Cari amici,

Enrico Pugliese mi ha invitato a mettere per iscritto le proposte avanzate, a fine marzo, durante un seminario indetto da Maritati. Lo faccio un po' per consentirgli di impallinarle piu' comodamente, un po' nella speranza che ne derivi un dibattito allargato.

Affrontero' due temi: il quadro normativo esistente, le modifiche strategiche.

1) Il quadro esistente.

Una legge sulla condizione dello straniero (un soggetto distinto dal cittadino per il fatto che e' privo di un "diritto a soggiornare" e che puo' quindi essere ammesso o allontanato dal territorio dello Stato) deve indicare le condizioni in base alle quali il soggiorno e' consentito e legale, e le misure per impedire il soggiorno illegale. Le misure repressive, oltre a essere, a giudizio di molti, spiacevoli, sono di difficilissima applicazione e, nei fatti, di scarsissima efficacia nei casi in cui debbano riguardare una porzione non meramente residuale di un fenomeno. Soprattutto quando il fenomeno nel suo complesso assuma dimensioni non trascurabili. Un conto, per intenderci, e' individuare ed allontanare dallo stadio qualche decina di "portoghesi", altro e' farne uscire ottantamila. Consci di questa verita' e attenti al proprio interesse economico, i presidenti delle squadre di calcio si premurano di mettere in vendita i biglietti con congruo anticipo rispetto all'inizio della partita. Non ne vendono in misura maggiore alla capienza dello stadio; tuttavia, se la squadra ha successo e ogni settimana rimangono senza biglietto quarantamila spettatori, un presidente sveglio contempla la possibilita' di ampliare lo stadio.

Anche riguardo all'immigrazione andrebbe adottato lo stesso atteggiamento: una volta fissata la misura in cui si vuol considerare positivo l'ingresso e il soggiorno di migranti, ci si dovrebbe accertare che, entro quei limiti, ingresso e soggiorno non siano inutilmente ostacolati. Solo successivamente - sul piano logico - ci si dovrebbe dedicare all'individuazione e all'attuazione delle misure repressive per quanto esubera da quei limiti e, quindi, non e' considerato accettabile; con un occhio, pero', alla eventuale necessita' di ritoccare anche sensibilmente la stima di quanto e' benvenuto, alla luce di considerazioni di opportunita' economica, politica e - perche' no? - etica.

Il Testo unico sull'immigrazione offre gli strumenti per effettuare, anche frequentemente, queste revisioni, e per fissare vie percorribili di ingresso legale. Li offre, ma non li impone; gran parte della sua efficacia e' cosi' lasciata all'applicazione che ne viene data. Vediamo perche'.

L'ingresso per lavoro subordinato e' possibile, entro le quote fissate dal decreto flussi, a seguito di una chiamata nominativa da parte di un datore di lavoro. La cosa entusiasma i politici di tutti gli schieramenti, che, di fronte all'idea di un immigrato che entra con la certezza di un posto di lavoro, sono disposti a commuoversi ed applaudire come se si trattasse di Rivera in Italia-Germania 4 a 3. Sfortunatamente entusiasma molto meno gli imprenditori, che, dovendo assumere - poniamo - un guardiano notturno, a Rivera preferirebbero Bertini, e non se la sentono di scegliere al buio - sulla base, cioe', al piu', di un nome letto in una lista. Gli imprenditori, anche quando votano per Berlusconi, Bossi o Fini, sono, riguardo al problema dell'assunzione di un lavoratore, di un antirazzismo esemplare. Per loro un lavoratore e' da assumere se - per semplificare - il prodotto di una sua ora di lavoro eccede, al prezzo di mercato, il salario che per quell'ora gli devono corrispondere. Che sia bianco, nero, giallo o a pallini e' cosa che li intriga quanto la meccanica quantistica intriga Rutelli. Vorrebbero pero' poterlo vedere all'opera prima di firmare un contratto. In mancanza di questa possibilita' esplicita, la chiamata nominativa continua a funzionare come ha sempre funzionato: per dare regolarita', ex post, a un rapporto di lavoro nato nell'irregolarita': lo straniero e' in Italia; incontra il datore di lavoro; comincia a lavorare in nero; da' un saggio della sua produttivita' marginale; il datore di lavoro capisce che non deve rischiare di perderlo, va all'ufficio provinciale del lavoro e avvia la procedura per la chiamata come se lo straniero stesse a Rabat, a Tirana, a Bucarest.

Tutto, quindi, rispetto alla chiamata nominativa, rimane come prima. O meglio: tutto rimarrebbe come prima se in Italia, oltre ai magistrati, fossero soggetti alla legge anche i burocrati. Perche' dovete sapere - e certamente lo sapete - che il datore di lavoro che va all'ufficio provinciale del lavoro si vede chiedere, secondo quanto stabilito dall'articolo 30, comma 3, lettera c) del Regolamento, la dimostrazione della propria capacita' economica. La cosa - sia detto per inciso - e' del tutto priva di rilevanza, giacche' il datore di lavoro sta firmando un contratto col quale si impegna a retribuire in modo adeguato il lavoratore. Si obietta: ma se il datore di lavoro e' uno spiantato e finisce poi per non essere in grado di garantire la retribuzione al lavoratore? Rispondo: faccia come farebbe se il lavoratore fosse italiano; lo licenzi. Lo licenzi? - chiedono indignati gli obiettori - Ma come? e la giusta causa? e il giustificato motivo? Rispondo: ma ci siamo accorti che, mentre pretendiamo giuste cause e giustificati motivi, il mondo reale va avanti con datori di lavoro che fanno firmare al lavoratore fogli di dimissione senza data? E cosa e' preferibile: un rapporto di lavoro che si tronca senza giustificato motivo o uno che, per l'incombere del tabu' del licenziamento, non nasce proprio o resta irregolare e incontrollabile sotto tutti gli aspetti?

