso avverso la decisione negativa della Commissione centrale. Altri emendamenti sostanziali riguardano una dozzina di altri punti del DDL.

Il testo delle proposte di emendamento formulate dall'ACNUR e dalle ONG sopra richiamate può essere richiesto all'ACNUR, via Caroncini, 19, ROMA, tel. 06/8079085, e-mail: itaro@unhcr.ch.

E' probabile che la discussione del DDL sull'asilo politico possa riprendere il suo iter parlamentare soltanto nel corso del mese di luglio.

 

PROGRAMMAZIONE DEI FLUSSI (Ingresso, Soggiorno, Espulsioni).

7. Emanata la prima circolare del Ministero dell'Interno relativa al regolamento di attuazione delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione. Divengono operative le norme sul rilascio della carta di soggiorno nell'attesa dell'approvazione dell'apposita modulistica. Il certificato di idoneità igienico sanitaria dell'alloggio può sostituire quello comunale di abitabilità ai fini della richiesta di ricongiungimento familiare. Preoccupazione per le modalità di applicazione delle norme sull'inizio della decorrenza del periodo di interdizione dallo "spazio Schengen" per gli stranieri espulsi.

E' stata diffusa agli inizi di gennaio la prima circolare del Ministero dell'Interno relativa al regolamento di attuazione del T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e le norme sulla condizione giuridica dello straniero (Dpr 31.08.1999 n. 394). Perlopiù la circolare si limita a ripercorrere le principali disposizioni contenute nel regolamento, che costituisce l'indispensabile atto di normazione secondaria volto a rendere concretamente operative ed attuabili molte delle disposizioni contenute nella legge sull'immigrazione. In taluni punti, tuttavia, la circolare offre utili chiarimenti e dipana dubbi che erano sorti all'indomani del varo del regolamento. E' il caso ad esempio di quanto previsto in relazione alla carta di soggiorno. Il regolamento di attuazione della legge sull'immigrazione aveva infatti previsto il rilascio della carta di soggiorno su un modello apposito, da adottare mediante successivo decreto del Ministero dell'Interno (art. 16 c. 1), suscitando di conseguenza il timore di ulteriori ritardi e rinvii all'attuazione di questo importante diritto. La circolare ministeriale firmata dal Capo della polizia, Masone, afferma invece che possono trovare immediata operatività le norme sul rilascio della carta di soggiorno, che, in attesa dell'adozione dell'apposita modulistica, potrà risultare nell'odierno modulo di permesso di soggiorno, opportunamente adattato con l'aggiunta dell'intestazione "valido come carta di soggiorno" e l'inserimento alla voce "scadenza" dell'espressione "a tempo indeterminato". Riguardo a quest'ultimo punto, si rammenta che il regolamento, pur ribadendo la durata illimitata della carta di soggiorno prescritta per legge, ha introdotto la sua soggezione al meccanismo della vidimazione decennale, a richiesta dell'interessato, specificando inoltre che la carta di soggiorno può costituire documento di identificazione personale per non oltre cinque anni dalla data del rilascio o del rinnovo. L'apparente contraddittorietà di tali disposizioni viene risolta nella circolare ministeriale facendo riferimento all'´evidente esigenza di controllo periodico della situazioneª e al fatto che essendo la carta di soggiorno un documento di identificazione personale non può che essere soggetta all'aggiornamento dei dati e al rinnovo della fotografia nei termini previsti dall'art. 290, comma 4, del regolamento di esecuzione del TULPS (R.D. 6 maggio 1940, n. 635).

In relazione alla procedura per il riconoscimento del diritto al ricongiungimento familiare, la circolare ministeriale ribadisce che il requisito di disponibilità alloggiativa adeguata richiesto al richiedente può d'orainanzi essere comprovato anche dal solo certificato di idoneità sanitaria rilasciato dall'Azienda Sanitaria Locale, che potrà essere allegato alla rimanente documentazione in alternativa al certificato di abitabilità dell'ufficio tecnico comunale e non in aggiunta ad esso, come alcune questure avevano iniziato a chiedere, adottando un'interpretazione palesemente errata ed illegittima del testo del regolamento (art. 6).

La circolare ribadisce inoltre quanto già chiaramente contenuto nel testo del regolamento (art. 19) circa il divieto di rientro per gli stranieri espulsi, di durata di norma quinquennale, che si ritiene debba decorrere non dalla data di adozione o notificazione del provvedimento espulsivo, ma da quella ´di esecuzione, attestata dal timbro di uscita dal territorio dello Stato ovvero da ogni altro documento comprovante l'assenza dello straniero dal territorio dello Statoª. Nessuna disposizione operativa viene aggiunta per garantire che gli operatori di polizia di frontiera inseriscano effettivamente nel Sistema Informativo Schengen (SIS) il dato dell'avvenuta esecuzione del provvedimento espulsivo e, dunque, dell'inizio della decorrenza del periodo di interdizione dallo "Spazio Schengen", così come non ci si preoccupa minimamente di rendere note agli espellendi le modalità per l'accesso ai dati personali contenuti nel SIS (da effettuarsi per il tramite del garante per la privacy di cui alla legge 31.12.1996, n. 675 e successive modificazioni, secondo quanto previsto dagli artt. 9 e 11 della legge n. 388/95 di ratifica ed esecuzione degli Accordi di Schengen), anche al fine di verificare, una volta eseguita - coattivamente o volontariamente - l'espulsione, che il dato relativo alla decorrenza del divieto di rientro sia stato correttamene inserito ovvero per porre rimedio ad un mancato inserimento del medesimo che potrebbe determinare un divieto di rientro potenzialmente a tempo indeterminato, tanto più grave perché valevole non solo in Italia, ma in tutti i paesi aderenti all'accordo di Schengen.

Così come formulata, la norma regolamentare è foriera dunque di determinare abusi ed incertezze applicative, anche perché farebbe intendere che sia compito dell'interessato, cioè del cittadino straniero espulso, assumere l'iniziativa per ottenere il riconoscimento della data di inizio della decorrenza del periodo di interdizione (senza che peraltro vengano spiegati i mezzi legali disponibili), non costituendo invece un obbligo d'ufficio per il funzionario di polizia che esegue l'espulsione o ne viene a conoscenza.

8. Varato ed entrato finalmente in vigore il regolamento di attuazione delle norme sull'immigrazione e la condizione giuridica dello straniero. Incertezze e preoccupazioni relativamente alle condizioni per il rinnovo dei permessi di soggiorno. Una recente giurisprudenza sottolinea l'illegittimità di ogni automatismo riguardo alle ipotesi di diniego al rinnovo del permesso di soggiorno.

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (Suppl. Ord.n. 190/L dd. 03.11.1999), è entrato in vigore il regolamento di attuazione delle norme sull'immigrazione (Dpr. 31.08.1999, n. 394). Diventano finalmente operative, pertanto, anche quelle disposizioni contenute nella legge sull'immigrazione che non avevano potuto finora trovare effettiva attuazione per la mancanza delle indispensabili norme regolamentari, tra cui ad esempio quelle relative al rilascio della carta di soggiorno o al riconoscimento dei titoli di studi esteri al fine dell'esercizio delle attività professionali.

Nonostante il lungo iter richiesto per la sua approvazione, il regolamento non esaurisce peraltro il quadro normativo indispensabile per una completa ed uniforme implementazione della legge sul territorio nazionale che possa scongiurare il verificarsi di trattamenti differenziati e discrezionali da parte degli uffici amministrativi locali (questure innanzitutto) in contrasto con i principi costituzionali di certezza del diritto e buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97). Lo stesso regolamento rinvia in diverse occasioni a successivi decreti ministeriali (di solito da emanarsi a cura del Ministero dell'Interno) per la concreta attuazione di singole questioni, mentre è lecito attendersi che anche in futuro troverà spazio la cosiddetta "legiferazione per circolari" (in particolare del Ministero dell'Interno) per chiarire dubbi e contraddizioni, colmare lacune, ancora presenti nel quadro normativo anche dopo e nonostante il varo del regolamento (riferiamo sopra dell'emanazione della prima circolare relativa al regolamento). Non può dirsi, pertanto, pienamente soddisfatto il principio costituzionale della riserva di legge rafforzata in materia di condizione giuridica dello straniero (art. 10.2: "La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali"), vista l'entità dello spazio di manovra concesso di fatto all'esecutivo.

Tali considerazioni critiche ben si adattano alla questione dei rinnovi dei permessi di soggiorno, peraltro decisiva per la effettiva realizzazione di quei fini solidaristici e obiettivi di integrazione che il parlamento ed il governo hanno proclamato essere a fondamento dell'iniziativa di riforma legislativa. Alle condizioni e ai requisiti reddittuali per il rinnovo dei permessi di soggiorno di lunga durata per motivi di lavoro, il regolamento infatti dedica una sola disposizione, quella contenuta nel comma 2 dell'art. 13, che sostanzialmente vincola la proroga del soggiorno alla dimostrazione dell'autosufficienza economica, cioè alla "disponibilità di reddito, da lavoro o da altra fonte lecita, sufficientemente al sostentamento proprio e dei familiari conviventi a carico, che può accertarsi d'ufficio sulla base di una dichiarazione sostitutiva (autocertificazione)". Sorge innanzitutto la questione del livello minimo di reddito richiesto ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno, non avendo né il legislatore, né l'esecutivo inteso finora specificarlo con precisione, al contrario di quanto invece avvenuto ai fini del ricongiungimento familiare o della richiesta di rilascio della carta di soggiorno, dove si fa riferimento all'importo dell'assegno sociale, duplicato o triplicato a seconda del numero dei familiari a carico. Anche la recente circolare del Ministero dell'Interno relativa all'emanazione del regolamento di attuazione della legge sull'immigrazione, non può far altro che rimarcare la perdurante mancata emanazione della direttiva del Ministero dell'Interno circa i criteri per la verifica dei mezzi di sostentamento ai fini dell'ingresso e del rinnovo del soggiorno, prevista dall'art. 4 comma 3 del TU (D.lgs. n. 286/98). In assenza di ulteriori disposizioni amministrative, atteggiamenti diversificati e non uniformi a livello locale potrebbero sorgere rispetto alla corretta interpretazione da dare al riferimento alle fonti di sostentamento "lecite", soprattutto nei casi di autocertificazione di rapporti di lavoro irregolari o "in nero". Il lavoro "irregolare" o "in nero" alle dipendenze di un datore di lavoro non può essere considerato alla stregua di un'attività illecita per il lavoratore che, quale parte "debole", viene anzi tutelato dal Codice Civile in base alla previsione che "se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione" (artt. 2098-2126). Di conseguenza, è lecito attendersi che il Ministero dell'Interno darà istruzioni alle questure di consentire l'autocertificazione anche dei rapporti di lavoro irregolari eventualmente intercorsi tra gli stranieri e i rispettivi datori di lavoro, al fine della dimostrazione dei mezzi di autosufficienza economica in sede di rinnovo dei permessi di soggiorno. Con ciò tenendo conto anche della forte incidenza che il mercato del lavoro "informale" continua ad avere tra la popolazione immigrata "regolare", stimata attorno al 30% secondo il recente rapporto presentato dalla Commissione per le politiche di integrazione degli stranieri, presieduta dalla prof.ssa Zincone. Ancora più problematico e suscettibile di rendere precaria la condizione di molti immigrati "regolari" è il modo con cui nella legislazione e nelle successive norme regolamentari di attuazione ha trovato collocazione il principio per cui la perdita del posto di lavoro non deve implicare l'automatica revoca del permesso di soggiorno del lavoratore migrante, senza che a quest'ultimo venga concesso un periodo di tempo minimo per trovare nuova occupazione (principio stabilito dall'art. 8 della Convenzione OIL n. 143/1975, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge del 10 aprile 1981 n. 158). Con l'art. 22.9 del TU viene prevista la possibilità per il lavoratore straniero rimasto disoccupato di mantenere l'iscrizione alle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno e, comunque, per un periodo non inferiore ad un anno. E' di immediata comprensione l'importanza che dunque assume innanzitutto la durata dei permessi di soggiorno, per i quali la legge, fissando soltanto i limiti massimi (due anni per quelli per motivi di lavoro e famiglia, con la possibilità di una durata doppia in caso di rinnovo), lascia ampi margini di discrezionalità alle questure o alle deliberazioni ministeriali. In tal senso, il Ministero dell'Interno è già intervenuto con la circolare dd. 10 maggio in materia di regolarizzazione, che ha previsto una diversa durata del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, a seconda della situazione di regolare occupazione dell'interessato (due anni) ovvero del suo stato di disoccupazione (un anno), per cui occorre ora chiedersi se tale orientamento possa ritenersi estensibile anche "a regime". Con gli artt. 36 e 37 del regolamento di attuazione, l'esecutivo ha voluto concretizzare in modo piuttosto rigido e restrittivo il principio dell'iscrizione a termine nelle liste di collocamento del lavoratore licenziato o dimesso, stabilendo la possibilità del rinnovo del permesso di soggiorno, eventualmente venuto in scadenza successivamente alla perdita del posto di lavoro, solo per il periodo necessario al concorrere del termine citato di un anno dall'avvenuta iscrizione alle liste, entro il quale l'interessato dovrà adoperarsi per trovare una nuova occupazione regolare, pena l'impossibilità dell'ulteriore rinnovo del permesso di soggiorno e la conseguente intimazione a lasciare il territorio italiano. La costante precarietà della condizione dell'immigrato è accentuata dalla previsione per cui la stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato comporterà il rilascio di un permesso di soggiorno della stessa durata del contratto di lavoro e comunque non inferiore a 12 mesi dalla data del rilascio del precedente soggiorno. C'è innanzitutto da chiedersi se la previsione della necessità della stipula di un contratto di lavoro regolare quale condizione per il rinnovo del permesso di soggiorno, a prescindere dalle altre fonti di mantenimento, sia compatibile con le già citate norme interne ed internazionali a tutela del lavoratore in caso di prestazione irregolare. Anche qualora gli standard minimi della Convenzione OIL si ritengano formalmente rispettati, non si può non scorgere in siffatta regolamentazione una concezione riduttiva dell'immigrato, la cui permanenza legale viene esposta sostanzialmente alle variabili contingenze del ciclo economico. Nel caso dei lavoratori immigrati invalidi civili, accanto a queste considerazioni di "inopportunità politica", si possono muovere motivi di illegittimità costituzionale, nel momento in cui essi vengono assoggettati ai medesimi meccanismi regolativi che possono condurre al mancato rinnovo del permesso di soggiorno e all'intimazione a lasciare il territorio nazionale, con l'unica variante del riferimento alle liste del collocamento obbligatorio (legge n. 482/68 ora sostituita con l. 12.03.1999, n. 68) in vece di quelle ordinarie. Così facendo, risulta completamente ignorato il principio stabilito dall'art. 8 par. 1 della Convenzione OIL n. 97/1949, ratificata e resa esecutiva in Italia, che comporta il divieto di rimpatrio o di allontanamento del lavoratore migrante che risulti incapace di ottenere un'occupazione in ragione di una malattia o di un infortunio (invalidità) contratti successivamente all'ammissione nel paese di immigrazione.

Le regole previste dal regolamento di attuazione mal si adattano alla effettiva situazione del mercato del lavoro in Italia e alla grossa incidenza che il lavoro "nero" o "informale" continua ad avere tra la popolazione immigrata "regolare", nonché alla diffusione di quelle forme di lavoro interinale, in affitto, di breve durata o con caratteristiche perlomeno ambigue come le prestazioni d'opera. Un'applicazione rigida di tali regole è suscettibile di far rientrare nella clandestinità una fascia consistente di immigrati, con conseguente vanifica degli obiettivi prefissati con il varo della legge sull'immigrazione e dei relativi principi ispiratori della medesima: la prevenzione ed il contrasto dell'immigrazione clandestina ed il rafforzamento delle opportunità di integrazione e dei diritti di cittadinanza degli immigrati regolari; obiettivi posti alla base della politica governativa con il documento programmatico approvato con Dpr. 5 agosto 1998. Sotto questo profilo, le norme contenute nel regolamento mal si conciliano con l'esigenza di una interpretazione normativa non rigida e letterale, bensì sistematica e costituzionalmente orientata, attenta alla volontà espressa dal legislatore e alle istanze solidaristiche cui si ispira la legge n. 40/98, nonché alle prerogative costituzioni dell'individuo. A tale riguardo, va sottolineato la recente formazione di una giurisprudenza, ordinaria e amministrativa, volta ad escludere l'applicazione di forme di automatismo riguardo alle ipotesi di diniego al rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero (almeno nelle ipotesi di tardività nella presentazione della domanda (Cassazione, I sez. civ., sentenza 28.05/23.06.1999, n. 6374; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 30.03/20.05.1999; per un esame di tal giurisprudenza si rinvia al numero 3/1999 della rivista "Diritto, Immigrazione e Cittadinanza", Franco Angeli editore). Tale giurisprudenza suggerisce invece l'esigenza di "bilanciamento dei valori in gioco" tra il rispetto delle norme formali in materia di soggiorno ed il concreto esame della condotta dello straniero, della dignità e moralità delle sue abitudini di vita, dello spessore dei suoi legami sociali sviluppati con il paese di immigrazione in relazione anche alla durata della sua permanenza, pena la violazione del principio di uguaglianza costituzionale, che esclude trattamenti uniformi in relazione a fattispecie diversificate ed un trattamento irragionevolmente discriminatorio tra cittadini e stranieri. Ancora una volta, dunque, forte è il rischio del riprodursi del fenomeno tipicamente italiano per cui importanti processi di riforma legislativa nel campo sociale vengono vanificati dalla palese discrasia tra gli obiettivi e i principi di fondo proclamati, i contenuti concreti delle norme e le effettive prassi e regole applicative.

9. Emanate le nuove disposizioni concernenti il soggiorno di cittadini comunitari in Italia. Gli importanti riflessi sulle condizioni di ingresso e di soggiorno in Italia dei familiari extracomunitari di cittadini comunitari o italiani.

Con decreto legislativo 2 agosto 1999, n. 358 (in G.U. n. 246 dd. 19.10.1999) sono state emanate le nuove disposizioni concernenti il soggiorno di cittadini comunitari in Italia, che vanno ad integrare e modificare quelle precedentemente in vigore per effetto del D.L.vo 26.11.1992, n. 470, allo scopo di attuare le direttive comunitarie (90/364, 90/365 e 93/96).

Le norme appena approvate hanno scopo di garantire la libertà di circolazione e di insediamento dei cittadini dell'Unione Europea - e dei loro famigliari, anche extracomunitari - che non possano esercitare tali diritti in base alla loro condizione di lavoratori, appartenendo invece, fra l'altro, alle categorie di coloro che hanno cessato l'attività lavorativa o degli studenti.

Le condizioni fissate dalle nuove disposizioni per il soggiorno dei cittadini comunitari che non svolgano attività lavorativa o siano pensionati, sono l'iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale o la titolarità di una polizza assicurativa sanitaria e la disponibilità di un reddito complessivo non inferiore all'importo dell'assegno sociale. Per gli studenti, oltre all'assicurazione sanitaria, viene chiesta la disponibilità di risorse economiche tali da non costituire un onere per l'assistenza sociale.

In conformità al diritto comunitario, le disposizioni prevedono il diritto al soggiorno anche per i familiari dei cittadini comunitari, indipendentemente dalla loro nazionalità, e dunque anche nei casi in cui provengano da paesi non appartenenti all'Unione Europea. Rispetto all'individuazione dei familiari e limitatamente a quanto concerne i cittadini comunitari che non siano studenti, il D.L.vo non recepisce pienamente l'indirizzo interpretativo assunto dal Consiglio di Stato relativamente all'ammissione al ricongiungimento dei figli del coniuge extracomunitario avuti da precedenti matrimoni o nati fuori dal matrimonio (parere 8.11.1995, n. 679/95). Se, infatti, si prevede l'ammissione al ricongiungimento di tutti i discendenti a carico del cittadino comunitario titolare del diritto di soggiorno, indipendentemente dall'età, per i figli "di primo letto" del coniuge extracomunitario tale possibilità è limitata a quelli di minore età (con riferimento alle norme sul ricongiungimento familiare contenute nel TU sull'immigrazione -art. 29.1 D.L.vo n. 286/98). Per la corretta individuazione dei discendenti a carico si deve fare riferimento alle norme relative agli assegni familiari di cui al Dpr. 30.05.1955, n. 797, che comprendono oltreché i figli minori, anche quelli fino ai 21 anni di età se iscritti ad un istituto scolastico superiore o fino ad anni 26 se iscritti all'università, ovvero anche di età superiore se inabili al lavoro. E' pur vero che il citato riferimento alle norme sull'immigrazione fa includere tre i beneficiari del ricongiungimento famigliare anche i figli maggiorenni del coniuge extracomunitario, qualora inabili al lavoro secondo la legislazione italiana (art. 29.1 lett. d) TU), ma restano comunque esclusi gli studenti superiori e universitari, rispettivamente fino ai 21 e ai 26 anni di età.

Il decreto legislativo n. 246/99 modifica le disposizioni sulla libera circolazione dei cittadini comunitari che non svolgono un'attività lavorativa in Italia o che sono studenti, mentre restano salve quelle riferite a coloro che svolgono un'attività lavorativa subordinata o autonoma o una prestazione di servizi (artt. 1,2,3 DPR 1656/65, come modificato dal DPR n. 1225/1969) che prevedono tra i beneficiari del ricongiungimento familiare il coniuge e i discendenti minori di anni 21 o a carico, gli ascendenti del lavoratore e del coniuge che siano a suo carico.

Per l'esercizio del diritto al ricongiungimento familiare da parte del cittadino comunitario valgono i requisiti reddituali previsti dal TU delle norme sull'immigrazione e cioè un reddito familiare complessivo pari all'importo dell'assegno sociale per un nucleo famigliare di due componenti, pari al doppio per un nucleo di tre o quattro persone e al triplo per cinque o più componenti (art. 29.3 lett. b) TU).

Nel caso in cui il cittadino comunitario residente in Italia sia uno studente, potrà beneficiare del ricongiungimento con i famigliari individuati dal TU delle norme sull'immigrazione (coniuge, figli minori a carico, anche del coniuge e dunque non comuni, genitori a carico, parenti entro il terzo grado inabili al lavoro), purché il nucleo famigliare abbia risorse tali da non costituire un onere per l'assistenza sociale in Italia. Al riguardo le disposizioni varate risultano più generose delle norme comunitarie (direttiva 93/96) che limiterebbero l'esercizio del ricongiungimento per gli studenti comunitari al solo coniuge ed ai figli a carico.

