Università degli studi di Roma

“La Sapienza”

Facoltà di Scienze Politiche

 

 

 

 

TESI DI LAUREA

 

LA POLITICA EUROPEA DEI LAVORATORI MIGRANTI DEI PAESI TERZI

 

 

 

 

RELATORE                  CORRELATORE
Chiar.mo Prof. G. Napoletano Chiar.mo Prof. G. Kojanec

 

                                                      Laureando

                    Fabio Lupi

 

 

 

 

ANNO ACCADEMICO 1999/2000

Sessione invernale

 

 

 

 

 

 

 

 

La politica europea dei lavoratori migranti dei paesi terzi

 

 

 

INTRODUZIONE

 

                                                                                                   Pag.

 

CAPITOLO I   MOVIMENTI MIGRATORI E MERCATO DEL LAVORO

 

 

1.     Storia dell’immigrazione dei lavoratori dei paesi terzi

in Europa dal 1945............................................................................................ 5

2.     L’evoluzione storica della politica europea sui lavoratori

migranti dei paesi terzi................................................................................... 15

3.     Fattori di spinta e di attrazione....................................................................... 31

4.     Immigrati dei paesi terzi in Europa e mercato del lavoro............................ 40

5.     Analisi di alcune scelte di politica migratoria............................................... 49

 

 

 

CAPITOLO II   LA POLITICA DELL’U.E. SULL’IMMIGRAZIONE

 

 

1.     I diritti dei lavoratori migranti secondo le Nazioni Unite

ed altri organismi internazionali................................................................... 61

2.     Il trattato di Amsterdam ed il processo di armonizzazione

europeo.............................................................................................................. 91

3.     Piano d’azione del Consiglio e della Commissione sul modo

migliore per attuare Amsterdam.................................................................... 117

4.     Il Consiglio europeo di Tampere..................................................................... 133

 

                                                                                                                                   

                                                                                                                                    Pag.

 

CAPITOLO III   LA LEGISLAZIONE COMUNITARIA IN VIGORE

 

 

1.   L’azione del Consiglio per la creazione di un programma

d’azione a favore dei lavoratori migranti dei paesi terzi............................. 144

2.   Gli orientamenti per una politica comunitaria

delle migrazioni................................................................................................ 152

3.   Comunicazione e concertazione della Commissione con

i paesi terzi in materia di migrazioni............................................................. 155

4.   Le limitazioni nell’ammissione dei cittadini extracomunitari

nel territorio degli Stati membri al fine di occupazione............................. 159

5.     La decisione del Consiglio concernente lo scambio di informazioni riguardanti gli aiuti per il ritorno volontario nel paese di origine di

cittadini di Stati terzi....................................................................................... 168

 

 

 

 

INTRODUZIONE

 

 

 

Nella trattazione, in una tesi di carattere giuridico, riguardante le relazioni tra i lavoratori extracomunitari migranti e le istituzioni europee, si deve tenere conto di una serie d’elementi preliminari rappresentanti, da un lato la necessità di interi popoli a migrare e dall’altro il tentativo dei paesi d’immigrazione di gestire i flussi.

Questo lavoro si divide in tre capitoli, ciascuno dei quali affronta un diverso aspetto del problema. Al capitolo primo è affidato il compito di ripercorrere le differenti fasi storiche delle migrazioni verso il territorio comunitario, le ragioni che spingono un lavoratore a migrare ed i tentativi compiuti dagli organi comunitari, per far fronte alle problematiche che di volta in volta si sono presentate. Nel capitolo secondo è trattata la tendenza politica della Comunità Europea, alla luce delle innovazioni introdotte dal Trattato di Amsterdam. Nel capitolo terzo si sviluppa la trattazione della legislazione comunitaria in vigore, com’è e come si sta sviluppando, nei confronti del lavoratore migrante di un paese terzo.

Volutamente nel testo non compaiono lunghe serie di numeri sulla presenza straniera in Europa e sulla sua capacità di influenzare il mondo del lavoro, in quanto, gli unici dati possibili in questa materia sono basati su stime, rivelatesi spesso non veritiere e varianti in funzione dello scopo della loro elaborazione. Con ciò non si vuole negare l’importanza della statistica nella trattazione delle migrazioni, tuttavia, non si possono trascurare i numerosi limiti che, in questo campo, la attraversano, primo fra tutti l’impossibilità di calcolare gli immigrati clandestini che praticano il lavoro nero, il quale per definizione non è documentato da dati certi.

L’attenzione è stata rivolta, in modo particolare, alla volontà di giungere ad una posizione politica e giuridica comune, mediante lo strumento dell’armonizzazione delle politiche nazionali. In tema di immigrazione, negli ultimi anni, si sta assistendo ad un passaggio che ricorda quello già compiuto sotto il profilo economico, quando si è passati dall’area di libero scambio all’unione doganale. Nella fase dell’area di libero scambio si eliminavano le barriere interne, lasciando discrezione ai singoli Stati sulle misure da adottare verso i paesi terzi, con l’Unione doganale si stabilirono dazi comuni verso i paesi terzi. Nel campo dell’immigrazione, con il trattato di Schengen, si sono abbassate le barriere interne lasciando alle legislazioni statali il compito di regolamentare a proprio piacimento i flussi di entrata nel proprio paese. Questa transizione produceva una situazione paradossale secondo la quale, almeno in teoria, la Germania poteva respingere gli extracomunitari che provenivano dal mare e non aveva difese per quelli che provenivano da altri paesi europei[1]. Con il trattato di Amsterdam e la così detta “comunitarizzazione” della materia, si sono poste le basi per giungere ad una posizione comune.

La causa scatenante l’interesse dell’Europa comunitaria sul tema rimane ancora una volta l’economia ed i suoi precari equilibri, per il mantenimento dei quali risulta decisivo il mercato del lavoro.


 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

CAPITOLO I

 

 

 

 

 

Movimenti migratori e mercato del lavoro

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

Paragrafo 1

 

 

 

STORIA DELL’IMMIGRAZIONE DEI LAVORATORI DEI PAESI TERZI IN EUROPA DAL 1945

 

 

 

La crescita demografica non compensata da un’adeguata crescita economica, da sempre, porta alla conclusione di attivare fenomeni migratori. Le varie fasi delle grandi migrazioni transoceaniche di lavoratori del XIX secolo, trovano un perfetto riscontro temporale con il momento in cui s’innesca la transizione demografica nei gruppi di paesi da cui partirono i flussi migratori di ciascuna fase. Tuttavia la presenza di fattori di spinta è condizione necessaria, ma non sufficiente1 affinché si verifichino migrazioni di grande portata; essenziale è altresì la presenza di fattori di attrazione nei paesi d’arrivo. Si può così spiegare la forte migrazione del secondo dopoguerra verso l’Europa settentrionale, un eccesso di domanda di lavoro dovuta allo squilibrio tra tasso di crescita dell’economia e tasso di crescita della popolazione in età lavorativa.

Ritengo opportuno iniziare la mia analisi dal secondo dopoguerra, essendo le condizioni precedenti troppo lontane dalla realtà odierna. Nel periodo che passa tra il 1950 ed il 1970, l’immigrazione straniera rappresenta un elemento dominante nell’evoluzione economica dei paesi dell’Europa occidentale. Il ricorso massiccio alla manodopera straniera può essere spiegato dalle condizioni che il dopoguerra imponeva, una domanda di lavoro elevata, legata al bisogno di ricostruzione ed alla prospettiva di ricrescita economica, contrapposta ad un’offerta di lavoro ridotta dal rallentamento demografico (nel caso della Francia) e dalle conseguenze della guerra (in quello della Germania). Le tradizionali migrazioni nord-sud invertivano la loro tendenza, liberati dai legami della colonizzazione e convinti di migliorare la propria condizione, uomini e donne tentavano di stabilirsi nelle strutture economiche dei paesi dell’Europa nord occidentale. Gli europei, dal canto loro, cullavano l’illusione che il ricorso ai lavoratori stranieri sarebbe stato un fenomeno temporaneo e privo di strascichi futuri. I paesi colonialisti tentavano anche di prolungare i legami con le loro ex colonie, in modo da avere con essi rapporti privilegiati e nel frattempo gli “concedevano” di partecipare alla ricostruzione del vecchio continente. La politica di immigrazione europea in questo periodo si limitava ad importare forza lavoro (ormai indispensabile) rispettando anche alcuni requisiti: preferenza per gli europei o comunque per i “bianchi”, mantenimento dei limiti quantitativi che non permettessero un’eccessiva manifestazione del fenomeno, attenzione a convogliare immigrati che tornassero ai luoghi d’origine anziché rimanere permanentemente. Francia e Germania hanno rappresentato i due casi limite della politica di immigrazione: la prima ha favorito il ricongiungimento familiare e ha tentato una sistemazione dell’immigrato, mentre la Germania, escludendo ogni ipotesi di ripopolamento mediante immigrazione, è ricorsa alla manodopera straniera solo per provvedere ai bisogni congiunturali. La Francia sentì l’esigenza di assumere manodopera straniera anche a causa del rimpatrio di italiani e polacchi che, allo scoppio del conflitto, rientrarono nel loro paese di origine. Nel 1945 creò l’Office National d’Immigration e il Code de la Nationalité Française, due istituti per l’organizzazione e la concessione delle naturalizzazioni. Pur preferendo l’immigrazione di altri europei, considerati più disponibili all’inserimento, la Francia attinse considerevolmente anche dall’area coloniale. In quest’ottica va visto lo statuto del 1946, il quale concedeva agli algerini la cittadinanza francese e quindi moltiplicava le possibilità di integrazione economica in Francia, facendo divenire  la comunità  algerina  la  più numerosa

dopo quella francese[2]. Fu così la Francia a sperimentare per prima l’impossibilità di controllare i flussi migratori, divisa tra la necessità di manodopera e quella di non vedersi invasa, creò una nuova istituzione, la Direction de la Population et des Migrations.

Il tentativo di creare sempre maggiori difficoltà burocratiche all’ingresso dei clandestini, tuttavia, non fece altro che alimentare gli ingressi illegali. Per evitare l’immigrazione irregolare e tutelare gli autoctoni, la Francia sperimentò una legge per molti versi innovativa, ma comunque alla lunga fallimentare. Un datore di lavoro francese per assumere un lavoratore straniero, doveva prima sincerarsi che l’offerta di lavoro locale non riuscisse a soddisfare le sue esigenze, quindi poteva far richiesta all’estero, eventualmente indicando il nominativo del lavoratore desiderato. In questa situazione si poneva il problema che, il lavoratore straniero già presente sul territorio, o perché in scadenza d’altro contratto, o perché clandestino, anche se avesse trovato lavoro e sebbene il datore di lavoro avesse ottemperato all’obbligo di ricerca preventiva, non poteva essere assunto, se non tornando in patria per poi essere chiamato. Un provvedimento che appariva assurdo e che fu ben presto aggirato dalla pubblica amministrazione, la quale permise l’assunzione degli immigrati irregolari purché si verificasse l’assenza di offerta di lavoro autoctona. Dal momento che assumere un lavoratore già presente sul territorio risultava meno costoso che assumerne uno in un altro paese, i datori di lavoro cercavano la manodopera sul posto e allo stesso tempo inoltravano richiesta alle autorità competenti per trovarne uno all’estero, nel caso il primo tentativo non avesse funzionato. Tutto ciò non fece altro che alimentare la richiesta di lavoratori extracomunitari entrati in Francia illegalmente, in altre parole, si ottenne il risultato opposto alle aspettative della legge.