In attesa delle risposte degli interlocutori giuslavoristi, chiudo l'inciso e torno ai nostri burocrati. Si', perche' non ci sarebbe niente di drammatico se la norma del Regolamento venisse applicata con buon senso. Qualcuno dei nostri burocrati, invece, e' riuscito a dare una quantificazione (assente nella normativa, assente anche nel vademecum pubblicato dal Ministero dell'interno) al reddito annuo necessario per procedere alla chiamata nominativa: ottantacinque milioni! Delle due l'una: o il burocrate in questione prende sette milioni al mese e, conscio della sua pochezza, da' per scontato che tutti gli italiani - ai quali riconosce superiorita' di meriti - viaggino agli stessi livelli; o ritiene che genitori anziani e invalidi bisognosi di assistenza siano prerogativa di gioiellieri all'ingrosso e professionisti di golf, il ceto medio provvedendo invece a farne confezioni di Manzotin da vendere al mercato nero.

In questo contesto restano fuori sia Bertini sia Rivera, ed e' difficile meravigliarsi se Italia-Germania finisce 3 a 3. Per andare in finale si puo' allora sperare solo nell'articolo 23, quello sulla sponsorizzazione. E' un articolo che e' nato in due fasi: i primi tre commi facevano parte del disegno di legge del Governo; il quarto fu inserito, sotto forma di emendamento governativo, per tener conto della pressione esercitata da una parte della maggioranza sensibile agli argomenti esposti dalle ONG. Nella versione definitiva prevede (primi tre commi) che, fissata nel decreto flussi una quota di ingressi per inserimento nel mercato del lavoro, i lavoratori possano entrare - a cercare lavoro sul posto - sulla base di una garanzia di mantenimento presentata, entro sessanta giorni dalla pubblicazione del decreto flussi, da uno sponsor (cittadino italiano o straniero, o ente). Trascorso quel termine, possono entrare (quarto comma) i lavoratori iscritti in liste tenute dalle Rappresentanze diplomatiche o consolari italiane e basate sull'anzianita' di iscrizione. La ratio che sta dietro a questo articolo e' evidente alla luce del problema Rivera-Bertini descritto sopra - la necessita', cioe', di un incontro diretto, sul posto, tra datore di lavoro e lavoratore. Quella, in particolare, che sta dietro al quarto comma e' evidente se, lasciato il punto di vista del datore di lavoro, si abbraccia per un momento quello del lavoratore straniero: cosa fa se non ha nessuno che lo sponsorizzi dall'Italia? languisce ai bordi della piscina di Betsaeta' o si affida ai servigi di uno scafista? Il quarto comma offre - per dirla con una persona che l'ha capito - una luce, sia pur tenue, in fondo a quello che, altrimenti, sarebbe un tunnel completamente buio.

Funziona tutto questo? Potrebbe, ma non funziona ancora. Sui primi tre commi grava la maledizione dei sessanta giorni. Il limite per presentare la richiesta completa di documentazione - riguardo al quale, se distraete per un momento il mio narcisismo, confessero' di aver detto e fatto anch'io delle poderose stupidaggini - risulterebbe adeguato a regime - in una situazione, cioe', in cui banche e assicurazioni sapessero dove mettere mani per stipulare le fideiussioni richieste dal Regolamento e - soprattutto - in cui i Comuni fossero agili nell'accettare autocertificazioni in relazione all'abitabilita' dell'alloggio destinato allo straniero. La situazione, cioe', che si avra', se tutto va bene, il prossimo anno. Non quest'anno.

Alla scadenza temporale non sarebbero assoggettate le sponsorizzazioni presentate da associazioni e da enti locali, ma associazioni e enti locali non sembrano fulmini nell'avvalersi di questa facolta'. Non sta a me giudicarli. Ma si giudicano da soli se e quando pontificano in favore del principio di sussidiarieta' (meno Stato, piu' decentramento, piu' privato) o contro "l'ennesima sanatoria".

Il limite dei sessanta giorni era pensato perche' non si sovrapponessero due canali di ingresso: quello relativo ai primi tre commi e quello relativo al quarto comma. La cosa puo' far sorridere in una societa' rivoluzionata da Internet: che difficolta' ci puo' mai essere a gestire simultaneamente due flussi di richieste in concorrenza tra loro se queste richieste vengono registrate e trasmesse per via informatica? L'Italia della pubblica amministrazione pero' e' altra cosa; fosse per lei, Bill Gates oggi lavorerebbe come foca ammaestrata al Circo Zavatta. Una cosa comunque e' certa: non ha senso stoppare gli ingressi sponsorizzati se quelli ex comma 4 per qualche ragione non possono aver luogo. E di ragioni del genere ce ne sono, purtroppo, almeno due. La prima e' di carattere contingente: non sono state ancora istituite le liste. La cosa mi commuove come mi commuovevano, anni fa, i misteri dell'universo. Capisco che il personale di consolati e ambasciate possa essere esitante ad accettare una incombenza nuova, ma - mi chiedo - cosa farebbero al consolato italiano a Sofia, anche senza l'incombenza nuova, se diecimila bulgari chiedessero un visto di ingresso per turismo? Verosimilmente, registrerebbero le richieste, annotando, tra le altre cose, la data e il nome del richiedente. Bene: compilare una lista di prenotazione equivale a registrare analoghe richieste su uno stesso foglio di carta. Finche' lo spazio non e' esaurito. Poi, si passa a un nuovo foglio, e cosi' via, con numerazione progressiva dei fogli e, se occorre, pinzatura degli stessi in un unico fascicolo. Si spedisce poi i tutto per posta celere. Se si dispone di un computer, magari corredato con il software prodotto dalla foca del Circo Zavatta, si puo' risparmiare carta e spedire il risultato della registrazione per posta elettronica. Un computer del genere costa un paio di milioni. E' quello che un immigrato clandestino spreca per arrivare in Italia con gli scafisti. Forse, si potrebbe fare una colletta...