Per quanto concerne gli aspetti procedurali relativi al riconoscimento del diritto al ricongiungimento famigliare per i cittadini comunitari, il D.L.vo n. 246/99 prevede l'utilizzo dello strumento dell'autocertificazione, per quanto attiene la dimostrazione sia dei requisiti reddituali, sia dell'esistenza dei vincoli di coniugio o di parentela., in ottemperanza all'art. 5 del Dpr n. 403/1998 che consente, per i cittadini dell'Unione Europea, l'utilizzo delle dichiarazioni sostituite di certificazioni e di atti di notorietà, con le stesse modalità previste per i cittadini italiani.

Il D.L.vo n. 246/99, così come le norme emanate in passato, non enuncia regole particolari circa l'ingresso dei cittadini di Stati terzi che siano familiari dei cittadini comunitari beneficiari del diritto di libera circolazione. Pertanto, anche considerando quanto previsto dalle disposizioni contenute nel regolamento di attuazione del TU sull'immigrazione (artt. 5 e 6 DPR n. 394/99), valgono le norme procedurali generali previste per il ricongiungimento familiare degli stranieri extracomunitari, con la previsione del rilascio del visto condizionato alla presenza del nulla-osta della questura competente, previa dimostrazione dei requisiti reddituali e alloggiativi. L'assenza nel regolamento della legge sull'immigrazione di particolari agevolazioni per l'ottenimento del visto da parte di cittadini extracomunitari famigliari di cittadini comunitari non appare in linea con quanto previsto dalle direttive comunitarie (n. 68/360 e 73/148), così come la subordinazione del rilascio del visto per ricongiungimento familiare alla dimostrazione anche del requisito alloggiativo, palesa un'assenza di coordinamento ed un sostanziale contrasto con quanto previsto dal D.L.vo 246/99, che contempla unicamente un requisito reddituale. Non appare nemmeno plausibile sostenere che il cittadino extracomunitario irregolare, familiare di cittadino comunitario residente in Italia, possa regolarizzazione automaticamente la propria posizione sulla base delle disposizioni del TU, al di fuori della ristretta casistica prevista dall'art. 30 D.L.vo n. 286/98, essendo riservata la condizione di inespellibilità ai soli stranieri conviventi con parenti entro il IV grado o con il coniuge, di cittadinanza italiana (art. 19. 2 lett. c), non avendo invece rilevanza il legame parentale con il cittadino comunitario residente regolarmente. L'esclusione dei parenti e del coniuge del cittadino comunitario beneficiario della libera circolazione appare di dubbia legittimità alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia europea, che nella sentenza Echternach del 1989 (389 e 390/87), ha affermato che anche per i famigliari il documento del soggiorno non ha valore costitutivo, ma solo dichiarativo del diritto alla libertà di circolazione e stabilimento riconosciuto dal Trattato o dalle norme derivate (sebbene la Corte si riferisse allora a famigliari che erano cittadini di uno Stato membro). Inoltre, secondo una pacifica interpretazione del diritto comunitario, il diritto del cittadino dell'Unione Europea a vivere con i propri familiari appare strumentale e funzionale all'esercizio del suo diritto fondamentale alla libertà di circolazione, e di conseguenza, non apparirebbe ingiustificata secondo i criteri comunitari l'estensione anche ai suoi famigliari del principio di inespellibilità previsto attualmente soltanto per quelli del cittadino italiano.

Un altro punto sul quale si registra una contraddizione tra le disposizioni contenute nel regolamento di attuazione della legge sull'immigrazione e quelle del D.L.vo n. 246/99, riguarda la durata della validità della carta di soggiorno prevista per i cittadini comunitari e i loro famigliari, qualunque sia la loro nazionalità. Mentre nel regolamento si ribadisce - in ottemperanza a quanto previsto dalla legge cui si intende dare attuazione - la validità a tempo indeterminato, sebbene con l'assoggettamento, a richiesta dell'interessato e dunque volontario, ad una procedura di vidimazione decennale, nel D.L.vo n. 246/99 si stabilisce una validità decennale della carta di soggiorno con rinnovo obbligatorio alla scadenza.

E' vero, altresì, che con il D.L.vo. 246/99 finalmente l'Italia ha adeguato la propria normativa interna agli obblighi comunitari prevedendo che i familiari del cittadino comunitario, titolari di carta di soggiorno, qualunque sia la loro nazionalità e dunque pure quelli extracomunitari, possano accedere alle attività lavorative dipendenti o autonome, in condizione di parità con i cittadini italiani, fatte salve le norme attinenti al pubblico impiego, nei termini previsti dall'art. 37 del D.L.vo 03.02.1993, n. 29, che l'escludono l'assunzione nell'amministrazione pubblica nei soli casi che "implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri ovvero attengono all'interesse nazionale" (norma poi attuata con il decreto 7.02.1994, n. 174, successivamente modificato con decreto n. 623 dd. 05.10.1994). Già nel 1986, infatti, la Corte di giustizia europea aveva ritenuto, nella sentenza Gul, che il familiare del lavoratore ammesso al ricongiungimento deve poter accedere al lavoro in condizioni di eguaglianza con i nazionali, qualunque sia la loro cittadinanza, in base all'art. 11 del regolamento 1612/1968, ma nessuna istruzione o disposizione in proposito era stata finora emanata dalle autorità italiane per consentire la piena applicazione di tale principio di eguaglianza.

Vale la pena ricordare che quanto detto finora va applicato anche nei confronti dei familiari extracomunitari di cittadini italiani. Il legislatore infatti, con l'art. 28 comma 2 del TU sull'immigrazione (D.L.vo n. 286/98) ha voluto fare riferire le disposizioni applicative delle norme comunitarie di cui al DPR 30.12.1965, n. 1656 anche ai familiari di cittadini italiani, quali cittadini di uno Stato membro dell'Unione. Tutto ciò sulla base di un parere del Consiglio di Stato (n. 679/95) volto ad eliminare la possibilità di una "discriminazione al contrario" a danno dei cittadini italiani rispetto a quelli comunitari nell'esercizio del diritto alla coesione familiare con familiari extracomunitari, discriminazione che sarebbe in contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. Di conseguenza, anche i famigliari extracomunitari del cittadino italiano, titolari della carta di soggiorno, potranno accedere d'ora in avanti a tutte le forme di accesso al lavoro, subordinato e autonomo, previste per i cittadini italiani, ivi comprese quelle nel pubblico impiego, salvo le riserve previste in base all'art. 37 del D.L.vo n. 29/1993.

Vista la complessità della materia e la persistente presenza di lacune, incertezze e contraddizioni tra le disposizioni disperse in diversi strumenti normativi, sarebbe stato preferibile un riordino complessivo delle norme in materia di ingresso, soggiorno e allontanamento dei cittadini comunitari e dei loro familiari, così come del resto previsto dalla delega legislativa contenuta nella legge n. 40/98 (art. 45).Tuttavia, il governo ha ritenuto di non avvalersi di tale delega, preferendo scegliere la via della "delegificazione". Con la legge 8 marzo 1999, n. 50 (la c.d "Bassanini"-quarter) è stato fra l'altro affidato al governo l'incarico di fissare "i procedimenti relativi alla circolazione e al soggiorno dei cittadini degli Stati membri dell'UE" mediante regolamento governativo. In mancanza di uno strumento di riordino complessivo, dunque, si è imboccata la strada tradizionale dei provvedimenti parziali e modificativi di strumenti preesistenti, dove tuttavia il quadro giuridico che ne emerge non appare del tutto coerente.

10. Una circolare del Ministero del Lavoro autorizza la costituzione del rapporto di lavoro ed il regolare inizio dell'attività lavorativa per gli stranieri in attesa di regolarizzazione e muniti dell'apposito cedolino di soggiorno. Il Ministero dell'Interno sollecita le questure a concludere l'esame delle istanze di regolarizzazione ancora pendenti. Indicate le procedure da adottare in caso di rigetto.

A seguito delle pressanti richieste dei datori di lavoro e dei lavoratori immigrati, il Ministero del Lavoro, con circolare n. 78 del 25 novembre 1999, ha previsto che gli stranieri che si sono avvalsi delle norme sulla c.d. "regolarizzazione" (DPCM 16.10.1998 e D.lgs. n. 113/99) e che sono tuttora sprovvisti di permesso di soggiorno, possono comunque iniziare un'attività lavorativa, a condizione che il contratto siglato al momento della regolarizzazione sia stato già verificato con esito favorevole dalla competente direzione provinciale del lavoro. Permane l'obbligo di segnalazione alla questura competente della richiesta di costituzione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro. Naturalmente, in caso di mancato rilascio del permesso di soggiorno per mancanza dei requisiti per la regolarizzazione, il rapporto di lavoro dovrà cessare. Le nuove disposizioni segnano un mutamento della posizione precedentemente assunta del Ministero del Lavoro che non consentiva l'inizio dell'attività lavorativa per i regolarizzandi, con l'applicazione delle relative sanzioni penali ed amministrative per i datori di lavoro che procedevano ugualmente all'assunzione.

Con circolare dd. 28.10.1999, il Capo della Polizia, dott. Masone, ha sollecitato le questure ad accelerare al massimo le verifiche delle istanze di regolarizzazione ancora pendenti ex DPCM 16.10.1998 e D.L.vo n. 113/99, procedendo al rilascio dei permessi di soggiorno, con le modalità e la durata specificate nella precedente direttiva dd. 10 maggio '99, oppure al rigetto formale delle istanze non supportate dai requisiti previsti. A questo proposito, seguendo le indicazioni contenute nel regolamento di attuazione del TU sull'immigrazione (art. 12 DPR n. 394/99), la circolare ministeriale specifica che il provvedimento di diniego al rilascio del permesso di soggiorno deve contenere menzione del termine non superiore a quindici giorni lavorativi entro il quale lo straniero deve presentarsi al posto di polizia di frontiera per allontanarsi dal territorio dello Stato, con l'avvertenza che, in caso di inottemperanza, le autorità di polizia procederanno all'applicazione della misura espulsiva mediante intimazione a lasciare il territorio nazionale entro ulteriori quindici giorni (ex art. 13 del D.L.vo n. 286/98). Al verificarsi di quest'ultima circostanza, la circolare ministeriale invita le questure ad adottare tutti i provvedimenti volti ad impedire che lo straniero si sottragga al provvedimento espulsivo facendo perdere le sue tracce e utilizzando false generalità. Nei casi in cui il diniego alla regolarizzazione sia motivato dal rifiuto del Prefetto competente a revocare un provvedimento espulsivo precedentemente adottato, la circolare dà istruzione ai Questori di accompagnare la notifica del rigetto della regolarizzazione all'immediato accompagnamento alla frontiera dello straniero.

11. Consentito l'ingresso in Italia ai traduttori ed interpreti extracomunitari solo se in possesso di titoli di studio o professionali rilasciati da scuole o enti pubblici o legalmente riconosciuti all'estero.

Con circolare n° 45 /99 il Ministero del Lavoro ha stabilito che potranno essere rilasciate le autorizzazioni per l'ingresso in Italia di traduttori e di interpreti, al di fuori delle quote stabilite dalla programmazione dei flussi, secondo quanto previsto dall' art.27.1 lettera d del d.lgs. 286/98 e dall'art.40 del Dpr n°394/99, solo in presenza di persone munite di titolo di studio di traduttore o d'interprete, specifico per le lingue richieste, rilasciato da una scuola statale o legalmente riconosciuta secondo la legislazione vigente nello Stato in cui il titolo è rilasciato. Ugualmente idonei ai fini dell'ingresso in Italia sono considerati gli attestati professionali di traduttore e d'interprete rilasciati da enti pubblici o istituti legalmente riconosciuti negli Stati esteri, mentre non possono essere considerati idonei altri attestati quali certificazioni di aziende o enti privati.

12. Venuti in scadenza il 31 dicembre i permessi di soggiorno per motivi di studio rilasciati per ogni anno solare agli studenti universitari extra-comunitari. I nuovi limiti minimi di merito per il rinnovo dei permessi di soggiorno, le condizioni per l'esercizio dell'attività lavorativa e l'eventuale richiesta di conversione del permesso di soggiorno, fissati dal regolamento di attuazione della legge sull'immigrazione.

Scadono di norma al 31 dicembre i permessi di soggiorno per motivi di studio rilasciati agli studenti universitari extracomunitari iscritti negli Atenei italiani. Con la recente pubblicazione del regolamento di attuazione della legge sull'immigrazione, sono state fissate nuove regole riguardo ai limiti minimi di merito che i titolari del permesso di soggiorno debbono possedere per ottenerne il rinnovo (art. 46 c. 4 DPR n.394/99).Tali limiti consistono nel superamento di un esame nel primo anno di corso e di almeno due esami nei successivi. Solo per gravi motivi di salute o di forza maggiore, debitamente documentati, si potranno prevedere eccezioni, sempre ché lo studente abbia superato almeno un esame. E' stato reintrodotto un limite per l'iscrizione fuori-corso degli studenti extracomunitari, cioè il terzo anno fuori corso, oltre il quale il permesso di soggiorno non può più essere rilasciato. Successivamente alla laurea o al conseguimento del diploma, lo studente universitario extracomunitario potrà ulteriormente rinnovare il permesso di soggiorno annuale per conseguire il titolo di specializzazione o il dottorato di ricerca.

Si rammenta infine che, in base alla circolare congiunta del MAE e del Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica (consultabile sui siti del M.A.E. - www.esteri.it - e del MURST - www.murst.it(atti/1999/dis0401.htm -) per l'immatricolazione degli studenti extracomunitari negli Atenei italiani nell'anno accademico 1999/2000, il rinnovo dei permessi di soggiorno per motivi di studio per l'iscrizione al primo anno di corso sarà possibile solo per chi abbia formalizzato l'immatricolazione ad una Università italiana, previo superamento dell'esame di ammissione e di conoscenza della lingua italiana, ove previsto, nonché sia in grado di dimostrare il possesso della copertura economica di Lit. 1.000.000 mensili per almeno 6 mesi.

Per quanto riguarda la possibilità per gli studenti stranieri di svolgere attività lavorativa, il regolamento di attuazione del testo unico sull'immigrazione ha stabilito il limite delle 20 ore settimanali (part-time), anche cumulabili per cinquantadue settimane, fermo restando il limite annuale di 1.040 ore, risultando così possibile anche l'esercizio a tempo pieno di attività di lavoro stagionale (art. 14 c. 4 Dpr n. 394/99). L'esercizio dell'attività lavorativa non consente, tuttavia, la conversione del permesso di soggiorno, il quale, rimanendo per motivi di studio, sarà rinnovato solo in presenza dei requisiti di merito sopraccennati. Peraltro, sulla base di quanto previsto dalla legge sull'immigrazione (art. 6 c.1 TU) e dal regolamento di attuazione (art. 14.5 Dpr n. 394/99) il permesso di soggiorno per motivi di studio può essere convertito, prima della scadenza, in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, previa documentazione di un rapporto di lavoro subordinato o dell'esercizio di attività di lavoro autonomo, debitamente autorizzata, qualora l'interessato rientri nei limiti delle quote annuali di programmazione dei flussi di ingresso e purché egli non sia a ciò impedito da accordi internazionali o dalle condizioni per le quali è stato ammesso a frequentare corsi di studi o di formazione in Italia (presumibilmente nei casi in cui l'interessato abbia ottenuto una borsa di studio attraverso accordi internazionali o bilaterali sottoscritti tra il suo paese e l'Italia che prevedano la formazione come sola attività permessa in Italia e l'obbligo di rientro nel paese di origine al termine degli studi). Una volta convertito il permesso di soggiorno, l'interessato potrà ugualmente continuare la sua formazione universitaria, a parità di condizioni con i cittadini italiani (art. 39 c. 5 TU), ma per rinnovare il titolo di soggiorno per motivi di lavoro dovrà alla scadenza dare dimostrazione della disponibilità di reddito in Italia sufficiente al proprio sostentamento (art. 13.2 DPR n. 394/99).

13. Presentata al Ministro dell'Interno un'interrogazione parlamentare sul funzionamento dei centri di permanenza temporanea per stranieri in via di espulsione. Il Ministero dell'Interno rende noti i dati relativi alle espulsioni e ai respingimenti effettuati nel corso del 1999.

Lo scorso 24 novembre, un gruppo di senatori appartenenti ai partiti della sinistra (primi firmatari Salvato, Manconi, Marchetti, Russo Spena) ha inoltrato al Ministro degli Interni un'interrogazione parlamentare sul funzionamento e la gestione dei centri di permanenza temporanea per stranieri in via di espulsione. Nell'interrogazione vengono espresse critiche all'organizzazione e all'attività di detti centri, avvenuta per più di un anno e mezzo al di fuori di norme precise, in assenza del regolamento applicativo della legge sull'immigrazione, e dunque mediante l'esercizio di un'ampia discrezionalità dell'autorità amministrativa periferica (questure e prefetture locali). I firmatari denunciano quindi un trattamento degli stranieri rinchiusi in detti centri ancora peggiore di quello delle carceri per l'assenza di operatori qualificati in grado di fornire un'assistenza sanitaria e psicologica adeguata, per la mancata informazione sui loro diritti e la possibilità di presentare ricorso, nonché di contattare persone all'esterno, con conseguente grave pregiudizio per l'effettività del diritto alla difesa. Avendo in considerazione che tra i centri di detenzione amministrativa finora costituiti uno soltanto è stato edificato a tale scopo, quello di Roma, entrato in funzione lo scorso settembre, mentre per gli altri si è ricorso ad edifici preesistenti, riadattati alle nuove funzioni o addirittura al posizionamento di strutture mobili quali container (come nel caso di Via Corelli a Milano), le condizioni igienico-sanitarie e, più in generale di permanenza, spesso lasciano a desiderare, contribuendo - sottolineano i firmatari - all'insorgere di episodi di autolesionismo.

Richiamandosi ad alcuni dati forniti dal Casa delle Culture di Milano, con riferimento alla situazione del centro di Milano, gli autori dell'interrogazione rilevano fenomeni non marginali di abuso dell'internamento amministrativo anche nei confronti di stranieri in regola con le norme sul soggiorno, così come non risulterebbero infrequenti i casi di stranieri internati da 2 a 5 volte nel centro, senza che l'espulsione potesse mai essere effettivamente eseguita, il che farebbe pensare ad un uso dell'internamento contrario alle finalità originarie della legge ed in contrasto con gli standard internazionali (in base ad una giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo, non sarebbe compatibile con l'art. 5 della Carta Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali la detenzione amministrativa dello straniero nei casi in cui fosse evidente ab initio l'impossibilità di procedere effettivamente all'espulsione). I firmatari non condividono quanto previsto dal regolamento di attuazione della legge sull'immigrazione circa la possibilità per il prefetto di stipulare convenzioni con enti locali o soggetti pubblici o privati per la gestione dei centri (art. 22 Dpr. 394/99), ritenendola "un'inaccettabile forma di privatizzazione di attività di polizia". In conclusione all'interrogazione i firmatari chiedono al Ministro dell'interno di fornire i dati sull'esatta ubicazione dei centri di detenzione temporanea, sulla reale volontà del governo di estendere il numero di detti centri, sul numero di immigrati finora ristretti, sul numero delle detenzioni plurime, sull'esatta portata dei casi di suicidio, tentato suicidio e autolesionismo verificatisi. Infine, viene chiesto al Ministro se intende prendere in considerazione la possibile abolizione di questi centri in quanto luoghi ove si verificano sistematiche violazione dei diritti fondamentali della persona.

Con il regolamento di attuazione sono state definite alcune norme relative alle modalità di trattenimento degli stranieri nei centri di permanenza temporanea. Esse peraltro non sono prive di contraddizioni e lacune. Tra le prime, va annoverato ad esempio il fatto che dopo aver proclamato all'art. 21.1 il principio generale della "libertà di colloquio" dello straniero all'interno del centro e con i visitatori provenienti dall'esterno, al successivo comma 7 del medesimo articolo, viene specificato che ai centri possono avere accesso soltanto i familiari conviventi (e già la dimostrazione della convivenza per uno straniero clandestino appare difficile), il difensore delle persone trattenute, i ministri di culto, il personale delle rappresentanze diplomatico-consolari, nonché gli appartenenti ad enti, associazioni di volontariato e cooperative di solidarietà sociale che sono stati ammessi a svolgere attività di assistenza in base a progetti di collaborazione concordati con il prefetto locale.

Ugualmente, sebbene la libertà di corrispondenza telefonica venga in linea di principio garantita dalla legge, per le concrete modalità volte a renderla effettiva, il regolamento rinvia ad un successivo decreto del Ministero dell'Interno.

Le organizzazioni umanitarie hanno annunciato la loro intenzione di denunciare le gravi violazioni dei diritti umani che avvengono nei centri di detenzione amministrativa per stranieri espellendi dal nostro paese al Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa che in questi anni ha svolto un'intensa azione di inchiesta e di sensibilizzazione nei confronti dei governi sulle condizioni di vita ed il trattamento degli stranieri nei centri di detenzione amministrativa nei diversi paesi europei (Per maggiori informazioni al riguardo si può consultare il sito Internet del comitato: www.cpt.coe.int).

In base ai dati resi noti dal Ministero dell'Interno, nel corso del 1999 sono stati ospitati nei centri di detenzione provvisoria 8.847 stranieri espellendi, di cui 3.843 (il 44%) sono stati effettivamente rimpatriati. 36.937 sono stati gli stranieri respinti alla frontiera per mancanza dei requisiti per l'ingresso, a cui debbono essere aggiunti 11.500 respinti alla frontiera da parte dei questori nelle province confinarie perché rintracciati in un momento successivo all'ingresso illegale. Gli stranieri che sono stati respinti o espulsi per effetto degli accordi di riammissione bilaterale con i paesi di origine o di transito sono stati 11.399. Per quanto concerne le espulsioni vere e proprie, 40.489 sono state intimate con l'invito a lasciare il territorio dello Stato, 12.036 sono state effettuate con accompagnamento immediato alla frontiera e 520 sono state disposte dall'autorità giudiziaria.

14. Approvato il regolamento per rendere funzionante l'autorità italiana che si occupa di regolamentare l'ingresso dei minori stranieri per adozione internazionale. Compiuto un passo in avanti decisivo per la piena applicazione della legge sulle adozioni internazionali, in attuazione della Convenzione dell'Aja del 1993. Le competenze della Commissione per le adozioni internazionali in caso di ingresso di minori stranieri soli non accompagnati ed il raccordo con quanto previsto dalla disciplina sull'immigrazione.