Le condizioni del mercato del lavoro, il ritmo di crescita economica, lo sviluppo del lavoro a catena sono state le determinanti dei flussi migratori. “Nel caso francese, gli intenti di politica demografica hanno lasciato rapidamente il posto alle esigenze di crescita economica: ad un’attenta analisi i flussi di ingresso appaiono strettamente correlati agli indicatori del mercato del lavoro, almeno fino alla metà degli anni sessanta[3]”. Tuttavia ci si rende ben presto conto che, considerare l’immigrazione come un fenomeno temporaneo, da poter a piacimento gestire in base alle esigenze di mercato si rivela un’illusione. Il caso della Germania è emblematico, nonostante la riluttanza delle autorità tedesche a considerare il proprio paese come un paese di immigrazione, lo strumento del “ricongiungimento familiare” lo ha di fatto reso tale. Se è vero che le diverse leggi di immigrazione sono talvolta riuscite a scongiurare il pericolo che più di un componente familiare avesse un’occupazione, è anche vero che la struttura etnica di queste popolazioni si è, con gli anni, modificata. La Repubblica federale tedesca ebbe necessità di manodopera al pari degli altri paesi europei, ma la politica di immigrazione sembrò essere più organizzata rispetto a quella francese. La sua legislazione prevedeva delle Commissioni di reclutamento situate negli stessi paesi di emigrazione, queste permettevano di controllare le assunzioni in modo che soddisfacessero le esigenze del datore di lavoro e al contempo vigilavano affinché il mercato del lavoro in patria non fosse turbato. A questo scopo la legge del 1965 fissava rigide norme per eliminare ogni tentazione dei datori di lavoro tedeschi di sottopagare gli immigrati (togliendo lavoro ai tedeschi) e fissando, allo stesso tempo, un sistema di rotazione, dei lavoratori stranieri. Con il sistema della rotazione da un lato la Germania controllava sempre il numero delle presenze straniere sul suo territorio, dall’altro impediva alle comunità straniere di fermarsi stabilmente nel paese. I paesi di emigrazione, dal canto loro, ottenevano numerosi benefici dalle rimesse degli emigranti e al loro ritorno in patria potevano disporre di manodopera specializzata. Il sistema delle rotazioni si dimostrò però ben presto illusorio in quanto contrastava con le necessità dell’apparato industriale di avere manodopera specializzata e con la volontà dei migranti di non voler più tornare in patria, dove con ogni probabilità li attendeva miseria e disoccupazione[4]. Alla fine degli anni sessanta Francia e Gran Bretagna cominciarono a preoccuparsi delle conseguenze inaspettate del fenomeno dell’immigrazione, mentre la Repubblica Federale Tedesca, convinta che i problemi degli altri paesi erano legati al loro passato coloniale, ostentava una notevole tranquillità. Nei primi anni settanta la situazione si modificò[5] e i paesi considerati di immigrazione chiusero le frontiere ai lavorati stranieri, la questione fu giustificata con il rallentamento della produzione industriale e con la crescita simultanea della disoccupazione, incrementata dalla crisi petrolifera del 1974. Soltanto nella metà degli anni settanta gli analisti si resero conto che il sistema d’immigrazione fino allora usato, imponeva una rotazione dei lavoratori migranti che non permetteva alcun tipo di specializzazione e che, di conseguenza, i costi di gestione delle imprese erano lievitati. Alcuni studiosi sostengono che la facilità con la quale i lavoratori stranieri potevano entrare in Francia o in Germania, abbia in qualche modo influenzato lo sviluppo delle industrie ad alto uso di manodopera, limitando quelle imprese che facevano del capitale la loro forza. Inoltre il ricongiungimento familiare stravolgeva le politiche migratorie da parte dei governi nazionali, i quali erano presi alla sprovvista. I paesi che intendevano l’immigrazione come temporanea si sorpresero di scoprire che il ricongiungimento familiare portava con sé dei costi sociali non previsti, ma non tutti riconobbero che i benefici ricevuti in cambio erano di gran lunga maggiori. Dopo i provvedimenti presi nei primi anni settanta, che frenarono l’afflusso di immigrati, le autorità tedesche si preoccuparono di non interrompere l’ingresso dei lavoratori, ma di commisurarlo alle effettive esigenze del paese. Si continuava a riconoscere la validità degli accordi di lavoro conclusi nel decennio precedente, ma erano emanate direttive per stroncare il mercato nero alimentato dagli stessi imprenditori tedeschi. Era eliminato il sistema di rotazione, erano predisposte misure straordinarie per favorire l’integrazione di quei lavoratori che non volevano tornare nei paesi d’origine, ma sparivano le commissioni di reclutamento in paesi non appartenenti alla Comunità Europea per bloccare l’arrivo di nuovi extracomunitari[6].

La giovane età dei lavoratori migranti e l’alto tasso di attività hanno da un lato, dato una forte spinta al sistema contributivo, dall’altro hanno permesso la ricostruzione di paesi ormai alla deriva. Il blocco alle entrate dei lavoratori stranieri del 1974 aveva l’intento di arrestare il flusso di entrata e garantire la possibilità di gestione del mercato del lavoro da parte dei governi nazionali. Il suo effetto fu quello di bloccare solo una parte di questo flusso, quello regolare, incrementando la clandestinità in tutte le sue forme. La chiusura delle frontiere ha cambiato la prospettiva del lavoratore straniero, egli oggi è infatti più restio a lasciare il paese che lo ospita per paura di non poterci più tornare, la durata del soggiorno si prolunga, i ricongiungimenti familiari aumentano. Nel 1982 la Repubblica federale concretizzava la propria politica immigratoria (ormai di tendenza completamente opposta a quella degli anni ’50) lungo due direttive: sostanziosi premi in denaro per favorire i rientri e cooperazione con i paesi di origine.

Le caratteristiche della famiglia immigrata somigliano sempre più a quelle delle famiglie autoctone, le attese dell’immigrato cambiano, egli non si accontenta più di accumulare quanto più denaro può per poter poi tornare in patria a condurre un’esistenza più dignitosa, tenta la scalata sociale mettendosi, di fatto, in concorrenza con il resto della popolazione.

 

 

Presenza e provenienza dei cittadini extracomunitari in Europa al 1990[7]

REGNO UNITO 1,1%

Indiani, Antillesi, Pakistani,

Cinesi di Hong Kong, Bangladeshi,

Gitani,

Originari del Medio Oriente e del Maghreb

GRECIA 0,6%

Turchi,

Africani

BELGIO 3,8%

Marocchini, Zairesi, Tunisini,

Altri Africani

DANIMARCA 1,8%

Turchi

 

PORTOGALLO 0,5%

Capoverdiani,

Angolani

 

FRANCIA 3,9%

Algerini, Turchi,

Marocchini, Gitani,

Tunisini,

Originari del Sud-Est Asiatico

SPAGNA 0,3%

Gitani, Filippini,

Marocchini

ITALIA 1,7%

Marocchini, Tunisini,

Senegalesi, Filippini,

Cinesi

R.F.T. 5,3%[8]

Turchi,

Africani

PAESI BASSI 2,7%

Surinarnesi,

Antillesi-Mulucchesi,

Turchi, Marocchini

Valori sottostimati (non comprendono presenze irregolari).

Paragrafo 2

 

 

 

L’EVOLUZIONE STORICA DELLA POLITICA EUROPEA SUI LAVORATORI MIGRANTI DEI PAESI TERZI

 

 

 

A prima vista, il processo di armonizzazione delle politiche di immigrazione dei diversi Stati membri della Comunità europea, potrebbe apparire di semplice realizzazione. Quest’errata considerazione può essere determinata dal fatto che, a partire dalla metà degli anni settanta, tutti gli Stati d’accoglienza dell’Europa occidentale, sono ricorsi a misure piuttosto simili per controllare il processo immigratorio. Sotto alcuni punti di vista, una comunanza di vedute tra i diversi paesi membri, si mantiene ancora oggi; l’immigrazione dei lavoratori extracomunitari è sottoposta ovunque a norme assai restrittive, e se il ricongiungimento familiare è accettato pressappoco ovunque, l’immigrazione illegale è osteggiata in tutti gli Stati. Tutti gli Stati comunitari aderiscono alle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951 sullo status dei rifugiati, facendo particolare attenzione, al contempo, ad impedire l’ingresso di migranti economici che usufruiscono delle procedure d’asilo. Questa serie di provvedimenti comuni è determinata, in larga parte, dalla comunanza di problematiche che gli Stati della Comunità europea si trovano quotidianamente ad affrontare, tutti gli Stati membri devono fronteggiare, infatti, l’ingresso indesiderato di lavoratori migranti da paesi terzi, i quali utilizzano tanto l’ingresso illegale, quanto le procedure di asilo per introdursi nel mercato del lavoro comunitario. Tuttavia questa situazione di fatto non deve, come dicevamo, trarre in inganno, infatti, come ha osservato la Commissione europea, anche se «i principi comuni hanno portato a difficoltà simili, vi sono tuttavia delle differenze tra le situazioni in cui gli Stati membri si trovano». Nonostante ciò, con l’abbattimento delle frontiere interne e la prospettiva di un’unione politica (oltre che economica) reale, appare evidente la necessità di un’azione comune, che prenda spunto dal percorso politico avviato sin dagli esordi della Comunità Europea.

Quando fu il momento di stabilire le linee di tendenza che avrebbero dovuto caratterizzare il trattato istitutivo della CEE riguardo ai paesi terzi, i partner europei furono concordi nel ritenere che, un’adeguata politica comunitaria avrebbe assicurato alla CEE stabilità politica alle sue porte e salvaguardato tanto le proprie esportazioni, quanto le importazioni. Per tali ragioni, nel preambolo del trattato CEE era espresso l’intento di «confermare la solidarietà che lega l’Europa ai Paesi d’oltremare», ma anche il desiderio di «assicurare lo sviluppo della loro prosperità conformemente ai principi dello Statuto delle Nazioni Unite». Gli articoli 131-136, parte IV del Trattato, affrontavano il problema delle relazioni della CEE con i paesi e i territori d’oltremare, che avrebbero dovuto essere regolati da rapporti di associazione per «promuovere lo sviluppo economico e sociale di questi paesi e territori, al fine di stabilire relazioni economiche strette tra essi e la Comunità nel suo insieme». A tal proposito al trattato CEE era allegata una convenzione provvisoria che creava un Fondo Europeo per lo Sviluppo (FES), di durata quinquennale, con il compito di promuovere il progresso economico e sociale di questi paesi. Vi era già allora il desiderio di incentivare lo sviluppo dei paesi più arretrati, al fine di poter gestire la politica dei flussi migratori, tuttavia l’esuberante crescita economica dei paesi CEE degli anni sessanta li rendeva, in ogni caso, poli d’attrazione per l’immigrazione straniera. Non bisogna neanche dimenticare che, perdurando la mancanza di manodopera, erano gli stessi paesi CEE a sollecitare l’ingresso dei lavoratori stranieri.   Furono   addirittura   firmati, nel   1963,  degli accordi

 

commerciali preferenziali con la Turchia[9], nel 1969 con la Tunisia e il Marocco e con l’Algeria di lì a poco; ciò non fece che alimentare il flusso di lavoratori extracomunitari soprattutto verso Francia e Germania. Quando, nei primi anni settanta, ci si rese conto dei costi che tale politica stava comportando e soprattutto dei pericoli per il futuro, s’invertì la tendenza, usando la recessione economica come motivazione della chiusura delle frontiere. Rimaneva, tuttavia, da risolvere la questione degli accordi preferenziali firmati dal “gruppo dei Sei” con i singoli paesi del Bacino Sud del Mediterraneo, fu questo il motivo che spinse la Commissione delle Comunità Europee a presentare al Consiglio dei Ministri CEE, il 2 febbraio 1972, un “Memorandum per una politica comunitaria di sviluppo”. Non potendo rinnegare gli accordi fatti in precedenza, si decise di allargarne la portata includendovi accordi che abbracciassero la cooperazione tecnica da un lato, ma anche la regolazione dei flussi di manodopera dall’altro. I capi di Stato comunitari accettarono di buon grado la proposta e così, a partire dal 1974, il problema dell’immigrazione diveniva uno dei fattori chiave della politica sociale comunitaria. Nel dicembre di quello stesso anno, veniva adottato dal Consiglio dei Ministri comunitari un «Programma d’azione in favore dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie». Alla conferenza di Bucarest, nello stesso anno, si consumò il primo grande scontro tra paesi dell’occidente industrializzato e paesi del terzo mondo. I primi avevano inteso la conferenza come se fosse stata organizzata per analizzare la situazione di vertiginosa crescita demografica dei paesi dell’area sud dell’emisfero e fossero, essi stessi, i legittimi incaricati a indicare ai paesi in via di sviluppo i rimedi. Per l’India si disse: «il miglior contraccettivo è lo sviluppo economico», per la Cina, invece, temevano che l’eccessivo popolamento del territorio potesse frenare lo sviluppo economico poiché, il fatto di avere sempre a disposizione manodopera in abbondanza, toglieva stimoli alla ricerca tecnologica. Le reazioni dell’emisfero meridionale furono molto caute, se da un lato, infatti, si rischiava un’ingerenza esterna nei propri affari, dall’altro vi erano sul tavolo delle trattative cospicue somme per finanziare progetti di sviluppo economico, ma anche di controllo delle nascite. Nel febbraio del 1975, dopo l’allargamento della Comunità Europea (avvenuto 1 gennaio 1973) a Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, veniva firmata la prima Convenzione di Lomè, la quale favoriva una collaborazione multisettoriale. Nella speranza di riuscire, unendo le risorse, a regolamentare il flusso di lavoratori migranti dei paesi terzi, si avviò una politica di sviluppo direttamente nei paesi di partenza, che non diede risultati soddisfacenti[10], tanto che tali flussi verso la Comunità non accennarono a diminuire negli anni ottanta. Questa contingenza costringeva i governi dei paesi comunitari a prendere sempre maggiore coscienza dell’ormai improcastinabile problema, era ormai evidente che la soluzione da trovare avrebbe dovuto garantire effetti sostanziali a breve termine; era ormai troppo tardi per avviare programmi di sviluppo in loco i quali avrebbero portato a dei risultati visibili solo nel medio – lungo periodo. La visione che gli Stati europei avevano del fenomeno, li portava ad optare per una politica di contenimento attraverso restrizioni e controlli dell’immigrazione, dopo aver per lunghi anni (durante il periodo del dopoguerra) favorito l’ingresso dei lavoratori extracomunitari nell’area CEE. Il più rilevante strumento di contenimento fu la Convenzione europea del 1977 sullo status legale dei lavoratori migranti[11] ma, nonostante le dichiarazioni d’intenti, le politiche relative all’immigrazione e alla residenza dei cittadini (lavoratori) di paesi terzi, rimasero essenzialmente materia di controllo nazionale, costituendo un’espressione fondamentale della sovranità statale. La necessità di trovare una soluzione al problema, in tempi ristretti, aveva concesso maggior vigore alla posizione di quei membri che rivendicavano una maggiore autonomia decisionale[12]. Tuttavia, sebbene la condizione del momento non permise un’armonizzazione formale delle politiche migratorie, ci si convinse dell’esigenza di collaborare, realizzando diversi incontri tra funzionari e ministri a livello informale. Ciò consentì di prendere delle decisioni comuni, ad esempio, nel punire coloro che trasportano illegalmente i migranti. Una parte degli studiosi sostiene che, non sia da sottovalutare l’ipotesi secondo la quale l’intensificazione delle consultazioni abbia portato, non soltanto ad uno scambio di informazioni e ad un’armonizzazione indiretta delle politiche, ma anche ad una condivisione di percezioni e di pregiudizi. In tal modo i particolari problemi di uno Stato comunitario (ad esempio dell’Italia) nei confronti dell’immigrazione illegale, hanno finito per essere visti come problemi comuni a tutti gli Stati dell’Europa occidentale[13]. Un’altra parte della dottrina ritiene invece che i tempi per un’armonizzazione delle politiche comunitarie sul tema, evidentemente, non erano ancora maturi così che, gli Stati facenti parte della Comunità, in una situazione di particolare urgenza, si convinsero che un’azione solitaria sarebbe stata più veloce ed efficace. Questa seconda tesi è avvalorata dal fatto che, ben presto, gli Stati di accoglienza concentrarono la loro attenzione sul controllo esterno delle frontiere[14], ma ciò non impedì l’aumento dell’immigrazione illegale, inoltre il fenomeno dell’asilo politico a scopo economico assunse proporzioni mai conosciute. Rendere le frontiere assolutamente sicure sarebbe stato pressoché impossibile e, tra l’altro, avrebbe significato erigere dei muri atti a difendere una distribuzione di ricchezze fortemente diseguale. Non essendo possibile il controllo capillare delle frontiere, molti Stati hanno cercato una soluzione ponendo in atto controlli interni di polizia, nel mercato del lavoro e non solo. Ogni Stato ha creduto di poter salvaguardare la propria integrità e sovranità territoriale, agendo per proprio conto, senza accordarsi con altri. Essi non considerarono  un semplice principio in base al quale quando un paese controlla più severamente i propri confini, non fa altro che dirottare la pressione dell’immigrazione sui confini di altri Stati. Tra i vari esempi che potrebbero essere citati, particolarmente indicativo è il caso del 1952, quando gli Stati Uniti chiusero l’ingresso agli abitanti della Giamaica, di Trinidad e di altre isole britanniche e, come risultato ottennero che i lavoratori migranti che provenivano da questi paesi, si diressero verso la Gran Bretagna. Una collaborazione internazionale, per risolvere il problema, diveniva non solo necessaria, ma anche urgente.