La seconda ragione e' di carattere strutturale: oltre ad essere iscritto in una lista di prenotazione, lo straniero che voglia entrare in Italia a cercare lavoro sulla base del quarto comma deve soddisfare i requisiti fissati da Regolamento. Questo si limita a rinviare a limiti e modalita' (non "requisiti") fissati dal decreto flussi. Il decreto, per quest'anno, non pone altro limite che quello numerico e quello, relativo alle liste, di cui si e' detto. C'e' pero' una direttiva, emanata dal Ministro dell'interno ai sensi dell'articolo 4, comma 3, del Testo unico, che fissa i requisiti relativi alla disponibilita' di mezzi di sostentamento per ogni tipo di ingresso. Per l'ingresso in questione e' stabilito che lo straniero debba disporre di un ammontare pari a circa cinque milioni (meta' dell'importo annuo dell'assegno sociale piu' l'occorrente per l'assicurazione sanitaria) e delle risorse necessario per l'eventuale rimpatrio. Lo straniero deve inoltre indicare l'esistenza di idoneo alloggio in Italia.

Queste richieste non tengono conto del parere espresso, in sede di esame del Regolamento, dalla Commissione affari costituzionali della Camera, con cui si raccomandava che non venissero imposte condizioni ulteriori, di natura economica, all'ingresso in questione. Ora, mentre il requisito relativo alle risorse finanziarie puo' risultare ragionevole, quello relativo all'indicazione di un alloggio rischia di risultare insormontabile, a meno di non costringere l'immigrato a dissipare i suoi cinque milioni, in due mesi, in una pensione preventivamente prenotata. Non essendovi, infatti, alcuna struttura di accoglienza che non sia gia' completamente saturata da profughi e richiedenti asilo, difficilmente rimpatriabili, non si vede come il tunisino o l'albanese privo di contatti in Italia (che' di loro stiamo parlando) possa individuare, dal proprio paese, un alloggio disponibile.

Il pericolo che domanda e offerta di lavoro continuino a restare separati o che debbano cercare incontri fuori dalla legalita' e' parzialmente scongiurato da una disposizione, contenuta nel decreto flussi, con la quale si prende atto della mancata istituzione di liste nel generico consolato italiano e si stabilisce, per quest'anno, di riservare l'ingresso per ricerca di lavoro auto-sponsorizzata ai lavoratori di Albania, Marocco, Tunisia e, probabilmente, Romania - paesi con i quali l'Italia ha stabilito intese per la riammissione degli espulsi e ai quali destina un trattamento priviegiato per gli ingressi per lavoro. E' un modo per impegnarsi ad attivarle, quelle liste, e per scoprire come l'impresa non richieda audacia soverchia. Quanto al problema alloggio, poi, la necessita' di porvi soluzione potrebbe stimolare un intervento, delle istituzioni e della societa', capace di dare, simultaneamente, risposta ai due timori piu' diffusi che l'auto-sponsorizzazione suscita: il timore di un ingresso che dia scarse risposte alle specifiche esigenze del mercato del lavoro, e quello di una presenza in Italia di soggetti deboli e abbandonati a se stessi. L'intervento potrebbe consistere - saccheggio qui tra le proposte altrui - in un investimento congiunto del mondo imprenditoriale, degli Enti locali e dello Stato in corsi di formazione, residenziali, che accompagnino i migranti in cerca di lavoro nella fase di primo inserimento e li esonerino dal ricorso alla divinazione per il reperimento preventivo di un alloggio. Ha un costo? Si', come tutti gli investimeni. Ma, come tutti gli investimenti, puo' restituire un interesse non trascurabile in termini di migliore inserimento dell'immigrato, minor tensione nella societa', maggior produttivita' del lavoratore, minor probabilita' di fallimento dell'esperienza migratoria e, quindi, minor necessita' di interventi, assai piu' costosi e dolorosi, per l'allontanamento di stranieri indesiderati.

