E’ ben triste la società italiana vista con gli occhi degli immigrati. Secondo l’inchiesta condotta da Magdi Allam per Repubblica su un campione di mille stranieri, uno su tre o quattro ci considera razzisti in tutto o in parte e l’80% ha assistito o subito atti di razzismo. Subito dopo i politici leghisti e di destra, nella graduatoria della xenofobia gli intervistati collocano, nell’ordine, proprietari di case, datori di lavoro, giornalisti e, particolare significativo, non i poliziotti in genere ma "i funzionari delle questure".

Casa negata, lavoro schiavistico, informazione distorta, onnipotenza di ispettori e commissari: questo è l’universo in cui si muovono un milione e mezzo di coloro che dieci anni fa definivamo con speranza "nuovi cittadini".

Fra loro, due-trecentomila sono "clandestini", i paria; ma l’esperienza della clandestinità ha accompagnato alle porte e dentro le frontiere d’Italia, per periodi più o meno lunghi, quasi tutti gli altri. Nonostante il peso crescente dei ricongiungimenti familiari, resta una ristretta minoranza quella di chi è entrato in Italia dalla porta e non dalla finestra. Una timida e limitata apertura di canali d’ingresso legale si è avuta solo quest’anno, rispondendo più alle pressioni degli industriali a corto di manodopera che a una visione d’insieme dei flussi d’immigrazione.

"Nessun clandestino in Europa nel Duemila", aveva chiesto il papa alla vigilia del Giubileo. Viceversa, si valutano fra cinquanta e centomila i pellegrini che hanno lasciato liberi i posti al ritorno. In questo senso l’evento giubilare è stato positivo: ha offerto un’alternativa più economica e meno rischiosa alle rotte dei trafficanti. Ma l’invocazione papale è rimasta inascoltata. Alla fine del Duemila il "continente sommerso" si conterà ancora a centinaia di migliaia in Italia, a milioni in Europa.

Il 2 giugno sul sagrato di San Pietro mancavano cinquemila di loro, mentre nella precoce afa meridiana il papa celebrava il Giubileo dei Migranti. Le prime file del corteo bloccato dalla polizia presso il Colosseo agitavano gli inviti azzurrini con la mitria e le chiavi, ma non ci fu nulla da fare. I convitati giunsero alla celebrazione con largo ritardo, e una costernata delegazione della Segreteria di stato ricevette nelle stanze vaticane una delegazione ansante e un po’ pesta. Lo zigomo di un pakistano era rigato dal sangue che colava dall’occhio manganellato, e cinque dei suoi compagni erano in ospedale.

Quei cinquemila erano circa un decimo delle anime in pena che da due anni attendevano risposta alla loro richiesta di legalità. Una parola che è un passepartout: tutti l’invocano, specialmente coloro che la negano per costruire campagne d’ordine sull’illegalità forzosa. Sulla legalità come diritto elementare ad esistere, invece, decine di migliaia di "invisibili" hanno costruito, a cavallo di una durissima estate, la prima vertenza collettiva dopo anni di atomizzazione e di anomìa. Con lo sciopero della fame nelle piazze di Brescia, Napoli e Roma, hanno rotto con la disperata corsa individuale a procurarsi dallo speculatore di turno (italiano o straniero, in divisa e non) le "prove" pregresse di presenza, lavoro e alloggio legale imposte da una burocrazia ottusa a chi per definizione non poteva possederle.

Ed hanno vinto. Non c’è stato bisogno (ma ci si è arrivati a un pelo) di barricarsi, come a Parigi, in una delle basiliche del Giubileo. A Brescia, a Roma, e poi via via nelle altre città, mentre scriviamo si stanno riaprendo le pratiche bloccate da ognuna delle quali dipende una vita e una famiglia. Ma è una vittoria sorda e silenziosa: non si può proclamare né sancire in norma o circolare per non scatenare la canea della destra xenofoba. Anche nella rivendicazione, via maestra del contratto sociale nella democrazia moderna, gli immigrati devono restare "invisibili".

Ed è una vittoria amara. Bisognerà riflettere sulla solitudine di questo movimento, sulla crisi di quell’automatica sintonia civile che aveva consentito, nel corso degli anni ’90, di muovere con gli immigrati l’insieme del mondo della solidarietà e della sinistra sociale e politica. In quel corteo rabbioso e disperato, nel giorno del "loro" Giubileo, i lavoratori stranieri di Roma hanno contato gli amici italiani sulle dita di due mani. Nella Chiesa hanno levato la loro voce solo il vescovo Nogaro e la fondazione Migrantes. Ancora più assordante è stato il silenzio della sinistra, con la sorprendente eccezione di Brescia, nel cuore della Padania.

Sono molti gli insegnamenti di questo movimento: dall’urgenza di ricostruire una rete solidale capace di rappresentanza nazionale degli esclusi e dei loro diritti negati, alla necessità di sottrarre a un incontrollabile apparato di polizia le competenze sullo status dei cittadini stranieri. Avranno materia di riflessione coloro che di convegno in convegno discettano di integrazione e interculturalità, senza accorgersi di chi, fuori dai salotti, muore in mare o sulle strade e manifesta nelle piazze per l’elementare diritto di esistere. Ma dovranno guardarsi allo specchio anche coloro che giustamente s’indignano contro l’orrore della detenzione dei "clandestini", salvo lasciarli soli quando sono loro stessi a rompere con la dannazione alla clandestinità.

Le sconfitte degli anni passati, inclusa quella consumata con una legge che ha consegnato i cittadini stranieri all’arbitrio di polizia, hanno lasciato il segno, con la crisi della solidarietà intercomunitaria e delle sue leadership. Solo una parte degli stranieri, i giovani immigrati di origine asiatica e africana, si sono fatti carico di quello che un tempo si sarebbe definito "l’interesse collettivo". Ma hanno vinto, e questa vittoria consente ora di rompere i ghetti e risalire la china. Hanno affermato l’irriducibilità del diritto umano di esistere. Hanno celebrato, nelle piazze, il loro Giubileo.

Dino Frisullo