Con l’entrata in vigore dell’Atto Unico Europeo il 1 luglio 1987, si confermava una particolare sensibilità della Comunità in tema di immigrazione, tra le dichiarazioni ad esso allegate, due sono di particolare importanza per quel che riguarda l’immigrazione dai paesi terzi. La prima asserisce che, le disposizioni dell’Atto Unico non pregiudicano il diritto degli Stati membri di adottare le misure, che essi ritengono necessarie, in materia di controllo dell’immigrazione, di lotta al terrorismo, alla criminalità, e al traffico di stupefacenti e di opere d’arte. La seconda afferma l’impegno a cooperare per quel che riguarda l’ingresso, la libera circolazione e il soggiorno dei cittadini dei paesi terzi, nonché la lotta al terrorismo, alla criminalità, al traffico di stupefacenti e di opere d’arte. Di fatto, si associò il tema dell’immigrazione a problematiche di ordine pubblico, che sono e rimangono di competenza statale. Cambiò radicalmente l’angolo di prospettiva dal quale si osservava il problema, non più comunitario, ma statale (al limite intergovernativo); non si affrontava il tema nelle sedi comunitarie, bensì erano i ministri ed i funzionari dei diversi paesi che, preso atto dell’esistenza di un problema comune, intensificavano il dialogo[15]. Tale tipo di dialogo, soltanto in un secondo momento, sarà istituzionalizzato nella creazione di organismi quali le consultazioni intergovernative sulle politiche d’asilo e dei rifugiati, oltre alle conferenze dei ministri europei responsabili per i problemi delle migrazioni. Il dialogo che prima si teneva informalmente fra i ministri degli esteri dei diversi paesi, ora si svolgeva in una sede istituzionale rimanendo, tuttavia, prerogativa dei singoli Stati. Al Consiglio Europeo di Strasburgo dell’8-9 dicembre 1989, i capi di Stato e di Governo ribadivano che, la progressiva abolizione dei controlli alle frontiere, non avrebbe intaccato il diritto degli Stati membri a prendere le misure necessarie per il controllo dei flussi migratori nei singoli paesi. Al Consiglio Europeo di Dublino del giugno 1990, venivano adottate, a livello intergovernativo, alcune misure che rientravano nella Convenzione di Dublino firmata il 15 giugno dello stesso anno da tutti e dodici gli Stati membri e che determinano lo Stato responsabile dell’esame delle richieste d’asilo. La Convenzione stabilisce le condizioni destinate sia ad impedire che un individuo in cerca di asilo faccia più di una richiesta, oppure richieste successive a più Stati, sia a prevenire il problema dei «rifugiati in orbita», che nasce quando nessuno Stato si assume la responsabilità di occuparsi di particolari persone in cerca d’asilo.

Nel giugno del 1985 gli Stati del Benelux firmarono, insieme con la Francia e la RFT, quello che è oggi conosciuto come l’accordo di Schengen; esso stabiliva la creazione di uno spazio interno senza frontiere per la circolazione di beni, servizi e persone, ma prevedeva anche l’armonizzazione di diversi indirizzi politici, tra i quali quello dell’immigrazione da paesi terzi. Tuttavia quando fu ratificato l’Atto Unico, nel 1987, il Trattato di Roma fu dotato di un nuovo articolo (otto A), il quale stabiliva che la Comunità Europea, avrebbe adottato misure «aventi lo scopo di costituire entro il 31 dicembre 1992 il mercato interno», comprendente «un’area senza frontiere interne in cui è assicurata la libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali». I confini esterni degli Stati membri divenivano i confini della Comunità, ma l’armonizzazione politica cui si giungeva, aveva intenti diversi da quelli per i quali si era avviato il processo, infatti, negli anni sessanta si avvertiva l’opportunità di creare regole comuni per la gestione dell’immigrazione, ma questa era considerata una necessità e non un problema. Con l’Atto Unico, gli Stati europei non puntavano più ad armonizzare la politica migratoria dal punto di vista di chi ha necessità di lavoratori migranti, puntavano bensì a difendere le frontiere europee ed il mercato interno, in nome degli interessi della Comunità[16].

Il 19 giugno 1990 veniva firmata anche la Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, l’Italia vi aderiva il 27 novembre dello stesso anno, il 15 giugno 1991 anche Spagna e Portogallo e Grecia firmarono. La cooperazione intergovernativa continuò a procedere su una base in qualche misura “ad hoc”, come indica l’istituzione nel 1986 di quello che fu appropriatamente denominato «Gruppo ad hoc sull’immigrazione». Quest’organismo derivava dal gruppo Trevi, istituito nel 1975, il quale radunava i massimi responsabili dell’applicazione della legge (ministri europei della Giustizia e degli Interni e alti funzionari statali) e che alla fine degli anni ottanta allargò, esso stesso, la sua area di interesse fino ad includere l’esame di questioni legate all’immigrazione illegale e clandestina e ai flussi d’asilo. Il Gruppo “ad hoc” fu, in confronto al gruppo Trevi, più direttamente incaricato di esaminare questioni relative alla migrazione, approfondendo problemi quali l’opportunità di più rigorosi accertamenti alle frontiere esterne e di accertamenti interni. Il coordinamento delle direttive in materia di concessione dei visti, la cooperazione atta ad evitare l’uso illegale dei passaporti e lo sviluppo di politiche comuni per eliminare l’uso improprio del diritto d’asilo. A partire dal 1988 il Gruppo “ad hoc” ha lavorato in tandem a un terzo organismo, in seguito alla decisione presa dal Consiglio europeo di Rodi, nel dicembre 1988, di istituire un gruppo di coordinatori formato da alti funzionari degli Stati membri e da rappresentanti della Commissione europea, con la responsabilità di esercitare una supervisione sulle attività associate alla messa in pratica della libera circolazione. Dovevano inoltre venire considerati i meccanismi del Gruppo di Schengen, di cui fanno parte solo Stati membri della Comunità Europea, ma che non comprende tutti i dodici Stati[17].

La convenzione sull’attraversamento delle frontiere è uno dei due principali strumenti della CEE che affronta esplicitamente la politica migratoria, l’altro è la Convenzione di Dublino. Tanto la Convenzione sulle frontiere, che la Convenzione di Dublino, nascono dal fatto che non vi è alcuna armonizzazione europea; la dichiarazione che accompagna la firma della Convenzione di Dublino sottolinea che «lo scopo… è quello di regolare le relazioni tra gli Stati membri con la definizione dei loro obblighi reciproci». Un determinante incentivo all’armonizzazione delle politiche e delle procedure relative all’immigrazione fu invece offerto dal trattato sull’Unione Europea firmato a Maastricht nel dicembre del 1991, in quanto a seguito della sua entrata in vigore, alla politica migratoria fa riferimento ciascuno dei tre «pilastri» del trattato. All’interno del primo pilastro (materie comunitarie) viene inserito nel trattato di Roma un nuovo articolo (art.100c), il quale afferma che è compito del Consiglio della Comunità europea, indicare i paesi i cui cittadini debbono essere muniti di visto, al momento della loro entrata all’interno dell’area comunitaria. Il secondo pilastro (politiche relative agli affari esteri e alla sicurezza) fa soltanto un riferimento indiretto alla questione relativa ai movimenti di persone, all’asilo, ai rifugiati e all’immigrazione. Il terzo pilastro (cooperazione intergovernativa in materia di giustizia e affari interni) elenca aree che gli Stati membri considerano come questioni di comune interesse e che comprendono le politiche di asilo, le regole che governano l’attraversamento delle frontiere esterne e le politiche riguardanti l’immigrazione dei cittadini di paesi terzi e l’immigrazione non autorizzata[18]. Senza ombra di dubbio tuttavia il riferimento più esplicito alla politica migratoria deriva da quest’ultimo pilastro, con la consequenziale associazione ideale dell’immigrazione (anche quella regolare), con i problemi di giustizia.

La necessità di realizzare un’armonizzazione delle politiche migratorie, oggi è ancora una volta diversa da quella che si sentiva nel 1987, al momento dell’entrata in vigore dell’Atto Unico. In quel periodo, la razionalizzazione dei provvedimenti a livello intergovernativo poteva risultare utile, al fine di realizzare il mercato unico. Negli ultimi anni l’armonizzazione delle politiche comunitarie sull’immigrazione è un obiettivo divenuto particolarmente importante, in parte per l’esigenza del mercato del lavoro di avere dati certi sulla presenza attuale e futura di lavoratori migranti di paesi terzi, in parte, dal timore degli Stati nazionali di vedere contaminate le proprie origini, tradizioni, fedi religiose, usi e costumi da un esercito di individui appartenenti a culture profondamente diverse, che premono alle loro porte. La necessità attuale di trovare una soluzione definitiva al problema dell’immigrazione, deriva dalla volontà degli Stati membri di riprendere, quanto più possibile, il controllo di una situazione sfuggita di mano molto tempo prima e contenere così il rischio legato alla saturazione del mercato del lavoro e alla consequenziale esasperazione dei cittadini comunitari. Non vi è tuttavia né la necessità, né la volontà politica di chiudere completamente le frontiere esterne ai lavoratori migranti dei paesi terzi[19], l’esigenza che al momento si avverte, è quella di razionalizzare e non di chiudere i flussi di entrata all’interno del territorio comunitario.

Oggi con il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore il 1 maggio 1998, la materia d’immigrazione ed asilo è passata dal terzo al primo pilastro comunitario e la politica migratoria è finalmente differenziata da quella “criminale” (che resta nel terzo pilastro), eliminando la contraddizione creata con le dichiarazioni allegate all’Atto Unico prima e con il trattato di Maastricht poi. Ora le varie iniziative su immigrazione e asilo diventeranno una sola politica, che gli Stati membri dovranno decidere insieme alle istituzioni comunitarie e che sarà sottoposta al controllo democratico dei parlamenti nazionali ed europeo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paragrafo 3

 

 

 

FATTORI DI SPINTA E DI ATTRAZIONE

 

 

 

Quando in generale si parla di migrazioni, non è possibile prescindere dall’analisi del mercato del lavoro. Le ragioni che spingono un individuo a migrare sono, evidentemente, dettate dalla speranza di migliorare la propria condizione sociale e poiché migra verso società capitaliste, l’unica occasione che ha di migliorare la propria posizione è rappresentata dal lavoro. I grandi flussi migratori trovano la propria spiegazione nella presenza contemporanea di fattori di spinta, identificati nella carenza di occasioni di lavoro, e di attrazione, determinati dalla presenza di tali occasioni. La carenza relativa di occasioni di lavoro, può essere misurata rapportando il numero di «ingressi per la prima volta», resi possibili dal sistema economico di un dato paese, in un determinato intervallo di tempo (domanda di flusso) al numero di persone che possono potenzialmente occupare tali posti e che normalmente sono individuabili nelle persone che entrano nella popolazione in età lavorativa nello stesso intervallo, e che hanno le caratteristiche richieste dalla domanda di lavoro, più coloro che si trovano già nella popolazione in età lavorativa e che non hanno lavoro[20]. É assolutamente evidente che la crescita demografica nei pressi della sponda sud-est del Mediterraneo[21], comporta un forte incremento di popolazione in età lavorativa tale, da rendere inevitabile il verificarsi di fenomeni migratori. Tale situazione esiste anche in altri paesi in via di sviluppo, più lontani dai confini europei, i quali già da diversi anni rappresentano il punto di partenza dei flussi migratori. Per far sì che tale situazione non si trasformi in un’ondata di lavoratori extracomunitari che bussano alla porta dei paesi più industrializzati, sarebbe necessario vi fosse una crescita economica tale, da creare i posti di lavoro necessari a soddisfare il fabbisogno occupazionale direttamente in loco, ma vista la dimensione dei tassi di crescita richiesti, appare del tutto improbabile che tale risultato possa essere ottenuto. Analizzando la situazione dei mercati potenziali di sbocco, non si può trascurare che esiste tuttora in Europa un elevatissimo numero di disoccupati, che in molti paesi europei il livello di occupazione giovanile è molto basso e che in molti altri l’offerta di lavoro femminile è caratterizzata da un’elevatissima elasticità rispetto alla domanda. Inoltre l’unificazione della Germania e il forte flusso di lavoratori dalla parte est, ha reso possibile importare una tipologia di mano d’opera che presenta una potenzialità d’inserimento superiore a quella degli immigrati del Terzo Mondo. Benché i tassi di crescita della popolazione europea siano pressoché stabili sullo zero[22], l’economia dell’Europa nel suo complesso, non darà di qui a poco tempo vita ad un eccesso di domanda di lavoro tale, da poter assorbire la sempre crescente quantità di lavoratori extracomunitari che, ormai, premono da ogni parte dei confini europei. Ciò non significa che diminuiranno i fattori di attrazione dei paesi della Comunità Europea, dal punto di vista del lavoratore extracomunitario è assai meglio una condizione precaria, ma comunque di speranza all’interno dell’area comunitaria, che una condizione comunque precaria, ma senza speranza nel proprio paese. Inoltre, è opportuno valutare la possibilità di vantaggio economico che la presenza di lavoratori stranieri può offrire alla classe imprenditoriale, la quale decida di trarre vantaggio dalle condizioni di debolezza in cui essi si trovano.