Un altro aspetto di rilievo riguardo all'ingresso e soggiorno per lavoro e' costituito dalle disposizioni relative al lavoro autonomo. La legge, sull'argomento, e' piuttosto rigida: oltre al nulla-osta per l'iscrizione in albi o registri e alla dimostrazione della disponibilita' delle risorse per l'avvio dell'attivita' e dell'immancabile alloggio, lo straniero che voglia soggiornare in Italia per lavoro autonomo deve disporre di un reddito non inferiore - oggi - a sedici milioni annui. Questa soglia segna il limite al di sotto del quale scatterebbe l'esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria, e non ripugna l'imposizione di una condizione relativa al raggiungimento di un livello minimo di inserimento nel mercato - tale, cioe', da non dar luogo ad un aggravio per la spesa pubblica. Tutto questo pero' dovrebbe riferirsi al reddito maturato in Italia. Quando si voglia applicarlo, ai fini dell'autorizzazione all'ingresso, al reddito maturato in patria, si lascia aperta la porta soltanto a chi provenga da paesi industrializzati o a chi, da un paese in via di sviluppo, venga a svolgere in Italia attivita' imprenditoriali, commerciali o professionali di notevole rilievo. Restano invece tagliate fuori le attivita' di piccolo cabotaggio - piccolo commercio e piccoli servizi - che trovano utilmente spazio nella nostra economia, ma non nella categoria delle attivita' di lavoro subordinato. Quale indiano, poniamo, con un reddito annuo di sedici milioni di lire, lascerebbe il suo paese per venire a fare il giardiniere in Italia?

A mitigare questa restrizione, la legge offre la possibilita' di sostituire la dimostrazione relativa al reddito con una prestazione di garanzia, analoga, anche se piu' corposa, di quella prevista dall'articolo 23. Disgraziatamente, si e' omesso, fino ad oggi, di concordare con banche e assicurazioni lo schema di fideiussione corrispondente. Converra' - e qui plagio Andrea Borghesi, della CGIL di Avezzano - predisporne uno "fatto in casa", sulla falsariga di quelli gia' approntati da ABI e ANIA. Nell'attesa che al Ministero dell'interno decidano chi tra i sottosegretari debba studiare il Testo unico.

In sede di applicazione della legge, il vademecum sull'accesso al lavoro viene parzialmente in soccorso del lavoratore autonomo in due modi. Stabilisce, innanzi tutto, che la disponibilita' di reddito si debba considerare dimostrata quando vi sia una dichiarazione di un committente o del responsabile di una cooperativa in relazione al compenso che sara' corrisposto, in Italia, al professionista o, rispettivamente, al socio prestatore d'opera. E mentre nel primo caso siamo ancora fermi al caso di lavoratore autonomo "di peso", nel secondo, si intravede una possibilita' anche per il giardiniere, sempre che qualcuno dia vita a cooperative di servizi.

Il secondo contributo del vademecum consiste nel chiarire, opportunamente, la norma del Regolamento (art. 39, co.7) in base alla quale e' possibile convertire un "regolare permesso di soggiorno diverso da quello che consente l'esercizio di attivita' lavorativa" in un permesso per lavoro autonomo, a condizione di aver maturato i requisiti previsti per l'ingresso, e che la richiesta rientri nella quota fissata dal decreto flussi. Il vademecum, interpretando con buon senso la norma, specifica come si tratti ivi di ogni permesso, "anche" diverso da quelli che consentono l'esercizio di attivita' lavorativa. Risultano cosi' inclusi anche il permesso per inserimento nel mercato del lavoro e quelli, rilasciati per motivi umanitari, con possibilita' di svolgimento di attivita' lavorativa (ad esempio, il permesso previsto dall'articolo 18 del Testo unico sulla protezione sociale). Questo fatto consente, in particolare a chi e' entrato attraverso i canali aperti dall'articolo 23, di conquistare in Italia la soglia di reddito e, quindi, la stabilizzazione del soggiorno, anche quando la sua attivita' sia assolutamente autonoma - priva, cioe', dell'inserimento in una cooperativa.

A dispetto di questi ultimi aspetti positivi, tuttavia, l'attuazione data per quest'anno alla normativa col decreto flussi limita fortemente le chances di accesso al lavoro autonomo, ammontando a sole duemila unita' la quota specifica prevista. Possibilita' di una revisione di questa e delle altre cifre sono previste dal decreto stesso e, piu' in generale, dal Testo unico. Il decreto, in particolare, stabilisce che dalla fine di luglio la ripartizione dei sessantatremila ingressi nelle diverse categorie possa essere ridefinita sulla base delle indicazioni ottenute fino a quel momento. Il Testo unico, per parte sua, dispone che possano essere emanati piu' decreti in un anno. Nessuno quindi impedisce che che si metta mano alla revisione del decreto o che se ne emani uno aggiuntivo. La cosa sarebbe utile ed efficace, dal momento che rafforzerebbe il segnale che in Italia si puo' finalmente entrare legalmente e che capitalizzerebbe gli sforzi compiuti dall'amministrazione centrale, da quelle periferiche e dagli utenti per orientarsi tra disposizioni in buona misura nuove. Si troveranno, all'uopo, il coraggio e la competenza sufficienti?

Tutto cio' che di saggio o di stupido si possa fare riguardo all'ingresso per lavoro puo' essere vanificato o, rispettivamente, esaltato, da un approccio fiscale al problema del rinnovo del permesso di soggiorno. Il rischio affonda le radici nell'articolo 4, comma 3 e nell'articolo 5, comma 5 del Testo unico. Il primo stabilisce che ai fini dell'ingresso lo straniero debba disporre di adeguati mezzi di sostentamento (specificati dalla direttiva del Ministro dell'interno di cui si e' detto). Il secondo dispone, tra l'altro, che il rinnovo del permesso sia rifiutato quando non siano soddisfatti i requisiti per l'ingresso - incluso, quindi, quello relativo ai mezzi di sostentamento. Queste norme sono ispirate al principio secondo il quale l'immigrato, per non costituire problema, deve avere un inserimento sufficientemente solido nel tessuto economico. L'analisi di questo principio ci riporterebbe alla questione di Rivera e Bertini o a quella, meglio sviscerata, dell'uovo e della gallina. Ve le risparmiero'. Mi fermo invece ad esaminare il modo in cui si cerca di implementare la norma.