Con decreto del Presidente della Repubblica 1 dicembre 1999, n. 492 (in GU 27.12.1999, n. 302), è stato varato il regolamento recante le norme per la costituzione, l'organizzazione ed il funzionamento della Commissione per le adozioni internazionali, previsto dall'art. 7 commi 1 e 2 della legge n. 476 del 31.12.1998 (in G.U. n. 8 del 12.01.1999), con la quale l'Italia ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione dell'Aja in materia di adozioni internazionali e protezione dei minori,

sottoscritta da 37 paesi il 29 maggio 1993.

La Commissione è l'autorità centrale prevista dalla Convenzione che provvede fra l'altro ad autorizzare, entro il termine di 120 giorni, gli enti ad operare nel campo delle adozioni internazionali (art. 39-ter), nonché ad adottare le linee guida operative, a promuovere incontri e conferenze di studio con gli enti autorizzati, i servizi competenti e le associazioni operanti nel settore. L'autorizzazione andrà richiesta dagli enti entro un mese dalla nomina della Commissione. Una volta autorizzati, gli enti saranno iscritti su un apposito albo, che entrerà in vigore quindici giorni dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. L'attività degli enti sarà sottoposta a verifica da parte della Commissione almeno ogni due anni. Ora, dopo che è stato approvato il regolamento, si attende la nomina della Commissione, perché la normativa sulle adozioni internazionali possa finalmente acquistare la sua definitiva operatività.

La legge sull'adozione internazionale disciplina i casi di ingresso del minore in Italia (artt. 33 e 39 co. 1 lett. h)) in parte integrando e modificando la legge n. 40/1998. Nella legge, infatti, viene vietato l'ingresso per motivi di lavoro del minore straniero solo, non accompagnato da un genitore o dal rappresentante legale e fatti salvi i casi di adozione internazionale, le disposizioni relative al ricongiungimento familiare, all'ingresso per motivi turistici, di studio e di cura, così come quelle relative ai flussi eccezionali determinati da eventi bellici, calamità naturali, secondo quanto previsto dall'art. 18 della legge n. 40/98. In quest'ultimo caso si prevede l'obbligo della segnalazione dell'ingresso del minore alla Commissione istituita dalla legge e al Tribunale per i minorenni competente territorialmente in relazione alla residenza degli accompagnatori. Uguale obbligo di segnalazione alla Commissione e, per la conseguente apertura di una tutela, al Tribunale per i minorenni, viene previsto dall'art. 33 c. 5 della legge in caso di avvenuto ingresso di un minore straniero "solo" al di fuori delle situazioni consentite dalla legge n. 476/98. Per evitare inutili sovrapposizioni di competenze, l'art. 18 del citato regolamento approvato ora con Dpr 1.12.1999, n. 492 prevede che l'unico compito attribuito alla Commissione in questi casi sia quello di provvedere a comunicare al comitato per i minori stranieri istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri di cui all'art. 33 del D.lgs. n. 286/98, come modificato dal D.lgs. n.113/99, i nominativi dei minori la cui presenza le è stata segnalata sul territorio dello Stato in base alle disposizioni della legge n. 476/98. In base alle previsioni di cui al D.lgs. n. 113/99 correttivo della disciplina sull'immigrazione, al Comitato per i minori stranieri sono state attribuite infatti le responsabilità dell'adozione del provvedimento di "rimpatrio assistito" del minore straniero non accompagnato e, più in generale, le competenze riferite alle modalità di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati da parte dei servizi sociali degli enti locali e alle soluzioni praticabili, di accoglienza, di rimpatrio assistito, di ricongiungimento famigliare nel paese di origine. Tali disposizioni, per le quali si attende tuttora il varo del regolamento applicativo previsto dal D.lgs. n. 113/99, hanno suscitato peraltro prese di posizione assai critiche, sia sotto il profilo della loro dubbia legittimità costituzionale, sia in relazione alle perplessità circa l'effettiva capacità di una politica di rimpatrio dei minori non accompagnati a corrispondere tanto agli interessi superiori dei medesimi quanto alle esigenze di sicurezza della collettività nazionale (in proposito, si rimanda al dossier "I diritti dei minori stranieri in Italia", contenuto nel prossimo numero della rivista "Minorigiustizia", edita da Franco Angeli e a quanto scritto da Paolo Bonetti, Anomalie costituzionali delle deleghe legislative e dei decreti legislativi previsti dalla legge sull'immigrazione straniera (parte II), comparso sulla rivista "Diritto, Immigrazione e Cittadinanza", Franco Angeli editore, n. 3/1999, pp 74-83).

Vale la pena soffermarsi, infine, sulla necessità di una lettura coordinata delle citate disposizioni della legge n. 476/98 sulla "tutela" del minore straniero "solo" avente fatto comunque ingresso in Italia al di fuori delle situazioni consentite con quelle contenute nell'art. 10 del T.U. che prevedono il respingimento con accompagnamento alla frontiera disposto dal questore nei confronti degli stranieri che siano entrati nel territorio dello stato illegalmente e siano fermati all'ingresso o subito dopo, e di quelli che sono stati temporaneamente ammessi per necessità di pubblico soccorso. E' evidente che il carattere di specialità della norma contenuta nella legge sull'adozione internazionale debba prevalere su quello generale della disciplina dell'immigrazione , così che il minore straniero "solo" irregolare individuato all'ingresso in Italia o subito dopo, e ricoverato in ospedale per esigenze di cura immediata, non potrà essere riaccompagnato alla frontiera una volta dimesso, così come potrebbe avvenire per lo straniero adulto, ma dovrà essere segnalato al Tribunale per i minorenni per l'apertura di una tutela con conseguente affido temporaneo all'ente locale.

 

INTEGRAZIONE SOCIALE

15. La legge finanziaria per l'anno 2000 estende anche alle donne immigrate munite di carta di soggiorno le misure relative agli assegni di maternità per i figli nati a partire dal 1 luglio 2000, ma continuano a restare escluse le immigrate con permesso di soggiorno. Restano intatte le disposizioni per la concessione degli assegni familiari che discriminano i nuclei familiari misti e quelli composti da stranieri. I possibili rimedi giudiziari a tale discriminazione.

Con l'art. 49 della legge 23.12.1999 n. 488 (legge finanziaria per l'anno 2000, in G.U. 27.12.1999, n. 302) sono state ampliate e parzialmente modificate le norme a tutela della maternità introdotte l'anno precedente (art. 66 legge 23.12.1998, n. 448) e che erano divenute operative a partire dal 21 settembre scorso con l'entrata in vigore delle disposizioni applicative (D.M. 15 luglio 1999, n. 306 pubblicato sulla G.U. n. 209 del 06.09.99 Suppl. ord. N. 169). Come si ricorderà, il legislatore aveva inteso riservare queste nuove provvidenze assistenziali, gli assegni familiari e quello di maternità, rispettivamente ai nuclei familiari a basso reddito composti da cittadini italiani residenti (reddito non superiore a 36 milioni, ma in caso di reddito superiore l'assegno potrà ugualmente essere concesso, ma sarà di importo inferiore proporzionalmente) e con almeno tre figli minori, e alla madri cittadine italiane residenti prive di copertura previdenziale (reddito familiare non superiore a 50 milioni), per i figli nati dopo il 1 luglio 1999. Con la nuova "finanziaria", il governo ed il parlamento hanno corretto tali misure discriminatorie in misura solo parziale, estendendo l'assegno di maternità del valore pari a 3 milioni di lire anche alle cittadine comunitarie e a quelle di paesi non appartenenti all'Unione Europea se residenti ed in possesso della carta di soggiorno di cui all'art. 9 del D.lgs.vo n. 286/98, e prive di alcuna tutela economica della maternità , per ogni figlio nato dal 1 luglio 2000 ovvero adottato o in affidamento preadottivo dalla stessa data (art. 50 commi 9-15). L'assegno di maternità viene inoltre esteso anche alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie, ovvero extracomunitarie se in possesso della carta di soggiorno, per le quali sono in atto o sono stati versati contributi per la tutela previdenziale obbligatoria della maternità, per ogni figlio nato o adottato o in affidamento preadottivo dopo il 1 luglio 2000 e che siano prive di ogni prestazione previdenziale per la maternità ovvero ne beneficino in misura solo parziale, a prescindere da altri requisiti. Continuano ad essere escluse dunque le donne immigrate extracomunitarie in possesso del permesso di soggiorno in Italia.

Le nuove norme diverranno operative soltanto dopo l'emanazione delle disposizioni regolamentari, mentre nel frattempo continueranno a trovare applicazione le disposizioni fissate con la legge finanziaria precedente che escludono dall'assegno di maternità anche le cittadine comunitarie e quelle extracomunitarie in generale.

L'esclusione dei cittadini dell'Unione Europea da queste misure assistenziali, cui peraltro viene ora posto rimedio -almeno limitatamente all'assegno di maternità e a partire dal 1 luglio 2000- sembra cozzare contro il principio generale di non-discriminazione in ragione della nazionalità e quello di libertà di circolazione sancito dalle norme comunitarie (rispettivamente artt. 12 e 39 del Trattato istitutivo della Comunità Europea, come modificato alla luce del Trattato di Amsterdam, nonché art. 7 (2) del Regolamento comunitario n. 1612/68 e Regolamento comunitario n.1408/71). Al fine di rendere effettivo il principio della libertà di circolazione per i cittadini comunitari, gli organi comunitari hanno emanato dei regolamenti volti a rimuovere gli ostacoli che potrebbero derivare dalla disomogeneità dei trattamenti previdenziali e assistenziali dei singoli Stati membri, che potrebbero infatti influire negativamente sulla propensione o convenienza ad accettare impieghi o, comunque, a risiedere all'estero. Così il regolamento comunitario n. 1408/71 ha dettato una serie minuta di disposizioni miranti a realizzare, per quanto possibile, una tendenziale unitarietà dei vari regimi nazionali in materia di sicurezza sociale attraverso l'affermazione, tra l'altro, di due principi: quello di territorialità (per cui i lavoratori migranti comunitari sono assoggettati al sistema vigente nel paese membro in cui essi prestano la loro attività o comunque vi risiedono) e quello di non-discriminazione (per cui i lavoratori hanno diritto alle medesime prestazioni riservate ai cittadini dello Stato membro). Sebbene l'art. 4, n. 4 del medesimo regolamento escluderebbe le misure di assistenza sociale dalla disciplina comunitaria, in diverse occasioni la Corte di giustizia europea ha fatto rientrare questioni attinenti trattamenti e provvidenze assistenziali (nella fattispecie interventi rivolti a garantire un reddito minimo per le pensione anziane) nel quadro delle regole comunitarie - assoggettandoli dunque al principio di "non discriminazione" -, sebbene non in applicazione del regolamento n. 1408/71, bensì dell'art. 7, n. 2 del regolamento n. 1612/68, qualificando come "vantaggi sociali" tali misure anziché come prestazioni di sicurezza sociale (sentenza 12 luglio 1984, Castelli, causa 261/82, sentenza 27 marzo 1985, Hoeckx, causa 249/83 e sentenza 6 giugno 1985, Frascogna, causa 157/84. L'articolo citato del regolamento n.1612/68 stabilisce la parità di trattamento per i lavoratori degli Stati membri con riferimento ai "vantaggi sociali"). Merita di essere ricordato inoltre che la nostra Corte di Cassazione, con sentenza 21.09.1991, n. 9884, ha affermato l'applicabilità del regolamento comunitario n. 1408/71 anche a prestazioni che, secondo le nostre categorie giuridiche, non rientrano nella previdenza sociale, ma piuttosto nell'assistenza sociale, come le pensioni sociali e di invalidità. Come più volte chiarito dalla Corte di giustizia, l'art. 48 del Trattato CE (ora art. 39) produce effetti diretti e prevale quindi su qualsiasi norma interna contrastante, così come l'esigenza di applicare la norma del Trattato si pone anche per i giudici, investiti di eventuali controversie (sentenza 4 aprile 1974, Commissione c. Francia, causa 163/73).

Continua a suscitare notevole perplessità la permanenza del carattere discriminatorio di tali misure nei confronti dei/(lle) cittadini(e) extracomunitari(e), che potranno beneficiare dell'assegno di maternità al pari dei(lle) cittadini(e) italiani(e) solo se in possesso della carta di soggiorno.

Appare innanzitutto frutto di un madornale errore del legislatore il mancato inserimento delle donne rifugiate riconosciute ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 tra i beneficiari dell'assegno di maternità. I rifugiati, infatti, non possono automaticamente accedere alla carta di soggiorno, a meno che non corrispondano ai requisiti - di residenza, reddituali, alloggiativi e penali - richiesti agli immigrati in generale, non essendo stato ancora approvato dal Parlamento il DDL sull'asilo che prevede il rilascio a loro favore della carta di soggiorno per il solo fatto del riconoscimento in Italia della qualifica prevista dalla convenzione internazionale di Ginevra del 1951.

L'esclusione dei rifugiati politici riconosciuti ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 dagli assegni familiari e per maternità costituisce dunque una diretta violazione innanzitutto dell'art. 23 della Convenzione medesima che prevede il trattamento riservato ai cittadini per quanto concerne l'assistenza sociale. Inoltre, vale la pena rilevare che anche la Convenzione Europea sull'Assistenza Sociale e Medica, ratificata e resa esecutiva in Italia, stabilisce il principio di eguaglianza di trattamento con riferimento non solo ai cittadini degli Stati contraenti, ma anche ai rifugiati secondo la Convenzione di Ginevra del 1951.

In virtù del principio di "riserva di legge rinforzata" di cui all'art. 10.2 della Costituzione, per cui le disposizioni interne attinenti alla condizione giuridica dello straniero debbono conformarsi ai principi sanciti dalle norme e dai trattati internazionali, che risultano quindi di immediata applicazione nel nostro ordinamento e hanno portata prevalente rispetto alle norme interne eventualmente contrastanti, appare evidente che il giudice chiamato eventualmente ad esprimersi su un ricorso presentato da un/a rifugiato/a avverso l'esclusione sua personale o del nucleo familiare dall'assegno familiare o per maternità non potrebbe che disapplicare il carattere discriminatorio della normativa interna ovvero sollevare una questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale.

Per quanto attiene, infine, ai cittadini extracomunitari, residenti regolarmente nel nostro Paese, ma in possesso del solo permesso di soggiorno di lunga durata per lavoro o famiglia, la discriminazione operata nei loro confronti dalle disposizioni in materia di assegno familiare e per maternità appare illegittima alla luce dell'art. 41 del Testo unico n. 286/98 in materia di immigrazione e condizione giuridica dello straniero extracomunitario, che prevede "l'equiparazione ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale". Avendo il legislatore conferito alle disposizioni contenute nel TU il carattere di norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica (art. 1 c.4 D.lgs. n. 286/98), non si vede come possa trovare giustificazione e legittimità la deroga sostanziale al principio di parità di trattamento in materia di assistenza sociale introdotta dalla disposizione contenuta nella legge finanziaria 1998/99 e ribadita da quella dell'anno successivo, anche se successiva temporalmente al TU. Vale la pena citare, inoltre, come la Corte Costituzionale abbia già avuto modo di esprimersi in merito alla portata estensiva del principio di parità di trattamento con i cittadini italiani per i cittadini extracomunitari regolarmente residenti, nella sentenza n. 454/98 : "Una volta che i lavoratori extracomunitari siano autorizzati al lavoro subordinato stabile in Italia, godendo di un permesso di soggiorno rilasciato a tale scopo o di altro titolo che consenta di accedere al lavoro subordinato nel nostro Paese, e siano posti a tal fine in condizioni di parità con i cittadini italiani, e così siano iscritti o possano iscriversi nelle ordinarie liste di collocamento(…), essi godono di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori italiani".

E' auspicabile, dunque, che nei prossimi mesi vengano promossi ricorsi dinanzi al giudice unico civile avverso provvedimenti di esclusione di rifugiati politici o cittadini extracomunitari in possesso di PdS, dai benefici introdotti dalla legge finanziaria 1998/99, così come modificati da quella per l'anno 2000, in materia di assegno familiare e per maternità, confidando che per le vie giudiziarie si potrà trovare rimedio ad un'odiosa, irragionevole ed infondata discriminazione che il legislatore ha voluto introdurre e poi solo parzialmente rettificare. Si ricorda che le richieste per l'erogazione degli assegni famigliari e di maternità per l'anno 1999 possono essere presentate entro il 21 marzo 2000.

16. Definiti tutti gli strumenti giuridici per l'istituzione in ciascuna provincia dei Consigli territoriali per l'immigrazione previsti dalla legge sull'immigrazione.

Con il varo del DPCM 18.12.1999 (in GU n. 13 del 18.01.2000) sono stati completati tutti gli adempimenti giuridici necessari per l'istituzione in ciascuna provincia dei Consigli territoriali per l'immigrazione, previsti dall'art. 3 comma 6 del TU e la cui composizione è stata specificata dall'art. 57 del regolamento di attuazione (DPR 31.08.1999, n. 394). I consigli territoriali per l'immigrazione sono organi a carattere meramente consultivo, presieduti dal Prefetto della provincia, e ai quali spetteranno compiti di analisi delle esigenze e di promozione degli interventi a livello locale. Il regolamento di attuazione della legge sull'immigrazione prevede che tali consigli siano composti dai rappresentanti dei competenti uffici periferici delle amministrazioni dello Stato, dal Presidente della provincia, da un rappresentante della Regione, dal sindaco del comune capoluogo e uno dei comuni della provincia, dai rappresentanti delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro, delle associazioni di immigrati e degli enti e associazioni attive nel campo dell'assistenza agli immigrati. Ora spetta ai Prefetti procedere alla nomina dei componenti dei Consigli su designazione delle amministrazioni, organizzazioni, associazioni ed enti interessati.

17. Definiti i criteri e le modalità per la selezione ed il finanziamento dei programmi di assistenza ed integrazione sociale a favore delle vittime della tratta di donne e minori ai fini di sfruttamento sessuale, in relazione all'attuazione delle misure di protezione sociale di cui all'art. 18 del TU sull'immigrazione. Già venuti in scadenza il 27 dicembre scorso i termini per la presentazione di domande di finanziamento dei progetti per l'anno 1999.

L'uscita del regolamento applicativo della legge sull'immigrazione "corregge" quanto affermato in una precedente circolare amministrativa del Ministero dell'Interno circa le modalità del rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Prevista la sospensione dell'eventuale espulsione pregressa nell'ipotesi in cui per lo straniero sia proposta l'adozione delle misure di protezione sociale.

Con decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Ministro per le pari opportunità- 23 novembre, 1999 (in GU n. 291 dd. 13.12.1999) sono stati fissati i criteri e le modalità per la selezione dei programmi di assistenza e di integrazione sociale delle vittime del traffico di donne e minori ai fini di sfruttamento sessuale, che possono beneficiare delle particolari norme di protezione sociale di cui all'art. 18 del TU delle disposizioni concernenti l'immigrazione. In base a quanto previsto dal suddetto decreto, sono ammissibili al finanziamento due tipologie di programmi di assistenza ed integrazione sociale così di seguito definite: a) azioni di sistema; b) programmi di protezione sociale.

Per i primi si intendono interventi volti all'informazione, alla sensibilizzazione sul fenomeno, alla formazione professionale degli operatori, al monitoraggio degli interventi, alla promozione di iniziative di cooperazione internazionale con i paesi interessati. Per i secondi si intendono i programmi rivolti specificatamente ad assicurare un percorso di assistenza e protezione allo straniero che intenda sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti di soggetti dediti al traffico di persone, in particolare donne e minori, anche al fine di consentirgli l'accesso allo speciale permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale di cui all'art. 18 del TU, secondo le modalità applicative previste dall'art. 27 del regolamento di esecuzione (Dpr. N. 394/99). Alle azioni di sistema sarà destinata una quota delle risorse disponibili non superiore al 25% e comunque potranno essere finanziati soltanto progetti proposti da soggetti pubblici, mentre ai finanziamenti per i progetti relativi ai programmi di protezione sociale potranno accedere oltre ai soggetti pubblici (regioni, province, comuni, consorzi), anche i privati iscritti nell'apposita sezione del registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati di cui all'art. 52 comma 1 lettera c) del DPR 31.08.1999, n. 394. Non essendo state ancora definite le modalità operative per la tenuta del suddetto registro, per le richieste di contributi relative all'esercizio finanziario 1999 non si è tenuto conto di detto requisito. I progetti saranno valutati da un'apposita commissione interministeriale prevista dall'art. 25 comma 2 del DPR n. 394/99, istituita con decreto 11 novembre 1999, e di cui fanno parte rappresentanti dei ministeri delle pari opportunità, per la solidarietà sociale, dell'interno e di grazia e giustizia. I termini e le modalità per la presentazione dei progetti saranno di volta in volta comunicati con appositi avvisi del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, consultabili anche sul sito Internet: //www.palazzochigi.it/pariopportunita/strumenti/tratta.htm. Si fa tuttavia presente che per i contributi relativi all'esercizio finanziario 1999, i termini di presentazione delle domande sono già scaduti lo scorso 27 dicembre.

Il regolamento applicativo della legge sull'immigrazione ha chiarito definitivamente l'esistenza di due distinte procedure di rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, a seconda che la proposta provenga dai servizi sociali dell'ente locale o dalle associazioni riconosciute, ovvero dal procuratore della Repubblica. Nel primo caso la decisione del questore circa l'esistenza dei presupposti di legge per il rilascio del permesso di soggiorno verrà adottata senza che sia necessario acquisire il parere del Procuratore della Repubblica e prima, dunque, che venga avviato un eventuale procedimento penale. Viene così smentita una circolare del Ministero dell'Interno (n. 300 dd. 25.10.1999), emanata prima dell'uscita del regolamento applicativo, che disponeva l'obbligatorietà del parere del procuratore della Repubblica anche nei casi di richiesta di adozione delle misure di protezione proveniente dai servizi sociali o dal volontariato. Tuttora valida invece l'indicazione contenuta nella suddetta circolare sulla sospensione dell'eventuale espulsione pregressa dello straniero ritenuto meritevole delle misure di protezione sociale, a meno che l'espulsione non sia stata disposta per motivi di ordine e sicurezza pubblica.