Se da un lato è vero che l’innovazione tecnologica riduce la disponibilità di posti di lavoro, per i quali è sufficiente disporre di una scolarità minimale, dall’altro il numero di persone che esce dalla scuola con tali caratteristiche sta diminuendo relativamente più in fretta. D’altra parte più cresce il livello d’istruzione, meno si è disposti a flessibilizzare verso il basso la propria offerta di lavoro. In sostanza, per questo particolare segmento di mercato che include i lavori più umili e pesanti, si registra una mancanza di offerta che potrà costituire un fattore d’attrazione. Nell’affrontare il tema vi è da premettere alcuni punti, in primo luogo è da considerare poco credibile la possibilità di evitare la presenza di lavoratori extracomunitari clandestini, tanto per la difficoltà di controllo delle frontiere europee, quanto per gli interessi di una classe imprenditoriale che trova estremamente conveniente la loro presenza sul territorio. In secondo luogo, tutte le politiche demografiche sarebbero inefficaci nel breve periodo, senza contare che i giovani che entreranno nella popolazione in età lavorativa sono già nati. Se ne conclude che, nel caso in cui l’obiettivo sia rallentare i flussi d’entrata agendo sui fattori di spinta, l’unico strumento che si possiede, nel breve periodo, è una politica economica che porti ad abbassare il fabbisogno occupazionale insoddisfatto direttamente nei paesi di emigrazione. Gli interventi dovrebbero comunque essere rispettosi delle condizioni socio economiche di tali paesi e non stravolgere la loro struttura economica, a rischio di peggiorare la situazione, sarà comunque opportuno inoltre tener conto delle direzioni di sviluppo che essi hanno scelto. Due problemi appaiono ancora una volta essenziali: integrare chi è già arrivato e regolare con maggiore cautela l’afflusso di chi arriverà. Riguardo al primo punto, i dubbi sulle politiche da adottare rimangono gli stessi di quelli degli anni precedenti. Per quanto riguarda la regolamentazione dei flussi, il dibattito nelle istituzioni europee è sicuramente più acceso, da un lato si abbassano le frontiere interne con il trattato di Schengen, dall’altro il controllo dei confini esterni sono responsabilità di ciascun membro dell’Unione Europea. Senza contare che molti paesi hanno profondi legami economici con le ex colonie, come Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Spagna, Portogallo, e ciò facilità un’immigrazione ufficialmente respinta, ma per la quale si aprono ampi squarci ancora ai nostri giorni[23].

Per limitare i fattori d’attrazione, numerosi autori propongono la completa parificazione dei lavoratori immigrati con i lavoratori nazionali, una volta raggiunta, tale uguaglianza di trattamento, renderebbe non più possibile assumere lavoratori clandestini. «Il raggiungimento della parità di trattamento economico e sociale dei lavoratori stranieri diventa non solo una forma necessaria di giustizia sociale e sindacale, ma lo strumento per superare ogni potenzialità concorrenziale degli immigrati nei confronti della manodopera nazionale, quindi diminuire la domanda ingiustificata di lavoro straniero[24]».

È opinione di chi scrive che, parificare la condizione del lavoratore extracomunitario migrato a quella del lavoratore autoctono sarebbe moralmente giusto, ma forse in fin dei conti controproducente. Una tale politica porterebbe il costo del lavoro in Europa a livelli assolutamente non concorrenziali nei confronti dei paesi del sud-est asiatico e di tutti quei sistemi economici dove si perpetua lo sfruttamento del lavoro. La mancanza di concorrenzialità e la conseguente diminuzione delle esportazioni, con effetti imprevedibili sulla bilancia commerciale di ciascun paese, non può essere individuata come la soluzione del problema. Non potendo altresì parificare la condizione dei lavoratori autoctoni con quella degli extracomunitari avvicinando quella dei primi a quella dei secondi, l’unica politica che sembra indicata a regolare il fenomeno, è la politica di sviluppo in loco. Uno sforzo che, se affrontato dalla comunità europea tutta, nelle zone chiave dell’area mediterranea e accompagnato ad altre misure di prevenzione interne, sarebbe sicuramente praticabile, forse non risolutore, ma in larga parte efficace. Una tale politica permetterebbe, a chi oggi è costretto dalla propria condizione di miseria a dover migrare abbandonando patria ed affetti, di poter migliorare la propria condizione nel proprio paese e potersi poi presentare davvero alle porte dell’Europa alla pari dei cittadini comunitari, con la possibilità di scegliere se migrare o rimanere nel proprio paese. Senza contare che gli imprenditori stessi ne ricaverebbero dei vantaggi, essendo il costo del lavoro più basso nei paesi in via di sviluppo in confronto all’Europa, ma comunque in grado di permettere una dignitosa esistenza al lavoratore. La situazione dovrebbe comunque essere diversa da quella che invece oggi si presenta in molti paesi del sud-est asiatico, dove si assiste allo sfruttamento, da parte delle grandi multinazionali, della totale mancanza di protezione dei lavoratori e delle condizioni di povertà che affliggono quelle popolazioni. L’unico strumento utilizzabile per porre rimedio a quest’evidente ingiustizia, a questo sfruttamento del forte sul debole, è l’esistenza di un organismo internazionale dotato di poteri forti (che potrebbero essere attribuiti alle stesse Nazioni Unite), il quale impedisca il perpetuarsi di quest’iniquità vietandola. È evidente che non un solo provvedimento, per quanto forte, può essere considerato risolutore, ne occorreranno diversi, riferiti a più aspetti del problema, ma soprattutto coordinati l’uno all’altro. Per tutti questi motivi, oggi, appare inevitabile e non rimandabile il fiorire di una politica congiunta dei paesi membri. È giunto il momento di accompagnare i provvedimenti d’emergenza che da tanti anni, ormai con una certa pratica, i paesi europei adottano, ad una sola politica comune, che guardi al lungo periodo.

Un cenno a parte meritano i mezzi di comunicazione che, si sono sviluppati a tal punto che, anche i paesi più poveri e lontani vengono oggi a contatto con immagini di benessere mai sognato. Ai confini di un nord sempre più ricco e opulento, masse di potenziali lavoratori affamati, che accettano qualsiasi condizione di lavoro pur di uscire da una situazione paurosa e in continuo peggioramento, premono dunque con sempre maggiore insistenza. La pressione ai propri confini ha quindi costretto gli Stati ad un maggiore controllo degli stessi. Chi vuol entrare ha però diversi modi a disposizione, generalmente entra con un permesso di soggiorno o come studente[25] e poi rimane cercando un lavoro non dichiarato con la complicità d’imprenditori socialmente poco impegnati.

Le domande che a questo punto sorgono sono tante, ma una spicca sulle altre: «Quali sono le linee di tendenza dell’Europa?». Nei provvedimenti degli ultimi anni si legge con chiarezza la volontà di rendere sempre più alti i muri dei suoi confini esterni, mentre nulla si muove nel tentativo di mitigare i fattori di spinta. Sarebbe forse il caso di cominciare ad analizzare il problema da più punti di vista, rinunciare alla tentazione di soli provvedimenti d’urgenza e, in un’ottica di lungo periodo, agire con maggiore forza e convinzione sui fattori di spinta e d’attrazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paragrafo 4

 

 

 

IMMIGRATI DI PAESI TERZI IN EUROPEA E MERCATO DEL LAVORO.

 

 

 

Analizzando le varie politiche migratorie applicate fino ad oggi, ci si rende conto che, non sempre ci si è soffermati con la dovuta attenzione a studiare il mercato del lavoro in tutti i suoi aspetti, ma soprattutto che raramente la storia è stata veramente considerata magistra vitae. Mi sembra tuttavia opportuno sviluppare, prima di scendere nei particolari delle scelte politiche ed economiche applicate, una breve panoramica sulle relazioni che tale mercato intrattiene con il fenomeno dell’immigrazione.

Il mercato del lavoro può essere distinto in due elementi: il settore primario, quello che offre lavori a lungo termine ed è dominato da un’ampia presenza di capitale e tecnologia ad alto livello e il secondario, che utilizza lavoro intensivo, tecnologia più flessibile, a volte anche obsoleta, ed offre lavori non del tutto stabili in quanto più direttamente determinati dalla domanda dei suoi prodotti. Solitamente i lavoratori impiegati nel primo settore sono meglio pagati e svolgono funzioni più interessanti, mentre, quelli che lavorano nel secondo settore, sono spesso destinati a soggetti che occupano un gradino inferiore nella piramide della società capitalistica.

La composizione della popolazione immigrata varia da paese a paese. Rispetto ai paesi di vecchia immigrazione, quelli di nuova presentano un maggior numero di nazionalità, una più elevata percentuale d’immigrati di un solo sesso (generalmente maschile), di persone “sole” e un maggior tasso di attività. Le ultime due differenze corrispondono alle fasi o età dell’immigrazione mentre, il maggior numero di nazionalità, si può considerare uno degli elementi della “modernizzazione” del fenomeno[26].

L’immigrato appena arrivato, generalmente non pensa di rimanere a lungo e spera solo di guadagnare il più possibile, tuttavia trova come unica soluzione adattabile al suo status, quella di essere impiegato nel secondo dei due settori descritti. I lavoratori extracomunitari immigrati accettano impieghi precari, altamente usuranti e socialmente poco considerati, spesso, rifiutati dai lavoratori autoctoni. Entrano in competizione con le fasce più deboli della società, lasciando invece immutata la struttura di domanda ed offerta dei lavoratori più qualificati che, essendo tradizionalmente inelastica, se variata potrebbe creare difficoltà.

Secondo il modello illustrato da Boehning nella sua opera, le caratteristiche socio-economiche della popolazione straniera possono essere inquadrate nelle quattro fasi in cui abitualmente si articola il processo migratorio. Nella prima, lavoratori giovani, non sposati, abitualmente maschi, costituiscono la maggioranza di un piccolo nucleo d’emigranti. Essi provengono dalle aree più avanzate dei paesi d’origine, generalmente le grandi città, dove più forti sono i legami e la rete informativa con l’estero, possiedono livelli educativi e capacità produttive superiori al resto del paese. La permanenza nel paese ospitante tende ad essere molto breve, vi è una forte percentuale di rientri, anche perché tali lavoratori si concentrano in posizioni occupazionali marginali e particolarmente usuranti tali da non permettere una lunga permanenza. Nella seconda fase, l’età media dei lavoratori migranti cresce leggermente, la composizione per sesso rimane invariata ma, individui sposati, inizialmente meno propensi a partire, si aggiungono ora al primo nucleo di migranti. Il periodo di permanenza si allunga. Nella terza fase, l’età media dei migranti si accresce ancora e si corregge l’iniziale squilibrio nella composizione per sesso con l’arrivo dei coniugi e dei figli, il rapporto tra attivi e inattivi diminuisce, si manifesta una domanda crescente di servizi e d’infrastrutture sociali (case, scuole, assistenza sanitaria), nonché di beni di consumo. Bisogna sottolineare che, mentre il passaggio tra le prime due fasi avviene piuttosto rapidamente, la transizione alla terza può richiedere alcuni anni. Nella quarta fase, l’ulteriore allungamento del periodo di permanenza e il crescente flusso dei ricongiungimenti familiari, determinano una rapida crescita della popolazione straniera. Sorgono istituzioni “etniche” (scuole, centri d’assistenza) che a loro volta determinano un addizionale fabbisogno di personale straniero. In base all’esperienza dei paesi europei, questi sviluppi si manifestano in presenza di comunità composte di almeno 100-200 mila migranti.

Finché è prevalso il modello fordista[27], vale a dire fino alla seconda metà degli anni settanta, la maggior parte della manodopera immigrata è stata assorbita nelle grandi fabbriche per i lavori dequalificati, dalle miniere alle catene di montaggio dell’automobile. Una parte considerevole degli esperti del settore ritiene che il grande afflusso di manodopera a basso costo, abbia ritardato in molte grandi industrie (come quella dell’automobile in Francia, dove la parità tra nazionali e immigrati fu raggiunta solo nel 1983), i processi di robotizzazione. Questa sarebbe la causa del relativo anticipo dell’Italia del nord in tali processi, infatti, il nostro paese, avendo attinto alle riserve di manodopera del mezzogiorno, vide i propri vantaggi azzerati già dalle prime conquiste sindacali da parte dei connazionali immigrati negli anni settanta, un handicap che si è trasformato in vantaggio negli anni a seguire.

