MAI PIU’ CLANDESTINI: I SANS-PAPIER ITALIANI HANNO VINTO

La sera del 3 luglio a Roma e a Brescia gli immigrati, dopo un mese di digiuni, cortei e assemblee, hanno festeggiato. Uno di loro mancava.

Chi ha ucciso Mondul Kumar, trovato riverso sulla spiaggia di Ostia, referto di arresto cardiaco? Forse i giovinastri che l’avevano preso a calci per un tatuaggio riuscito male. Forse il dolore di dover campare di tatuaggi, attendendo da sei mesi il rinnovo del permesso di soggiorno per tornare in fabbrica e inviare il salario alla moglie e ai cinque figli in Bangladesh. Quel salario che, essendo in nero, non poteva essere certificato come reddito per rinnovare il soggiorno…

Per Guido Bolaffi, che da otto anni e sei governi dirige la politica dell’immigrazione, Mondul era fra i "non meritevoli" (di vivere?). Dalla prima pagina del Corsera s’è scagliato contro i "nostalgici del voto politico all’università", che pretendono di legalizzare chi non merita. Cioè i 53mila immigrati ai quali, dopo quasi due anni di attesa, le questure avevano chiuso la porta in faccia perché la loro richiesta di legalità non era sufficientemente documentata.

Non meritevoli? Una madre ecuadoregna ha esibito come prova della sua presenza in Italia il certificato della nascita di sua figlia tre mesi prima della data fatidica del 27 marzo ’98. Rigettata, come un pakistano ricoverato per gastropatia cronica: si accettava solo il ricovero in pronto soccorso, perché certificato dalla polizia. Nè gli abbonamenti nominativi del tram, né i certificati consolari valevano come prova: le multe invece sì, perché fatte da un pubblico ufficiale.

Ci vorrebbe la penna di Kafka o Dostojevski per narrare l’odissea di decine di migliaia di immigrati che due anni fa s’erano fidati del solenne impegno dei ministri Napolitano e Turco. Subito dopo il varo della legge sull’immigrazione che porta il loro nome, due provvedimenti distinti avrebbero prosciugato l’area della clandestinità e consentito ai residenti stranieri di votare nelle elezioni locali. Nella legge non si potevano inserire, per non stuzzicare il Gaspar-che-dorme. Ma perdiana, dissero, non vi fidate della parola d’un ministro?

Il diritto di voto dorme in un cassetto. La "sanatoria" invece arrivò quasi un anno dopo, e fu una via crucis. Gli immigrati dovevano dimostrare nero su bianco di essere stati in Italia otto mesi prima e di avere lavoro e alloggio regolare. Una contraddizione in termini. Ve l’immaginate un clandestino che riempie la sua cartellina: "dunque vediamo, il contratto d’affitto, la busta paga, no il 740, e poi il certificato in data utile, ecco ora c’è tutto…"

Infatti non c’era nulla. Da quel giorno due parole divennero più importanti del nome del padre o del figlio, nella vita di 250mila clandestini che non volevano più esserlo: ricevuta e prove. Stretto in tasca il cedolino che doveva proteggerli dall’espulsione (ma secondo una recente sentenza della Cassazione non li protegge affatto), iniziò la caccia ai documenti da allegare. Pagati a caro prezzo, veri o falsi che fossero, a migliaia di padroncini, speculatori, agenti corrotti, venditori di carte fasulle.

Quattro su cinque alla fine esibirono "prove" accettabili, uno no. Stavano ancora cercandole, quando l’ennesimo latrato di Gasparri convinse il Viminale a mettere da parte le sagge circolari con cui l’ex capo della polizia Masone dava atto dell’impossibilità di esigere da un ex clandestino una regolarità di vita e lavoro che molti italiani non hanno. Si cambiò l’etichetta dello scaffale in cui giacevano oltre cinquantamila pratiche. Da "sospese" a "rigettate". I loro titolari all’appuntamento in questura si videro consegnare il "rigetto" o l’intimazione di espatrio, o peggio furono espulsi: è successo a Mantova, a Bari e altrove.

