Quali sono gli ingredienti principali che una normativa sui flussi di immigrazione per lavoro deve avere?

La principale distinzione tra straniero e cittadino sta nel fatto che il primo e' privo di un "diritto a soggiornare" e puo' quindi, a differenza del secondo, essere ammesso o allontanato dal territorio dello Stato. Una legge sui flussi di immigrazione - e, in particolare, sui flussi di immigrazione per lavoro - deve allora, prima di tutto, indicare le condizioni in base alle quali il soggiorno e' consentito e legale, e le misure per impedire il soggiorno illegale. Le misure repressive, pero', oltre a essere, a giudizio di molti, spiacevoli, sono di difficilissima applicazione e, nei fatti, di scarsissima efficacia nei casi in cui debbano riguardare una porzione non meramente residuale di un fenomeno. Soprattutto quando il fenomeno nel suo complesso assuma dimensioni non trascurabili.

Che intende dire?

Mi spiego con un esempio: un conto e' individuare ed allontanare dallo stadio qualche decina di "portoghesi", altro e' farne uscire ottantamila. Consci di questo fatto e attenti al proprio interesse economico, i presidenti delle squadre di calcio si premurano di mettere in vendita i biglietti con congruo anticipo rispetto all'inizio della partita. Non ne vendono in misura maggiore alla capienza dello stadio; tuttavia, se la squadra ha successo e ogni settimana rimangono senza biglietto quarantamila spettatori, un presidente sveglio contempla la possibilita' di ampliare lo stadio.

Questo vale per gli stadi di calcio. Ma per l'immigrazione?

Anche riguardo all'immigrazione andrebbe adottato lo stesso atteggiamento: una volta fissato il limite entro il quale si ritiene positivo l'ingresso e il soggiorno di migranti, ci si dovrebbe accertare che, fino a raggiungimento di quel limite, ingresso e soggiorno non siano inutilmente ostacolati. Solo successivamente - sul piano logico - ci si dovrebbe dedicare all'individuazione e all'attuazione delle misure repressive per quanto esubera dal limite e, quindi, non e' considerato accettabile; con un occhio, pero', alla eventuale necessita' di ritoccare anche sensibilmente la stima di quanto e' benvenuto, alla luce di considerazioni di opportunita' economica, politica e - perche' no? - etica.

E la normativa in vigore nel nosto paese?

Il Testo unico sull'immigrazione offre gli strumenti per effettuare, anche frequentemente, queste revisioni, e per fissare vie percorribili di ingresso legale. Li offre, ma non li impone; gran parte della sua efficacia e' cosi' lasciata all'applicazione che ne viene data.

Vediamo perche'.

Cominciamo dal lavoro subordinato, che e' il motivo di ingresso piu' importante. L'ingresso per lavoro subordinato e' possibile, entro le quote fissate dal decreto flussi, a seguito di una chiamata nominativa da parte di un datore di lavoro. La cosa entusiasma i politici di tutti gli schieramenti, che, di fronte all'idea di un immigrato che entra con la certezza di un posto di lavoro, sono disposti a commuoversi ed applaudire come se si trattasse di Rivera in Italia-Germania 4 a 3. Sfortunatamente entusiasma molto meno gli imprenditori, che, dovendo assumere - poniamo - un guardiano notturno, a Rivera preferirebbero Burgnich, e non se la sentono di scegliere al buio - sulla base, cioe', al piu', di un nome letto in una lista. Gli imprenditori, anche quando votano per Berlusconi, Bossi o Fini, sono, riguardo al problema dell'assunzione di un lavoratore, di un antirazzismo esemplare. Per loro un lavoratore e' da assumere se - per semplificare - il prodotto di una sua ora di lavoro eccede, al prezzo di mercato, il salario che per quell'ora gli devono corrispondere. Che sia bianco, nero, giallo o a pallini e' cosa che li intriga quanto la meccanica quantistica intriga un pinguino. Vorrebbero pero' poterlo vedere all'opera prima di firmare un contratto.

Questo pero' non e' possibile, con la chiamata nominativa. Vero?

Vero. E in mancanza di questa possibilita' esplicita, la chiamata nominativa continua a funzionare come ha sempre funzionato: per dare regolarita', ex post, a un rapporto di lavoro nato nell'irregolarita': lo straniero e' in Italia; incontra il datore di lavoro; comincia a lavorare in nero; da' un saggio della sua produttivita' marginale; il datore di lavoro capisce che non deve rischiare di perderlo, va all'ufficio provinciale del lavoro e avvia la procedura per la chiamata come se lo straniero stesse a Rabat, a Tirana, a Bucarest.

Ma questo e' poprio il meccanismo che ha operato, di fatto, ai tempi della legge Martelli!

Si'. Tutto, quindi, rispetto alla chiamata nominativa, rimane come prima. O meglio: tutto rimarrebbe come prima se in Italia, oltre ai magistrati, fossero soggetti alla legge anche i burocrati. Dovete sapere, infatti, che il datore di lavoro che va all'ufficio provinciale del lavoro si vede chiedere, secondo quanto stabilito da una disposizione del Regolamento di attuazione del Testo unico, la dimostrazione della propria capacita' economica. La cosa - sia detto per inciso - e' del tutto priva di rilevanza...

Perche'? Non e' forse sensato accertarsi che il datore di lavoro sia in grado di retribuire in modo adeguato il lavoratore?

Tenga presente che il datore di lavoro sta firmando un contratto col quale si impegna a farlo.