Per ulteriori precisazioni e commenti sulla materia del rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, si rimanda all'articolo di Maria Grazia Giammarinaro, pubblicato sul numero 4/1999 della rivista "Diritto, Immigrazione e Cittadinanza" (Franco Angeli editore).

18. Consegnata al Governo italiano la relazione della Commissione per le politiche di integrazione contenente le proposte di modifica della legislazione sull'acquisto della cittadinanza italiana.

La Commissione per le politiche di integrazione, presieduta dalla prof.ssa Giovanna Zincone, ha consegnato al Ministero per la Solidarietà Sociale che l'aveva commissionata, la relazione contenente le proposte di modifica delle modalità di acquisto della cittadinanza italiana attualmente previste dalla legge n. 91/92. La relazione constata innanzitutto che le legislazioni sulla cittadinanza dei paesi europei tendono sempre più a convergere su quattro punti: a) favorire i minori nati sul territori, cioè le seconde e ancor più le terze generazioni di immigrati; b) facilitare l'acquisizione della cittadinanza per gli stranieri non comunitari se residenti da lungo tempo e integrati nel paese di immigrazione; c) scoraggiare i matrimoni di comodo; d) attuare la parità tra uomo e donna.

La Commissione rileva in proposito che sui primi due punti, l'Italia è decisamente più severa di altri paesi, dando spazio assai limitato all'acquisto della cittadinanza per nascita sul territorio dello Stato (principio dello jus soli) e prevedendo criteri e requisiti particolarmente severi ed esigenti in materia di naturalizzazione, a partire da quello della residenza decennale (il termine più elevato previsto nell'Unione Europa). La nostra legislazione, sostiene la Commissione, è invece decisamente più generosa sulla naturalizzazione per matrimonio, contraddicendo anche le linee suggerite dal Consiglio di Europa sulla cittadinanza e dal Consiglio dei Ministri dell'Unione sulla lotta ai matrimoni di comodo. Prendendo spunto dal parere di molti studiosi, secondo cui la doppia cittadinanza costituisce un forte incentivo alle naturalizzazioni e, dunque, all'integrazione degli immigrati, la Commissione auspica il ritiro della circolare del Ministero dell'Interno (n. K.60.1 dd. 22.11.1994) che prevede lo svincolo dalla cittadinanza di origine quale condizione per la concessione della cittadinanza italiana per naturalizzazione. Le considerazioni e le proposte contenute nella relazione della "Commissione Zincone" intendono avviare una discussione su una nuova normativa sulla cittadinanza che sappia "inserirsi in un progetto più ampio di integrazione ragionevole degli immigrati nella società italiana, un progetto che non pretenda assimilazioni culturali a tappe forzate, ma richieda il rispetto della legalità e la disponibilità ad apprendere gli strumenti necessari ad interagire con la società in cui si risiede e si intende vivere". Copia della relazione della Commissione può essere richiesta alla segreteria dell'ASGI (tel. e fax 040/382651, e-mail: ledaz@tin.it ).

19. Il regolamento di attuazione della legge sull'immigrazione limita le possibilità di ricorso all'autocertificazione da parte dei cittadini extracomunitari che erano state prefigurate in base alle circolari dei Ministeri dell'Interno, di Grazia e Giustizia e dei Trasporti e della Navigazione, applicative delle norme in materia di semplificazione amministrativa . Una circolare del Ministero dell'Interno specifica che anche la dimostrazione della residenza anagrafica in Italia può essere oggetto di autocertificazione da parte dei cittadini extracomunitari

L'art. 2 del regolamento di attuazione del TU in materia di immigrazione (Dpr n. 394/99), rubricato "Rapporti con la pubblica amministrazione", limita l'accesso alle norme sull'autocertificazione per i cittadini extracomunitari nei soli casi relativi a stati, fatti e qualità personali certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici o privati italiani (tra cui ad esempio il possesso del permesso di soggiorno in corso di validità, tranne nei casi in cui sia prescritto l'obbligo di esibirlo), fatte comunque salve le disposizioni del testo unico o del regolamento medesimo che prevedano l'esibizione o la produzione di specifici documenti. Negli altri casi - prosegue il regolamento- qualora si tratti di certificare o attestare stati, fatti, o qualità personali diversi da quelli sopraindicati, il cittadino extracomunitario è tenuto necessariamente a esibire i certificati o le attestazioni rilasciate dalla competente autorità dello Stato estero, corredati di traduzione in lingua italiana autenticata dall'autorità consolare italiana, che deve attestare la conformità del documento all'ordinamento locale.

Il regolamento di attuazione delle norme sull'immigrazione sembra così escludere le specifiche ed aggiuntive modalità di accesso all'autocertificazione da parte dei cittadini extracomunitari previste dall'art. 5 del decreto del Ministero di Grazia e Giustizia 22 maggio 1995, n. 431, "mediante dichiarazioni rese dinanzi ai funzionari dei consolati dei paesi d'origine, sulla base del mutuo riconoscimento e fatto comunque salvo quanto previsto dalle vigenti Convenzioni internazionali in materia di legalizzazione e di autenticazione di documenti e di firme". In base a tali disposizioni, all'autocertificazione resa dinanzi alle sedi consolari in Italia dei paesi di origine degli stranieri seguirebbe la facoltà delle autorità italiane di effettuare i controlli sulla loro veridicità, ricorrendo alle competenti autorità diplomatiche e consolari italiane all'estero.

Pari disposizioni erano contenute nella circolare del Ministero dei Trasporti e della Navigazione, diramata in data 24 marzo 1999 (G.U. 15.07.1999, n. 164) sempre con riferimento all'attuazione delle disposizioni sulla semplificazione amministrativa (leggi n. 127/97, 191/1998, D.P.R. 20.10.1998 n. 403), in aggiunta alle istruzioni già impartite con circolare del Ministero di Grazia e Giustizia del 22.02.1999 (G.U. 25.02.1999 n. 46) e del Ministero dell'Interno del 21.01.1999.

Il 23 febbraio 1999 infatti sono entrate in vigore le norme di semplificazione amministrativa che hanno esteso l'autocertificazione, innanzi a qualsiasi pubblica amministrazione, ivi compreso nelle procedure amministrative di competenza della motorizzazione civile, ad una serie di dati o qualità personali, quali le situazioni anagrafiche e di stato civile, i titoli di studio, la situazione reddituale e lavorativa, ecc.

Le medesime disposizioni hanno apportato significative modifiche alle norme sulle dichiarazioni sostitutive di atto notorio, le quali se corrispondenti a dichiarazioni di conoscenza relative all'avvenuto accadimento di eventi materiali, circostanze, o a situazioni giuridicamente rilevanti (e non dunque a manifestazioni di volontà, quali procure, deleghe, che restano di competenza notarile), possono essere effettuate direttamente dinanzi al funzionario dell'ufficio della pubblica amministrazione competente per la presentazione di una determinata istanza.

La circolare del Ministero dell'Interno dd. 22.06..1999 ha stabilito che anche ai fini della dimostrazione della residenza in Italia, i cittadini extracomunitari non sono tenuti ad esibire la relativa certificazione, potendo avvalersi delle norme sulle dichiarazioni sostitutive.

Per quanto concerne i cittadini di paesi appartenenti all'Unione Europea, le norme sulla semplificazione amministrativa si applicano con le stesse modalità previste per cittadini italiani.

L'autocertificazione non veritiera comporta la fattispecie dei reati di dichiarazione mendace, di falsità in atti o di uso di atti falsi, puniti ai sensi del Codice penale e delle leggi speciali in materia (art. 26 l. 15/68), così come il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguiti da provvedimenti emanati sulla base delle dichiarazioni mendaci rese (art. 11 comma 3 Dpr 403/98).

20. Con l'entrata in vigore del regolamento di attuazione e della direttiva sulla programmazione dei flussi di ingresso finalmente operativa la disciplina sul riconoscimento dei titoli di studio ai fini dell'esercizio delle libere professioni da parte di cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti.

L'entrata in vigore del regolamento di attuazione della legge sull'immigrazione (DPR n. 394/99) dovrebbe rendere finalmente operativa la disciplina del riconoscimento dei titoli di studio professionali ai fini dell'esercizio delle professioni in Italia da parte di cittadini extracomunitari, di cui all'art. 37 del D.L.vo. n. 286/98. In base a quanto previsto dall'art. 49.2 del regolamento, per le procedure di riconoscimento dei titoli in possesso dei cittadini stranieri, regolarmente soggiornanti in Italia, che intendono iscriversi agli ordini, colleghi o elenchi professionali, si applicheranno le disposizioni emanate con riferimento ai cittadini comunitari, di cui ai decreti legislativi 27 gennaio 1992, n. 115 (per le professioni che richiedono un ciclo completo di studi universitari) e 2 maggio 1994, n. 319 (per le professioni che richiedono un titolo di studio secondario o una "laurea breve"). Alla luce di tali riferimenti normativi, il Ministero competente, previo parere della conferenza di servizi prevista dai decreti citati, potrà subordinare il riconoscimento ad una misura compensativa consistente nel superamento di una prova attitudinale. In ogni caso, l'iscrizione di cittadini stranieri agli ordini professionali viene ammessa solo entro il sistema delle quote annuali di programmazione dei flussi di ingresso. La direttiva del 6 agosto scorso per la programmazione dei flussi in Italia di cittadini extracomunitari per motivi di lavoro per l'anno 1999, ha consentito l'ingresso a 3.500 lavoratori autonomi, incluso l'accesso alle libere professioni di coloro già regolarmente soggiornanti.

Il regolamento fissa disposizioni particolari per l'esercizio delle professioni sanitarie da parte dei cittadini stranieri extracomunitari che abbiano ottenuto il riconoscimento dei titoli (art. 50), contemplando una deroga al requisito della cittadinanza italiana per l'assunzione da parte dei presidi e delle istituzioni pubbliche, con la manifesta finalità di risolvere in tal modo la carenza di personale infermieristico in talune aziende ed unità sanitarie locali. Con decreto del Ministero della Sanità dd. 18.11.1998, n. 514 (G.U. 08.03.1999, n. 55) era stato precedentemente fissato in 120 giorni il termine entro il quale deve concludersi il procedimento amministrativo relativo ad istanze di riconoscimento (equipollenza) di titoli di studio acquisiti in paesi extracomunitari, per lo svolgimento delle professioni sanitarie in Italia, da parte di cittadini italiani, immigrati extracomunitari o rifugiati politici. L'ufficio competente per detto procedimento è il Dipartimento delle professioni sanitarie, delle risorse umane e tecnologiche in sanità e dell'assistenza sanitaria di competenza statale, ufficio III.

In base a quanto previsto dai decreti legislativi citati n. 115/92 e 319/94, il Ministero della Giustizia è competente per il riconoscimento dei titoli professionali per le attività fra l'altro di avvocato, commercialista, biologo, chimico, agronomo, geologo, ingegnere, psicologo, consulente del lavoro, ragioniere, geometra, perito agrario ed industriale, giornalista; il Ministero dell'industria per le attività di consulente della proprietà industriale e di mediatore al commercio, il Ministero dell'Istruzione per le attività di insegnamento.

21. Decretata la ripartizione dello stanziamento del Fondo per le politiche migratorie per le politiche di accoglienza e d'integrazione promosse dalle Regioni, l'assistenza ai rifugiati temporanei dalla Repubblica Federale di Jugoslavia (Kosovo) da parte del Ministero dell'Interno, l'accoglienza di immigrati e profughi nella regione Puglia, gli interventi del Dipartimento Affari Sociali ed il funzionamento del Comitato per la tutela dei minori stranieri, nonché per le attività del CNEL in materia di immigrazione e le necessità della Commissione per le politiche di integrazione.

Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 agosto 1999 (in G.U. 12.11.1999 n. 266), è stato ripartito lo stanziamento del Fondo per le politiche migratorie di cui all'art. 45 del TU sull'immigrazione per l'anno 1999.

Quasi 54 miliardi e mezzo sono stati destinati alle regioni per le politiche di accoglienza e integrazione, in base ad una ripartizione condotta secondo tre parametri: la presenza degli immigrati sul territorio (peso 60%); il rapporto tra immigrati e popolazione locale (10%); la condizione socio-economica delle aree di riferimento - indice di disoccupazione - (peso 30%).

A questo riguardo, nel corso del mese di luglio il CNEL aveva denunciato le inadempienze e i ritardi delle Regioni nell'utilizzo dei fondi messi a disposizione dal governo sul capitolo immigrazione per l'anno1998. Al 30 giugno 1999 -secondo i dati del CNEL - soltanto dieci regioni avevano approvato le delibere per la destinazione delle risorse più altre tre in qualche modo avevano messo in moto il meccanismo per l'uso dei fondi. Nel rapporto del CNEL veniva denunciata anche un'assenza di programmazione e di scelte di priorità da parte delle Regioni che avevano deliberato l'utilizzo dei fondi. Ciò aveva provocato l'insoddisfazione dei comuni e degli enti locali che avevano chiesto che le risorse del fondo per le politiche migratorie fossero loro messe direttamente a disposizione senza essere filtrate attraverso le amministrazioni regionali, tacciate di inadempienza ed inefficienza. Il CNEL continua a monitorare le politiche di integrazione sociale degli stranieri, attraverso il funzionamento e l'attuazione di un apposito organismo nazionale di coordinamento (ONC), per il cui finanziamento sono stati destinati 500 milioni dal Fondo per le politiche migratorie.

Dal suddetto Fondo sono stati assegnati inoltre 4 miliardi al Ministero dell'Interno per le attività di assistenza ai rifugiati provenienti dal Kosovo in base al DPCM 12.05.1999 sulla protezione temporanea, mentre per la realizzazione di strutture di prima accoglienza volte a fronteggiare l'emergenza degli arrivi di immigrati e profughi sulle coste pugliesi sono stati assegnati 2 miliardi alla Regione Puglia e 250 milioni al comune di Lecce. Quasi 6 miliardi sono invece destinati alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per gli Affari Sociali, anche con il fine di finanziare il funzionamento della Consulta per i problemi degli stranieri, nonché il Comitato per la tutela dei minori stranieri, chiamato ad affrontare i complessi problemi legati alla gestione dei minori stranieri non accompagnati e ai programmi per il loro eventuale "rimpatrio assistito". Infine, 900 milioni sono stati destinati per le necessità della Commissione per le politiche di integrazione, prevista dall'art. 46 del TU e che recentemente ha presentato pubblicamente il suo rapporto annuale.

22. Soppresso definitivamente a partire dal 1 gennaio 2000 il prelievo sulla busta paga a carico del lavoratore extracomunitario nella misura dello 0,5%, previsto dall'art. 13 comma 2 della legge n. 943/86.

Come confermato dalle circolari emanate dall'INPS (17 dicembre 1998 n. 258, 26 marzo 1999, n. 67), in ottemperanza a quanto previsto dall'art. 45.3 del TU sull'immigrazione, a partire dal 1 gennaio 2000 i lavoratori extracomunitari non sono più assoggettati al prelievo obbligatorio sulla busta paga previsto nella misura dello 0,5% dall'art. 13 comma 2 della legge n. 943/86 al fine dell'istituzione di un fondo per il rimpatrio volontario presso l'INPS. Tale fondo nel corso della sua esistenza è stato utilizzato solo in minima parte, per il rimpatrio di qualche decina di salme di cittadini extracomunitari. Con l'entrata in vigore della legge n. 40/98, è stato previsto un periodo transitorio durante il quale tale contributo obbligatorio a carico dei lavoratori extracomunitari è stato destinato a diverso scopo, andando a finanziare il fondo nazionale per le politiche migratorie, fino alla definitiva soppressione, a decorrere appunto dal 1 gennaio 2000.

23. Una storica sentenza della Corte di Cassazione estende il principio della risarcibilità del danno subito dal cittadino in relazione ad atti della Pubblica Amministrazione che abbiano leso "interessi legittimi". Le possibili applicazioni nel campo della tutela degli immigrati.

In virtù di una giurisprudenza consolidata, la risarcibilità del "danno ingiusto" (prevista dall'art. 2043 del Codice Civile) provocato da un atto della Pubblica Amministrazione poteva essere invocata ed ottenuta in sede giudiziaria solo in caso di lesione di diritti soggettivi e non di interessi legittimi. Con una storica sentenza resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. N. 500 del 27 luglio 1999) tale orientamento è stato superato, venendo meno quella che i giudici stessi hanno definito come "un'isola di immunità e di privilegio" di cui godeva la Pubblica Amministrazione e che "mal si concilia con le esigenze più elementari di giustizia".

In pratica, per tutti gli atti amministrativi che producevano un danno ai cittadini, si poteva chiedere solo l'annullamento da parte del giudice amministrativo (TAR e Consiglio di Stato), senza però ricevere alcun risarcimento. D'ora in avanti, invece, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione, il cittadino che si ritiene vittima di un danno ingiusto prodotto da un atto della PA che abbia violato un suo interesse legittimo, sia a carattere oppositivo (che mira cioè ad evitare un provvedimento sfavorevole) che pretensivo (che voglia ottenere un provvedimento favorevole), potrà proporre dinanzi al giudice ordinario un'azione risarcitoria ex art. 2043 CC.

Il risarcimento potrà essere disposto dal giudice solo previo accertamento non solo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, bensì in base ad una più complessa valutazione, estesa anche all'accertamento della colpa della PA, che presuppone la violazione delle regole di imparzialità, correttezza e di buona amministrazione cui la PA deve riferirsi nell'esercizio delle sue funzioni. Poiché l'accertamento diretto da parte del giudice ordinario dell'illegittimità dell'azione amministrativa è un elemento costitutivo della valutazione attinente la sussistenza del "danno ingiunto", la sentenza della Corte di Cassazione apre la strada alla possibilità per il cittadino di rivolgersi direttamente al giudice ordinario anche a prescindere dalla declaratoria di illegittimità del provvedimento da parte del giudice amministrativo, naturalmente nei casi in cui non sia prevista la giurisdizione piena ed esclusiva del secondo in base al D.L.vo n. 80/1998.

La sentenza della Corte di Cassazione è suscettibile di possibile ed estese applicazioni anche nel campo della tutela degli interessi legittimi dei cittadini immigrati extracomunitari rispetto ad atti lesivi prodotti dalla Pubblica Amministrazione. Si pensi al caso del cittadino immigrato che si veda rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno ovvero che questo gli venga illegittimamente revocato e da questo atto degli uffici di polizia gli derivi un danno economico, quale la perdita del posto di lavoro precedentemente posseduto. Finora tale cittadino poteva soltanto chiedere l'annullamento del provvedimento di rifiuto/revoca del permesso di soggiorno al giudice amministrativo e, anche in caso di esito favorevole, magari dopo diversi anni, non aveva diritto ad alcuna forma di risarcimento. Oggi, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione, potrebbe rivolgersi direttamente al giudice ordinario (civile) per chiedere il risarcimento dei danni in base alla nuova lettura dell'art. 2043 del Codice Civile, e l'eventuale esito favorevole implicherebbe anche la dichiarazione di illegittimità dell'atto amministrativo.

24. Stanziati 30 miliardi per fronteggiare l'emergenza invernale riguardante le persone in stato di povertà e senza dimora.

Sono 30 i miliardi che il governo ha stanziato per il soccorso, l'accoglienza e l'assistenza degli homeless in Italia. L'ordinanza emanata il 21 gennaio cerca di dare una soluzione all'emergenza nella quale si sono ritrovate le persone senza fissa dimora, emergenza resa ancor più dura dal gelo e dal maltempo che hanno colpito l'Italia nei primi giorni di gennaio. I 30 miliardi saranno utilizzati dunque per soccorso, assistenza e accoglienza dei senza fissa dimora da parte di enti, associazioni di volontariato e di altri organismi senza scopo di lucro che operano nel settore. I fondi inoltre serviranno per realizzare centri e servizi di pronta accoglienza insieme a interventi socio-sanitari, servizi per l'accompagnamento e l'eventuale reinserimento delle persone nella rete di strutture di protezione sociale. I sindaci dei comuni capoluogo delle aree metropolitane sono nominati commissari delegati. La ripartizione geografica delle risorse finanziarie è stata fatta tenendo conto della popolazione residente e dell'estensione territoriale. Si tratta di : Torino (3600 milioni); Milano (4200 milioni) ; Venezia (800 milioni) ; Genova ( 1200 milioni ) ; Roma (5500 milioni) ; Bari ( 1000 milioni ) ;Bologna (1000 milioni) ; Firenze (1200 milioni) ; Napoli (3700 milioni) ; Trieste ( 600 milioni) ; Cagliari (600 milioni); Palermo (1000 milioni) , Catania (800 milioni) e Messina ( 600 milioni) La somma residua pari a quattro miliardi sarà ripartita in un secondo tempo con un decreto del Ministro per al solidarietà sociale, in base al rapporto analitico sullo stato di attuazione degli interventi.

25. Entrata in vigore il 18 gennaio 2000 nella sua interezza la legge 12 marzo 1999, n. 68 recante nuove norme per il diritto al lavoro dei disabili che riforma il sistema del collocamento obbligatorio. I cittadini extracomunitari invalidi civili pienamente equiparati ai cittadini italiani per l'accesso a tali agevolazioni all'inserimento nel mercato del lavoro. Definiti i criteri e le modalità per gli adempimenti informativi periodici cui sono soggetti i datori di lavoro.

Il 18 gennaio 2000 è entrata in vigore nella sua interezza la legge che stabilisce "le norme per il diritto al lavoro dei disabili" (legge 12 marzo 1999, n. 68 Suppl. G.U. n. 57/L dd. 23.03.1999), abrogativa della legge n. 482/1968 e che rivede l'intero sistema del collocamento obbligatorio. In base alle nuove norme, i datori di lavoro con oltre 50 dipendenti sono tenuti ad assumere persone invalide nella misura del 7 per cento del proprio personale, mentre quelli con un numero di dipendenti compreso tra 35 e 50 sono tenuti ad assumere almeno due persone disabili e quelli con un numero di dipendenti di almeno 15 ed inferiore a 35 almeno una persona disabile. L'assunzione di persone disabili, oltre ad evitare le sanzioni previste nei casi di trasgressione, comporta per i datori di lavoro incentivi sotto forma di sgravi contributivi. Il collocamento obbligatorio viene decentrato alle Regioni. Vista la perdurante mancanza di tre regolamenti attuativi previsti dalla normativa, il principale dei quali deve superare ancora l'esame del Consiglio di Stato prima di essere varato definitivamente dal Consiglio dei Ministri, il Ministro del Lavoro, Cesare Salvi, si è visto costretto il 17 gennaio ad emanare una circolare amministrativa per rendere effettivamente operanti le norme previste dalla legge (Circolare n. 4/2000). Il testo della circolare è consultabile sul sito della rivista "Vita": www.vita.it .