Se la preoccupazione della societa' riguarda il come fara' l'immigrato a mantenersi per il periodo per cui chiede di prolungare il soggiorno, i mezzi di sostentamento relativi possono derivare da due fonti principali: un reddito futuro o un risparmio gia' accumulato. La certificazione del primo e', per definizione, senza speranza, salvo di non ricorrere alla cartomante gia' consultata per l'indicazione dell'alloggio in Italia. La certificazione del secondo e' un criterio troppo conservativo, giacche' abbiamo a che fare, qui, con immigrati ai loro primi anni di lavoro in Italia (che' altrimenti sarebbero gia' in possesso di carta di soggiorno, a tempo indeterminato). Se pretendiamo che in due anni di lavoro abbiano risparmiato quello che servira' loro per vivere nei due anni successivi, delle due l'una: o hanno percepito un reddito doppio di quello assunto come soglia minima o hanno depositato in conto corrente tutto il reddito maturato, astenendosi dal mangiare, vestirsi, pagare l'affitto e mandare soldi a casa. Nella prima ipotesi saremmo di fronte a una abusiva ridefinizione della soglia minima. Nella seconda, premieremmo, col rinnovo del permesso, il piu' dissennato dei comportamenti.

In medio stat virtus - come mi ricordano talvolta, a gesti, alcuni automobilisti rivali. In questo caso, il medio consiste nel prevedere il reddito futuro sulla base delle informazioni relative al reddito passato. E, per stimare se nei prossimi due anni l'immigrato riuscira' a sostentarsi, e' sufficiente valutare se sia riuscito a sostentarsi nei due anni scorsi. Ma se e' in piedi davanti a noi e ci sta presentando una richiesta di rinnovo del permesso, e' evidente che e' riuscito a sostentarsi. Con mezzi leciti? - si potrebbe chiedere - Si', in base alla Costituzione, se non risultano a suo carico condanne definitive.

Ai nostri governanti deve essere chiaro che tutta l'immigrazione cui, per ignavia o per incapacita', negheranno ogni opportunita' di ingresso o di soggiorno legale per lavoro la ritroveranno in Italia sotto forma di clandestinita' da rimpatriare. Se si tratta - come si evince dal discorso alla Camera di Amato - di farsi belli di fronte all'opinione pubblica con le cifre relative alle espulsioni e ai respingimenti, puo' essere una politica da perseguire. Cosi' come si puo' mandare allo sfascio la Sanita' per far crescere il settore delle pompe funebri. In ogni caso, si finira' per ridurre il problema dello straniero in Italia a quello del numero, delle dimensioni e del funzionamento dei centri di permanenza temporanea, voluti da Napolitano (cui rammentavano, forse, il contesto culturale in cui si e' formato) ma blindati anche dal voto di quei senatori che oggi li vituperano.

 

2) Le modifiche.

Chi di voi sia arrivato incolume fino a questo punto puo' sentirsi certamente legittimato, se condivide l'analisi della normativa in vigore fin qui svolta, ad invocare un drastico ripensamento del quadro di riferimento. Liquidati i ripensamenti di marca restrittiva come capaci solo di accentuare lo spreco di energie che consegue all'impostazione attuale, provo a prendere brevemente in esame quelli di segno opposto, che prediligo.

Personalmente subisco il fascino del libero mercato. Lo subisco da fisico. Il fisico sa risolvere solo equazioni di primo grado o, se e' giovane, di secondo. Di fronte ad ogni altra equazione cerca di amputarla di tutti i termini (sperabilmente piccoli) che la separano dal novero di quelle che lui sa risolvere. In quest'ottica, il libero mercato - un mercato in cui le quantita' scambiate e il loro prezzo dipenda dall'equilibrio tra la domanda di molti microscopici acquirenti e l'offerta di molti microscopici venditori - e', in prima approssimazione, una buona soluzione di molti problemi economici. Ha infatti il pregio di massimizzare il profitto complessivo, senza che nulla vada sprecato a seguito dell'imposizione di prezzi e quantita' diverse da quelle di equilibrio. Quelli tra voi che cominciano ad avvertire un principio di orticaria possono bloccarlo immediatamente riflettendo sul fatto che un tipico esempio di mercato non libero (non affidato cioe' alla libera concorrenza) e' quello dominato da un potere monopolistico. Converranno allora con me - forse - nel concludere, sulla concorrenza, che "libera e' bella". A dispetto della forfora.

La frequentazione di persone che stimo profondamente e che spendono la loro vita per riparare i guasti di una societa' che, in fondo, l'idea di libero mercato l'ha sposata mi richiama spesso a considerare che, mentre, quando si tratta di particelle energetiche in un tokamak, il trascurare dei termini nelle equazioni al peggio fa pubblicare articoli inutili sulle riviste scientifiche (senza pero' che quelle particelle se ne abbiano a male), quando si tratta di mercato del lavoro, di economia, di politica, le semplificazioni, se usate per prendere decisioni, possono ammazzare la gente. Il che ancora non significa che le semplificazioni siano di per se' deleterie; le conclusioni che se ne traggono, anzi, possono far da guida per lo sviluppo del dibattito, ma necessitano di correzioni.