Ma se il datore di lavoro e' uno spiantato e finisce poi per non essere in grado di garantire la retribuzione al lavoratore?

Faccia come farebbe se il lavoratore fosse italiano; lo licenzi.

Lo licenzi? ma come? senza giusta causa?

Ma ci siamo accorti che, mentre pretendiamo giuste cause e giustificati motivi, il mondo reale va avanti con datori di lavoro che fanno firmare al lavoratore fogli di dimissione con la data in bianco? E cosa e' preferibile: un rapporto di lavoro che si tronca senza giustificato motivo o uno che, per l'incombere del tabu' del licenziamento, non nasce proprio o resta irregolare e incontrollabile sotto tutti gli aspetti?

Torniamo ai burocrati, allora...

Si', perche' non ci sarebbe niente di drammatico se la norma del Regolamento venisse applicata con buon senso. Qualcuno dei nostri burocrati, invece, e' riuscito a dare una quantificazione (assente nella normativa, assente anche nel vademecum pubblicato dal Ministero dell'interno) al reddito annuo necessario per procedere alla chiamata nominativa: ottantacinque milioni! Delle due l'una: o il burocrate in questione prende sette milioni al mese e da' per scontato che tutti gli italiani viaggino agli stessi livelli; o ritiene che ad avere in casa genitori anziani e invalidi bisognosi di assistenza siano solo venditori di diamanti e professionisti di golf, e che il ceto medio non debba fronteggiare problemi di questo genere.

Mi sta dicendo, cosi', che c'e' stato addirittura un regresso rispetto ai tempi della legge Martelli?

Se le possibilita' di ingresso fossero limitate alla sola chiamata nominativa, la risposta dovrebbe essere probabilmente affermativa. C'e' pero' l'articolo 23.

Quello sulla sponsorizzazione?

Si'. E' un articolo nato in due fasi: i primi tre commi facevano parte del disegno di legge presentato dal Governo; il quarto fu inserito, sotto forma di emendamento governativo, per tener conto della pressione esercitata da una parte della maggioranza sensibile agli argomenti esposti dalle ONG. Nella versione definitiva prevede (primi tre commi) che, fissata nel decreto flussi una quota di ingressi per inserimento nel mercato del lavoro, i lavoratori possano entrare - a cercare lavoro sul posto - sulla base di una garanzia di mantenimento presentata, entro sessanta giorni dalla pubblicazione del decreto flussi, da uno sponsor (cittadino italiano o straniero, o ente).

E se, dopo sessanta giorni, la quota fissata non e' esaurita?

Il quarto comma stabilisce che, trascorso quel termine, possono entrare i lavoratori iscritti in liste tenute dalle Rappresentanze diplomatiche o consolari italiane e basate sull'anzianita' di iscrizione. La ratio che sta dietro a questo articolo e' evidente alla luce di quanto detto sulla necessita' di un incontro diretto, sul posto, tra datore di lavoro e lavoratore. Quella, in particolare, che sta dietro al quarto comma e' evidente se, lasciato il punto di vista del datore di lavoro, si abbraccia per un momento quello del lavoratore straniero: cosa fa se non ha nessuno che lo sponsorizzi dall'Italia? aspetta per tutta la vita una sponsorizzazione che non arrivera' mai o si affida ai servigi di uno scafista? Il quarto comma offre una luce, sia pur tenue, in fondo a quello che, altrimenti, sarebbe un tunnel completamente buio.

Funziona tutto questo?

Potrebbe. Ma non funziona ancora. Sui primi tre commi grava la maledizione dei sessanta giorni. Il limite per presentare la richiesta completa di documentazione risulterebbe adeguato a regime - in una situazione, cioe', in cui banche e assicurazioni sapessero dove mettere mani per stipulare le fideiussioni richieste dal Regolamento e - soprattutto - in cui i Comuni fossero agili nell'accettare autocertificazioni in relazione all'abitabilita' dell'alloggio destinato allo straniero. La situazione, cioe', che si avra', se tutto va bene, il prossimo anno. Non quest'anno.

La scadenza temporale si applica anche per le sponsorizzazioni presentate da associazioni e da enti locali?

Leggendo attentamente il Testo unico e il Regolamento si direbbe di no. Ma associazioni e enti locali non sembrano fulmini nell'avvalersi di questa facolta'. Non sta a me giudicarli. Ma si giudicano da soli se e quando pontificano in favore del principio di sussidiarieta' (meno Stato, piu' decentramento, piu' privato) o contro "l'ennesima sanatoria".

Ma perche' e' stato introdotto il limite dei sessanta giorni?

Quel limite era pensato perche' non si sovrapponessero due canali di ingresso: quello relativo ai primi tre commi e quello relativo al quarto comma. La cosa puo' far sorridere in una societa' rivoluzionata da Internet: che difficolta' ci puo' mai essere a gestire simultaneamente due flussi di richieste in concorrenza tra loro se queste richieste vengono registrate e trasmesse per via informatica?

L'Italia della pubblica amministrazione pero' e' altra cosa...

Ah, fosse per quell'Italia, Bill Gates sarebe fallito da un pezzo! Una cosa comunque e' certa: non ha senso stoppare gli ingressi sponsorizzati se quelli ex comma 4 per qualche ragione non possono aver luogo.

E per quale ragione non dovrebbero aver luogo, se corrispondono proprio al meccanismo di ingresso piu' naturale?