L’esperienza dimostra che in una seconda fase, il lavoratore extracomunitario che ha deciso di non ritornare in patria e anzi, sfruttando la possibilità che la legge gli offre[28], di far giungere la propria famiglia nel paese che lo ospita, dà vita ad una seconda generazione di lavoratori più esigenti. La seconda generazione ha, infatti, aspettative di salario assai maggiori, aspira a migliori livelli occupazionali e spesso può chiedere tanto perché ha dei livelli d’istruzione, ottenuti nel paese dove essi vivono (spesso l’unico che conoscono), del tutto competitivo rispetto a quello che hanno i loro coetanei indigeni. È in questo momento che, entrando in competizione con un altro tipo di lavoratori, di grado più elevato e meno disposto a confrontarsi, sorgono enormi problemi d’integrazione. Come a dire che gli immigrati extracomunitari (soprattutto quelli provenienti dal terzo mondo) sono tollerati dalla popolazione che li ospita finché, o sono troppo pochi per creare problemi, od occupano strati sociali tanto bassi da non rientrare tra i pericoli per il proprio posto di lavoro[29].

Nel momento in cui l’occupazione manifatturiera è crollata per la delocalizzazione di alcune produzioni nei paesi sottosviluppati, la componente immigrata impiegata (s’intende quella regolare) ha subito lo stesso trattamento di quella autoctona: prepensionamenti e licenziamenti.

Oggi la situazione appare tuttavia diversa, la nuova immigrazione è direttamente assorbita dal terziario, più raramente da attività industriali, e spesso è inserita in impieghi irregolari. In particolare, si assiste a un significativo sviluppo del cosiddetto “ethnic business”, cioè di unità economiche di regola di piccole dimensioni in cui l’imprenditore e tutti coloro che vi lavorano appartengono allo stesso gruppo etnico. Queste attività, sfruttano l’appartenenza di certi immigrati a reticoli di relazioni su base etnica, e quindi la loro forte disponibilità ad accettare condizioni di lavoro e di salario ben difficilmente subite dai lavoratori autoctoni. In effetti, si tratta spesso di segmenti di attività che si situano nel semi-informale o nel sommerso, non osservando le vigenti norme legislative contrattuali.

Il fenomeno delle migrazioni è oggi un fenomeno globale, nel senso che riguarda tutti i paesi del mondo. Ad influenzare il mercato del lavoro, concorrono soprattutto tre particolari categorie di immigrazione: la migrazione di forza lavoro documentata, la migrazione «irregolare» e, almeno in parte, i flussi d’asilo. Il primo tipo di immigrazione si è manifestata, soprattutto perché agevolata, a partire dal secondo dopoguerra, fino ai primi anni settanta. Quando si decise di porre un freno al continuo flusso di lavoratori migranti dei paesi terzi, si accentuò il secondo tipo di immigrazione, quella irregolare, fino allora pressoché sconosciuta. Infine, in alcuni paesi come la Francia e la Germania fu la pratica dell’asilo politico che, a causa di leggi troppo permissive, contribuì ad incrementare considerevolmente l’immigrazione economica camuffata da ingressi politici. Prova di un’ulteriore influenza che l’asilo politico ha avuto si può trovare nelle cronache degli ultimi anni, dove il conflitto nell’ex Jugoslavia, l’esodo dei curdi[30], la fuga di molti turchi e soprattutto per quel che riguarda il nostro paese, l’incredibile esodo di albanesi, hanno dimostrato che i rifugiati politici, spesso, vengono per rimanere unendosi a comunità già formate, o creandone di nuove. L’immigrazione regolare oggi interessa lavoratori altamente specializzati i quali, per la maggior parte, provengono da paesi economicamente sviluppati. Si tratta di un’immigrazione temporanea, che comporta vantaggi di conoscenza ad entrambi gli attori indiretti, tanto il paese di partenza che quello di arrivo traggono un contributo importante in termini di scambio di informazioni. L’immigrazione di lavoratori altamente specializzati risulta addirittura auspicabile, ma a patto che rimanga limitata nel numero; proprio come quella non specializzata: desiderabile purché non eccessiva.

Anche se non paragonabili direttamente, a causa della considerevole differenza di estensione dei confini e della conseguente diversa difficoltà di difesa delle frontiere, la realtà europea e quella giapponese sono per certi versi vicine. Il Giappone, infatti, sta conoscendo situazioni di scarsità di forza lavoro ad entrambi gli estremi dello spettro ma, il governo, pur essendo relativamente aperto all’immigrazione di lavoratori e professionisti altamente qualificati, rimane fermo nella sua posizione di tenere le porte chiuse ad altre categorie di lavoratori stranieri. Le ragioni avanzate dal Giappone per impedire l’ingresso di lavoratori non qualificati, riflettono la preoccupazione di evitare tutti i problemi che hanno afflitto l’Europa occidentale sin dall’inizio del reclutamento massiccio di manodopera straniera negli anni sessanta e settanta.  Per soddisfare la crescente domanda di manodopera non qualificata nell’economia giapponese, l’orientamento preferito è quello di incoraggiare l’investimento all’estero e il trasferimento di tecnologia in quei paesi in cui la forza lavoro è in eccedenza (e a basso costo)[31].

Lo squilibrio dell’economia internazionale, la povertà ed il degrado dell’ambiente, assieme all’assenza di pace e di sicurezza, alle violazioni dei diritti umani, e allo sviluppo differenziato delle istituzioni giuridiche e democratiche, sono tutti fattori che influiscono sui flussi internazionali di lavoratori. Una migrazione internazionale regolata può avere un impatto positivo sia sulle comunità di provenienza sia su quelle di destinazione, permettendo alle prime una riduzione delle spese e fornendo alle seconde le risorse umane necessarie. Le migrazioni internazionali permettono, inoltre, di facilitare lo scambio di specializzazioni e di contribuire all’arricchimento culturale. Quest’analisi ha però un rovescio della medaglia, infatti, in molti paesi di origine il deflusso di forza lavoro causa un’importante perdita di risorse umane e può dar luogo, nei paesi di destinazione, a tensioni politiche, economiche e sociali.

 

 

 

 

Paragrafo 5

 

 

 

ANALISI DI ALCUNE SCELTE DI POLITICA MIGRATORIA

 

 

 

Allo scopo di comprendere le cause e gli effetti delle attuali tendenze in materia di politica dell’immigrazione, conviene partire dal caso più semplice da analizzare: la situazione corrispondente ad una politica di completa apertura delle frontiere in un regime di libero mercato. Stante il grande bacino di potenziale emigrazione dai paesi in via di sviluppo e la notevole facilità degli spostamenti da questi paesi a quelli industrializzati (in mancanza, s’intende, di restrizioni sugli ingressi) l’offerta di lavoro lieviterà, mentre la domanda di lavoro rimarrà inalterata. La conseguenza  più  immediata  sarà la

 

 

tendenza ad un salario più basso[32]. In conseguenza di ciò, la quantità di lavoro offerta dai lavoratori nazionali risulterà minore di quella che caratterizzava l’equilibrio in assenza di lavoratori stranieri. In termini di soddisfazione delle tre categorie presenti (datori di lavoro, lavoratori nazionali e lavoratori stranieri), notiamo che nel passaggio dal primo equilibrio, in mancanza di immigrazione (ossia a frontiere completamente chiuse), al secondo (in presenza di immigrazione), i datori di lavoro ottengono un incremento di guadagno, i lavoratori nazionali vedono diminuire la propria soddisfazione, i lavoratori stranieri la vedono crescere da zero a una certa quantità. Il sistema, nel suo insieme, ottiene comunque un incremento.

Si comprende facilmente come il disappunto dei lavoratori nazionali possa indurre i politici - molto attenti a non scontentare larghe fasce dell’elettorato - a introdurre misure protezionistiche tendenti a comprimere l’offerta di lavoro straniera o a porla in posizione di inferiorità rispetto a quella nazionale. Di fatto, le limitazioni all’ingresso causate dalle scelte di politica dell’immigrazione o dalle norme relative all’accertamento di indisponibilità di lavoratori autoctoni, non sono altro che il modo in cui l’atteggiamento protezionistico si esprime. Tuttavia, l’aver evidenziato come l’apertura delle frontiere si traduca in un vantaggio per i datori di lavoro (categoria certamente non meno importante, anche se certamente meno numerosa di quella dei lavoratori nazionali) e per il sistema nel suo complesso, rende necessario un esame più approfondito della situazione.

Si potrebbe erroneamente ritenere che il guadagno complessivo del sistema sia dovuto principalmente al grande incremento di soddisfazione dei lavoratori stranieri (totalmente esclusi dal sistema iniziale a frontiere chiuse). Si deve considerare però che, in realtà, anche il sottosistema nazionale (datori di lavoro e lavoratori) vede crescere la soddisfazione complessiva, inoltre si consideri che l’intera perdita di soddisfazione dei lavoratori nazionali confluisce nel guadagno dei datori di lavoro, senza però esaurirlo. Quindi se è vero che i lavoratori nazionali subiscono una perdita, è ancora più vero che i datori di lavoro acquistano una soddisfazione superiore alla loro perdita. Questa circostanza non dipende in alcun modo dalle particolari caratteristiche dell’offerta di lavoro straniera, ma solo dal fatto che esiste una simile offerta e che, quindi, quella complessiva risulti accresciuta

 

rispetto alla semplice offerta nazionale[33]. A fronte della giusta esigenza di tutelare da un arretramento i lavoratori nazionali, si pone l’importante esigenza di non vanificare il maggior guadagno dei datori di lavoro, del sottosistema nazionale nel suo complesso e - non va dimenticato - dell’intero sistema. Curiosamente, però, di questa contrapposizione di esigenze si trova scarsa traccia nel dibattito relativo alla politica dell’immigrazione, sia a livello italiano, sia a livello europeo. Il quadro di riferimento sembra essere cioè quello di un approccio protezionistico, mitigato (solo in alcuni casi) non tanto da osservazioni concernenti il rischio di negare incrementi di soddisfazione a particolari categorie e all’intero sistema, quanto piuttosto da considerazioni, di carattere umanitario, relative al diritto di chi nasce in un paese a economia arretrata di sottrarsi a condizioni di intollerabile povertà. Posta in questi termini la questione, sembra che sia in discussione il diritto degli stranieri di guadagnare soddisfazione a spese dei nazionali, in virtù della loro condizione di originario disagio. Da quanto detto è invece evidente che la quota di soddisfazione ottenuta, in caso di apertura delle frontiere, dagli stranieri, non intacca, di per sé, il capitale di soddisfazione dei lavoratori nazionali, essendo questo eroso piuttosto dall’avanzamento dei datori di lavoro.[34]

Detto ciò, analizzando le scelte politiche fatte negli anni passati, ritengo sia da escludere l’ipotesi politica che prevede un accordo preventivo tra lavoratore extracomunitario (nella sua patria) e datore di lavoro, anche se mediato da consolati o commissioni speciali. L’esperienza già fatta in Francia, infatti, suggerisce di evitare questa strada perché troppo tortuosa e piena di imprevisti. Un’altra via scelta per limitare l’offerta di lavoro sul suolo nazionale è stata quella di limitare gli ingressi a mezzo di leggi e controlli ma, anche in questo caso, è assolutamente necessario fare delle esperienze passate tesoro e notare come tale provvedimento abbia incrementato l’immigrazione illegale e le richieste di asilo politico con finalità economiche.

Si rende a questo punto necessario esaminare le principali alterazioni introdotte dalla presenza di un’immigrazione irregolare nell’analisi fin qui svolta. Rispetto a quella degli immigrati regolari, la posizione sul mercato del lavoro degli immigrati illegali si distingue per diversi elementi. Innanzi tutto, la loro offerta di lavoro non può essere compressa con i normali strumenti di politica protezionistica[35], ma solo mediante strumenti coercitivi di carattere preventivo (il respingimento alla frontiera) o repressivo (l’espulsione dal territorio dello Stato). In secondo luogo, la loro assunzione da parte dei datori di lavoro avviene, per definizione, in violazione della legge, con l’immediata conseguenza che le dinamiche che regolano la costituzione del rapporto di lavoro sono, in modo spinto, dinamiche di mercato libero (non trovano applicazione, ad esempio, le norme su salario minimo, imposizione fiscale, accertamento di indisponibilità, né, tanto meno, quelle relative al divieto di accedere a mansioni diverse da quelle originariamente autorizzate). Terzo, l’offerta di lavoro degli immigrati illegali è caratterizzata da un valore del minimo salario tollerabile molto ridotto. In presenza di norme repressive che mettono a rischio la sua permanenza nel paese di immigrazione, e in assenza di qualunque forma di protezione sociale che lo tuteli nei periodi di disoccupazione, l’immigrato illegale è spinto, ancor più che il suo connazionale in posizione regolare, ad accettare qualunque condizione di lavoro che gli garantisca condizioni di vita migliori di quelle da cui proviene.