Credo che per l'immigrazione ci si trovi, oggi, in una situazione di questo genere. L'idea di liberalizzare i movimenti migratori e di lasciare che sia la libera concorrenza nel mercato del lavoro a determinare i salari di equilibrio e, con essi, la convenienza di un inserimento nella societa' ospite e, in definitiva, il numero di immigrati effettivamente presenti in ogni istante e', in prima battuta, accattivante. Spariscono, infatti, dal rosario di problemi elencati prima, tutti quelli associati a liste di prenotazione, requisiti per l'ingresso e per il rinnovo del permesso, incontro tra domanda e offerta di lavoro, allontanamenti dal territorio dello Stato, centri di permanenza temporanea, etc. D'altra parte, le persone che stimo profondamente mi ricordano - anche con la loro semplice presenza - che ci sono almeno due pericoli dietro l'angolo della semplificazione. Il primo e' associato al fatto che i salari di equilibrio, in presenza di un'offerta di lavoro di molto accresciuta dal flusso migratorio, possono cadere al di sotto dei livelli che anni di progressi sociali ci hanno abituato a considerare "minimi". Essendo questi livelli ben piu' alti di quelli - realmente minimi - che caratterizzano molti paesi sottosviluppati, il flusso di immigrazione non avrebbe motivo di arrestarsi spontaneamente, dal momento che un inserimento "al di sotto del minimo", inaccettabile dal nostro punto di vista, sarebbe percepito comunque come vantaggioso dall'immigrato. Questa circostanza porrebbe la politica di fronte a un bivio: lasciare che i lavoratori nazionali, in concorrenza con quelli stranieri, vedano precipitare il loro tenore di vita al di sotto delle soglie minime o ripristinare, con sussidi selettivi, gli standard di chi - nazionale - e' danneggiato dall'ingresso degli stranieri, lasciando poi che questi ultimi valutino da se' la convenienza della propria condizione, basata sul solo salario di equilibrio. Notate che, se il divario tra le due concezioni (nazionale e straniera) delle condizioni "minime" e' sufficientemente ampio, qualunque tentativo di includere i lavoratori stranieri tra i beneficiari di sussidi, evitando discriminazioni, si tradurrebbe, per la finitezza delle risorse a disposizione, nella necessita' di porre un limite al flusso di immigrazione prima che esso si sia arrestato spontaneamente e, quindi, nel ritorno a una politica di frontiere controllate.

Nel secondo pericolo ci si imbatte quando il flusso di immigrazione, caduti i salari di equilibrio a livelli prossimi a quelli considerati minimi anche da chi provenga da un paese sottosviluppato, dovrebbe arrestarsi. Nel mondo ideale e in quello dei fisici teorici (che a quello ideale molto si avvicina, prestanza fisica a parte) l'equilibrio viene raggiunto in modo indolore: ogni lavoratore ha una conoscenza perfetta di cio' che lo aspetta nel paese di immigrazione; sa valutare esattamente quale sara', al suo ingresso, il nuovo salario di equilibrio e scegliere lucidamente se migrare o meno e, in ogni caso, ogni suo passo e' perfettamente reversibile. Nel mondo reale l'informazione e' imperfetta e i processi sono, in una certa misura, irreversibili. Cosi', se superate con un bel balzo un fossato zeppo di coccodrilli largo cinque metri e, atterrando, scoprite che siete finiti nelle sabbie mobili, un conto e' che decidiate di fare un balzo, altrettanto bello, in senso inverso, altro e' che riusciate a farlo. Allo stesso modo, se l'immigrato scopre al suo arrivo, o dopo un po' di tempo, che le condizioni di inserimento sono peggiori di quanto lui stesso reputi il minimo accettabile, e' possibile che non sia piu' in grado di invertire la marcia e tornare in patria. Si creano allora sacche di emarginazione sostanzialmente incurabile: nel momento infatti in cui si tentasse di porvi rimedio con misure assistenziali di qualunque genere, si manderebbe allo stesso tempo un segnale, ai potenziali migranti, tale da alterare la percezione relativa alle condizioni di inserimento effettivo nel paese di immigrazione; le sacche di emarginazione, appena rimosse, verrebbero rapidamente rimpiazzate da nuove analoghe sacche.

Se ne puo' concludere che, finche' permane un forte divario tra il tenore di vita sperimentato, nel paese di origine, dal migrante e quello "minimo accettabile" nei paesi di destinazione, e finche' la reversibilita' del movimento migratorio non e' piena, una completa liberalizzazione dell'immigrazione puo' risultare impraticabile. Tuttavia, dal momento che l'abbattimento del divario tra paesi ricchi e paesi poveri deve mantenere un carattere di traguardo della politica - sia pure di una politica di lungo periodo - e che quell'abbattimento sarebbe accompagnato da una maggior fluidificazione e reversibilita' dei movimenti migratori (il fossato andrebbe restringendosi), quella stessa liberalizzazione deve costituire l'obiettivo verso cui far tendere, su un piano strategico, le modifiche - di breve periodo - della normativa e della politica di immigrazione.