A questi incentivi all'inserimento nel mercato del lavoro possono concorrere i cittadini extracomunitari invalidi civili in regola con il soggiorno in Italia, a parità di condizioni con il cittadino italiano. Con sentenza n. 454 dd. 30 dicembre 1998, pubblicata sulla G.U. Serie speciale dd. 13.01.1999, la Corte Costituzionale ha infatti a riconosciuto il diritto dei cittadini extracomunitari invalidi civili di iscriversi alle liste del collocamento obbligatorio disciplinate a suo tempo dalla legge n. 482/1968., alla pari dei cittadini italiani. La Corte Costituzionale ha ritenuto illegittima la posizione del Ministero del Lavoro che si ostinava a negare l'accesso degli stranieri extracomunitari al collocamento obbligatorio, rilevandone il contrasto con i principi di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità dei lavoratori extracomunitari regolarmente soggiornanti rispetto ai cittadini italiani, stabiliti già con l'adesione e la ratifica dell'Italia alla Convenzione n. 143 dell'OIL, successivamente ribaditi dalla legge n. 943/86 e, da ultimo, con la legge n. 40/1998, che è andata ancora più in là, stabilendo per gli stranieri extracomunitari la garanzia del godimento dei diritti in materia civile in condizioni di piena uguaglianza con i cittadini italiani.

Con decreto 22.11.1999 del Ministero del Lavoro (in GU 17.12.1999 n. 295) sono state definite le modalità e i criteri di periodicità per la trasmissione dei prospetti informativi da parte dei datori di lavoro, dai quali risultino il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, il numero e i nominativi dei lavoratori computabili nella quota di riserva in favore dei lavoratori beneficiari della disciplina sulle assunzioni obbligatorie, nonché i posti di lavoro e le mansioni ancora disponibili per quelli disabili. Tali prospetti saranno trasmessi entro il 31 gennaio di ogni anno al servizio apposito istituito presso le Regioni al fine di consentire le dovute azioni di controllo sull'effettiva applicazione delle norme. Limitatamente all'anno 2000, il termine per l'invio dei prospetti informativi è differito al 31 marzo.

26. Varate le disposizioni in attuazione della normativa comunitaria in materia di libertà di

circolazione e stabilimento dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi,

certificati ed altri titoli.

Con Decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368 (in G.U. dd. 23.10.1999 n. 250), in attuazione della direttiva comunitaria 93/16/CEE, sono state emanate le disposizioni in materia di libertà di circolazione e di stabilimento in Italia dei medici, cittadini di altri Stati membri dell'Unione Europea, e di riconoscimento dei loro diplomi, certificati e titoli di studio.

Il decreto include quattro allegati, nei quali sono specificati, paese per paese, i diplomi, certificati o titoli riconosciuti in Italia per l'accesso all'attività di medico chirurgo, medico chirurgo specialista, medico chirurgo di medicina generale nell'ambito del Servizio Sanitario Nazionale. Il decreto specifica le condizioni e le caratteristiche della formazione dei medici chirurghi, di quelli specialisti e di quella specifica in medicina generale, anche al fine dell'identificazione dei requisiti minimi per il riconoscimento dei titoli esteri comunitari. Speciali deroghe vengono previste per titoli che sanciscono una formazione iniziata anteriormente a determinate scadenze, in virtù del principio dei diritti acquisiti (art. 6) Al riconoscimento del titolo provvede il Ministero della Sanità entro tre mesi. Per esercitare il successivo diritto di stabilimento, l'interessato deve, entro sessanta giorni dalla comunicazione ministeriale, chiedere l'iscrizione all'ordine provinciale dei medici chirurghi, che deve provvedervi entro i successivi tre mesi (art. 33).

 

IMMIGRAZIONE E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

27. La "legge Bassanini" ed il riordino delle competenze statali in materia di immigrazione.

Istituita a partire dal 1 gennaio 2000 in seno al Ministero Affari Esteri la Direzione generale per gli italiani all'estero e le politiche migratorie.

(a cura di Paolo Bonetti)

Il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (pubblicato in G.U. 30 agosto 1999, suppl. ord.) provvede alla storica riforma del numero, delle attribuzioni e dell’organizzazione di tutti i ministeri in attuazione della delega legislativa disposta dalla legge n. 59/1997 (c.d. "legge Bassanini") e in tale sede si occupa anche delle competenze statali in materia di immigrazione.

La quarta area funzionale del Ministero dell’Interno, a cui corrisponderà l’istituzione di un apposito dipartimento che sostituirà tutte le precedenti strutture organizzative, si occuperà della tutela dei diritti civili, inclusi i rapporti con le confessioni religiose, nonché di cittadinanza, immigrazione e asilo (art. 14, comma 2, D. lgs. n. 300/1999).

Il riferimento alla materia della "cittadinanza" sembra alludere alle previgenti competenze del Ministero riguardo ai procedimenti di concessione della cittadinanza italiana e di riconoscimento dello stato di apolidia, mentre le materie "asilo" e "immigrazione" potrebbero alludere alle funzioni attinenti sia al sistema di ammissione, permanenza e allontanamento degli stranieri (comunitari ed extracomunitari), sia al trattamento degli stessi.

Si potrebbe ritenere pertinenti a tali materie le funzioni attinenti ai servizi sociali conservate allo Stato dall’art. 129, comma 1, lett. h) e l), D. Lgs. n. 112/1998, cioè rispettivamente "gli interventi di prima assistenza in favore dei profughi, limitatamente al periodo necessario alle operazioni di identificazione ed eventualmente fino alla concessione del permesso di soggiorno, nonché di assistenza temporanea degli stranieri da respingere o da espellere" e "le attribuzioni in materia di riconoscimento dello status di rifugiato ed il coordinamento degli interventi in favore degli stranieri richiedenti asilo e dei rifugiati, nonché di quelli di protezione umanitaria per gli stranieri accolti in base alle disposizioni vigenti".

Appare inoltre probabile che tale area funzionale (ed il relativo dipartimento di prossima istituzione) sia destinataria di tutte le competenze attribuite dalle leggi vigenti (cfr. T.U. approvato col D. lgs. n. 286/1998) all’amministrazione centrale del Ministero dell’Interno, incluse quelle attinenti con l’ordine e la sicurezza pubblica (il piano generale degli interventi per il potenziamento ed il perfezionamento dei controlli di frontiera, il decreto di espulsione per motivi di ordine pubblico o sicurezza nazionale, l'autorizzazione al reingresso anticipato degli stranieri espulsi, i contatti con i Paesi di origine degli stranieri anche ai fini della stipula di accordi di riammissione e di politiche migratorie, la definizione dei criteri di reperimento e di gestione dei centri di permanenza e di assistenza in cui devono essere trattenuti gli stranieri extracomunitari respinti o espulsi).

Poiché la materia dell’immigrazione straniera rientra tra le attribuzioni e i compiti che il D. Lgs. n. 300/1999 conferisce anche ad altri ministeri, concreto è il rischio che venga vanificato l'obiettivo della delega legislativa di "eliminare le duplicazioni organizzative e funzionali sia all'interno di ciascuna amministrazione, sia fra di esse".

L’immigrazione è espressamente inclusa tra le attribuzioni del Dipartimento per gli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri che sono trasferite al nuovo Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali (art. 45, comma 3, D. Lgs. n. 300/1999) che sarà istituito dalla prossima legislatura e ingloberà i Ministeri del Lavoro e della Previdenza Sociale e della Sanità e il predetto Dipartimento per gli Affari Sociali. Tra i compiti di tale ministero si include anche la "vigilanza sui flussi di entrata dei lavoratori esteri non comunitari" (art. 46,. comma 1, lett. d)); sulla base della vigente legislazione statale in materia di immigrazione a tale Ministero spettano altresì le competenze in materia di misure di integrazione sociale degli stranieri regolarmente soggiornanti e di gestione degli stanziamenti del fondo nazionale per le politiche migratorie che l’art. 133, comma 3, D. Lgs. n. 112/1998 destina al fondo nazionale per le politiche sociali, le cui risorse sono ripartite secondo criteri stabiliti dallo stesso nuovo ministero (art. 46, comma 1, lett. c) D.Lgs. n. 300/1999).

Ulteriori compiti in materia di immigrazione spettano altresì implicitamente al nuovo Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (che sarà istituito dalla prossima legislatura unificando i Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica), nelle cui aree funzionali sono espressamente menzionati il riconoscimento dei titoli di studio stranieri e le condizioni di accesso al sistema scolastico e alle Università (art. 50 D. Lgs. n. 300/1999).

Si può altresì ritenere che la materia dell’immigrazione si possa considerare implicitamente mantenuta anche tra quelle attribuite al Ministero degli Affari Esteri sotto la voce (impropria) della "emigrazione" (art. 12, comma 1, D. Lgs. n. 300/1999) e tale conclusione può ritenersi scontata sia sulla base della vigente legislazione in materia di immigrazione che attribuisce al Ministero le competenze in materia di rilascio dei visti di ingresso, sia sulla base del recentissimo regolamento (emanato con D.P.R. 11 maggio 1999, n. 267) recante norme per l’individuazione degli uffici di livello dirigenziale generale, nonché delle relative funzioni, dell’Amministrazione centrale del Ministero degli Affari Esteri, il quale espressamente istituisce una direzione generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie, che ha tra i suoi compiti quello di provvedere agli affari consolari e di trattare "le questioni concernenti gli stranieri in Italia". A seguito del decreto Ministero Affari Esteri dd. 10 settembre 1999 (in G.U. 13.10.1999 n. 241), la direzione generale per gli italiani all'estero e le politiche migratorie, istituita a partire dal 1 gennaio 2000, è articolata in sei uffici, di cui il V° riservato alle politiche migratorie e dell'asilo ed il VI° alla questione dei visti. Per il resto nulla si può dire neppure circa le competenze in materia di immigrazione nell’ambito del nuovo ordinamento dell’amministrazione periferica, nella quale sono conservate le Questure e le Prefetture sono trasformate in Uffici territoriali del governo che, pur se inseriti nel Ministero dell’Interno, dipenderanno funzionalmente da ogni ministero ed eserciteranno tutte le competenze statali residue a livello periferico, escluse quelle delle amministrazioni della Pubblica Istruzione (sono soppressi i provveditorati agli studi e istituiti gli uffici scolastici regionali). L’ordinamento concreto dell’Ufficio territoriale del governo è infatti lasciato ad un successivo regolamento governativo. E’ dunque aperta alla possibilità (futura ed incerta) che ben si possano ordinare in modo strutturalmente omogeneo in tali uffici tutti i compiti e funzioni statali in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza, mentre il mantenimento delle figura distinta delle questure rende più improbabile che di tali compiti e funzioni del nuovo Ufficio territoriale del governo possano far parte anche quelli in materia di rilascio, rinnovo, revoca e conversione dei permessi di soggiorno e delle carte di soggiorno che la legge oggi affida al Questore.

ACCORDI INTERNAZIONALI

28. Pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale gli accordi di riammissione delle persone in condizioni di irregolarità stipulati tra l'Italia e rispettivamente la Tunisia, l'Ungheria, l'Estonia.

Sul supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 11 del 15.01.2000 (n. 14) relativo agli atti internazionali entrati in vigore per l'Italia nel periodo 16.09.1999-15.09.1999 non soggetti a legge di autorizzazione alla ratifica, sono stati pubblicati i testi degli accordi di riammissione delle persone in condizione di irregolarità stipulati tra il governo italiano e rispettivamente la Tunisia, l'Ungheria e l'Estonia.

La stipula di accordi di riammissione degli stranieri irregolari è prevista dalla normativa sull'immigrazione (legge n. 40/98), che all'art. 9.4 dispone che "il Ministero degli Affari Esteri ed il Ministero dell'Interno promuovano le iniziative occorrenti, d'intesa con i Paesi interessati, al fine di accelerare l'espletamento degli accertamenti ed il rilascio dei documenti eventualmente necessari per migliorare l'efficacia dei provvedimenti previsti dalla legge", così come all'art. 19.1 ne fa un cenno esplicito.

Gli accordi mirano ad ottenere la collaborazione delle autorità del paese straniero nelle operazioni di rimpatrio dei migranti non autorizzati sottoposti a provvedimento di espulsione o di respingimento alla frontiera, in particolare ai fini dell'ammissione sul territorio, previo eventuale concorso nell'identificazione dei soggetti qualora questi siano privi di documenti di riconoscimento ufficiali che ne attestino identità e nazionalità certe. L'Italia ha intensificato notevolmente negli ultimi anni la stipula di tali accordi con i principali paesi di provenienza o di transito di immigrati (ne risultano attualmente sottoscritti ed in vigore una ventina), quale parte integrante della propria politica migratoria, tesa all'obiettivo di dare maggiore esecutività possibile ai provvedimenti espulsivi intimati, mediante la collaborazione delle autorità dei paesi esteri. Quale incentivo alla stipula di tali accordi, la legge sull'immigrazione prevede l'assegnazione ai lavoratori dei paesi sottoscrittori di quote preferenziali di ingresso nell'ambito della politica di programmazione dei flussi, così come avvenuto con riferimento alla Tunisia, al Marocco e all'Albania negli anni 1998 e 1999 ed annunciato anche per l'anno 2000.

La stipula di tali accordi avviene in forma semplificata con conseguente sottrazione degli stessi alla procedura parlamentare di autorizzazione alla ratifica.

Oggetto di tali accordi bilaterali di riammissione sono innanzitutto i cittadini degli Stati contraenti che ´non soddisfano o non soddisfano più le condizioni di ingresso o di soggiorno applicabili nel territorio della parte contraente richiedenteª. Essendo dunque l'accertamento della cittadinanza il presupposto della riammissione, per l'effettuazione del medesimo l'accordo tra Italia e Tunisia prevede una complessa procedura di identificazione, che verte sulla collaborazione delle autorità diplomatiche e consolari. Queste sono tenute entro termini rigidamente stabiliti a rilasciare il lasciapassare per il rimpatrio in presenza di determinati documenti identificativi della persona espellenda ovvero possono procedere alla sua audizione e, comunque, in mancanza di altri mezzi identificativi, sono tenute a fornire una riposta motivata sull'identità della persona in base alle impronte digitali e alle fotografie inviate dalla parte richiedente. L'accordo con l'Ungheria demanda invece a successive intese o protocolli esecutivi tra i due Ministeri dell'Interno l'individuazione delle modalità e degli elementi che consentano la presunzione della titolarità della cittadinanza della persona espellenda. Una peculiarità dell'accordo con l'Estonia è la previsione della persistenza dell'obbligo di riammissione anche in caso di privazione della cittadinanza (´l'accordo è applicabile anche alle persone che hanno perduto la cittadinanza della parte contraente dopo essere entrati nel territorio dell'altra parte contraente, senza acquisire la cittadinanza di alcun altro Statoª). E' evidente che tale specifica previsione trova le sue ragioni nella specifiche problematiche di apolidia che interessano gli appartenenti alla minoranza russa nella Repubblica baltica.

Comune a tutti gli accordi bilaterali in questione è la presenza di un meccanismo di tutela dello Stato richiesto, operante nel caso di riammissione effettuata sulla base di presupposti errati o inesistenti.

Le spese di trasporto della persona riammessa sono generalmente poste a carico dello Stato richiedente fino alla frontiera della parte richiesta, ma nell'accordo con l'Estonia si stabilisce che debbano essere sostenute da un vettore.

Gli accordi di riammissione prevedono in determinate circostanze e con modalità diverse, l'estensione dell'obbligo di riammissione anche ai non cittadini delle parti contraenti. Nell'accordo con la Tunisia l'obbligo di riammissione sussiste per i cittadini di uno Stato terzo diverso da quelli membri dell'Unione del Maghreb Arabo (U.M.A.) che si trovano in situazione irregolare dal punto di vista delle norme sull'ingresso e soggiorno dello Stato richiedente, i quali ´siano entrati nel territorio della parte richiedente dopo aver soggiornato o dopo essere transitati attraverso il territorio della parte contraente richiestaª. Negli accordi con Estonia ed Ungheria, la riammissione riguarda invece innanzitutto gli stranieri irregolari nello Stato richiedente, i quali dispongano di ´un visto o di un titolo di soggiorno, rilasciati dalla parte contraente richiesta, in corso di validitàª. A questi vanno ad aggiungersi i cittadini di paesi terzi che ´abbiano fatto ingresso illegalmente nel territorio dello Stato richiedente provenendo direttamente dal territorio della parte contraente richiestaª. L'esclusione dall'obbligo di riammissione dei cittadini di paesi membri dell'Unione del Maghreb Arabo, contenuta nell'accordo bilaterale con la Tunisia, si spiega con la volontà da parte tunisina di preservare il regime di relativa libertà di circolazione e di assenza di obbligo di visto instaurato con gli altri paesi maghrebini, in particolare con il Marocco.

Tutti gli accordi di riammissione si preoccupano di individuare alcune clausole ostative all'insorgere dell'obbligo ovvero di decadenza del medesimo:

a) nel caso in cui lo Stato richiedente, prima di presentare la domanda di riammissione, ma dopo la partenza del cittadino straniero dal territorio della parte contraente richiesta, ha rilasciato alla persona in questione un visto o un titolo di soggiorno (accordi con l'Ungheria e l' Estonia);

b) nel caso in cui la persona di cui è richiesta la riammissione ha soggiornato sul territorio della parte richiedente per un periodo superiore a un tempo massimo individuato (quattro mesi nell'accordo con l'Ungheria, un anno nell'accordo con l'Estonia, tre mesi nell'accordo con la Tunisia);

c) nel caso in cui lo Stato richiedente abbia riconosciuto lo status di rifugiato in applicazione della Convenzione di Ginevra del 1951 alla persona di cui è richiesta la riammissione (accordo con l'Ungeria)

Gli accordi bilaterali di riammissione generalmente prevedono l'istituto dell'"ammissione in transito", col quale ciascuna parte contraente si impegna ad autorizzare il transito sul proprio territorio di cittadini di Stati terzi ´ oggetto di un provvedimento di allontanamento di rifiuto d'ingresso nel territorio, adottato dalla parte richiedente ª.

L'applicazione di tale istituto può insorgere a seguito della valutazione della parte richiedente sull'opportunità e la convenienza di procedere al rimpatrio dello straniero seguendo un determinato itinerario geografico . Ne consegue che la parte richiedente si assume ogni responsabilità in merito all'esito e ai costi dell'operazione . Per quanto concerne le modalità dell'operazione, sostanziali differenze si riscontrano nei diversi accordi nella disciplina dell'attività di scorta. Nell'accordo con l'Ungheria viene previsto che la scorta dello straniero possa essere esercitata unicamente dalle autorità di polizia dello Stato richiesto in caso di transito per via terrestre, previo rimborso delle spese da parte dello stato richiedente. Nel caso dell'accordo con l'Estonia non viene esclusa la possibilità della scorta da parte dell'autorità di polizia della parte richiedente, previa valutazione discrezionale della parte richiesta, che potrà integrare la scorta con un proprio rappresentante. L'accordo con la Tunisia non prevede l'istituto dell'ammissione in transito .

Attraverso l'ammissione in transito, lo Stato richiesto coopera di fatto all'esecuzione di una misura di allontanamento adottata dallo stato richiedente e pertanto i limiti che il diritto internazionale pone all'espulsione dello straniero (principio di non-refoulement e limiti all'estradizione) dovrebbero gravare anche sullo Stato di transito.

Proprio con riferimento a tali limiti, gli accordi di riammissione prevedono la possibilità per lo Stato richiesto di rifiutare l' ammissione in transito se ´per lo straniero, nel paese di destinazione, sono presenti rischi di persecuzione a causa della propria razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un certo gruppo sociale o opinione politicaª o se lo straniero ´ corre il rischio di essere imputato o condannato in base alla legge penale dello Stato di destinazione per fatti anteriori al transito ª.

L'accordo di riammissione stipulato con la Tunisia ha la particolarità rispetto agli altri perché prevede la spesa di 15 miliardi per ciascun anno del triennio 1998-2000 per interventi in Tunisia di ´ sostegno in termini di equipaggiamento tecnico e operativo ª nel settore della prevenzione e della lotta all'immigrazione clandestina. A queste somme sono aggiunti nell'accordo 500 milioni di lire per la ´ realizzazione in Tunisia di centri di accoglienza ª per le persone riammesse in virtù dell'accordo. A tali spese si è data copertura finanziaria con il decreto legislativo 19.10.1998 n° 280.

L'accordo con la Tunisia che è entrato in vigore il 23.9.1999, quello con l'Ungheria il 10.4.1999 e quello con l'Estonia il 3.3.1999.

Per un'analisi approfondita degli accordi di riammissione stipulati dal nostro paese contenente pure l'elenco completo dei medesimi si rimanda al saggio di Ferruccio Pastore, L'obbligo di riammissione in diritto internazionale : sviluppi recenti, sulla Rivista di diritto internazionale, n°4/1998 pp.968-1021, cui siamo largamente debitori per la stesura del presente commento.

29. Pubblicato il Memorandum sulla cooperazione di polizia tra la Repubblica Italiana e quella di Slovenia con riguardo anche alla materia della lotta contro l'immigrazione clandestina.

E' stato pubblicato sulla G.U. (Suppl. n.14 dd. 15.01.2000) il testo del Memorandum sulla cooperazione di polizia tra il governo italiano e quello della Repubblica di Slovenia sottoscritto a Lubiana il 14.11.1997 ed operativo peraltro già dal 29.11.1997. Il Memorandum riguarda fra l'altro anche la cooperazione nella lotta contro l'immigrazione clandestina . Si prevede che in caso di operazioni di polizia o d'indagini di particolare complessità che travalichino i rispettivi confini nazionali, ciascun paese possa inviare nel territorio dell'altro esperti con il compito di collaborare in tali indagini o operazioni, così come che i rispettivi uffici di collegamento presso le autorità di polizia di frontiera possano procedere al reciproco scambio d'informazioni, di assistenza e alla concertazione di piani di attività comuni anche con riferimento all'applicazione dell'accordo bilaterale sulla riammissione delle persone alla frontiera. Nel Memorandum è pure previsto l'istituzione di unità miste di vigilanza del confine comune, previo consenso degli organi centrali.

Al fine di impedire che i controlli confinari possano ostacolare un traffico scorrevole ai valichi, il Memorandum prevede l'istituzione di corsie separate per i cittadini dell'UE, per quelli della Repubblica di Slovenia e infine per quelli dei paesi terzi.

