In una lettera al Manifesto di sabato scorso, Dino Frisullo, con l'autorevolezza che gli deriva da anni di attivita' in difesa di immigrati e rifugiati, distribuisce generose tirate d'orecchie a destra e a manca (piu' a manca che a destra) sul tema dei centri di custodia per stranieri. In particolare, gran parte dell'associazionismo laico e religioso e' accusato, da Frisullo, di non essersi opposto con sufficiente forza all'istituzione di questi centri, uno dei quali - quello di Trapani - e' assurto a tristi onori di cronaca, dopo la morte, in un rogo, di quattro immigrati in attesa di espulsione. Facendo parte della porzione di associazionismo oggetto degli strali di Frisullo, provo, sebbene privo di comparabile autorevolezza, a replicare.

Frisullo vede il rischio che la lotta per "chiudere i lager e aprire le frontiere" resti appannaggio di una sparuta minoranza garantista, e sia condannata, per cio' stesso, a indossare gli abiti di infruttuosa, ancorche' nobile, testimonianza. Mi sembra un timore fondato, per la semplice ragione che, a dispetto dell'accostamento formale dei due temi, si sta spostando eccessivamente il baricentro della questione sul primo dei due. Non si considera, cioe', che la campagna per la chiusura dei centri ("lager", nella terminologia di Frisullo) non e' cosa che possa essere condotta separatamente da quella per l'apertura delle frontiere, ma e' un banale, ancorche' nobile, corollario di quest'ultima. E' la chiusura (anche solo parziale) delle frontiere a dare origine allo spartiacque tra immigrazione legale e immigrazione illegale. Ed e' questo spartiacque che rende ineludibile il concetto di espulsione: si puo' applicare la concezione piu' ampia possibile di una legge e consentire lo scavalcamento dello spartiacque al maggior numero di persone con una programmazione dei flussi non micragnosa, con sanatorie una tantum o con regolarizzazioni "a regime", ma fintantoche' lo spartiacque esiste, esistera' anche l'immigrato insanabilmente illegale da espellere. E' infine il bisogno di effettivita' che il provvedimento di espulsione, come ogni altro provvedimento, presenta a imporre la limitazione della liberta' di movimento dello straniero in attesa di espulsione: per quale strana volonta' di autocastrazione un tale straniero dovrebbe astenersi, altrimenti, dal rendersi irreperibile? All'inverso, provate a liberalizzare l'immigrazione e vedrete evaporare come neve al sole permessi di soggiorno, espulsioni e centri di custodia.

Se questa e' la situazione, concentrare il dibattito, come molti stanno facendo, sulla chiusura dei centri, piuttosto che sull'apertura delle frontiere, evoca l'immagine di suffragette che, invece di battersi per l'estensione del diritto di voto alle donne, chiedano surrettiziamente che si chiuda un occhio sull'appropriazione, da parte dell'elettore maschio, di una seconda scheda elettorale e sul suo ingresso in cabina in compagnia della moglie o della figlia. D'altra parte, su una questione come l'apertura delle frontiere e la conseguente liberalizzazione dell'immigrazione, e' evidente come non basti racimolare una dozzina di parlamentari ben intenzionati, ne' l'eventuale unanimita' delle associazioni attive nel settore. Si tratta piuttosto di raccogliere un consenso maggioritario nel paese, giacche' il problema tocca aspetti basilari della societa', quali il dualismo cittadino-straniero, i fondamenti dello stato sociale e la ridistibuzione della ricchezza: aspetti che difficilmente possono avvantaggiarsi delle fughe in avanti di elites illuminate. Oggi la societa' italiana non appare affatto disposta a manifestare quel consenso maggioritario. Puo' diventarlo per due strade: il riconoscimento di elementi di convenienza nella prospettiva di un'apertura delle frontiere o l'individuazione di corrispondenti e adeguate motivazioni etiche.

La convenienza sarebbe facile da riconoscere se si ipotizzasse un modello di libera circolazione dei lavoratori migranti (trascuro qui, per semplicita', il fatto che i migranti non siano solo lavoratori) in un mercato del lavoro perfettamente libero e concorrenziale. La caduta dei salari derivante dall'aumento dell'offerta associato all'afflusso di immigrati porterebbe a una crescita del prodotto interno tale da compensare largamente il danno subito dai lavoratori nazionali (a condizione, naturalmente, di trasferire parte dei benefici dell'accresciuta produzione ai soli lavoratori nazionali - con un approccio, quindi, discriminatorio). Sarebbe poi il progressivo degrado della condizione dei lavoratori stranieri (non protetti da trasferimenti compensativi) a porre un limite spontaneo al flusso migratorio, proteggendo il sistema dal collasso.

Naturalmente, quando a sinistra si parla di libera circolazione, difficilmente la si pensa affidata alla "mano invisibile" del libero mercato. Si pensa piuttosto a un libero accesso del migrante a un sistema di diritti minimi di cittadinanza, rappresentabili, schematicamente, dall'istituzione di un reddito minimo garantito. Questo naturalmente fa si' che all'ingresso di ogni ulteriore immigrato corrisponda un onere per la societa'. Vi e' convenienza finche' l'aumento di ricchezza prodotto dal lavoratore che entra a far parte del sistema eccede l'onere associato al suo sostentamento minimo. Se, pero', per qualche ragione - ad esempio, la quantita' limitata di strumenti di produzione (il capitale) - la produttivita' di ciascun nuovo immigrato decresce col crescere del numero dei lavoratori gia' presenti nel sistema, la condizione di convenienza dell'ulteriore ingresso risulta, da un certo momento in poi, violata. In un'economia di tipo industriale, normalmente e' cosi'. Ci sono ragioni per ritenere che la realta' odierna sia diversa? Forse si': i modelli sviluppati per le economie industriali potrebbero non essere adatti a un economia in cui il settore dei servizi acquista una rilevanza sempre maggiore. Ma si tratta di rendere quelle ragioni cognite ed evidenti alla maggioranza del paese.

Se, malauguratamente, di ragioni del genere non ne venisse rinvenuta alcuna, passata la soglia oltre la quale la condizione di convenienza e' violata, la societa' temerebbe di patire un danno da ulteriori flussi in ingresso. Questo non significa ancora la perdita di motivi a supporto di una politica di apertura delle frontiere, ma tali motivi andrebbero cercati in campo etico, anziche' economico: mille sono gli argomenti che militano in favore di una piu' equa distribuzione del benessere tra il nord e il sud del mondo. Sono, tuttavia, argomenti su cui si e' tutti solleciti a convenire nelle discussioni a tavola o sotto l'ombrellone o nei convegni socio-religiosi in istituti a cinque stelle. Molto meno quando qualcuno venga a frugare concretamente nel nostro portafoglio.

In entrambi i casi si tratta - mi sembra - di rafforzare argomenti, piuttosto che suscitare emozioni. Le emozioni hanno vita breve, anche se intensa; le soluzioni che qui si richiedono hanno invece a che fare con l'atteggiamento di lungo periodo di un popolo verso altri popoli, non di una sparuta minoranza verso sparute minoranze. Devono quindi sopravvivere all'impegno degli arieti dei diritti umani. Anche quando l'impegno e', come nel caso di Dino Frisullo, di eccezionale qualita'.