Tre sono le principali linee di pensiero riguardo alle modifiche da apportare in questa direzione. La prima e' quella tradizionale, per l'Italia, della sanatoria. E' una modifica che consiste nell'adozione di una norma transitoria, ed equivale a una liberalizzazione dell'immigrazione ex post. Ha il pregio di riparare i danni di una politica eccessivamente restrittiva (lo e' stata certamente, sul piano formale, quella degli anni 90). Ha il difetto di sposarsi male con una normativa sulla condizione dello straniero che, per il resto, non e' affatto ispirata a criteri di libero mercato. In un contesto, cioe', in cui al possesso del permesso di soggiorno consegue il diritto ad accedere - almeno sulla carta - a un pacchetto di diritti sociali, il dare legalita' a un soggiorno originariamente non autorizzato e' visto come un costo. Si tenta allora - e' quello che si e' fatto nel '95 e nel '98 - di cautelarsi da questo costo introducendo dei requisiti restrittivi per la legalizzazione (il vezzo e' allora quello di parlare di regolarizzazione, piuttosto che di sanatoria), ed e' il caos. Non dico - sia chiaro - che le sanatorie non vadano fatte, ma devono essere vere sanatorie, e a gestirle devono essere dei veri ministri dell'interno.

La seconda linea di pensiero e' quella della cosiddetta regolarizzazione a regime sostenuta da molti autorevoli esponenti dell'associazionismo e del mondo dei giuristi - penso al Frisullo dei bei tempi in cui si occupava di immigrazione, a Palombarini, a Pepino e a molti altri esponenti dell'ASGI -, ma ha trovato simpatie anche in ambiti istituzionali - penso ad Adriana Vigneri. Consiste nell'ipotizzare l'accesso al permesso di soggiorno per quello straniero che, entrato illegalmente, abbia conquistato sul posto alcuni prefissati requisiti di inserimento. E' ovviamente una linea di buon senso, giacche' suggerisce che per lo straniero di fatto inserito e' del tutto inutile adottare provvedimenti repressivi come l'espulsione, la detenzione nei centri e simili. Rispetto allo strumento della sanatoria (o della regolarizzazione) "una tantum" presenta il vantaggio della scarsa visibilita' - non stimola cioe' Gasparri ad esprimere, con la profondita' che tutti gli invidiano, i due o tre concetti di cui e' padrone. Ha il difetto - a mio parere - di una certa dose di ambiguita': se il possesso dei requisiti per la legalizzazione fa maturare una mera facolta' di richiedere la legalizzazione, questa restando soggetta al potere discrezionale dell'amministrazione, la condizione dello straniero finisce per sfuggire a quella riserva di legge cui la sottopone - proteggendola - l'articolo 10 della Costituzione. In caso contrario - se cioe' lo straniero matura un diritto alla legalizzazione - ogni politica di quote va a farsi benedire: che senso avrebbe aspettare in patria l'ammissione in Italia, se posso andare in Italia a conquistarmi, eludendo la lentezza della politica e della burocrazia, un permesso di soggiorno? In entrambi i casi, poi, la legalizzazione conseguirebbe a un periodo - probabilmente lungo - di nascondimento nell'illegalita', senza alcuna possibilita' di ricorso alla protezione delle leggi - ricorso che potrebbe inopinatamente interrompere il cammino verso la regolarizzazione.

La terza linea di pensiero ha per me il pregio, quasi ineguagliabile, di essere la mia. E forse ora anche di alcuni salernitani illuminati. La indichero', in loro onore, come la linea della Scuola Salernitana. Parte dall'osservazione che a militare contro la possibilita' di liberalizzare completamente i flussi sono, per quanto detto prima, il rischio che il migrante si inserisca a livelli inaccettabili in base al comune sentire della societa' di accoglienza o, addirittura, al suo proprio modo di vedere, e che, allo stesso tempo, non possa ritrarsene per mancanza dei mezzi necessari al ritorno in patria. Tiene pero' conto, questa terza linea, del fatto che gli sbarramenti oggi adottati per pararsi da questo rischio - la programmazione di quote fondata sulla rilevazione delle necessita' del mercato del lavoro, la chiamata nominativa, l'ammontare dei mezzi di sostentamento da garantire per l'inserimento nel mercato del lavoro o per il rinnovo del permesso - finiscono per risultare cosi' ardui da valicare da rendere appetibile e competitivo il servizio offerto da trafficanti e scafisti. Si tratta allora di salvare le capre dell'inserimento minimo con i cavoli di un accesso non proibitivo al mercato del lavoro.

La soluzione puo' consistere nel consentire, accanto agli ingressi determinati sulla base della programmazione di quote, una forma di ingresso piu' fluida. Lo straniero e' ammesso a condizione che depositi un biglietto di viaggio di ritorno (da utilizzare per l'eventuale rimpatrio) e dimostri di avere mezzi di sostentamento - proporzionati all'importo dell'assegno sociale - sufficienti per un soggiorno di breve durata (tre mesi, tanto per non creare inutile scompiglio nella normativa esistente). Puo', durante questo periodo, svolgere attivita' di lavoro autonomo - occasionali, per definizione. Puo' anche, ad ogni scadenza del permesso, rinnovarlo per altri tre mesi, a condizione che dimostri di disporre di un ammontare di risorse pari a quello richiesto per l'ingresso. Puo' infine convertire il permesso in due casi: se ha la possibilita' di stipulare un contratto di lavoro subordinato o se, dopo un prefisato numero di rinnovi del permesso (ad esempio, tre), e' in grado di dare stabilita' alla propria attivita' di lavoro autonomo (con l'iscrizione a un albo, ad esempio, se richiesta). Qualora si voglia mantenere un controllo sul numero complessivo di accessi stabili al soggiorno per lavoro (cosa che, ovviamente, non obbedisce ad alcun criterio razionale di rilievo), si puo' imporre la condizione supplementare, per la conversione, che la richiesta non ecceda la quota fissata col decreto di programmazione dei flussi.