30. Ratificati e resi esecutivi gli accordi di adesione dei Governi di Svezia, Danimarca e Finlandia agli Accordi di Schengen, nonché l'accordo di cooperazione tra gli Stati parte degli Accordi di Schengen e la Repubblica di Islanda ed il Regno di Norvegia per la soppressione dei controlli alle persone alle frontiere comuni.

Con leggi 27 maggio 1999, n. 197 e 198 (G.U. Suppl. dd. 25 giugno 1999 n. 122/L), il Parlamento italiano ha ratificato e reso esecutivi rispettivamente gli accordi di cooperazione tra gli Stati parte degli Accordi di Schengen e la Norvegia e l'Islanda per la soppressione dei controlli delle persone alle frontiere comuni, e gli accordi di adesione di Svezia, Danimarca e Finlandia all'accordo di Schengen e alla relativa Convenzione applicativa.

Con l'adesione di Svezia, Danimarca e Finlandia, avvenuta il 19 dicembre 1996, sono saliti a tredici gli Stati membri dell'Unione Europea parte dell'accordo di Schengen e alla relativa Convenzione di Applicazione, dalle quali restano estranei invece soltanto il Regno Unito e l'Irlanda.

L'adesione dei paesi scandinavi membri dell'Unione Europea ha determinato la necessità di estendere le disposizioni dell'accordo di Schengen e della relativa Convenzione anche agli altri paesi membri della c.d "Unione Nordica dei passaporti", sottoscritta a Copenghen il 12 luglio 1957 e che prevede uno spazio di libera circolazione alla frontiere nordiche comuni, cioè l'Islanda e la Norvegia. Considerato che per essere parte della Convenzione di Schengen occorre essere membri dell'Unione Europea e che Islanda e Norvegia non lo sono, si è resa necessaria la stipula di un accordo di cooperazione con questi due paesi, sottoscritto congiuntamente all'adesione all'accordo di Schengen di Svezia, Danimarca e Finlandia il 19 dicembre 1996 a Lussemburgo.

L'effettiva entrata in vigore dell'accordo di cooperazione con Norvegia e Islanda e la soppressione dunque dei controlli alla frontiere comuni con gli Stati membri dell'accordo di Schengen potrà peraltro avvenire solo una volta che entreranno in vigore gli accordi specifici con gli Stati membri dell'Unione Europea per l'adesione di Islanda e Norvegia alle disposizioni della Convenzione di Dublino sulla determinazione dell'unico Stato responsabile dell'istanza di asilo, che ha sostituito le disposizioni del Capitolo 7 del Titolo II della Convenzione di Applicazione dell'accordo di Schengen.

31. Entrati in vigore gli accordi bilaterali tra Italia e Repubblica di Uganda, del Kenya, della Repubblica del Sud Africa e di Georgia in materia di reciproca promozione e protezione degli investimenti. Ratificati e resi esecutivi dal parlamento italiano i medesimi accordi con la Repubblica di Capo Verde, il Regno Hascemita di Giordania, la Repubblica dell'Azerbaijan e la Repubblica del Libano. Con la nuova legge sull'immigrazione ed il varo del regolamento di attuazione non è più richiesta la condizione di reciprocità per l'acquisto di immobili ad uso abitativo da parte di immigrati stranieri.

Il Ministero degli Affari Esteri ha comunicato (in G.U. dd. 07.10.1999 n. 236) che, rispettivamente il 4 agosto ed il 16 marzo 1999, sono entrati in vigore gli accordi bilaterali in materia di promozione e reciproca protezione degli investimenti, sottoscritti tra il governo italiano e quello della Repubblica del Kenya e della Repubblica del Sud Africa. Uguale comunicazione ha riguardato il pari accordo con la Georgia, entrato in vigore il 26 luglio 1999 (in GU 09.12.1999 n. 288) e quello con l'Uganda (in GU n. 24 dd. 31.01.2000), entrato in vigore il 24.09.1999. Con leggi n. 429, 430, 431 dd. 28 ottobre 1999 (in G.U. Suppl. ord. N. 202/L dd. 19.11.1999 n. 272), sono stati ratificati e resi esecutivi dal Parlamento italiano accordi similari con il Regno Hascemita di Giordania, la Repubblica dell'Azerbaijan e la Repubblica Libanese. Con legge 29.12.1999, n. 527 è stato ratificato e reso esecutivo tale accordo anche con la Repubblica di Capo Verde (in G.U. n. 13 dd. 18.01.2000).

Per quanto concerne gli aspetti specificatamente legati agli interessi dei cittadini extracomunitari residenti in Italia, tali accordi hanno perso molta della loro importanza con l'entrata in vigore della legge organica in materia di immigrazione che ha disposto l'abrogazione della verifica della condizione di reciprocità per quanto attiene l'esercizio dei diritti civili da parte del cittadino extracomunitario regolarmente residente (tra cui va ricompreso l'esercizio dell'attività di lavoro autonomo e l'acquisto di immobili), salvo nei casi espressamente previsti dalla legge medesima e dalle convenzioni internazionali (art. 2.2 TU n. 286/98) Cosi' come ha riconosciuto lo stesso Ministero degli Affari Esteri, con circolare del 11 giugno 1998, la disposizione contenuta nell'art. 2 c. 2 del D.L.vo n. 286/98 consente al cittadino extracomunitario regolarmente residente in Italia di svolgere attività di lavoro autonomo, di costituire società di capitali e di investire e parteciparvi, senza essere sottoposto alla verifica della condizione di reciprocità. Maggiori difficoltà sono registrate invece nella prassi per l'affermazione del medesimo principio di esenzione dalla condizione di reciprocità per l'acquisto di beni immobili (ad uso innanzitutto abitativo) da parte del cittadino extracomunitario residente in Italia. All'assenza di una chiara presa di posizione sull'argomento da parte dei Ministeri degli Esteri e dell'Interno, ha peraltro fatto riscontro l'iniziativa del Ministero di Grazia e Giustizia - Ufficio Centrale degli Archivi Notarili, che con parere del 15.01.1999, ha rilevato che "sembra che, per quanto riguarda i diritti in materia civile, con l'entrata in vigore della legge n. 40 del 1998, l'art. 16, primo comma, delle preleggi, non sia più applicabile allo straniero regolarmente soggiornante, munito cioè di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno". Già in precedenza non erano mancate iniziative locali volte a far applicare correttamente le nuove disposizioni introdotte dalla legislazione nazionale sull'immigrazione. Così, il Collegio notarile di Brescia, con delibera del 29 ottobre 1998 aveva ritenuto "non essere contrario alla legge e quindi non costituire violazione della Legge Notarile ricevere atti, i quali abbiano oggetto l'acquisto da parte di cittadini di Paesi extracomunitari di beni immobili in Italia, e l'eventuale relativo finanziamento degli stessi, prescindendo dalla condizione di reciprocità, alle seguenti condizioni: a) che i cittadini extracomunitari abbiano un regolare permesso di soggiorno e siano residenti in Italia; b) che siano iscritti nelle liste di collocamento o esercitino una regolare attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo; c) che l'acquisto degli immobili abbia per oggetto la prima casa di abitazione, con caratteristiche non di lusso, secondo quanto previsto dall'attuale normativa fiscale agevolativa in tema di acquisto della prima casa" (entrambi i documenti sono pubblicati sul secondo numero della rivista dell'ASGI e di Magistratura Democratica "Diritto, Immigrazione e Cittadinanza", edita da Franco Angeli di Milano). Dopo l'entrata in vigore del regolamento di attuazione della legge sull'immigrazione, non dovrebbero sussistere più dubbi ed incertezze sulle possibilità per i cittadini stranieri extracomunitari di acquistare immobili ad uso abitativo. L'art. 1 del regolamento (Dpr. N. 394/99) specifica infatti, in accordo con il dispositivo di legge cui fa riferimento, che "1. Per le persone fisiche straniere, i responsabili del procedimento amministrativo che ammettono lo straniero al godimento dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino, ed i notai che redigono gli atti che comportano l'esercizio di taluno dei predetti diritti, richiedono l'accertamento della condizione di reciprocità al Ministero degli Affari Esteri, nei soli casi previsti dal Testo unico sull'immigrazione, ed in quelli per i quali le convenzioni internazionali prevedono la condizione di reciprocità. 2.L'accertamento non è richiesto per i cittadini stranieri titolari della carta di soggiorno, nonché per i cittadini stranieri titolari di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, per l'esercizio di un impresa individuale e per i relativi familiari in regola con o il soggiorno".

Un elenco aggiornato degli accordi vigenti tra l'Italia e i paesi terzi in materia di mutua promozione e protezione degli investimenti è disponibile sul sito Internet del Ministero degli Affari Esteri: www.esteri.it/attivita/operatori/index.htm

32. Entrata in vigore la Convenzione n.181 e la raccomandazione n.188 dell'OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) concernenti le agenzie per l'impiego privato.

Come comunicato dal M.A.E. ( in G.U. del 02.02.2000 n.226), a seguito del deposito dello strumento di ratifica è entrata in vigore in Italia la Convenzione OIL n.181 adottata dalla conferenza internazionale del lavoro a Ginevra il 19.6.1997. La Convenzione riguarda il funzionamento delle agenzie di collocamento private e la protezione dei diritti dei lavoratori (persone in cerca di occupazione) che utilizzano tali servizi. Le norme a tutela dei lavoratori contenute nella Convenzione sono ulteriormente rafforzate dal testo della raccomandazione n.188 adottata congiuntamente . Alcune norme riguardano specificatamente i lavoratori migranti, prevedendo che l'attività delle agenzie di collocamento private debba essere improntata a principi di non discriminazione e che i lavoratori migranti, per quanto possibile, debbano essere informati nella loro lingua o in una lingua a loro familiare della natura della posizione lavorativa offerta e delle condizioni di lavoro applicabili.

33. Entrato in vigore il trattato bilaterale tra Italia e Perù sull'assistenza giudiziaria in materia penale e quello sul trasferimento di persone condannate e di minori in trattamento speciale.

Con comunicato del M.A.E. pubblicato sulla G.U. del 26.10.1999 n. 252, è stata resa nota l'entrata in vigore del trattato sull'assistenza giudiziaria in materia penale tra Italia e Perù, sottoscritto a Roma il 24 novembre 1994 e ratificato in Italia con legge 24 marzo 1999, n. 90 (G.U. 14.04.1999, n. 86). Il trattato impegna reciprocamente le parti a fornire la più ampia assistenza nello svolgimento dei procedimenti giudiziari penali, in particolare per quanto concerne la notifica di citazioni e atti giudiziari, l'interrogatorio di testimoni o di persone sottoposte a procedimento penale, lo svolgimento di attività di acquisizione probatoria, il trasferimento di persone detenute a fini probatori, l'esecuzione di perizie, sequestri probatori, preventivi e conservativi, ispezioni e perquisizioni, la comunicazione di sentenze penali e di certificati del casellario giudiziale.

Con comunicato del M.A.E. pubblicato sulla G.U. 05.10.1999 n. 234, è stata resa nota l'entrata in vigore, a partire dal 17 agosto 1999, del trattato sul trasferimento di persone condannate e di minori in trattamento speciale tra il Governo italiano e quello peruviano, fatto a Roma il 24 novembre 1994 (e ratificato con legge n. 90 del 24 marzo 1999, in G.U. n. 86 dd. 14.04.99). Il trattato prevede la possibilità per i cittadini di uno dei due Stati, privati della propria libertà in conseguenza di una sentenza penale commutata dall'autorità dell'altro Stato, di scontare la condanna nel paese di appartenenza, ottenendo, a determinate condizioni il trasferimento nel medesimo.

34. Aggiornato ed integrato l'accordo culturale dell'11 agosto 1955 tra Italia e Spagna sul reciproco riconoscimento dei titoli di studio superiori ed universitari.

Con scambio di note avvenuto in data 14 luglio1999 ( Suppl. alla G.U. n.14 del 15.01.2000), è stato aggiornato ed integrato, con decorrenza dalla stessa data, l'elenco dei titoli accademici e d'istruzione secondaria superiore che possono essere riconosciuti equipollenti in via automatica ed amministrativa in virtù dell'accordo bilaterale culturale sottoscritto tra Italia e Spagna l'11 agosto 1955 ( Legge 3.1.1957 n.8 in G:U. 4257 n.31 ; elenco dei titoli contenuto nel DM 29.5.1964 in G.U. 19.6.1964 n.149).

35. Entrato in vigore l'accordo tra Italia e Argentina sul riconoscimento dei titoli di studio a livello elementare e medio firmato a Bologna il 3 dicembre 1997.

Il Ministero degli Affari Esteri ha comunicato l'entrata in vigore il giorno 28 dicembre 1999 dell'accordo tra Italia e Argentina sul reciproco riconoscimento dei titoli di studio a livello elementare e medio, firmato a Bologna il 3 dicembre 1997 (in GU 27.11.1999, n. 279). L'accordo era stato ratificato e reso esecutivo con legge 7 giugno 1999, n. 210 (in G.U. 01.07.1999 n. 152).

In virtù di questo accordo, i titoli di studio elementare e medi (inferiori e superiori) conseguiti nel territorio di uno dei due Stati da un cittadino italiano o argentino saranno automaticamente riconosciuti nel territorio dell'altro Stato, ma ai soli fini della prosecuzione degli studi. Il riconoscimento automatico non potrà invece essere chiesto ai fini lavorativi (per l'accesso ad esempio a concorsi pubblici che richiedano un particolare livello di studi) per i quali si dovrà seguire il complesso iter procedurale previsto dai D.M. 1.02.1975 e 02.04.1980 (rispettivamente Suppl. G.U. n. 58/1975 e n. 135/1980), richiamati dal TU delle leggi in materia di istruzione del 1994.

Tra le previsioni dell'accordo italo-argentino, va segnalato l'esonero dalla prova di conoscenza della lingua italiana o spagnola per l'accesso alla rispettive Università o istituti di istruzione superiori, per gli studenti che abbiano conseguito un titolo di istruzione media che abbia compreso nel piano di studio l'insegnamento per almeno cinque anni della lingua italiana in Argentina o di quella spagnola in Italia (art. 2.2). L'accordo prevede il riconoscimento non solo dei titoli di studio finali, ma anche dei certificati attestanti la promozione di anni scolastici intermedi (art. 3).

Nell'allegato all'accordo sono indicate le corrispondenze tra gli indirizzi scolastici italiani e quelli argentini ai fini dell'applicazione dell'accordo medesimo.

36. Ratificate e rese esecutive le Convenzioni con la Slovenia e la Croazia in materia di

sicurezza sociale.

Con leggi 27 maggio 1999 n. 167 e 199 (rispettivamente G.U. Suppl. ord. N. 114/L e n. 147), il Parlamento italiano ha approvato la ratifica e l'esecuzione delle convenzioni in materia di sicurezza sociale firmate con la Repubblica di Slovenia a Lubiana il 7 luglio 1997 e con la Repubblica di Croazia a Roma il 27 giugno 1997.

Tali convenzioni sostituiranno in tutte le sue parti la Convenzione sulle assicurazioni sociali stipulata tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia il 14 novembre 1957, che ha continuato ad essere applicata anche dopo la dissoluzione dello Stato jugoslavo.

Le Convenzioni riguardano gli aspetti dell'assicurazione generale obbligatoria per invalidità, vecchiaia, l'assicurazione per malattia e maternità, contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disoccupazione involontaria e le prestazioni familiari e si applicheranno ai cittadini degli Stati contraenti, nonché ai rifugiati in base alla Convenzione di Ginevra del 1951 residenti nei due Stati.

In particolare, le Convenzioni prevedono la possibilità del cumulo e della totalizzazione dei periodi assicurativi maturati nei due Stati contraenti ai fini dell'accesso alle prestazioni.

37. Entrata in vigore la Carta sociale europea, riveduta con annesso, firmata a Strasburgo il 3

maggio 1996.

Con comunicato del M.A.E. pubblicato sulla G.U. dd. 05.10.1999 n. 234, è stato reso noto l'avvenuto deposito, in data 6 luglio 1999, dello strumento di ratifica italiana della Carta sociale europea, riveduta con annesso, firmata a Strasburgo il 3 maggio 1996, dopo che con legge 09.02.1999, n. 30, pubblicata sulla G.U. n. 44, Suppl. ord. dd 23.02.1999, detta ratifica era stata autorizzata dal Parlamento italiano.

I diritti e le misure previsti dalla Carta sociale europea, attinenti essenzialmente il campo dei diritti sociali, nella sfera lavorativa o della sicurezza sociale, solo garantiti soltanto ai cittadini degli Stati contraenti, facenti parte del Consiglio d'Europa. L'appendice della Carta Sociale Europea specifica, infatti, che le persone interessate dagli articoli 1 - 17 "includono gli stranieri solo fintantoché sono cittadini di Stati parte della Carta Sociale Europea legalmente residenti o regolarmente impiegati nel territorio dello Stato parte interessato…". Ugualmente, gli articoli 18 e 19 (attinenti i diritti dei lavoratori migranti, ivi compreso il principio di parità di trattamento) sono garantiti solo ai cittadini degli Stati parte della Carta . La Carta Sociale Europea è attualmente in vigore per i seguenti paesi: Austria, Belgio, Cipro, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Olanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Spagna, Svezia, Turchia e Regno Unito. Di conseguenza, è del tutto evidente l'impatto assai limitato e marginale della Carta sociale europea sulle questioni attinenti l'immigrazione.

Il comunicato del MAE informa che al momento del deposito della ratifica, l'Italia ha formulato una riserva sull'art. 25 della Carta, che prevede il diritto dei lavoratori alla protezione delle loro spettanze in caso di insolvenza da parte del datore di lavoro, mediante la costituzione di appositi fondi di garanzia pubblici. L'Italia dunque non si ritiene impegnata al rispetto di tale disposizione.

38. Entrato in vigore l'accordo tra il governo italiano e le Nazioni Unite per l'esecuzione delle sentenze del Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia, firmato a L'Aja il 6 febbraio 1997.

Il Ministero degli Affari Esteri ha comunicato (in GU 26.11.1999 n. 278) che lo scorso 27 agosto 1999 è entrato in vigore l'accordo firmato a L'Aja il 06.02.1997 tra il governo italiano e le Nazioni Unite per l'esecuzione delle sentenze del Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 7 giugno 1999, n. 207 (G.U.30.06.1999 n. 151).

L'Italia, infatti, è uno dei Paesi che ha indicato al Consiglio di Sicurezza dell'ONU la propria disponibilità a dare esecuzione alle sentenze pronunciate dal Tribunale penale Internazionale dell'Aja per i crimini di guerra compiuti nel territorio della ex-Jugoslavia, e dunque a garantire la reclusione nelle proprie strutture carcerarie delle persone condannate dal suddetto tribunale. L'accordo regola tra l'altro gli aspetti procedurali dei rapporti tra le autorità italiane e quelle del tribunale sugli aspetti dell'esecuzione della sentenza (ivi compresi quelli concernenti l'eventuale applicazione di misure non detentive e di eventuali provvedimenti di condono), nonché sulle ispezioni del Comitato Internazionale della Croce Rossa.

39. Sospesa ufficialmente nei confronti della Bosnia Erzegovina l'efficacia dell'accordo tra la

Repubblica Italiana e la ex Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia sul

riconoscimento dei diplomi e dei titoli accademici rilasciati dalle università, effettuato a

Roma il 18 febbraio 1983.

Con comunicato pubblicato sulla G.U. 20 aprile 1999 n. 91, il Ministero degli Affari Esteri ha reso nota la decisione di non considerare più efficace a partire dal 22 marzo scorso nei confronti della Bosnia Erzegovina l'accordo a suo tempo sottoscritto con la ex-Jugoslavia per il reciproco riconoscimento dei titoli d studio universitari. Pari decisioni erano state negli anni scorsi assunte nei confronti di altre Repubbliche sorte dalla dissoluzione dell' ex Stato jugoslavo.

In verità, fin dal 1993 le università italiane non procedevano al riconoscimento automatico, in vi amministrativa, dell'equipollenza dei titoli di studio conseguiti nelle Università della ex-Jugoslavia, in virtù di una circolare in questo senso diramata dal Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica.

In virtù delle regole di diritto internazionale, gli Stati sorti dalla dissoluzione di formazioni statuali preesistenti, possono ritenersi successori degli accordi internazionali di portata generale e non aventi contenuto di carattere territoriale solo in presenza di un atto esplicito di assenso da parte dell'altro Stato firmatario degli accordi o di una prassi indicante tale assenso. Poiché il Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica italiano aveva già raccomandato particolare cautela alle Università nel procedere all'equipollenza dei titoli di studio conseguiti nella ex-Jugoslavia, si può dire che l'accordo tra Italia e ex-Jugoslavia in materia non poteva essere più invocato fin dal 1993, ancora prima delle comunicazioni ufficiali diramate dal Ministro degli Affari Esteri. L'unica eccezione riguarda la Slovenia, con la quale il nostro paese ha rinegoziato un nuovo accordo, entrato in vigore il 6 agosto 1997 (legge 7 aprile 1997 n. 104 G.U. n. 93 dd 22 aprile 1997).

 

 

 

S p e c i a l e N E W S

40. "Diritto, Immigrazione e Cittadinanza": Uscito il quarto numero della rivista promossa da Magistratura Democratica e dall'ASGI dedicata ai temi dell'immigrazione e dell'asilo.

E' uscito nelle librerie agli inizi di febbraio il quarto numero della rivista "Diritto, Immigrazione e Cittadinanza", promossa da Magistratura Democratica e dall'ASGI ed edita da Franco Angeli di Milano. Da segnalare su questo numero interventi ed analisi sui centri di permanenza temporanea per stranieri espellendi (Fulvio Vassallo Paleologo), sui permessi di soggiorno per motivi di protezione sociale previsti dall'art. 18 del TU sull'immigrazione (Maria Grazia Giammarinaro), sui profili relativi alle cause di discriminazione in relazione alla presenza di immigrati di fede musulmana (Bruno Nascimbene), sul caso Ocalan (Giovanni Palombarini). Il volume contiene inoltre una raccolta della più significativa giurisprudenza maturata negli ultimi mesi in Italia in materia di asilo, cittadinanza, espulsioni, famiglia, minori, commentata da esperti dell'ASGI e di MD. In particolare sono da segnalare il commento di Lorenzo Miazzi, giudice di Rovigo sui provvedimenti dei tribunali dei minori relativi alla tutela del minore affidato di fatto a parenti entro il IV grado, nonché la ricca giurisprudenza in materia di controversie sui dinieghi al rilascio dei visti per ricongiungimenti familiari.