In queste condizioni, qualora le condizioni del mercato del lavoro siano condizioni di libero mercato[36], la componente di immigrazione illegale va semplicemente a sommarsi a quella legale, in perfetta concorrenza con questa. L’effetto complessivo è semplicemente quello di un ampliamento dell’offerta di manodopera straniera e di quella complessiva (con parziale attenuazione, quindi, degli effetti delle misure restrittive sugli ingressi). In presenza, invece, di deviazioni dalle condizioni di libero mercato, si assiste alla creazione di due distinti mercati: l’uno, legale, regolato dalle norme protezionistiche (salario minimo, imposizione fiscale, accertamento di indisponibilità, etc.), l’altro, illegale, con caratteristiche di libero mercato. Le conseguenze di una scelta di questo tipo, se portata al limite estremo e senza controllo, sarebbero catastrofiche per il lavoratore nazionale. Nel caso in cui il mercato legale sia regolato da una combinazione di rigide misure protezionistiche (l’ammissione di una quota limitata di immigrati, l’imposizione di un salario minimo, l’accertamento di indisponibilità di manodopera nazionale), si è fatta l’ipotesi che il bacino di immigrazione illegale, sia di portata confrontabile con quello di immigrazione legale. Finché, il salario relativo al (libero) mercato illegale è più basso di quello, fissato per legge, vigente nel mercato legale, tutta la domanda di lavoro tende ad essere saturata dall’offerta illegale. I lavoratori nazionali e quelli stranieri in condizioni legali, se restano ancorati a situazioni d’impiego legale, sono tagliati fuori dal mercato. Come conseguenza, molti dei lavoratori in condizioni legali finiscono per fluire nel mercato illegale. Il processo è quindi instabile, e presto l’intero mercato è dominato da condizioni di libero mercato.

I datori di lavoro vedono, nel confronto con le condizioni di partenza, aumentare la propria soddisfazione, così pure, certamente, i lavoratori stranieri immigrati illegalmente. I lavoratori nazionali subiscono un notevole danno. La categoria degli immigrati regolari può, nel suo complesso, ottenere un vantaggio o uno svantaggio, a seconda del dettaglio degli equilibri che si realizzano in presenza della componente illegale. Rispetto al caso di frontiere aperte originariamente considerato, però, l’obiettivo di riequilibrare la situazione con trasferimenti compensativi da datori di lavoro a lavoratori nazionali non è più facilmente perseguibile. L’effettiva situazione del mercato del lavoro sfugge, infatti, a qualunque controllo e risulta impossibile determinare chi debba mettere a disposizione parte della soddisfazione supplementare guadagnata, e in che misura.

Vi sono tre modi principali per contrastare questa situazione (quando si voglia mantenere l’approccio protezionistico, s’intende!). Il primo è quello, già citato (ma difficilmente praticabile), di utilizzare gli strumenti delle espulsioni e dei respingimenti. Corrisponde ad una compressione dell’offerta illegale, ed è efficace a condizione che il salario medio (o di equilibrio) del mercato illegale, preso separatamente, risulti più alto di quello minimo vigente nel mercato legale[37].

Il secondo modo è quello di rendere meno appetibile per i datori di lavoro l’assunzione di lavoratori in condizioni illegali, con l’introduzione di pesanti sanzioni. La possibilità di incorrere in sanzioni è percepita dai datori di lavoro, guardati nel loro complesso, come un costo aggiuntivo distribuito su ciascun rapporto di lavoro. Questo, con un’opportuna scelta dell’entità delle sanzioni e della frequenza dei controlli a campione, equivale a portare il costo del lavoro irregolare a valori più alti del costo del lavoro regolare, con un meccanismo in tutto analogo all’imposizione di una tassa. Si noti come l’effetto prima ottenuto, diminuzione del numero di immigrati illegali, sia ottenuto qui con un aumento del costo del lavoro irregolare. È comunque da osservare come, affinché si realizzi questa situazione, è necessario che il costo equivalente del rischio di incorrere in sanzioni eguagli, come ordine di grandezza, il divario tra il salario minimo (imposto dalla legge) e il minimo salario tollerabile per l’immigrato illegale. Nei fatti questo corrisponde a sanzioni di entità enormemente superiore a quelle usualmente adottate o proposte.

Una parte della dottrina e del mondo politico ritengono che vi sia anche un terzo modo per combattere le distorsioni introdotte dall’immigrazione illegale, ossia renderla legale a mezzo di sanatoria. Questo provvedimento presenta, a mio parere, dei rischi superiori rispetto ai due precedentemente menzionati. Se da un lato vi sono indubbiamente degli aspetti positivi (infatti, una sanatoria permette l’emersione dell’immigrato irregolare, con possibilità effettive di censimento, oltre a porre sullo stesso piano l’immigrato extracomunitario con quello comunitario[38]), dall’altro la situazione presenta un rovescio della medaglia. Il datore di lavoro preferirà, infatti, scegliere altri lavoratori extracomunitari irregolari che saranno sicuramente affluiti nella speranza di un’altra, futura, sanatoria. La regolarizzazione dei lavoratori illegali, se per un verso permette di mettere di nuovo in concorrenza i lavoratori comunitari e non, senza distorsioni, dall’altro causerà un’ondata d’immigrati clandestini ancora maggiore della precedente nell’immediato futuro.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

CAPITOLO II

 

 

 

 

 

La politica dell’U.E. sull’immigrazione

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

Paragrafo 1

 

 

 

 I DIRITTI DEI LAVORATORI MIGRANTI SECONDO LE NAZIONI UNITE ED ALTRI ORGANISMI INTERNAZIONALI

 

 

 

Molteplici e di differente rilevanza sono i documenti internazionali approvati, al fine di disciplinare la condizione dei lavoratori migranti, tra questi, quello che più di altri ha fatto discutere è il testo approvato con la risoluzione ONU 45/158 del diciotto ottobre 1990: “The International Convention on the Protection of the Rights of All Migrant Workers and Members of Their Families”. La Convenzione aprì un nuovo capitolo nella storia degli sforzi per stabilire i diritti dei lavoratori migranti e per assicurare che, quei diritti fossero protetti e rispettati. Si tratta di un documento internazionale di vasta portata, ispirato da accordi legali vincolanti esistenti, dagli studi sui diritti umani delle Nazioni Unite, dalle conclusioni e dalle raccomandazioni scaturite da incontri di esperti, dibattiti e risoluzioni sulla questione dei lavoratori migranti per oltre due decenni. Il primo grande messaggio della Convenzione ONU è che il migrante, prima ancora di essere destinatario di normative repressive, o essere considerato una forza lavoro o peggio un’entità economica, è un soggetto di diritti fondamentali. Questi diritti vanno individuati tenendo conto che, le migrazioni sono un processo da prendere in considerazione nel suo complesso. Il secondo importantissimo messaggio della Convenzione ONU è che l’elaborazione giuridica non si esaurisce a livello di enunciati concettuali, ma deve inglobare, in maniera sempre più sostanziale, la fase applicativa. La convenzione ONU ribadisce che le persone implicate nei flussi migratori, anche se in prevalenza si spostano per motivi economici, sono soggetti di diritti fondamentali e perciò inalienabili, come del resto in precedenza sancito da altre convenzioni internazionali e dalla stessa Corte costituzionale. L’ispirazione di base della Convenzione dev’essere riferita alla indivisibilità dei diritti dell’uomo tra i quali vanno inclusi sia quelli civili e politici, sia quelli economico-sociali; in altre parole, i diritti dei migranti sono diritti umani. Il migrante risulta essere, così, un’identità sociale che ha dei legami familiari e che è inserito in una politica d’integrazione imperniata sull’uguaglianza di trattamento, oltre ad essere fortificata dall’attuazione di una serie di misure positive. Il migrante, che lascia il suo stato d’origine, è un soggetto vulnerabile del quale il diritto internazionale non può evitare di farsi carico in maniera sempre più adeguata. Un altro aspetto innovativo della convenzione consiste nel prendere in considerazione tutte le fasi del processo migratorio, dai preparativi fino al rientro, individuando per ogni fase, quali siano i diritti da tutelare. E’ questo il primo strumento internazionale a livello mondiale, che è imperniato su una visione globale del problema.

La necessità di un documento di questo genere, nasce dall’evidente aumento del numero di lavoratori migranti sparsi nel mondo. QQQQuesta categoria non è, infatti, un prodotto del ventesimo secolo, nasce contemporaneamente all’apparire del lavoro remunerato, ma in questi ultimi decenni ha visto le proprie file ingrandirsi considerevolmente. La risoluzione ONU permette di considerare, a ragione, quella del lavoratore migrante come una categoria bisognosa di particolare tutela, poiché particolare è la sua condizione, diversa da quella del profugo, del rifugiato e delle altre categorie di individui che per varie ragioni si trovano in uno Stato estero.

La Convenzione è formata di nove parti così suddivise:

-       Parte I: Scopo e definizioni;

-       Parte II: Non discriminazione nel rispetto dei diritti;

-       Parte III: Diritti umani di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie;

-       Parte IV: Altri diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie che si trovano in posizione regolare

-       Parte V: Provvedimenti applicabili a particolari categorie di lavoratori migranti e ai membri delle loro famiglie;

-       Parte VI: Promozione di sane, eque, umane, legittime condizioni in relazione con le migrazioni internazionali dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie;

-       Parte VII: Applicazione della Convenzione;

-       Parte VIII: Provvedimenti generali;

-       Parte IX: Provvedimenti finali.

E’ coerente con quest’impostazione il fatto che la Convenzione dell’ONU attribuisca dei diritti, seppure in misura differenziata, a tutti i lavoratori migranti e ai loro familiari a prescindere dalla titolarità o meno di un’autorizzazione sulla base delle normative nazionali.

All’art.2, allo scopo di identificare, senza dubbio alcuno, i soggetti verso cui s’indirizzano i provvedimenti, si stabilisce la definizione delle varie tipologie di lavoratori interessati dalla risoluzione. Per lavoratore migrante s’intende una persona che è stata, è, o sarà assunta in un’attività remunerativa in uno Stato dove lui o lei non ha la nazionalità, l’elenco comprende, tuttavia, anche tutta un’altra serie particolare di lavoratori migranti. Tra le categorie citate nell’art.2 sono inclusi i lavoratori di frontiera (ossia coloro che mantengono la residenza in uno Stato contiguo nel quale ritornano tutti i giorni, o almeno una volta a settimana), i lavoratori stagionali, quelli impiegati su navi di nazionalità diversa dalla propria, quelli che lavorano su installazioni off-shore sottoposte a giurisdizione diversa dalla propria, i lavoratori itineranti, quelli privati e altri. Nell’art.5, viene compiuta un’ulteriore precisazione riguardante la condizione giuridica del lavoratore migrante, egli è considerato in posizione regolare, se è autorizzato ad entrare, soggiornare ed essere assunto in un’attività remunerata nello Stato d’impiego, nel rispetto della legge dello Stato e degli accordi internazionali dei quali lo Stato è firmatario; è considerato irregolare in caso contrario. Merita essere sottolineato il fatto che, il migrante sprovvisto di autorizzazione al soggiorno viene definito irregolare ma non illegale, essendo questa una qualifica la cui attribuzione spetta più propriamente all’istanza giudiziaria.

Nella parte III della Convenzione (artt.8-35) si sostiene che a tutti i lavoratori migranti, quindi anche a quelli in situazione irregolare, vengono garantiti i diritti dell’uomo, definizione tutt’altro che nominalistica poiché comporta una serie di conseguenze tangibili. Vi è una lunga elencazione di tutti i diritti umani di cui deve godere il lavoratore migrante, in particolare l’art.8, prevede la libertà di lasciare in qualsiasi momento ogni Stato, incluso quello d’origine. Unica eccezione a questa regola sono la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, la pubblica salute o il diritto di libertà altrui. L’art.26 prevede il diritto di unirsi in corporazioni[39] per la difesa dei propri diritti, con la sola limitazione dell’ordine pubblico, della sicurezza nazionale e della libertà altrui; un’opportunità, questa, non sfruttata nella sua massima potenzialità in nessuno Stato dell’Unione.

Più in generale, vengono previsti sia una serie di diritti riguardanti lo spostamento, la vita, la libertà di coscienza di religione e di espressione, la libertà e la sicurezza personale, l’accesso alla tutela consolare, la personalità giuridica, la partecipazione associativa per difendere gli interessi economici, sociali e culturali, le cure mediche urgenti, l’identità culturale, l’accesso all’educazione, il trasferimento dei propri risparmi. Sia una serie di divieti intesi a evitare ogni tipo di asservimento: in materia di lavoro (schiavitù, lavoro forzato e obbligatorio); di interferenze arbitrarie o illegali; di privazione arbitraria dei beni; di detenzione (che dev’essere risocializzante e perciò ispirata ai principi umanitari); di trattamento giudiziario, di pena e di detenzione; di sequestro e distruzione dei documenti personali; di espulsione collettiva; di trattamento discriminatorio in materia di lavoro e di previdenza rispetto agli autoctoni. Gli unici limiti, cui è soggetta questa ampia e generalizzata attribuzione di diritti, sono i seguenti:

- da una parte il contenuto della convenzione non dev’essere inteso come l’equivalente di una sanatoria (art.35), salvo restando l’impegno a recuperare le situazioni di irregolarità anche mediante la possibilità di regolarizzazione (art.69).

- d’altra parte anche il soggetto beneficiario di tali diritti è obbligato a conformarsi alla normativa dello stato ospitante (art.34).