Fu il terrore. Nessuno s’avvicinò più alle questure, neppure chi poteva sperare di trovarvi il permesso di soggiorno. Ma se Maometto non va alla montagna… Iniziarono le retate: cinquanta, cento persone ogni notte in questura, rastrellate a caso nel "popolo della ricevuta" o fra coloro che, in due anni di sanatoria incompiuta e di proterva chiusura di ogni accesso legale, erano entrati clandestinamente troppo tardi per la sanatoria. Qualcuno di loro la ricevuta se l’era comprata, aggiungendo altri milioni a quelli già versati ai trafficanti per il viaggio. Se è la polizia che le vende, sarà tutto legale… Quattordici agenti e funzionari corrotti incriminati solo a Roma: alle loro milletrecento vittime è rimasto solo un pezzo di carta con timbro della questura.

E’ in questo scenario di cupa disperazione, fra morti per infarto da stress e tentazioni di suicidio col fuoco, che a Napoli, Brescia, Roma e Torino gli immigrati hanno deciso di sollevarsi e manifestare, o sedersi e digiunare. E’ nato il movimento dei sans-papier all’italiana. Protagonisti gli asiatici del subcontinente indiano, che dai tempi della Pantanella di Roma hanno imparato che talvolta in Italia la lotta collettiva paga più dell’arrembaggio individuale. Con loro a Brescia i senegalesi, a Napoli e Torino i maghrebini. Svenendo uno dopo l’altro nell’estate incipiente, occupando piazze che il razzismo leghista a Brescia e la frenesia giubilare a Roma volevano sgombre, gridando, ritmando e danzando la loro voglia di legalità ("noi-vo-glia-mo permesso-di-soggiorno…"), hanno fatto il miracolo.

La lotta ha fatto emergere il paradosso: cinquantamila dannati a tornare in clandestinità, il doppio se si contano i rifiuti di rinnovo del soggiorno, mentre l’economia italiana ha tanto bisogno di manodopera che il ministero del Lavoro fa entrare per decreto decine di migliaia di stagionali stranieri. Occorrono 350mila braccia in più all’anno: perché dunque ricacciare indietro chi vive e lavora da anni nelle nostre città? La grande stampa ha documentato la disparità di trattamento, la discrezionalità e l’arbitrio delle questure. E dopo oltre un mese gli scioperi della fame sono stati sospesi. Il governo tratta, le istanze tornano nello scaffale delle "pratiche sospese" e saranno riviste con criteri più aperti. Si riapre la porta alla speranza.

"Fosse ancora vivo Di Liegro…", diceva un pakistano più anziano, mentre il 2 giugno schivava le manganellate della polizia decisa a impedire a diecimila immigrati di portare in Vaticano, nel giorno del Giubileo dei migranti, il grande striscione "Diritto alla legalità, mai più clandestini". In quel corteo gli italiani erano uno su mille, e mancava del tutto proprio quel tessuto di "cristiani esigenti" che don Luigi aveva faticato a costruire.

Anche a Brescia si è tentato di calcare la mano: gli scioperanti della fame prelevati all’alba e portati in questura per ordine del Viminale, scavalcando il questore Arena che poi ha pagato con la rimozione, come già il suo collega Ruggiero a Firenze, il rifiuto di cavalcare l’ansia xenofoba dei leghisti ma anche del sindaco di centrosinistra.

Hanno vinto quasi da soli, gli immigrati. E non è detto che tutti potranno riabbracciare le loro famiglie, quest’estate, portando in tasca il sospirato permesso di soggiorno che garantisce il ritorno e il lavoro in Italia. Solo a Milano sono loro l’80% dei collaboratori domestici, il 50% del personale di cura agli anziani, il 40% nelle ditte di pulizia, il 30% degli edili e il 20% dei metalmeccanici.

Certo, sono stranieri anche il 27% dei detenuti. Perché in prigione, se sei straniero e clandestino, è due volte più facile entrare e dieci volte più difficile uscire. "Ci vogliono criminali per forza?" gridava un ragazzo del Bangladesh che per lottare a Roma sta perdendo l’occasione della sua vita. Sguattero in un albergo di Bolzano, in nero ma a due milioni al mese: più di quanto guadagnerebbe in un anno nel suo paese.

Dino Frisullo