Per quanto concerne la parte documentaria, questo numero della rivista offre un largo spazio al contesto europeo con la pubblicazione della giurisprudenza del Regno Unito in materia di definizione della persecuzione politica e del differenziato livello di tutela sostanziale dei rifugiati nei diversi paesi europei con le conseguenti problematiche inerenti all'applicazione della Convenzione di Dublino. Nella parte delle segnalazioni legislative è incluso un primo commento sulle implicazioni delle norme contenute nel regolamento di applicazione della legge sull'immigrazione nelle procedure di rinnovo dei permessi di soggiorno in Italia.

La rivista si propone come strumento di informazione e approfondimento, prevalentemente giuridico, sui temi dell'immigrazione e dell'asilo, destinato a tutti i soggetti che operano nel settore (associazioni, enti locali, sindacati, scuole, uffici pubblici, avvocati).

I promotori della rivista ritengono infatti che con l'entrata in vigore della legge organica in materia di immigrazione e con la prospettata riforma di quella sull'asilo politico, nonché con l'annunciata definizione di una normativa comunitaria europea sulla materia, prevista dal Trattato di Amsterdam, vi sia un urgente bisogno in Italia di conoscenza e confronto sulle regole del diritto che presiedono al governo e al controllo dei fenomeni migratori. Ciò con lo scopo innanzitutto di dotare coloro che operano a fianco degli immigrati (ONG, sportelli pubblici e privati, avvocati) di strumenti conoscitivi per meglio svolgere le funzioni di tutela e rappresentanza nei rapporti con la pubblica amministrazione e in sede giurisdizionale. "La rivista non sarà neutrale - si legge nella presentazione editoriale - ma di parte: dalla parte dei diritti, della eguaglianza, della integrazione nel rispetto delle diversità".

Ogni numero della rivista, di circa 220 pagine, è suddiviso in quattro parti: la prima, di dibattito su questioni di attualità, a livello non solo nazionale, ma europeo; la seconda, dedicata alla giurisprudenza, con la pubblicazione di sentenze e decreti, suddivisi per temi; la terza, di documentazione, con la pubblicazione di materiale legislativo e amministrativo (circolari); l'ultima, di segnalazioni bibliografiche o di siti Internet.

La rivista è trimestrale. L'abbonamento annuale (4 numeri) costa Lit. 110.000 e può essere effettuato mediante versamento su conto corrente postale n. 17562208 intestato a Franco Angeli srl Milano.

Per ulteriori informazioni si può consultare il sito www.francoangeli.it oppure contattare l'editore, scrivendo a Franco Angeli srl - viale Monza 106, 20127 Milano, tel. fax 02 2895762, oppure la direzione della rivista, c/o l'avv. Nazarena Zorzella, tel. 051/236747, e-mail: ri12653@iperbole.bologna.it

 

41. Con il varo del Regolamento concernente i compiti del Comitato per i minori stranieri e la nomina dei suoi componenti, si è completato il quadro normativo relativo alla condizione dei minori stranieri non accompagnati.

E' stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ( n. 19 del 25.01.2000) il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 9 dicembre 1999, n. 535, che contiene il regolamento concernente i compiti del Comitato per i minori stranieri previsto dall'art. 33 del D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come modificato dall'art. 5 del D. Lgs. 13 aprile 1999, n. 113. Il 26 gennaio il Comitato si è insediato presso il Dipartimento della solidarietà sociale. A presiederlo è stato chiamato Paolo Vercellone, già presidente del Tribunale dei minori di Torino. Fanno inoltre parte del neo nato comitato esperti e funzionari degli uffici legislativi del Ministero dell'Interno, di Grazia e Giustizia, degli Esteri e della Solidarietà sociale, oltre che esponenti di associazioni di volontariato e categoria tra i quali ANCI, UPI, ACNUR e Fondazione " Aiutiamoli a vivere". Di seguito riportiamo un'analisi critica del quadro normativo sulla condizione dei minori stranieri non accompagnati in Italia, alla luce dei citati recenti provvedimenti, che sarà pubblicata, nei prossimi mesi, in un volume dell'editore Giuffrè dedicato alla legge sull'immigrazione.

 

I MINORI STRANIERI NON ACCOMPAGNATI

TRA TUTELA IN ITALIA E RIMPATRIO

di Walter Citti

 

Non è per nulla agevole affrontare dal punto di vista normativo la delicata questione del trattamento dei minori stranieri non accompagnati. Nonostante l'entrata in vigore della legge n. 40/1998, definita al momento dell'approvazione normativa "organica" in materia di immigrazione, e l'emanazione del suo regolamento di attuazione, la materia dei minori stranieri non accompagnati viene ad essere considerata in recenti studi sull'argomento "quasi intrattabile" a causa della "coesistenza nell'ordinamento giuridico di molteplici disposizioni, disorganiche e in parte contrastanti tra loro, che danno luogo a enormi difficoltà di orientamento e, conseguentemente, a prassi giudiziarie le più disparate". Non si esita a definirla un vero e proprio "guazzabuglio" normativo, dove gli operatori sociali e giudiziari si muovono "secondo prassi più o meno consolidate (perlopiù a livello locale ndr), dall'origine incerta e dalla perdurante legittimità quantomeno dubbia", innanzitutto sotto il profilo costituzionale.

La situazione prima della legge n. 40/1998.

La mancata regolamentazione giuridica della materia da parte della legge n. 39/1990 aveva costretto diverse realtà locali ad individuare forme di intervento ispirate ai principi generali del diritto minorile e a quelli della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, con l'intento di sottrarre all'autorità di polizia i poteri di determinazione in merito al trattamento dei minori stranieri non accompagnati per trasferirli a quella giudiziaria, individuata alternativamente nel Tribunale per i Minorenni ovvero nel Giudice Tutelare.

Se andiamo brevemente ad esaminare il sistema generale delle norme in materia di protezione dei minori, ricavabile dalla costituzione, dalle fonti internazionali e relative leggi di ratifica ed esecuzione, così come dalle norme del codice civile e dalla disciplina sull'adozione e l'affidamento (legge n.184/83 come modificata dalla legge n. 476/98), appare emergere un quadro che attribuirebbe esclusivamente all'Autorità Giudiziaria minorile la competenza sul trattamento del minore straniero non accompagnato in Italia e sulle soluzioni più opportune da adottare nei suoi confronti, nel senso del rimpatrio ovvero della sua permanenza in Italia. Come vedremo più avanti, tale convinzione appare oggi messa in discussione per effetto di nuovi strumenti normativi, di dubbia legittimità costituzionale, che sembrerebbero trasferire tale competenza all'autorità amministrativa.

Innanzitutto vale la pena citare le fonti giuridiche interne in tema di protezione generale giuridica della condizione minorile, applicabili nei casi in cui i genitori siano impossibilitati ad esercitare la potestà e riguardanti l'apertura della tutela ad opera del giudice tutelare (art. 343 C.C.), anche deferendola al rappresentante dell'istituto di assistenza ove il minore venga ricoverato o assistito a cura della pubblica autorità (artt. 401, 402, 403 C.C.). Molto importante è anche l'art. 371 C.C. che demanda al Giudice tutelare il compito di stabilire il luogo in cui il minore sottoposto a tutela deve vivere e che, rispetto ai minori stranieri non accompagnati, è stato per analogia interpretato come attribuente all'autorità giudiziaria la valutazione dell'interesse o meno del minore a rimanere in Italia ovvero ad essere rimpatriato. Una norma esplicitamente rivolta ad estendere anche al minore straniero le misure di protezione generalmente previste è stata il famoso art. 37 della legge n. 184/83, che ha dichiarato applicabile anche al minore straniero in stato di abbandono in Italia le misure contenute nel medesimo strumento normativo in materia di adozione, di affidamento familiare e di provvedimenti necessari in caso di urgenza.

Prendendo spunto da questo complesso quadro normativo, così come dalle esperienze di collaborazione interistituzionale già promosse in diversi contesti locali e specialmente a Roma e a Torino, nel corso del 1994 le autorità centrali del Ministero dell'Interno, di quello di Grazia e Giustizia e del Lavoro decisero di avviare una serie di incontri e discussioni che condussero all'emanazione di provvedimenti amministrativi (circolari) volti a regolamentare in modo uniforme sul territorio nazionale la questione del trattamento dei minori stranieri non accompagnati. Si sancì la necessità per ogni minore straniero non accompagnato di avviare l' apertura di una tutela da parte del Tribunale per i Minorenni (per i minori di anni 14) o del Giudice tutelare (per gli ultra quattordicenni), con conseguente affidamento all'Ente locale, in base ad una interpretazione "lata" dell'art. 37 della legge n. 184/83, secondo cui il giudice può emettere provvedimenti urgenti a favore del minore straniero in stato di abbandono. In base a tali circolari amministrative, all'autorità di polizia veniva sottratto ogni potere di determinazione circa la condizione ed il trattamento del minore straniero non accompagnato, demandando all'autorità giudiziaria minorile il delicato compito di individuare la soluzione più confacente agli interessi supremi del minore richiamati dalla Convenzione Internazionale sui diritti del fanciullo (art. 3) (accoglienza, integrazione o rimpatrio). Durante la tutela disposta dall'autorità giudiziaria, il minore godeva di un permesso di soggiorno per motivi di "affidamento" o di "giustizia", il cui rilascio veniva ricondotto alla previsione di cui all'art. 4.14 della legge n. 39/90 ("Per gli stranieri ricoverati in case di cura e di pena, ovvero ospitati in comunità civili o religiose, il permesso di soggiorno può essere richiesto alla questura competente da chi presiede le case, gli istituti o le comunità sopraindicati, per delega degli stranieri medesimi").

Al fine di rendere maggiormente effettiva la protezione sociale del minore non accompagnato sottoposto a tutela, venne concordata la possibilità di un suo accesso all'impiego, in via del tutto eccezionale, previo rilascio al datore di lavoro di un apposito atto di avviamento a prescindere dall'iscrizione del minore alle liste di collocamento (circ. Min. Lavoro n. 67 dd. 16.06.1994).

Venendo incontro a ragioni di carattere umanitario facilmente comprensibili, con una successiva circolare amministrativa (circ. Ministero del Lavoro dd. 19.09.1995) si consentì la possibilità per il minore straniero non accompagnato e sottoposto a tutela, una volta raggiunta la maggiore età, di rimanere in Italia, usufruendo dell'iscrizione alle liste di collocamento, alla pari degli altri cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia per motivi di lavoro, anziché essere sottoposto al provvedimento espulsivo.

Le disposizioni contenute nella legge n. 40/1998. Una riforma mancata in materia di minori non accompagnati.

Sebbene le autorità di P.S. a livello locale applicassero spesso i provvedimenti amministrativi citati in maniera discrezionale e disomogenea, si può affermare in linea generale che erano state poste le basi nel trattamento dei minori stranieri non accompagnati per un superamento della logica delle espulsioni a favore di una logica alternativa di accoglienza ed integrazione.

Con l'entrata in vigore della legge n. 40/1998, sembrò trovare ulteriore conferma questo orientamento favorevole all'integrazione.

Sebbene la questione non appaia molto definita dalla normativa in questione, importanti disposizioni vi sono peraltro contenute. Così, l'art. 19.2 a) del d.lgs. 286/98 dispone l'inespellibilità del minore straniero non accompagnato, tranne per i motivi di sicurezza nazionale e ordine pubblico, per i quali, in base all'art. 31.4, deve disporre il Tribunale per i minorenni su richiesta del questore. Per quanto concerne la condizione dei minori stranieri non accompagnati sottoposti a tutela ("comunque affidati ai sensi dell'art. 2 della legge n. 184/83" ad una famiglia, ad una persona singola, ad una comunità di tipo familiare o ad un istituto), una volta raggiunta la maggiore età, l'art. 32 stabilisce la possibilità del rilascio a loro favore di un permesso di soggiorno per motivi di studio o di accesso al lavoro, a prescindere dal sistema delle quote annuali introdotto dal meccanismo della programmazione dei flussi.

Il decreto legislativo n. 133/1999. Dall'accoglienza al rimpatrio assistito. Tutela dei diritti del minore o "espulsione camuffata" ?

Il fatto, tuttavia, che non si sia voluto prevedere con la nuova legge sull'immigrazione una griglia normativa precisa ed organica della materia, ha favorito ben presto un cambio di rotta a livello governativo, improntato più che su solide basi giuridiche, su un elevato esercizio di discrezionalità amministrativa, e giustificato da considerazioni di opportunità politica nonché da asserite inconciliabilità della situazione italiana con gli standard europei.

L'aumento del numero dei minori stranieri non accompagnati affidati e accolti presso istituti e centri di accoglienza dei comuni, cui spetta tale compito anche in base a quanto chiarito da un parere del Consiglio di Stato (30 luglio 1997), ha accresciuto le difficoltà di gestione da parte degli Amministratori locali. A ciò si sono aggiunte le preoccupazioni da parte governativa di alimentare con una politica di accoglienza flussi migratori clandestini e soprattutto di favorire indirettamente le organizzazioni criminali che li gestiscono, così come di non ottemperare ai criteri - peraltro non vincolanti giuridicamente- contenuti nella Risoluzione del Consiglio dell'Unione Europea del 26 giugno 1997 sui minori non accompagnati, cittadini di paesi terzi 11.

Utilizzando la delega contenuta nell'art. 47 c. 2 della legge n. 40/98, che demandava al Governo stesso di adottare, entro due anni, le disposizioni correttive necessarie "per realizzare pienamente i principi della legge o per assicurarne la migliore attuazione", con il d. lgs. 13 aprile 1999 n. 113, ed in particolare con l'art. 5, sono state introdotte delle disposizioni correttive al Testo Unico sull'immigrazione riferite ai poteri e alle funzioni del Comitato per i minori stranieri di cui all'art. 33 del d.lgs. n. 286/98. Tale comitato era sorto già ai tempi della "legge Martelli" con lo scopo di vigilare e regolare le modalità di ingresso e di soggiorno temporaneo in Italia dei minori stranieri nell'ambito di programmi solidaristici di accoglienza temporanea proposti da enti, associazioni di volontariato, enti locali (ad es. i soggiorni estivi dei bambini ucraini e bielorussi colpiti dalle radiazioni di Chernobyl, etc.). Accanto a queste funzioni tradizionali, già con l'art. 33 del T.U. si era fatto cenno, in verità assai sfuggevole, ad ulteriori e non precisati compiti concernenti la tutela dei diritti dei minori stranieri in conformità alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, in relazione anche all'affidamento temporaneo e al rimpatrio dei medesimi. Con l'art. 5 del d.lgs. 113/99 si fa esplicito rimando ad un regolamento, successivamente emanato con il d.p.c.m. 09.12.1999 n. 53512, volto a definire i compiti del comitato anche con riferimento alle modalità di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati da parte dei servizi sociali degli enti locali, e alle soluzioni praticabili nei loro confronti, di accoglienza, di rimpatrio assistito, di ricongiungimento con la famiglia nel paese di origine o in un paese terzo (c. 1b)). In particolare, il decreto legislativo prevede che il provvedimento di rimpatrio del minore straniero non accompagnato venga adottato dal Comitato e che l'autorità giudiziaria rilasci il nulla-osta in caso di pendenza di un procedimento giudiziario, fatta salva la sussistenza di inderogabili esigenze processuali (c.2).

In sostanza, con il decreto legislativo n. 113/99 il governo ha voluto indicare che l'inespellibilità del minore straniero non accompagnato, che discende dall'art.19 c. 2 a) del T.U., non esclude di per sé l'ipotesi del rimpatrio del medesimo, istituto che va distinto da quello dell'espulsione qualora, realizzandosi mediante le garanzie sostanziali e procedurali contenute nella risoluzione europea accennata, assuma un carattere non meramente coatto, bensì "assistito". 13

Chiarito che, nell'impostazione governativa, la non-espellibilità del minore straniero non accompagnato non esclude l'eventualità/opzione del suo rimpatrio "assistito", sembrano tuttavia lungi dall'apparire privi di lacune, incertezze, contraddizioni e dubbi di legittimità costituzionale decisivi aspetti del complesso normativo venuto a compimento con il varo del citato regolamento previsto dal d.lgs. 113/99, concernente i compiti del Comitato per i minori stranieri. Molteplici rilievi, in particolare, è necessario muovere sui seguenti punti:

a) L'incerta definizione di minore non accompagnato e l'altrettanto precaria condizione di tutela giuridica del minore straniero affidato di fatto a parenti entro il quarto grado anche a causa del difetto di coordinamento tra le disposizioni della legge n. 40/98 e quelle ordinarie di cui alla legge n. 184/83.

b) Le scarse garanzie di effettività nell'applicazione delle specifiche disposizioni di tutela del minore straniero non accompagnato contenute nell'art. 33 c. 5 della legge n. 476/9814 rispetto alle norme della legge sull'immigrazione relative all'istituto del respingimento con accompagnamento alla frontiera.

c) La distribuzione ed il coordinamento delle competenze e delle responsabilità decisionali riguardo alla soluzione da adottare per il minore non accompagnato, tra autorità giudiziaria minorile, questura, servizi sociali degli enti locali, volontariato, comitato per i minori stranieri.

d) Il quadro delle garanzie previste per il minore affinché il rimpatrio assistito costituisca effettivamente la soluzione più vicina ai suoi interessi superiori;

e) Il quadro dei diritti e delle facoltà connesse all'accoglienza e al soggiorno del minore non accompagnato in Italia nel corso della tutela.

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a) Nel regolamento concernente i compiti del comitato per i minori stranieri viene contenuta una definizione di "minore straniero non accompagnato" che ricalca sostanzialmente quella contenuta nella risoluzione europea, intendendo per esso "quel minorenne non avente la cittadinanza italiana o di uno degli Stati dell'Unione Europea che, non avendo presentato domanda di asilo politico, si trova per qualsiasi causa, nel territorio dello Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti responsabili in base alle leggi vigenti nell'ordinamento italiano".15 Tale definizione non risolve la delicata, e peraltro assai frequente nella casistica, questione del trattamento dei minori stranieri affidati di fatto dai genitori rimasti nel paese di origine a parenti entro il quarto grado residenti regolarmente in Italia. In base all'art. 19 del d.lgs. n. 286/98 sull'inespellibilità del minore (salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulso) e alla conseguente norma di attuazione contenuta nel regolamento di attuazione (art. 28 d.p.r. 31.08.1999 n. 394: "Quando la legge dispone il divieto di espulsione, il questore rilascia il permesso di soggiorno…per minore età", salvo l'iscrizione del minore di anni quattordici nel permesso di soggiorno del genitore o dell'affidatario straniero regolarmente soggiornanti in Italia) non vi sono dubbi sul diritto del minore ad ottenere una regolarizzazione della propria presenza in Italia. I problemi che si pongono sono di duplice natura: vi sono i presupposti per l'intervento da parte di un'autorità giudiziaria minorile e quale deve essere tale autorità ? Qual' è lo status del minore al momento del raggiungimento della maggiore età ?.