Di ragioni ce ne sono, purtroppo, almeno due. La prima e' di carattere contingente: non sono state ancora istituite le liste. Se non fosse per il danno che provoca, la cosa sarebbe esilarante! Capisco che il personale di consolati e ambasciate possa essere esitante ad accettare una incombenza nuova, ma - le chiedo - cosa farebbero al consolato italiano a Sofia, anche senza l'incombenza nuova, se diecimila bulgari chiedessero un visto di ingresso per turismo?

Immagino che registrerebbero le richieste, annotando - che so io? - la data e il nome del richiedente.

Bene: compilare una lista di prenotazione equivale a registrare analoghe richieste su uno stesso fascicolo e spedire poi il tutto, per posta, a qualche ministero in Italia. Se si dispone di un computer, si puo' risparmiare carta e spedire il risultato della registrazione per posta elettronica. Un computer del genere costa un paio di milioni. E' quello che un immigrato clandestino spreca per arrivare in Italia con gli scafisti.

Forse, si potrebbe fare una colletta... Ma andiamo alla seconda ragione.

La seconda ragione e' di carattere strutturale: oltre ad essere iscritto in una lista di prenotazione, lo straniero che voglia entrare in Italia a cercare lavoro sulla base del quarto comma deve soddisfare i requisiti fissati da Regolamento. Questo si limita a rinviare a limiti e modalita' (non "requisiti") fissati dal decreto flussi. Il decreto, per quest'anno, non pone altro limite che quello numerico e quello, relativo alle liste, di cui si e' detto. C'e' pero' una direttiva, emanata dal Ministro dell'interno in base a una disposizione del Testo unico, che fissa i requisiti relativi alla disponibilita' di mezzi di sostentamento per ogni tipo di ingresso. Per l'ingresso in questione e' stabilito che lo straniero debba disporre di un ammontare pari a circa cinque milioni di lire (meta' dell'importo annuo dell'assegno sociale, piu' l'occorrente per l'assicurazione sanitaria) e delle risorse necessarie per l'eventuale rimpatrio. Lo straniero deve inoltre indicare l'esistenza di idoneo alloggio in Italia.

Non sembrano condizioni facili da soddisfare.

Non lo sono. Non si e' tenuto conto del parere espresso, in sede di esame del Regolamento, dalla Commissione affari costituzionali della Camera, con cui si raccomandava che non venissero imposte condizioni ulteriori, di natura economica, all'ingresso in questione. Ora, mentre il requisito relativo alle risorse finanziarie puo' risultare ragionevole, quello relativo all'indicazione di un alloggio rischia di risultare insormontabile, a meno di non costringere l'immigrato a dissipare i suoi cinque milioni, in due mesi, in una pensione preventivamente prenotata. Non essendovi, infatti, alcuna struttura di accoglienza che non sia gia' completamente saturata da profughi e richiedenti asilo, difficilmente rimpatriabili, non si vede come il tunisino - poniamo - o l'albanese privi di contatti in Italia (perche' di persone prive di contatti stiamo parlando) possano individuare, dal proprio paese, un alloggio disponibile.

Il pericolo e', quindi, che domanda e offerta di lavoro continuino a restare separati o ad incontrarsi fuori dalla legalita'?

Si', anche se questo pericolo e' parzialmente scongiurato da una disposizione, contenuta nel decreto flussi, con la quale si prende atto della mancata istituzione di liste nel generico consolato italiano e si stabilisce, per quest'anno, di riservare questo ingresso per ricerca di lavoro auto-sponsorizzata ai lavoratori di Albania, Marocco, Tunisia e, probabilmente, Romania - paesi con i quali l'Italia ha stabilito intese per la riammissione degli espulsi e ai quali destina un trattamento priviegiato per gli ingressi per lavoro. E' un modo per impegnarsi ad attivarle, quelle liste, e per scoprire come l'impresa non richieda audacia soverchia.

Resta pero' il problema "alloggio".

Si', ma la necessita' di porvi soluzione potrebbe stimolare un intervento, delle istituzioni e della societa', capace di dare, simultaneamente, risposta ai due timori piu' diffusi che l'auto-sponsorizzazione suscita: il timore di un ingresso che dia scarse risposte alle specifiche esigenze del mercato del lavoro, e quello di una presenza in Italia di soggetti deboli e abbandonati a se stessi. L'intervento potrebbe consistere - saccheggio qui tra le proposte altrui - in un investimento congiunto del mondo imprenditoriale, degli Enti locali e dello Stato in corsi di formazione, residenziali, che accompagnino i migranti in cerca di lavoro nella fase di primo inserimento e li esonerino dal ricorso alla divinazione per il reperimento preventivo di un alloggio.

Tutto questo avra' un costo...

Si', come tutti gli investimeni. Ma, come tutti gli investimenti, puo' restituire un interesse non trascurabile in termini di migliore inserimento dell'immigrato, minor tensione nella societa', maggior produttivita' del lavoratore, minor probabilita' di fallimento dell'esperienza migratoria e, quindi, minor necessita' di interventi, assai piu' costosi e dolorosi, per l'allontanamento di stranieri indesiderati.

Questo per quanto riguarda il lavoro subordinato. E il lavoro autonomo?

La legge, sull'argomento, e' piuttosto rigida: oltre al nulla-osta per l'iscrizione in albi o registri e alla dimostrazione della disponibilita' delle risorse per l'avvio dell'attivita' e dell'immancabile alloggio, lo straniero che voglia soggiornare in Italia per lavoro autonomo deve disporre di un reddito non inferiore - oggi - a sedici milioni annui. Questa soglia segna il limite al di sotto del quale scatterebbe l'esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria.