I lavoratori migranti sono per definizione stranieri e potrebbero, solo per questo fatto, essere oggetto di sospetto o d’ostilità nella comunità dove vivono e lavorano. In molti casi, essendo spesso finanziariamente poveri, partono da una situazione di handicap economico, sociale e culturale, che non gli permette di emergere dagli ultimi livelli della gerarchia sociale dello Stato che li ospita. La discriminazione contro i lavoratori migranti può prendere diverse forme, tra queste, l’esclusione o il principio della preferenza nazionale riguardo alcuni tipi di lavori e difficoltà di accesso ai corsi di specializzazione. Differenti standard sono spesso applicati ai nazionali da una parte, e ai lavoratori migranti dall’altra, per quel che riguarda l’assunzione e i contratti, privando questi ultimi di certi vantaggi. L’art.25 par.I della convenzione internazionale stabilisce che i lavoratori devono godere di accordi non meno favorevoli di quelli applicati ai nazionali degli Stati d’impiego, riferendosi alla remunerazione e ad altre condizioni di lavoro[40]. Il par.3 dello stesso articolo richiede, agli Stati che fanno parte della Convenzione, di prendere tutte le appropriate misure affinché il lavoratore migrante non sia privato di questi diritti.

Secondo la convenzione ONU i lavoratori migranti e i loro familiari che si trovano in situazione regolare, oltre ai diritti dell’uomo spettanti ad ogni persona, godono di ulteriori diritti da ritenersi per l’appunto specificamente connessi con la loro situazione di regolarità (art.35-36). Questa parte della Convenzione è di grande interesse perché, non solo delinea in positivo ulteriori livelli di tutela, ma, sul piano concettuale porta ad avvicinare la figura del migrante a quello del cittadino e impegna gli Stati a rispettare il principio della dignità umana nella regolamentazione delle condizioni di vita e di lavoro dei migranti in situazione regolare (art.70).

Una serie di diritti è maggiormente centrata sul migrante come lavoratore ospite (libera circolazione, assenze temporanee, uguaglianza di trattamento, ricongiungimento familiare, scolarizzazione dei figli, insegnamento della lingua e cultura materna, trattamento fiscale, ricerca del lavoro, espulsione) mentre altri lo configurano come cittadino (diritto a partecipare alle elezioni dello Stato di origine, diritto a strutture di consultazione e di rappresentanza e, dove previsto, diritto di partecipazione alla vita politica; diritto di partecipazione alla vita culturale). Il ricongiungimento familiare, a dire il vero, non si configura come un vero e proprio diritto, ma a ciò ha posto rimedio la Convenzione di New York del 1991 sul diritto dei minori.

Una tendenza estesa è quella di considerare i migranti come una forza lavoro complementare, e di assegnare loro lavori che esercitano meno attrazione verso i nazionali, interviene anche in questo caso la Convenzione a porre delle regole internazionali. L’art.52 dopo aver ribadito al primo comma che il lavoratore migrante ha il diritto di scegliere liberamente il proprio lavoro, nei seguenti elenca le eccezioni alla regola. Secondo le disposizioni dell’art.52 «per ogni lavoratore migrante lo Stato d’impiego può: a) restringere l’ammissione a determinate categorie di lavoro, funzioni, servizi o attività dove ciò sia necessario in nome dell’interesse nazionale, a mezzo di leggi nazionali; b) restringere la libera scelta di attività remunerate, in accordo con la propria legislazione, per quel che riguarda il riconoscimento delle qualifiche occupazionali acquisite fuori del proprio territorio. Comunque, gli Stati firmatari interessati dovrebbero sforzarsi di provvedere al riconoscimento di codeste qualifiche».

Gli strumenti legali internazionali stabiliscono protezione per i lavoratori migranti contro l’arbitrarietà dell’espulsione quando, per esempio, un contratto di lavoro termina, ma anche si prevede il diritto di appellarsi contro un ordine di espulsione; la Convenzione interviene anche in quest’ambito, ponendo delle regole certe. Un controllo in questo senso è dovuto per evitare di far crollare tutto l’impianto normativo fin qui citato, se, infatti, si lascia la possibilità agli Stati d’impiego di ricorrere a espulsioni collettive arbitrariamente, tutti i diritti citati perderebbero di significato; ad evitare ciò intervengono gli artt.22 e 56. Il par.1 dell’art.22 proibisce espressamente misure di espulsione collettiva. Una decisione di espulsione deve essere presa da un’autorità competente conformemente alla legge (art.22, par.2) e solo per ragioni definite nella legislazione nazionale dello Stato di impiego. Il par.4 dell’art.22 prevede che, eccezion fatta per una decisione finale pronunciata da un’autorità giudiziaria, la persona interessata deve avere il diritto si esporre le ragioni per cui, secondo lui, non dovrebbe essere espulso. Ha dunque diritto ad una rivisitazione del caso da parte dell’autorità competente, a meno che i motivi dell’espulsione riguardino la sicurezza nazionale richiesta, solo in questo caso non vi è possibilità di appello.

I lavoratori migranti hanno il diritto di ritornare nella propria patria se lo desiderano. Per quel che riguarda i ritorni volontari, l’opinione preminente nelle discussioni internazionali, è che la domanda di rientro dovrebbe passare attraverso un procedimento di cooperazione tra gli Stati d’origine e di ricevimento. Solo in questo caso, infatti, al rientro in patria i migranti potrebbero beneficiare di alcuni servizi necessari e gli potrebbe essere data l’opportunità di utilizzare le nuove conoscenze presumibilmente acquisite altrove.

Idealmente il lavoratore migrante, sia quello sottoposto a contratto, sia quello che intende avviare un’attività privata, dovrebbe possedere una conoscenza di base della lingua, della cultura, delle strutture sociali e delle possibilità legali, che lo Stato verso cui sta andando offre. Sicuramente, sia per il migrante, sia per la comunità di accoglienza, meno traumatico sarebbe l’impatto con la nuova realtà se, chi parte, fosse a conoscenza in anticipo delle condizioni di lavoro che gli si presenteranno. L’art.33 della Convenzione internazionale chiede, agli Stati firmatari, di prendere tutte le misure che ritengano appropriate affinché i lavoratori migranti ed i membri delle loro famiglie siano informati di quanto sopra, per quanto possibile in una lingua in cui siano capaci di comprendere quali siano tutti i diritti previsti dalla Convenzione. Il diritto ad essere informati è ancora ribadito nella parte IV della Convenzione, precisamente all’art.37: « Before their departure, or at the latest at the time of their admission to the State of employment, migrant workers and members of their families shall have the right to be fully informed by the State of origin or the State of employment, as appropriate, of all conditions applicable to their admission and particularly those concerning their stay and the remunerated activities in which they may engage as well as of the requirements they must satisfy in the State of employment and the authority to which they must address themselves for any modification of those conditions». È evidente che questa preoccupazione nasce dall’esperienza maturata nel tempo, numerosi sono gli Stati che hanno potuto costatare che, se a dirigere e organizzare il collocamento ed il reclutamento sono organi statali, anziché sinistri agenti privati, c’è una probabilità maggiore che i migranti ricevano una preparazione minima sul tipo di vita e le condizioni di lavoro che li aspettano. Nonostante ciò, le condizioni di vita dei lavoratori migranti sono spesso insoddisfacenti. Bassi introiti, alti affitti, la mancanza di alloggio, la dimensione delle famiglie e i pregiudizi locali contro di loro, sono i principali fattori che, separatamente o combinati, divengono la causa di un serio problema, quello di trovare un alloggio. Sebbene i lavoratori migranti contribuiscano ai progetti di previdenza sociale, loro e le loro famiglie, non godono sempre degli stessi benefici di accesso ai servizi sociali come i lavoratori nazionali nei loro Stati. In molti casi sono costretti ad abbandonare le loro famiglie nei loro Stati di origine, la conseguenza è una solitaria esistenza, che svantaggia lo sviluppo dei normali contatti con la comunità in cui il migrante vive. Questa è una delle ragioni che contrastano con alcuni principi legali internazionali ed è per questa ragione che la Convenzione invita gli Stati a facilitare la riunificazione dei lavoratori migranti con le loro famiglie.

L’integrazione dei lavoratori stranieri con le loro famiglie nella società degli Stati di ricevimento, senza correre il rischio di perdere (sia da una parte, sia dall’altra) l’identità culturale, è un altro problema che è stato oggetto di dibattito internazionale. È stato spesso sostenuto che i bambini dei lavoratori migranti spesso studiano una lingua differente da quella parlata in casa, tentano di adeguarsi ai nuovi costumi, e da questi non ci si può aspettare un uguale rendimento confronto ai bambini nazionali, in quanto le difficoltà sono di certo maggiori. Riconosciuta l’importanza di un’integrazione intelligente, la Convenzione riserva più parti del proprio testo, ma in particolare gli artt.30, 43 e 45 a ribadire il concetto di uguaglianza dei diritti degli stranieri regolari e dei loro figli con i cittadini nazionali, nell’accesso alle istituzioni educazionali.

In tempo di recessione economica, la pratica comune è quella di restringere l’immigrazione legale dei lavoratori stranieri. L’esperienza dimostra, comunque, che innalzare le barriere legali all’entrata, tende soltanto ad avere un temporaneo e limitato effetto di riduzione della presenza, mentre, il flusso di “work-seekers” cerca di aggirarle mediante canali illegali. Penalità più rigide per chiunque assuma mano d’opera migrante illegale, sono state introdotte in alcune Dichiarazioni. L’art.68 della Convenzione internazionale sui lavoratori migranti ed i membri delle loro famiglie richiede la collaborazione degli Stati firmatari, al fine di evitare ed eliminare i movimenti clandestini illegali, e la conseguente occupazione dei migranti irregolari. Sono richieste misure per individuare e sradicare l’illegalità o i movimenti clandestini e misure per imporre effettive sanzioni sulle persone, i gruppi o le entità che organizzano, operano o assistono la migrazione illegale e clandestina, l’uso della violenza, le minacce o l’intimidazione contro i lavoratori migranti in una situazione irregolare, o che più semplicemente assumono tali lavoratori.

Nei dibattiti internazionali riguardanti l’immigrazione illegale, è emersa una linea di tendenza che tende a considerare il migrante illegale in tre modi diversi: come un violatore della legge di immigrazione, come un lavoratore e come un essere umano. La conclusione è stata che ciascuna di queste situazioni ha le proprie conseguenze legali, le quali non dovrebbero essere confuse a detrimento dei diritti individuali del lavoratore.

Merita, tra l’altro, attenzione lo sforzo compiuto dai redattori del testo per non confinare a livello formale gli standards più avanzati di tutela dei migranti, prevedendo accorgimenti operativi più efficaci quali:

 

1-   La costituzione di servizi per trattare le questioni relative alle migrazioni internazionali e essere così di supporto a una più adeguata formulazione delle politiche (art.65);

 

2-   La cooperazione per evitare i flussi clandestini e l’impiego illegale con sanzioni efficaci in caso di scorretta informazione, di organizzazione di traffici, di istigazione alla violenza contro i migranti, di assunzione abusiva da parte dei datori di lavoro (art.68);

 

3-   L’impegno di ciascun Stato a adottare i provvedimenti legislativi e d’altra natura necessari per l’applicazione della convenzione (art.83), l’impegno a non esercitare pressioni sui lavoratori migranti e sui loro familiari perché si astengano o rinuncino in via contrattuale ai diritti riconosciuti dalla convenzione (art.82) e l’impegno a garantire sempre la possibilità di ricorso in caso di violazione dei diritti (art.83);

 

4-   La previsione di consultazione e cooperazione tra gli Stati per promuovere più adeguate condizioni di trattamento sotto molteplici aspetti (artt.64, 66, 70, 71);

 

5-   Il divieto di aderire alla convenzione solo per alcune parti o per alcune categorie (art.88);

 

6-   L’istituzione di un Comitato per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei loro familiari (artt.72-78), incaricato di redigere un rapporto annuale sull’applicazione della convenzione, di esaminare i rapporti dei singoli Stati e le loro eventuali comunicazioni di inadempimento di obblighi, di ricevere le comunicazioni di privati che denunciano le violazioni dei loro diritti individuali stabiliti dalla convenzione, purché la questione non sia all’esame di un’altra istanza internazionale e siano stati già esauriti in tempi ragionevoli tutti i ricorsi interni allo stato interessato.

 

Non è escluso che ad aver reso difficile la fase di ratifica della Convenzione, sia stata proprio la previsione di una serie di vincoli nei confronti dell’autorità legislativa dei vari Stati.

Nel corso della storia, a difesa dei lavoratori migranti sono intervenute molte altre organizzazioni internazionali oltre alle Nazioni Unite, ognuna, con i propri mezzi, ha fornito il proprio contributo nella tutela di questa categoria. Tra quelle che hanno visto i propri interessi maggiormente coinvolti nella materia, l’OIL[41] è stata di gran lunga la più importante nel mantenere la sicurezza e nel tutelare i lavoratori migranti e le loro famiglie, sin dal 1920. Il contributo dell’OIL, prende due principali forme: in primo luogo, attraverso l’approvazione di specifiche convenzioni e l’approvazione di numerose raccomandazioni sulla gestione delle leggi nazionali, tanto quelle giudiziarie, quanto quelle amministrative, relative alla migrazione per motivi occupazionali. In secondo luogo, attraverso i suoi progetti tecnici di cooperazione, l’OIL ha aiutato a rendere più sicuri i diritti umani per i lavoratori migranti. La Convenzione per l’occupazione (n°97) del 1949 e la Migrant Workers (n°143) del 1975, sono le due più importanti convenzioni OIL riguardanti specificatamente i lavoratori migranti. La convenzione n°97 contiene una serie di provvedimenti, rivolti all’assistenza di uomini e donne, che intraprendono lunghi viaggi alla ricerca di un posto di lavoro, ad esempio, invita gli Stati a prendere misure adeguate, per informare gli altri membri dell’OIL e l’organizzazione stessa sulla propria situazione migratoria. La stessa Convenzione invita gli Stati a schierarsi contro la propaganda sbagliata portata nei paesi di partenza e a facilitare il rientro, il viaggio, ma anche la ricezione dei migranti. La Convenzione richiede anche che, gli Stati firmatari che hanno messo in condizioni di legalità i migranti sul proprio territorio (ad esempio mediante l’uso di sanatorie), provvedano ad una completa serie di leggi e regolamenti riguardanti le condizioni di vita di chi lavora, senza discriminazione di nazionalità, razza, religione o sesso.