La norma citata del regolamento applicativo richiede la segnalazione di ogni minore non accompagnato al Tribunale per i minorenni "per i provvedimenti di competenza", ma tale competenza nei casi di minori stranieri affidati di fatto a parenti entro il quarto grado in Italia appare perlomeno dubbia. Il Tribunale per i minorenni infatti ha la funzione di controllo dell'esercizio della potestà genitoriale e ha come scopo la tutela dei minorenni nei confronti delle condotte eventualmente pregiudizievoli dei genitori, con conseguente, nel caso, esercizio del potere di limitazione o esclusione della potestà (art. 330-333 C.C.). Nella maggior parte dei casi l'affido di fatto ai parenti in Italia avviene con il pieno consenso dei genitori, espresso con atti notarili redatti nei paesi di origine e raccolti dai servizi sociali o dall'autorità giudiziaria italiana, così come i parenti di fatto affidatari vivono regolarmente in Italia soddisfando requisiti alloggiativi e reddituali per il mantenimento del minore, per cui a molti giudici non appare sostenibile la tesi di una condotta pregiudizievole che sola può giustificare l'intervento del T.M. Ugualmente, argomentando a contraris ex art. 9 VI° comma l. 184/83 ("Chiunque, non essendo parente entro il quarto grado, accoglie stabilmente nella propria abitazione un minore, qualora l'accoglienza si protragga per un periodo superiore a sei mesi, deve, trascorso tale periodo, darne segnalazione al giudice tutelare, che trasmette gli atti al Tribunale per i minorenni con relazione informativa…Nello stesso termine di cui al comma precedente uguale segnalazione deve essere effettuata dal genitore che affidi stabilmente a chi non sia parente entro il quarto grado il figlio minore per un periodo non inferiore a sei mesi") la giurisprudenza ha sostenuto di non ravvisare in questi casi la competenza né dell'autorità amministrativa del Servizio sociale per l'eventuale disposizione formale dell'affidamento consensuale, né del Tribunale per i minorenni per quello giudiziale.16 Resta il fatto che in assenza di un provvedimento formale di affidamento ex art. 2 e 4 della legge n. 184/83, in base ad un'interpretazione letterale, non potrebbero essere applicate le disposizioni di cui agli artt. 30 e 31 del D.lgs.vo n. 286/98 che richiamano proprio alle norme sull'adozione e l'affidamento, per cui il minore infraquattordicenne non potrebbe essere iscritto sul permesso di soggiorno del parente affidatario di fatto e seguirne la condizione giuridica, né ottenere al compimento del quattordicesimo anno di età un permesso di soggiorno autonomo per motivi familiari (che rientra nel novero di quelli multifunzionali che conferiscono l'accesso all'attività lavorativa ex art. 6 c. 1 del TU)17. Tanto meno potrebbe richiedere la conversione del permesso di soggiorno in quello per motivi di lavoro al compimento della maggiore età. Resterebbe il suo diritto a godere di un permesso di soggiorno provvisorio per "minore età" - i cui diritti e facoltà esercitabili resterebbero del tutto imprecisati - in quanto inespellibile fino alla maggiore età, dal cui compimento ne conseguirebbe l'automatica espulsione18. Assisteremmo dunque alla paradossale situazione per cui proprio coloro che sono maggiormente tutelati dal punto di vista familiare, socio-economico, affettivo si troverebbero ad essere meno tutelati dal punto di vista giuridico. Da tale assurda situazione si può uscire soltanto con un'interpretazione estensiva della norma della legge n. 40/98, volta a consentire l'applicazione di quanto in essa previsto anche senza che vi sia un provvedimento formale ex art. 2 o 4 della l. 184, estendendo il concetto di minore affidato anche nei casi di minori affidati de facto con semplice atto notarile della famiglia. Ma di tutto ciò non vi è traccia nel regolamento di attuazione del d.lgs. n. 113/99 varato con il citato d.p.c.m. n. 535/99, né apparirebbe legittimo sotto il profilo costituzionale e del principio di gerarchia delle fonti modificare nella sostanza norme di legge mediante fonti di natura secondaria.

b) L'art. 10 del T.U. prevede il respingimento con accompagnamento alla frontiera disposto dal questore nei confronti degli stranieri che siano entrati nel territorio dello Stato illegalmente, e siano fermati all'ingresso o subito dopo e di quelli che sono stati temporaneamente ammessi per necessità di pubblico soccorso. L'eventuale applicazione di tali disposizioni al minore contrasterebbe con quanto previsto dall'art. 33 comma 5 della legge n. 476/98, che configura un sistema di tutela per il minore "solo" con obbligo di segnalazione al Tribunale per i minorenni in tutti i casi in cui "sia comunque avvenuto l'ingresso di un minore nel territorio dello Stato al di fuori delle situazioni consentite". Anche in relazione a tale aspetto, dunque, si ravvede l'opportunità di un intervento legislativo finalizzato a mettere ordine nella materia del trattamento dei minori stranieri non accompagnati.19

c) I commenti critici che da più parti si sono levati nei confronti del d.lgs. n. 113/99 hanno evidenziato forti perplessità di illegittimità costituzionale per violazione dei principi di riserva di legge e di riserva di giurisdizione. Il rinvio ad un successivo atto del governo per regolamentare le modalità di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati ai fini dell'accoglienza, del rimpatrio assistito e del ricongiungimento familiare con il paese di origine o in un altro paese ha equivalso in sostanza alla possibilità per l'esecutivo di riscrivere la disciplina della condizione giuridica del minore straniero solo, il che è andato ben al di là della delega contenuta nella legge sull'immigrazione, così come contrasta con il principio di riserva di legge nella regolamentazione della condizione giuridica dello straniero di cui all'art. 10 c. 2 della Costituzione. 20 Ugualmente non si può non ravvisare le difficoltà di coordinamento tra la norma del decreto che attribuisce al Comitato per i minori stranieri la responsabilità della decisione in materia di "rimpatrio assistito" del minore21 e quella dell'art. 28 del d.p.r. 31.08.1999, n. 394 che, in attuazione dell'art. 19 .2 a) del T.U. , attribuisce al Tribunale per i Minorenni la competenza per l'emanazione dei provvedimenti concernenti il minore straniero non accompagnato. Si potrebbe supporre che l'esecutivo abbia voluto da un lato coinvolgere l'autorità giudiziaria minorile per quanto concerne l'apertura della tutela del minore individuato sul territorio nazionale privo di accompagnamento di una persona adulta di riferimento (in base all'art. 2 della legge n. 184/1983), facendo salva tuttavia la competenza del Comitato per i minori stranieri per l'assunzione della decisione in merito al "rimpatrio assistito", quale soluzione eventualmente più rispondente all'interesse del minore, in base ai principi contenuti nella Convenzione di New York sull'esigenza di garantire l'unità familiare e il rispetto dei valori culturali.

Nel regolamento di attuazione del D.lgs. n. 113/99 si prevede infatti che i pubblici ufficiali, gli incaricati di pubblico servizio e gli enti, che vengano a conoscenza dell'ingresso e della presenza sul territorio italiano di un minore straniero non accompagnato, siano tenuti a darne immediata notizia al Comitato (art. 5), così come a cooperare con le amministrazione statuali cui è affidato il rimpatrio assistito (art. 7.3). L'attribuzione ad un organo amministrativo della competenza a disporre il rimpatrio, sottraendola all'autorità giudiziaria minorile, non sembra peraltro in linea con la giurisprudenza costituzionale, che ha annoverato il Tribunale per i minorenni tra gli istituti che la Repubblica ha predisposto in base all'art. 31 della Cost., per l'adempimento del precetto costituzionale che la impegna alla "protezione della gioventù"22. E' lecito ritenere che, una volta adottata dal Comitato la decisione del "rimpatrio assistito" del minore, l'autorità giudiziaria minorile non possa far altro che adeguarvisi, revocando la tutela precedentemente aperta, in base a quanto previsto dall'art. 4 della legge n. 184/1983 e dall'art. 336 C.C.?23 Ugualmente, appare sconcertante che nel decreto e nel regolamento sul Comitato non si faccia parola dei rimedi di tutela amministrativa e giurisdizionali contro il provvedimento di rimpatrio, anche se è evidente che questi possono essere esercitati. 24

d) Vale la pena innanzitutto ricordare che, sebbene la risoluzione europea citata non assuma un atteggiamento favorevole all'integrazione dei minori stranieri non accompagnati, prediligendo la soluzione del rimpatrio ("la presenza irregolare nel territorio degli Stati membri di minori non accompagnati che non sono considerati rifugiati deve avere carattere provvisorio, per cui gli Stati membri si sforzano di collaborare tra di loro e con i paesi terzi di origine per ricondurre il minore nel suo paese di origine..."), ugualmente essa stabilisce opportuni paletti, limitazioni e garanzie volte a proteggere il minore dal rischio di un rimpatrio indiscriminato, prevedendo che il rimpatrio possa avere luogo solo "se vi siano disponibili per lui, al suo arrivo, un'accoglienza ed un'assistenza adeguate, a seconda delle sue esigenze in base all'età e al grado di indipendenza", mentre finché tali condizioni non si saranno verificate, "gli Stati membri dovrebbero, in linea di massima, offrire al minore la possibilità di restare nel loro territorio". Ugualmente trova conferma nella risoluzione l'esigenza di un pieno rispetto dei principi generali di "non refoulement" e della tutela dei minori rifugiati, che discendono rispettivamente dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione di Ginevra del 1951.

Affinché il rimpatrio sia effettivamente "assistito" e non meramente coatto secondo i criteri europei occorre dunque attivare una complessa azione di identificazione del minore, di "tracing" dei familiari e di indagine sulle opportunità assistenziali, formative e lavorative offerte nel paese di origine, e quindi di accoglienza e reinserimento nel medesimo, che veda il coinvolgimento di organismi internazionali (Croce Rossa, Unicef, Unhcr, servizi sociali del paese di origine, ONG,…). Si può realisticamente ritenere che tali compiti, spesso peraltro obiettivamente difficili da realizzare per le condizioni di povertà ed isolamento dei luoghi di origine dei minori, possano essere svolti soltanto dai servizi sociali degli enti locali cui i minori sono affidati o anche solo dal comitato costituto presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, composto da nove rappresentanti e che si avvale di un personale di segreteria e supporto molto ristretto come quello assegnatogli dal Dipartimento affari sociali ?25 E' vero che nel regolamento si prevede la possibilità del comitato di avvalersi della collaborazione di esperti e di idonei organismi nazionali ed internazionali anche mediante la stipula di apposite convenzioni (art. 2.2 f) e che una convenzione di tale genere, ancor prima dell'entrata in vigore del regolamento, è stata già stipulata nell'aprile '99 tra il Dipartimento affari sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Servizio Sociale internazionale -Sezione Italiana, in accordo con il Ministero del Lavoro e degli Affari sociali albanese, "in supporto alle iniziative connesse al rimpatrio assistito dei minori albanesi non accompagnati presenti irregolarmente in Italia". Resta, tuttavia, ancora da verificare la possibilità di estendere tale approccio ad altri paesi di provenienza dei minori, così come la stessa effettività delle misure intraprese in base alla convenzione sui minori albanesi, rispetto agli ambizioni obiettivi prefissi, che comprendono tra l'altro "la presa in consegna del minore all'arrivo e il riaccompagnamento in famiglia o altra struttura e l'inserimento del minore in Albania in corsi professionali o apprendistato al lavoro sostenuto da una borsa lavoro", soprattutto alla luce della debolezza delle strutture educative e formative statuali in Albania e delle precarietà delle condizioni sociali e lavorative ivi esistenti.26

Nel regolamento viene previsto il coinvolgimento del minore nel procedimento che dovrebbe condurre il comitato ad assumere la decisione sull'eventuale "rimpatrio assistito", prevedendo che esso "sia previamente sentito, anche dagli enti interessati all'accoglienza".27 E' facile supporre, tuttavia, che nella maggior parte dei casi la decisione del rimpatrio assistito venga ad essere attuata dai pubblici poteri contro la volontà del minore e senza la sua collaborazione e, dunque con un accompagnamento di tipo coercitivo. In tal modo, il rimpatrio acquisisce la natura di un provvedimento limitativo della libertà personale del minore, sollevando ulteriori profili di illegittimità costituzionale per violazione dell'art. 13 Cost., nel caso in cui, come sembrerebbe, venisse adottato da un organo amministrativo, quale il Comitato per i minori stranieri, e non dall'autorità giudiziaria.28

e) Avendo in considerazione la complessità e la mole di lavoro e di contatti richiesti per accertare le condizioni per un eventuale "rimpatrio assistito", è presumibile che la permanenza del minore in Italia si prolunghi per periodi di tempo anche lunghi, così come l'obiettiva impossibilità in molti casi di reperire sufficienti ed attendibili informazioni sulle possibilità di accoglienza, assistenza e reinserimento nel paese di origine (si pensi a minori provenienti da paesi lontani, geograficamente e culturalmente, come il Bangladesh, lo Sri Lanka,..) possono realisticamente rendere più praticabile e confacente al superiore interesse del minore la soluzione della sua integrazione, in attesa del raggiungimento della maggiore età, piuttosto che quella del rimpatrio. Diviene dunque decisiva la questione dei diritti e delle facoltà esercitabili dal minore sottoposto a tutela, al fine di evitare situazioni di mero "parcheggio" nelle strutture di accoglienza, fonte eventuale di ulteriore isolamento ed emarginazione.29 Ugualmente, vanno definite le caratteristiche connesse al permesso di soggiorno del minore sottoposto a tutela. Se il Testo unico ha sciolto ogni dubbio in merito all'accesso all'assistenza sanitaria (includendo il permesso di soggiorno per affidamento tra quelli che consentono l'iscrizione obbligatoria al SSN in condizione di parità con il cittadino italiano: art. 34) e all'istruzione, margini di ambiguità permangono per quanto concerne l'accesso all'attività lavorativa degli ultraquattordicenni. L'esclusione da tale facoltà di coloro che godano di un affidamento temporaneo alle strutture di accoglienza dell'ente locale o del volontariato non potrebbe ritenersi legittima per l'evidente ed ingiustificata disparità di trattamento che si creerebbe rispetto a quelli affidati ad un adulto straniero in possesso di permesso o di carta di soggiorno, per i quali l'art. 31 c. 2 prevede il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari, valido dunque anche per l'esercizio dell'attività lavorativa in base al principio di multifunzionalità. Per tale ragione, appare certamente illegittimo, perché contrastante con la norma primaria che dovrebbe attuare, il regolamento delle attività del Comitato che non contempla alcuna disposizione per l'accesso all'attività lavorativa dei minori stranieri non accompagnati accolti, citando soltanto i diritti relativi al "soggiorno temporaneo, alle cure sanitarie, all'avviamento scolastico e alle altre provvidenze disposte dalla legislazione vigente" (art. 6.1), mentre la durata del permesso di soggiorno del minore viene ridotta a novanta giorni, estensibili fino ad un massimo di 150 giorni su decisione del comitato (art. 9) . La mancata previsione di ulteriori possibilità di proroga rende di difficile interpretazione il significato di detto articolo, che potrebbe certo adattarsi alle esigenze di minori arrivati in Italia per soggiorni temporanei nell'ambito di iniziative di solidarietà promosse da enti locali ed associazioni di volontariato, ma non certo a quelle dei minori non accompagnati giunti in Italia irregolarmente, per i quali la permanenza potrebbe rendersi necessaria per più lunghi periodi di tempo, per le difficoltà ad organizzare un rimpatrio "assistito" ovvero perché l'integrazione in Italia potrebbe comunque risultare la soluzione più conforme agli interessi superiori del minore medesimo.

Da questa disamina appare chiaramente l'orientamento del governo italiano di privilegiare la soluzione del rimpatrio assistito rispetto a quella dell'integrazione. Tale orientamento viene giustificato con l'obiettivo proclamato di contrastare l'immigrazione irregolare e le organizzazioni che la sfruttano, di salvaguardare il principio della programmazione dei flussi di ingresso e di rispettare il criterio preferenziale accordato alla riunificazione familiare dagli strumenti normativi internazionali di tutela dei minori.30 Non è priva di fondamento l'obiezione sollevata dagli organismi umanitari e di volontariato, secondo cui tale politica potrebbe determinare effetti esattamente opposti. I minori, percependo la concreta eventualità del rimpatrio, e spaventati da essa, potrebbero non avere interesse a emergere dalla clandestinità e a sottrarsi alle condizioni di sfruttamento cui spesso sono soggetti (accattonaggio, lavoro minorile, prostituzione, situazioni che posso determinare in molti casi la fattispecie della vera e propria "riduzione in schiavitù"), così come anche il rapporto con i servizi sociali e le comunità di accoglienza verrebbe falsato e reso problematico dall'obbligo di cooperazione di queste ultime con il comitato e le autorità di polizia ai fini dell'eventuale assunzione della decisione del rimpatrio.31

Anche sul piano del merito, dunque, è lecito sollevare dubbi sull'effettiva capacità di una politica di rimpatrio dei minori non accompagnati a corrispondere tanto agli interessi superiori dei medesimi, quanto alle esigenze di sicurezza della collettività nazionale.

 

43. Le prospettive della politica europea comune in materia di immigrazione e asilo in occasione del Vertice europeo straordinario di Tampere (Finlandia) del 15-16 Ottobre. I documenti propositivi di organismi italiani ed europei.

Il 15-16 ottobre scorso si è svolta a Tampere (Finlandia) la riunione speciale del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo dei Paesi dell'Unione Europea, interamente dedicata alle materie della giustizia e degli affari interni, tra cui, in particolare, quelle concernenti l'immigrazione e l'asilo.

Le conclusioni del vertice stabiliscono le linee indicative della politica dell'Unione Europea per i prossimi anni in questo settore, riprendendo e sviluppando il Piano d'azione di Vienna, precedentemente adottato dal Consiglio e dalla Commissione il 4 dicembre 1998, al fine di giungere entro i prossimi cinque anni alla "comunitarizzazione" delle questioni inerenti l'immigrazione e l'asilo prevista dal Trattato di Amsterdam.

Il consiglio europeo di Tampere ha così ribadito che entro i prossimi due anni dovrà essere istituito un regime europeo comune in materia di asilo, comprendente i meccanismi di determinazione dello Stato competente per l'esame dell'istanza di asilo (attualmente regolati dalla Convenzione di Dublino), norme comuni per una procedura equa ed efficace, condizioni minime comuni di accoglienza ed un'interpretazione comune della definizione di rifugiato e dei diritti sostanziali connessi allo status di rifugiato. Il regime di protezione dovrebbe essere completato dalla definizione a livello comune europeo di un sistema complementare a quello previsto dalla Convenzione di Ginevra. Tra i passi più immediati viene sollecitato il completamento dei lavori necessari all'istituzione del sistema per l'identificazione dei richiedenti asilo mediante le impronte digitali (Eurodac). Nel campo dell'immigrazione e della gestione dei flussi migratori, il Consiglio Europeo di Tampere ha confermato fra l'altro la volontà di giungere entro i prossimi due anni ad una politica comune in materia di visti di breve durata e di accordi di riammissione, a proseguire il partenariato con i paesi di origine, sulla base di piani di azione finora elaborati, nonché a rafforzare lo status dei migranti legali mediante una politica di eguaglianza di trattamento e di lotta al razzismo e alla xenofobia.

L'impegno espresso nelle conclusioni del Vertice europeo ad una "piena e completa applicazione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati" è stato apprezzato dall'ECRE (European Consultation of Refugees and Exiles), un'organizzazione europea rappresentativa di 70 agenzie non governative per la protezione dei rifugiati in tutta Europea, che in un comunicato stampa ha dichiarato che "se le conclusioni del Vertice saranno applicate nello spirito con cui sono state scritte, saremo convinti che ci si è allontanati di almeno un passo dalla Fortezza Europa" (le prese di posizione dell'ECRE sul vertice europeo di Tampere possono essere consultate sul sito Internet: http://www.ecre.org )

In vista del vertice di Tampere, diverse organizzazioni italiane ed europee hanno stilato documenti e proposte inviate ai rispettivi governi. Tra questi, va segnalato il documento elaborato dal Gruppo di riflessione religiosa che sottolinea l'esigenza che "l'Europa punti ad una armonizzazione di "alto profilo" delle politiche e delle procedure in vigore nei settori dell'immigrazione e dell'asilo", adottando, nel campo dell'asilo, "un'ottica che privilegi la tutela dei diritti fondamentali della persona non subordinata a criteri di convenienza e di opportunità socio-economica", mentre nel campo dell'immigrazione viene auspicata "la definizione di vie di immigrazione legale effettivamente percorribili" quale alternativa all'immigrazione clandestina. Il testo del documento può essere richiesto al Servizio Migranti e Rifugiati della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (E-mail: sm.evangeliche@agora.it ). Sul processo di comunitarizzazione delle politiche in materia di immigrazione e asilo, si è soffermato pure un gruppo di accademici europei, coordinati dall'Università di Amsterdam, denominatosi AGIT (Accademic Group on Immigration-Tampere) che ha steso un lungo ed articolato documento propositivo, che può essere richiesto alla segreteria dell'ASGI (tel. fax. 040/382651, e-mail: ledaz@tin.it ).

"Background information" sul Trattato di Amsterdam e le prospettive della politica europea comune in materia di immigrazione e asilo.

Lo scorso 1° maggio è entrato in vigore il secondo trattato sull'Unione Europea, quello firmato ad Amsterdam il 2 ottobre 1997, che contiene importanti novità nelle materie dell'immigrazione e dell'asilo. Con il trattato di Amsterdam, esse vengono infatti a far parte gradualmente del cosiddetto "Primo Pilastro" dell'Unione Europea; sono cioè ricomprese in ambito comunitario, rafforzando anche il ruolo del Parlamento europeo e della Corte europea di giustizia.

I cambiamenti introdotti dal nuovo trattato sono finalizzati alla "creazione di un nuovo spazio senza frontiere interne" e all'obiettivo di "conservare e sviluppare l'Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione alla criminalità e la lotta contro quest'ultima".

Il nuovo titolo IV del Trattato CE si intitola "Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone" ed investe, nello specifico:
- l'attraversamento delle frontiere esterne ed interne dell'Unione;

- l'asilo, l'immigrazione, la politica nei confronti dei cittadini degli Stati terzi;

- la cooperazione giudiziaria in materia civile.

Il trattato di Amsterdam stabilisce una "comunitarizzazione" graduale della politica migratoria e un termine, cinque anni, affinché gli Stati membri arrivino ad avere una politica comune in materia di immigrazione. Per un periodo transitorio di cinque anni dall'entrata in vigore del trattato è previsto che il Consiglio, nelle materie di cui sopra, deliberi all'unanimità su proposta della Commissione o su iniziativa di uno Stato membro e previa consultazione del Parlamento. Trascorso tale periodo sarà il Consiglio a deliberare su proposta della Commissione che farà da filtro alle richieste formulate dagli Stati membri ed il Consiglio, deliberando all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo, deciderà in marito alle materie comunitarizzate secondo la procedura di codecisione (art. 189B).

Nel corso di questo periodo transitorio di cinque anni, ci si attende che il Consiglio Europeo adotti misure in materia di immigrazione nei seguenti ambiti:

- condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini dei paesi terzi;

- requisiti e condizioni in base ai quali cittadini dei paesi terzi legalmente residenti in uno Stato membro potrebbero risiedere in un altro Stato membro.

La questione dell'asilo e dei rifugiati è disciplinata, insieme alla politica d'immigrazione, dall'articolo 63 del Titolo IV. La problematica dell'asilo è suddivisa in due ambiti diversi:

- in primo luogo, si considera la materia dell'asilo con riferimento ai rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951;

- in secondo luogo, si affronta la problematica della protezione temporanea e del "burden-sharing" (ripartizione degli oneri tra gli Stati membri).

Le misure che saranno adottate nella materia dell'asilo riguarderanno i seguenti ambiti:

- i criteri e le procedure da applicare per determinare lo Stato membro responsabile dell'esame di una domanda d'asilo;

- le norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo sul territorio comune;

- le norme minime per un'interpretazione comune della definizione convenzionale di rifugiato;

- le norme minime procedurali in materia di riconoscimento o di revoca dello status di rifugiato.

I processi di armonizzazione europea della questione dell'asilo si estenderanno dunque non solo alla questione dei rifugiati secondo la Convenzione di Ginevra , ma anche a quella, sempre più attuale e rilevante, dei rifugiati accolti in regime di "protezione temporanea". Il trattato di Amsterdam prevede peraltro che una piena comunitarizzazione della materia dell'asilo potrà avvenire solo al termine di un periodo transitorio di cinque anni.

Il trattato di Amsterdam contiene anche un protocollo sull'asilo, non firmato dalla Danimarca, in base al quale le eventuali richieste di asilo presentate da cittadini dell'Unione Europea dovranno di norma essere dichiarate inammissibili. Il contenuto di tale protocollo è stato criticato dall'ACNUR e dall'ECRE (European Consultation on Refugees and Exiles), perché giudicato in contrasto con la Convenzione di Ginevra del 1951.

Al testo del Trattato di Amsterdam è stato infine allegato un protocollo sull'integrazione dell'acquis di Schengen nell'ambito dell'Unione Europea, con il compito di far confluire le norme Schengen, il Segretariato Schengen ed il suo personale nell'Unione Europea.

Il Trattato di Amsterdam prevede significative eccezioni per il Regno Unito e l'Irlanda, che continueranno ad esercitare i controlli sulle persone alla proprie frontiere e saranno esclusi dalle previsioni del nuovo titolo IV in materia di visti, asilo e immigrazione.

Bollettino news aggiornato alla data del 14 febbraio 2000 e curato da Walter Citti, della segreteria dell'ASGI - Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione (tel. fax.040/382651).