Richiedere un livello minimo di inserimento nel mercato, che non dia luogo ad un aggravio per la spesa pubblica, sembra sensato.

Si', a condizione di far riferimento al reddito maturato in Italia. Quando si voglia applicare lo stesso criterio, ai fini dell'autorizzazione all'ingresso, al reddito maturato in patria, si lascia aperta la porta soltanto a chi provenga da paesi industrializzati o a chi, da un paese in via di sviluppo, venga a svolgere in Italia attivita' imprenditoriali, commerciali o professionali di notevole rilievo. Restano invece tagliate fuori le attivita' di piccolo cabotaggio - piccolo commercio e piccoli servizi - che trovano utilmente spazio nella nostra economia, ma non nella categoria delle attivita' di lavoro subordinato. Quale indiano, poniamo, con un reddito annuo pari a sedici milioni di lire, lascerebbe il suo paese per venire a fare il giardiniere in Italia?

Quindi, per il "piccolo" lavoratore autonomo non c'e' alcuna chance di ingresso?

No, alcune possibilita' ci sono, sia in base alla legge, sia in base a quanto stabilito con circolare.

Quali?

La legge, intanto, offre la possibilita' di sostituire la dimostrazione relativa al reddito con una prestazione di garanzia, analoga, anche se piu' corposa, di quella prevista dall'articolo 23. Disgraziatamente, pero', si e' omesso, fino ad oggi, di concordare con banche e assicurazioni lo schema di fideiussione corrispondente.

E le circolari?

Il vademecum del Ministero dell'interno sull'accesso al lavoro viene parzialmente in soccorso del lavoratore autonomo in due modi. Stabilisce, innanzi tutto, che la disponibilita' di reddito si debba considerare dimostrata quando vi sia una dichiarazione di un committente o del responsabile di una cooperativa in relazione al compenso che sara' corrisposto, in Italia, al professionista o, rispettivamente, al socio prestatore d'opera. E mentre nel primo caso siamo ancora fermi al caso di lavoratore autonomo "di peso", nel secondo, si intravede una possibilita' anche per il giardiniere, sempre che qualcuno dia vita a cooperative di servizi.

E il secondo contributo?

Il vademecum chiarisce - opportunamente! - la norma del Regolamento in base alla quale e' possibile convertire un "regolare permesso di soggiorno diverso da quello che consente l'esercizio di attivita' lavorativa" in un permesso per lavoro autonomo, a condizione di aver maturato i requisiti previsti per l'ingresso, e che la richiesta rientri nella quota fissata dal decreto flussi. Il vademecum, interpretando con buon senso la norma, specifica come si tratti di ogni permesso, "anche" diverso da quelli che consentono l'esercizio di attivita' lavorativa. Risultano cosi' inclusi anche il permesso per inserimento nel mercato del lavoro e quelli, rilasciati per motivi umanitari, con possibilita' di svolgimento di attivita' lavorativa.

Anche, quindi, il famoso permesso ex articolo 18 - quello sulla protezione sociale?

Si', stando al vademecum, anche quello. In generale, il chiarimento apportato dal vademecum consente a chi e' entrato in modo legale, per esempio attraverso i canali aperti dall'articolo 23, di conquistare in Italia la soglia di reddito e, quindi, la stabilizzazione del soggiorno, anche quando la sua attivita' sia assolutamente autonoma - priva, cioe', dell'inserimento in una cooperativa.

Il giudizio, riguardo alle disposizioni sul lavoro autonomo, potrebbe quindi essere complessivamente positivo?

Si', se non fosse per il fatto che l'attuazione data per quest'anno alla normativa col decreto flussi limita fortemente le chances di accesso al lavoro autonomo, ammontando a sole duemila unita' la quota specifica prevista. Possibilita' di una revisione di questa e delle altre cifre sono previste dal decreto stesso e, piu' in generale, dal Testo unico. Il decreto, in particolare, stabiliva che dalla fine di luglio la ripartizione dei sessantatremila ingressi nelle diverse categorie possa essere ridefinita sulla base delle indicazioni ottenute fino a quel momento. Il Testo unico, per parte sua, dispone che possano essere emanati piu' decreti in un anno. Nessuno quindi impedisce che si metta mano alla revisione del decreto o che se ne emani uno aggiuntivo.

Se ne era parlato, per qualche giorno, a luglio, appunto...

Si', se ne era parlato, anche per le pressioni del mondo imprenditoriale, alla cui domanda di lavoro il bacino di disoccupazione nazionale non puo' o non vuole, molto spesso, offrire risposta. La cosa e' poi rientrata per la levata di scudi, in gran parte strumentale, di alcuni presidenti di regione, che hanno finito per trasformare la legittima aspirazione ad essere ascoltati in sede di programmazione dei flussi in un potere di veto che ne' la legge ne' la razionalita' assegnano loro. La colpa naturalmente e' anche del Governo, che a quel veto si e' inchinato tremebondo.

Il secondo decreto potrebbe pero' risorgere da un momento all'altro?

Me lo auguro, e non solo per l'economia italiana. Un secondo decreto rafforzerebbe il segnale che in Italia si puo' finalmente entrare legalmente, e consentirebbe di capitalizzare gli sforzi compiuti dall'amministrazione centrale, da quelle periferiche e dagli utenti per orientarsi tra disposizioni in buona misura nuove.

Fin qui gli ingressi per lavoro. Immagino pero' che i problemi degli immigrati non finiscano col loro ingresso in Italia.