Il rischio - mi metto qui nei panni di chi fatichi ad abbandonare la cultura del controllo di polizia - che lo straniero si sottragga alla periodica verifica dei mezzi di sostentamento, e che quindi si trasformi in un irregolare irreperibile, potrebbe essere scongiurato - grazie all'ingresso originariamente regolare - archiviando insieme, al momento del rilascio del permesso, gli estremi del documento di viaggio e le impronte digitali. Il disappunto di fronte alla prospettiva di un tale generalizzato rilevamento delle impronte - e mi metto ora nei panni di chi la cultura del controllo di polizia l'ha sempre aborrita - e' mitigato dal considerare che, in fondo, le impronte digitali sono assimilabili a foto-tessera molto contrastate (grazie all'inchiostro), di soggetto diverso dall'usuale (dita, anziche' volto), e ad alta risoluzione...

Non sto a rubarvi tempo e pazienza in spiegazioni pedanti di come e perche' questo meccanismo inietti liberta' ed efficienza in una politica dell'immigrazione. Vi invito pero' ad oservare come si tratti di una riforma... gia' fatta. Tutti i suoi elementi essenziali sono, infatti, gia' nascosti nella normativa vigente, e, al piu', richiedono un po' di buon senso in sede interpretativa. Cosi', ad esempio, l'ingresso per soggiorno di breve durata e' previsto, previa dimostrazione di disponibilita' di mezzi (che andrebbe solo ridimensionata, rispetto al caso del turista, per questo "turista-lavoratore"). La possibilita' di svolgimento di attivita' occasionali di lavoro autonomo non e' esclusa (solo per quelle non occasionali esiste una disciplina precisa). La conversione di un permesso di soggiorno di breve durata in un permesso per lavoro autonomo e' ammessa - come gia' detto - dall'articolo 39, comma 7 del Regolamento (in questo caso, la dimostrazione di capacita' reddituale risulterebbe suddivisa in "comode rate trimestrali"). La facolta' di convertire un permesso di breve durata in uno per lavoro subordinato in presenza di una documentata opportunita' di assunzione dovrebbe infine essere garantita dall'articolo 5, comma 9 del Testo unico, che stabilisce che "il permesso ... e' convertito ... se sussistono i requisiti ... per altro tipo di permesso da rilasciare in applicazione del presente testo unico".

Uno degli aspetti messi in rilievo - anche nel seminario di cui vi dicevo - in relazione all'inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro e' che possono esere distinte, nell'esperienza vissuta in Italia, tre fasi: una prima, in cui la condizione dello straniero e' di doppia irregolarita' (soggiorno e lavoro); una seconda, in cui la legalita' del soggiorno e' conquistata (grazie a sanatorie, fino ad oggi) ma il lavoro continua ad essere in nero; una terza, in cui anche la condizione lavorativa perviene a regolarita'. Tutti - o almeno coloro che vogliono una piena liberalizzazione di movimenti migratori e rapporti lavorativi confinata tra le pure idealizzazioni - sarebbero felici se ingresso e accesso al lavoro potessero essere caratterizzati da immediata regolarita'. La proposta or ora delineata potrebbe servire a garantire una maggior facilita' - rispetto a quanto sperimentato fino ad oggi - di accesso al soggiorno legale. Puo' essere completata da alcune considerazioni - vedo gia' Enrico Pugliese che carica la doppietta - sull'accesso al lavoro regolare.

Parto dall'osservazione di un dato: vi e' un forte dislivello tra la quantificazione del "livello minimo" al di sopra del quale l'immigrato e' considerato "accettabilmente inserito" (l'importo dell'assegno sociale) e la retribuzione che un immigrato percepisce per un lavoro, in regola, a tempo pieno (a spanne, il doppio dell'assegno sociale). La gamma di livelli intermedi potrebbe essere coperta allora - senza scandalo, a mio parere, e con vantaggio sia del lavoratore, sia del datore di lavoro - se fosse consentito un abbassamento del costo del lavoro, anche in corrispondenza ad impieghi regolari. Si puo' obiettare - riprendendo argomenti esposti in precedenza - che questo farebbe degradare il tenore di vita dei lavoratori italiani - quanto meno, di quelli meno qualificati - o che, se si tentasse di proteggere questi ultimi, si lascerebbero entrare nelle dinamiche del mercato del lavoro pericolosi elementi di discriminazione. Il parametro da inserire nel modello per argomentare contro queste obiezioni e' il tempo: l'abbassamento del costo del lavoro puo' riguardare i lavoratori in fase di primo impiego o, comunque, nei casi di bassa anzianita', ed essere via via riassorbito al crescere di questa. Il fattore discriminazione verrebbe cosi' meno, non rilevando, nel computo dell'anzianita', l'origine del lavoratore.

Sono - credo - idee gia' sentite, e le espongo al vostro sorriso di commiserazione. In un sussulto di orgoglio, cerco pero' di spegnere il sorriso sulle vostre labbra chiedendovi quale esito abbia, invece, l'azione repressiva nei confronti del lavoro nero, quanta parte della presunta disoccupazione italiana - cui continuiamo a dedicare le nostre ansie - sia veramente tale, e, infine, cosa restera' dell'idea di lavoro subordinato, se potro' surrogarlo con prestazioni di lavoro autonomo per le quali contrattero' liberamente il compenso?

In attesa della replica di Enrico Pugliese e/o di un vostro cortese cenno di riscontro, vi appioppo i miei piu'

cordiali saluti

sergio briguglio