Ha ragione! Tutto cio' che di saggio o di stupido si possa fare riguardo all'ingresso per lavoro puo' essere vanificato o, rispettivamente, esaltato, da un approccio fiscale al problema del rinnovo del permesso di soggiorno. Il motivo va cercato in due disposizioni del Testo unico. La prima stabilisce che ai fini dell'ingresso lo straniero debba disporre di adeguati mezzi di sostentamento (specificati dalla direttiva del Ministro dell'interno di cui si e' detto). La seconda impone di rifiutare il rinnovo del permesso quando non siano soddisfatti i requisiti per l'ingresso - incluso, quindi, quello relativo ai mezzi di sostentamento. Queste norme sono ispirate al principio secondo il quale l'immigrato, per non costituire problema, deve avere un inserimento sufficientemente solido nel tessuto economico.

Ma come viene accertata la disponibilita' di mezzi di sostentamento?

Se la preoccupazione della societa' riguarda il come fara' l'immigrato a mantenersi per il periodo per cui chiede di prolungare il soggiorno, i mezzi di sostentamento relativi possono derivare da due fonti principali: un reddito futuro o un risparmio gia' accumulato. La certificazione del primo e', per definizione, senza speranza, salvo di non ricorrere ancora una volta alla divinazione. La certificazione del risparmio e' un criterio troppo conservativo, giacche' abbiamo a che fare, qui, con immigrati ai loro primi anni di lavoro in Italia.

Altrimenti sarebbero gia' in possesso di carta di soggiorno, a tempo indeterminato...

... e non avrebbero bisogno di rinnovare il permesso! Ora, se pretendiamo che questi immigrati "recenti" in due anni di lavoro abbiano risparmiato quello che servira' loro per vivere nei due anni successivi, delle due l'una: o hanno percepito un reddito doppio di quello assunto come soglia minima o hanno depositato in conto corrente tutto il reddito maturato, astenendosi dal mangiare, vestirsi, pagare l'affitto e mandare soldi a casa. Nella prima ipotesi saremmo, nei fatti, di fronte a una abusiva ridefinizione della soglia minima fissata dalla legge. Nella seconda, premieremmo, col rinnovo del permesso, il piu' dissennato dei comportamenti.

Ma quale puo' essere, allora, un buon criterio?

In medio stat virtus . In questo caso, il giusto mezzo consiste nel prevedere il reddito futuro sulla base delle informazioni relative al reddito passato. E, per stimare se nei prossimi due anni l'immigrato riuscira' a sostentarsi, e' sufficiente valutare se sia riuscito a sostentarsi nei due anni scorsi. Ma se e' in piedi davanti a noi e ci sta presentando una richiesta di rinnovo del permesso, e' evidente che e' riuscito a sostentarsi.

Con mezzi leciti?

Beh, se non risultano a suo carico condanne definitive, e' la Costituzione che mi impone di presumere che sia cosi'!

Ma qual e' l'atteggiamento della classe politica rispetto a questi problemi?

Salve alcune eccezioni (Maritati, sottosegretario all'interno nel Governo D'Alema, per esempio), l'atteggiamento mi sembra, di solito, ispirato a una grande superficialita' e a un sostanziale disinteresse. Ai nostri governanti dovrebbe invece essere chiaro che tutta l'immigrazione cui, per ignavia o per incapacita', negheranno ogni opportunita' di ingresso o di soggiorno legale per lavoro la ritroveranno in Italia sotto forma di clandestinita' da rimpatriare. Se l'obiettivo e' quello di farsi belli di fronte all'opinione pubblica con le cifre relative alle espulsioni e ai respingimenti, puo' essere una politica da perseguire. Ma e' come mandare allo sfascio la Sanita' per far crescere il settore delle pompe funebri! In ogni caso, si finira' per ridurre il problema dello straniero in Italia a quello del numero, delle dimensioni e del funzionamento dei centri di permanenza temporanea, voluti da Napolitano.

(1 - continua)

 

Da quanto detto finora sembra che sia necessaria una profonda revisione delle regole in cui l'immigrazione per lavoro e' costretta a muoversi.

Credo che un ripensamento sia necessario. Si tratta pero' di decidere in quale linea strategica ci si vuole muovere. Personalmente subisco il fascino del libero mercato. Lo subisco da fisico. Il fisico, di fronte ad un'equazione complicata cerca di amputarla di tutti i termini (sperabilmente piccoli) che la separano dal novero delle poche che sa risolvere. In quest'ottica, il libero mercato - un mercato in cui le quantita' scambiate e il loro prezzo dipenda dall'equilibrio tra la domanda di molti microscopici acquirenti e l'offerta di molti microscopici venditori - e', in prima approssimazione, una buona soluzione di molti problemi economici. Ha infatti il pregio di massimizzare il profitto complessivo, senza che nulla vada sprecato a seguito dell'imposizione di prezzi e quantita' diverse da quelle di equilibrio.

A molti esponenti del mondo del volontariato, pero', sentir parlare bene del libero mercato fa venire l'orticaria...

Forse, pero', l'orticaria potrebbe essere bloccata riflettendo sul fatto che un tipico esempio di mercato non libero (non affidato cioe' alla libera concorrenza) e' quello dominato da un potere monopolistico. E' vero, tuttavia, che un conto sono le equazioni, altro e' la realta', e che, quando si tratta di mercato del lavoro, di economia, di politica, le semplificazioni, se usate per prendere decisioni, possono ammazzare la gente. Questo non significa che le semplificazioni siano di per se' deleterie; le conclusioni che se ne traggono, anzi, possono far da guida per lo sviluppo del dibattito. Ma necessitano di correzioni.

Cosa c'entra tutto questo con l'immigrazione?

Credo che per l'immigrazione ci si trovi, oggi, in una situazione di questo genere. L'idea di liberalizzare i movimenti migratori e di lasciare che sia la libera concorrenza nel mercato del lavoro a determinare i salari di equilibrio e, con essi, la convenienza di un inserimento nella societa' ospite e, in definitiva, il numero di immigrati effettivamente presenti in ogni istante e', in prima battuta, affascinante.

Perche'?

Perche' spariscono, dal rosario di problemi elencati prima, tutti quelli associati a liste di prenotazione, requisiti per l'ingresso e per il rinnovo del permesso, incontro tra domanda e offerta di lavoro, allontanamenti dal territorio dello Stato, centri di permanenza temporanea, etc. Ci sono, pero', almeno due pericoli dietro l'angolo della semplificazione. Il primo e' associato al fatto che i salari di equilibrio, in presenza di un'offerta di lavoro di molto accresciuta dal flusso migratorio, possono cadere al di sotto dei livelli che anni di progressi sociali ci hanno abituato a considerare "minimi". Essendo questi livelli ben piu' alti di quelli - realmente minimi - che caratterizzano molti paesi sottosviluppati, il flusso di immigrazione non avrebbe motivo di arrestarsi spontaneamente, dal momento che un inserimento "al di sotto del minimo", inaccettabile dal nostro punto di vista, sarebbe percepito comunque come vantaggioso dall'immigrato.

Con quali conseguenze?

Lo Stato verrebbe a trovarsi di fronte a un bivio: lasciare che i lavoratori nazionali, in concorrenza con quelli stranieri, vedano precipitare il loro tenore di vita al di sotto delle soglie minime o ripristinare, con sussidi selettivi, gli standard di chi - nazionale - e' danneggiato dall'ingresso degli stranieri, lasciando poi che questi ultimi valutino da se' la convenienza della propria condizione, basata sul solo salario di equilibrio.

O un danno per i lavoratori nazionali o una discriminazione nei confronti di quelli stranieri, quindi. Ma non si potrebbero utilizzare i maggiori profitti dell'intero sistema per sostenere, con sussidi, anche i lavoratori stranieri.

Entro un certo limite si', sempre che si riesca, con la leva fiscale, a drenare una parte dei maggiori profitti degli imprenditori. Tuttavia, se il divario tra le due concezioni (nazionale e straniera) delle condizioni "minime" e' sufficientemente ampio, il fattore di attrazione agisce in modo da richiamare un flusso di immigrazione intenso. E qualunque tentativo di includere i lavoratori stranieri tra i beneficiari di sussidi, evitando discriminazioni, si tradurrebbe, per la finitezza delle risorse a disposizione, nella necessita' di porre un limite a quel flusso prima che esso si sia arrestato spontaneamente.

Di nuovo, quindi, una politica di frontiere controllate. E il secondo pericolo in che consiste?

Il problema si presenta quando il flusso di immigrazione, caduti i salari di equilibrio a livelli prossimi a quelli considerati minimi anche da chi provenga da un paese sottosviluppato, dovrebbe arrestarsi. Nel mondo ideale l'equilibrio viene raggiunto in modo indolore: ogni lavoratore ha una conoscenza perfetta di cio' che lo aspetta nel paese di immigrazione; sa valutare esattamente quale sara', al suo ingresso, il nuovo salario di equilibrio e scegliere lucidamente se migrare o meno e, in ogni caso, ogni suo passo e' perfettamente reversibile.

Nel mondo reale, invece?

Nel mondo reale l'informazione e' imperfetta e i processi sono, in una certa misura, irreversibili. Cosi', se supero con un salto un fossato, largo cinque metri, pieno di coccodrilli e, atterrando, scopro che sono finito nelle sabbie mobili, un conto e' che io decida di fare un altro salto in senso inverso, altro e' che io riesca a farlo effettivamente. Allo stesso modo, se l'immigrato scopre al suo arrivo, o dopo un po' di tempo, che le condizioni di inserimento sono peggiori di quanto lui stesso reputi il minimo accettabile, e' possibile che non sia piu' in grado di invertire la marcia e tornare in patria. Si creano allora sacche di emarginazione sostanzialmente incurabile.

Perche' incurabile? Non si potrebbe intervenire con misure assistenziali?

Certamente. Ed e' quello che generalmente il mondo del volontariato fa. Anche molto bene, a volte. Ma nello stesso momento in cui si ponesse rimedio all'emarginazione con misure assistenziali di qualunque genere, si manderebbe un segnale, ai potenziali migranti, tale da alterare la percezione relativa alle condizioni di inserimento effettivo nel paese di immigrazione. Le sacche di emarginazione, appena rimosse, verrebbero rapidamente rimpiazzate da nuove analoghe sacche.

Che cosa se ne deve concludere?

Che, finche' permane un forte divario tra il tenore di vita sperimentato, nel paese di origine, dal migrante e quello "minimo accettabile" nei paesi di destinazione, e finche' la reversibilita' del movimento migratorio non e' piena, una completa liberalizzazione dell'immigrazione puo' risultare impraticabile. Tuttavia, dal momento che l'abbattimento del divario tra paesi ricchi e paesi poveri deve mantenere un carattere di traguardo della politica - sia pure di una politica di lungo periodo - e che quell'abbattimento sarebbe accompagnato da una maggior fluidificazione e reversibilita' dei movimenti migratori (il fossato dei coccodrilli andrebbe restringendosi), quella stessa liberalizzazione deve costituire l'obiettivo verso cui far tendere, su un piano strategico, le modifiche di breve periodo della normativa e della politica di immigrazione.

E a quali modifiche di breve periodo si puo' pensare, in quest'ottica?

Mi sembra che vi siano tre principali linee di pensiero al riguardo. La prima e' quella - tradizionale, per l'Italia - della sanatoria. E' una modifica che consiste nell'adozione di una norma transitoria, ed equivale a una liberalizzazione dell'immigrazione ex post. Ha il pregio di riparare i danni di una politica eccessivamente restrittiva (lo e' stata certamente, sul piano formale, quella degli anni 90). Ha il difetto di sposarsi male con una normativa sulla condizione dello straniero che, per il resto, non e' affatto ispirata a criteri di libero mercato.

Vale a dire?

In un contesto in cui al possesso del permesso di soggiorno consegue il diritto ad accedere - almeno sulla carta - a un pacchetto di diritti sociali, il dare legalita' a un soggiorno originariamente non autorizzato e' visto come un costo. Si tenta allora - e' quello che si e' fatto nel '95 e nel '98 - di cautelarsi da questo costo introducendo dei requisiti restrittivi per la legalizzazione (il vezzo e' allora quello di parlare di regolarizzazione, piuttosto che di sanatoria), ed e' il caos. Non dico - sia chiaro - che le sanatorie non vadano fatte, ma devono essere vere sanatorie, e devono essere gestite con autorevolezza e competenza.

La seconda linea di pensiero?

E' quella della cosiddetta regolarizzazione a regime sostenuta da molti autorevoli esponenti dell'associazionismo e del mondo dei giuristi - penso a Frisullo, a Palombarini, a Pepino e a molti altri esponenti dell'ASGI -, ma ha trovato simpatie, tempo fa, anche in ambiti istituzionali - penso ad Adriana Vigneri, gia' sottosegretario all'interno. Consiste nell'ipotizzare l'accesso al permesso di soggiorno per quello straniero che, entrato illegalmente, abbia conquistato sul posto alcuni prefissati requisiti di inserimento. E' ovviamente una linea di buon senso, giacche' suggerisce come per lo straniero di fatto inserito sia del tutto inutile adottare provvedimenti repressivi quali l'espulsione, la detenzione nei centri e simili.

Pregi e difetti?

Rispetto allo strumento della sanatoria (o della regolarizzazione) "una tantum" presenta il vantaggio della scarsa visibilita' - non si presta, cioe', alle crociate del Gasparri di turno. Ha il difetto - a mio parere - di una certa dose di ambiguita': se il possesso dei requisiti prefissati fa maturare una mera facolta' di richiedere la legalizzazione (restando, pero', la concessione di questa soggetta al potere discrezionale dell'amministrazione), la condizione dello straniero finisce per sfuggire a quella riserva di legge cui la sottopone - proteggendola - l'articolo 10 della Costituzione.

E se lo straniero maturasse invece un vero e proprio diritto alla legalizzazione?

In questo caso, ogni politica di quote andrebbe a farsi benedire: che senso avrebbe aspettare in patria l'ammissione in Italia, se posso andarci direttamente, eludendo la lentezza della politica e della burocrazia, a conquistarmi un permesso di soggiorno? In entrambi i casi, poi, la legalizzazione farebbe seguito a un periodo - probabilmente lungo - di nascondimento nell'illegalita', senza alcuna possibilita' di ricorso alla protezione delle leggi - ricorso che potrebbe inopinatamente interrompere il cammino verso la regolarizzazione.

Sanatoria. Regolarizzazione a regime. E la terza linea?

La terza linea di pensiero parte dall'osservazione che a militare contro la possibilita' di liberalizzare completamente i flussi sono, per quanto detto prima, il rischio che il migrante si inserisca a livelli inaccettabili in base al comune sentire della societa' di accoglienza o, addirittura, al suo proprio modo di vedere, e che, allo stesso tempo, non possa ritrarsene per mancanza dei mezzi necessari al ritorno in patria. Tiene pero' conto, questa terza linea, del fatto che gli sbarramenti oggi adottati per pararsi da questo rischio - la programmazione di quote fondata sulla rilevazione delle necessita' del mercato del lavoro, la chiamata nominativa, l'ammontare dei mezzi di sostentamento da garantire per l'inserimento nel mercato del lavoro o per il rinnovo del permesso - finiscono per risultare cosi' ardui da valicare da rendere appetibile e competitivo il servizio offerto da trafficanti e scafisti. Si tratta allora di salvare le capre dell'inserimento minimo con i cavoli di un accesso non proibitivo al mercato del lavoro.

E come?

La soluzione puo' consistere nel consentire, accanto agli ingressi determinati sulla base della programmazione di quote, una forma di ingresso piu' fluida. Lo straniero e' ammesso a condizione che depositi un biglietto di viaggio di ritorno (da utilizzare per l'eventuale rimpatrio) e dimostri di avere mezzi di sostentamento - proporzionati all'importo dell'assegno sociale - sufficienti per un soggiorno di breve durata (tre mesi, tanto per non creare inutile scompiglio nella normativa esistente). Puo', durante questo periodo, svolgere attivita' di lavoro autonomo - occasionali, per definizione. Puo' anche, ad ogni scadenza del permesso, rinnovarlo per altri tre mesi, a condizione che dimostri di disporre di un ammontare di risorse pari a quello richiesto per l'ingresso. Puo' infine convertire il permesso in due casi: se ha la possibilita' di stipulare un contratto di lavoro subordinato o se, dopo un prefisato numero di rinnovi del permesso (ad esempio, tre), e' in grado di dare stabilita' alla propria attivita' di lavoro autonomo (con l'iscrizione a un albo, ad esempio, se richiesta).

Effetti collaterali indesiderati?

Il rischio - mi metto qui nei panni di chi fatichi ad abbandonare la cultura del controllo di polizia - e' che lo straniero si sottragga alla periodica verifica dei mezzi di sostentamento, e che quindi si trasformi in un irregolare irreperibile. Questa eventualita' potrebbe essere pero' scongiurata - grazie all'ingresso originariamente regolare - archiviando insieme, al momento del rilascio del permesso, gli estremi del documento di viaggio e le impronte digitali dello straniero.

Mi sembra gia' di sentire molti esponenti del mondo delle associazioni protestare.

Beh, il disappunto di fronte alla prospettiva di un rilevamento generalizzato delle impronte potrebbe attenuarsi considerando che, in fondo, le impronte digitali sono assimilabili a una foto-tessera, solo di soggetto diverso dall'usuale: polpastrelli, anziche' volto...

Ma e' realistico che si possa arrivare a una riforma del genere?

Per quanto possa sembrare sorprendente, si tratta di una riforma... gia' fatta. Tutti i suoi elementi essenziali sono, infatti, gia' presenti nella normativa vigente, e, al piu', richiedono un po' di buon senso in sede interpretativa. Cosi', ad esempio, l'ingresso per soggiorno di breve durata e' previsto, previa dimostrazione di disponibilita' di mezzi (che andrebbe solo ridimensionata, rispetto al caso del turista, per questo "turista-lavoratore"). La possibilita' di svolgimento di attivita' occasionali di lavoro autonomo non e' esclusa (solo per quelle non occasionali esiste una disciplina precisa). La conversione di un permesso di soggiorno di breve durata in un permesso per lavoro autonomo e' ammessa - come gia' detto - dal Regolamento (in questo caso, la dimostrazione di capacita' reddituale risulterebbe suddivisa in "comode rate trimestrali"). La facolta' di convertire un permesso di breve durata in uno per lavoro subordinato in presenza di una documentata opportunita' di assunzione dovrebbe infine essere garantita dall'articolo 5, comma 9 del Testo unico, che stabilisce che "il permesso (...) e' convertito (...) se sussistono i requisiti (...) per altro tipo di permesso da rilasciare in applicazione del presente testo unico".

Ma quante possibilita' ci sono che questa linea ottenga un consenso sufficiente?

Uno degli aspetti messi in rilievo da alcuni studiosi in relazione all'inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro e' che possono esere distinte, nell'esperienza vissuta in Italia, tre fasi: una prima, in cui la condizione dello straniero e' di doppia irregolarita' (soggiorno e lavoro); una seconda, in cui la legalita' del soggiorno e' conquistata (grazie a sanatorie, fino ad oggi) ma il lavoro continua ad essere in nero; una terza, in cui anche la condizione lavorativa perviene a regolarita'. Tutti - o almeno quelli che vogliono lasciare la piena liberalizzazione di movimenti migratori e rapporti lavorativi confinata tra le pure idealizzazioni - sarebbero felici se ingresso e accesso al lavoro potessero essere caratterizzati da immediata regolarita'. La proposta che ho appena delineato potrebbe servire a garantire una maggior facilita' - rispetto a quanto sperimentato fino ad oggi - di accesso al soggiorno legale.

E riguardo all'accesso al lavoro regolare?

Parto dall'osservazione di un dato: vi e' oggi un forte dislivello tra la quantificazione del "livello minimo" al di sopra del quale l'immigrato e' considerato "accettabilmente inserito" (l'importo dell'assegno sociale) e la retribuzione che un immigrato percepisce per un lavoro, in regola, a tempo pieno (a spanne, il doppio dell'assegno sociale). La gamma di livelli intermedi potrebbe essere coperta allora - senza scandalo, a mio parere, e con vantaggio sia del lavoratore, sia del datore di lavoro - se fosse consentito un abbassamento del costo del lavoro, anche in corrispondenza ad impieghi regolari.

Ma abbiamo detto che questo farebbe degradare il tenore di vita dei lavoratori italiani. O che, se si tentasse di proteggere questi ultimi, si lascerebbero spazio a pericolosi elementi di discriminazione.

Il parametro da inserire nel modello per argomentare contro queste obiezioni e' il tempo: l'abbassamento del costo del lavoro puo' riguardare i lavoratori in fase di primo impiego o, comunque, nei casi di bassa anzianita', ed essere via via riassorbito al crescere di questa. Il fattore discriminazione verrebbe cosi' meno, non rilevando, nel computo dell'anzianita', l'origine del lavoratore.

Sono idee gia' sentite...

Si', ed e' ovviamente legittimo criticarle. Ci si dovrebbe pero' chiedere quale esito abbia, invece, l'azione repressiva nei confronti del lavoro nero, quanta parte della presunta disoccupazione italiana - cui continuiamo a dedicare le nostre ansie - sia veramente tale, e, infine, cosa restera' dell'idea di lavoro subordinato, se lo si potra' surrogare con prestazioni di lavoro autonomo per le quali il compenso sia liberamente contrattato?

(2 - fine)