La Convenzione n°143, nella parte prima, tratta delle migrazioni in condizioni d’irregolarità, nella parte seconda quelle avvenute a norma di legge e quindi aventi il diritto all’uguaglianza di opportunità e trattamento. Gli Stati che ratificano la Convenzione hanno, in ogni caso, la possibilità di accettarla per intero o in una delle due parti; gli Stati debbono, tuttavia, perseguire una politica di uguaglianza di trattamento rispetto all’occupazione e al lavoro, ai diritti sociali, alla possibilità di partecipazione ai sindacati. Riguardo alla cooperazione tecnica, l’OIL ha sviluppato un progetto interregionale che combatte la discriminazione contro i lavoratori migranti, il progetto si focalizza sugli Stati che ricevono l’immigrazione e punta a contrastare la discriminazione e il trattamento ineguale dei lavoratori migranti. Le ricerche preliminari hanno precisato che questo tipo di discriminazione è esteso e persistente. L’obiettivo del progetto è di assistere gli Stati nella lotta alla discriminazione informando gli attori della linea di condotta, le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, le persone impegnate nelle attività anti discriminazione e le Ong come emettere delle misure legislative efficaci in questo tipo di lotta.

A partire dal secondo dopoguerra in poi, numerosi provvedimenti furono emessi, da organismi differenti, allo scopo di regolamentare una materia così complessa e comprensiva di diverse sfaccettature giuridiche, come quella del lavoratore migrante. La questione del traffico illegale di clandestini, fu lo spunto da cui prese ispirazione il dibattito delle Nazioni Unite sul tema più generale dei diritti dei lavoratori migranti, sin dal 1970. Il Consiglio Economico e Sociale nel 1972, espresse tutto il suo allarme per il giungere di lavoratori verso alcuni paesi europei, ad opera di organizzazioni criminali (risoluzione 1706 LIII, preambolo). Il Consiglio deplorò la situazione di fatto che si stava creando, ossia lo sfruttamento della povertà di massa di intere popolazioni (per lo più africane) a tutto vantaggio dei “trafficanti di schiavi”, invitò tutti gli Stati coinvolti a prendere misure adeguate a combattere questa situazione. Nello stesso anno, intervenne anche l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, condannando la discriminazione contro i lavoratori stranieri e chiamando gli Stati a prendere provvedimenti più efficaci a favore di questi ultimi (risoluzione 2920 XXVII), invitò inoltre gli Stati a rispettare la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e sollecitò gli Stati stessi a ratificare la Convenzione OIL n°97. Una nuova sollecitazione alla ratifica della Convenzione e un invito a concludere accordi bilaterali sulla migrazione a scopo lavorativo, fu riproposta nel 1973 dal Consiglio Economico e Sociale (risoluzione 1789 LIV). Nel 1974, alla Conferenza di Bucarest, le Nazioni Unite adottarono il "World Population Plan of the Action", il documento conteneva raccomandazioni riguardanti le migrazioni internazionali, ma affrontò in particolare il tema del controllo delle pratiche discriminatorie e dei traffici illeciti.

Un seminario sui diritti umani dei lavoratori migranti, organizzato dalle Nazioni Unite, si tenne a Tunisi nel 1975. All’inizio del Seminario, come primo punto, ci si accordò nel considerare i lavoratori migranti in condizioni d’uguaglianza, a prescindere della legge sui diritti umani e sulla legislazione riguardante il lavoro; si decise di trattare secondo i principi d’umanità gli immigrati che soggiornano negli Stati clandestinamente, ma anche di evitare di creare le condizioni affinché questa situazione si potesse dilungare nel tempo. Il seminario, inoltre, pose l’attenzione sul fatto di attribuire allo Stato d’origine le medesime responsabilità sui lavoratori migranti, rispetto a quello di ricevimento.

Nel 1985, il Consiglio Economico e Sociale riconobbe la necessità di rafforzare gli accordi bilaterali, regionali e internazionali, per sviluppare la situazione dei lavoratori migranti e delle loro famiglie (risoluzione 1985/24). Il Consiglio invitò gli Stati ad approvare, o allargare, i programmi sociali, per venire incontro alle nuove necessità e ai problemi creati dai cambiamenti della situazione internazionale sulle migrazioni a scopo lavorativo. Numerose altre conferenze, seminari e risoluzioni furono dedicati al problema: la conferenza di Genova del 1978 contro il razzismo e la discriminazione razziale, la raccomandazione dell’Assemblea Generale n°33/163 del 1978 e altri studi; tutti portarono, infine, all’approvazione della Convenzione Internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie. Il punto cruciale di questa Convenzione secondo la dottrina più diffusa, come abbiamo più volte sottolineato, che le persone qualificate come lavoratori migranti, devono tutte godere dei diritti umani fondamentali, senza badare al loro status legale. Essa è, come abbiamo visto, il frutto di un’esperienza maturata negli anni anche da altre organizzazioni che, direttamente o indirettamente, hanno affrontato il problema; tiene conto di più di mezzo secolo d’esperienze e dei requisiti di una larga serie strumenti internazionali e nazionali legati al tema. Invita gli Stati a adottare delle politiche ben precise in materia, a scambiare informazioni con gli altri Stati interessati, a fornire quante più informazioni possibili ai lavoratori ed ai datori di lavoro nazionali ed esteri. Altre dichiarazioni d’intenti, sono state fornite dalla Conferenza mondiale sui diritti umani, tenutasi a Vienna nel giugno del 1993[42], dalla Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo (tenutasi al Cairo nel settembre 1994) e dal summit mondiale sullo sviluppo sociale (svoltosi a Copenaghen nel marzo 1995).

Sebbene la Convenzione sia stata approvata dall’Assemblea parlamentare delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1990, oltre dieci anni fa, non è un caso che in Italia non si sia aperto un dibattito vero e proprio, per decidere di una sua eventuale ratifica. Nel nostro paese, per molto tempo, è mancata una vera e propria legislazione organica sull’immigrazione, la stessa “legge Martelli” del 1990, doveva essere solo il primo passo di un’intelaiatura giuridica che comprendesse tutti gli ambiti della complessa materia. Non era dunque pensabile che l’Italia potesse aderire ad uno strumento di diritto internazionale, il quale aveva lo scopo di definire ambiti di tutela molto precisi e dettagliati della condizione giuridica del lavoratore migrante, vincolanti per gli Stati e non solo a livello di principi. Il nuovo decreto legislativo n°286/98 ha in seguito posto rimedio a questa mancanza italiana ed è del tutto positivo rilevare come la legge italiana sull’immigrazione abbia, oggi, un approccio normativo basato sui medesimi principi che hanno ispirato la Convenzione:

 

a. L’attribuzione di un nucleo di diritti fondamentali a tutti i lavoratori migranti e dunque anche a quelli che si trovano in condizione d’irregolarità;

 

b. La considerazione del lavoratore migrante non come persona avulsa da un contesto di relazioni umane e definita secondo una logica esclusivamente d’utilità economica, bensì come entità sociale, perlopiù coinvolto in legami familiari, che devono essere tenuti in considerazione nel paese d’arrivo;

 

c. La promozione di una politica di integrazione per gli immigrati regolari, fondata sul principio di parità di trattamento e sulla previsione di specifiche azioni positive, alla ricerca di un giusto equilibro tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale (o eguaglianza di opportunità).

 

Per quanto concerne il primo aspetto, la Convenzione utilizza una definizione di lavoratore migrante comprendendo tanto quelli regolari che gli irregolari ed assegnando, a questi ultimi, comunque un paniere di diritti essenziali ed irrinunciabili (quelli compresi nella parte III), ai quali debbono essere aggiunti per i regolari i diritti nel campo economico, sociale e culturale finalizzati all’integrazione nel paese di arrivo.

Sulla condizione dei lavoratori irregolari, vale la pena ricordare che una consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana maturata a partire dalla fine degli anni ‘60 aveva già riconosciuto l’applicazione del principio di uguaglianza allo straniero, anche irregolare, limitatamente all’ambito dei diritti inviolabili dell’uomo così come identificati in conformità dell’ordinamento internazionale. A tale riguardo non si può mancare di notare che, anche in assenza dell’entrata in vigore della Convenzione ONU, l’obbligo degli Stati, almeno di quelli sviluppati, di garantire a tutte le persone la fruizione di un contenuto essenziale minimo (minimum core content) di diritti nella sfera sociale, culturale ed economica deriva già dall’interpretazione del Patto del Nazioni Unite sui diritti sociali, economici e culturali, data dall’apposito comitato ONU. Si trattava in ogni modo di aspetti disciplinati sulla base di provvedimenti amministrativi, ordinanze o circolari ministeriali, sempre dunque revocabili a discrezionalità dell’esecutivo. Solo con la legge n°40/1998, le previsioni di cui sopra, raggiunsero in Italia il rango di vere e proprie norme legislative, le quali sarebbero in grado di soddisfare appieno gli standard fissati dalla Convenzione ONU (artt.28 e 30, rispetto ai temi dell’istruzione obbligatoria e della tutela della salute).

Per quanto concerne i limiti all’adozione al provvedimento espulsivo, un’eventuale adesione dell’Italia alla Convenzione ONU, non implicherebbe l’assunzione di ulteriori obblighi internazionali rispetto a quelli già assunti, in particolare, con la ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Quest’ultima, com’è noto, vietando all’art.3 i trattamenti inumani e degradanti, è stata interpretata dalla Corte europea come vietante pure il respingimento o l’espulsione verso uno Stato ove lo straniero potrebbe essere sottoposto a tali trattamenti. D’altro canto, lo stesso riferimento che si fa nella Convenzione ONU al divieto d’espulsioni collettive (art.22), non aggiungerebbe nulla di nuovo all’obbligo internazionale, già assunto dall’Italia, con la ratifica e l’entrata in vigore del protocollo addizionale n°4 della Convenzione europea, sebbene questo sia stato già manifestamente violato in occasione dello sbarco di massa di cittadini albanesi dell’agosto 1991[43].

La considerazione del migrante come persona e soggetto sociale, utente dunque di una serie di diritti che ne salvaguardino la complessità della personalità e dignità umana, e non come semplice entità economica, accomuna tanto l’approccio del legislatore italiano quanto quello usato dagli estensori della Convenzione ONU. Ciò si rivela innanzi tutto nella portata estremamente aperta e garantista della disciplina del ricongiungimento familiare nella nuova legislazione italiana (artt.29 e 30 D.L.vo n°286/98), per quanto concerne la sfera dei beneficiari, le norme procedurali per l’esercizio concreto del diritto, per la previsione delle forme di ricorso in sede giurisdizionale (il rimando al giudice civile anziché a quello amministrativo pone l’accento sulla natura di diritto soggettivo che si è voluto assegnare alla coesione familiare dell’immigrato). Si può pertanto affermare che trova piena rispondenza il principio della salvaguardia dell’unità della famiglia come base naturale e fondamentale della società, proclamato dall’art.44 della Convenzione ONU. Ugualmente, nella legislazione italiana trova collocazione il principio secondo il quale la perdita del posto di lavoro non deve implicare l’automatica revoca del permesso di soggiorno del lavoratore migrante; principio contenuto nell’art.49 della Convenzione ONU, che stabilisce ulteriormente il diritto del lavoratore migrante ad usufruire di un periodo di tempo minimo per trovare una nuova occupazione, identificato in quello corrispondente al godimento dell’indennità di disoccupazione. In questo caso, la Convenzione ONU riprende esattamente quanto già stabilito dall’art.8 della Convenzione OIL n°143 e dalle conclusioni della Commissione di esperti OIL, incaricata di interpretarne correttamente il significato. Si giunse alla conclusione di lasciare un lasso di tempo ragionevole, per la ricerca di un nuovo impiego, prima di giungere al ritiro del permesso di soggiorno. Nel tentativo di specificare meglio quale debba essere questo lasso di tempo ragionevole, la Commissione di esperti, in una successiva deliberazione, aveva giudicato conforme all’art.8 della Convenzione OIL un progetto di legge sull’immigrazione in Francia. Quest’ultimo mirava a ridurre da un anno a sei mesi il periodo concesso allo straniero disoccupato e privo di mezzi per ricercare un nuovo lavoro, affermando che "un lasso di tempo di sei mesi, prima che il permesso di lavoro venga ritirato, sembra soddisfare le esigenze della disposizione convenzionale". La legislazione italiana, d’altro canto è già vincolata agli standard e agli obblighi della Convenzione OIL n°143 che il nostro paese ha ratificato e resa esecutiva fin dal 1981.

La Convenzione ONU ha anche raccolto alcune critiche di taluni studiosi, questi vi hanno ravvisato una riproposizione di quanto già in gran parte contenuto nelle Convenzioni OIL, aventi per oggetto le migrazioni per motivi di lavoro e il trattamento dei lavoratori migranti (le già citate n°97 del 1949 e n°143/1975). In taluni casi, anzi, le Convenzioni OIL prevedono un trattamento migliore. Ad esempio, non trova rispondenza nella Convenzione ONU quanto invece previsto all’art.8 par. 1 della Convenzione OIL n°97/1949 il quale prevede il divieto di espulsione o di revoca del permesso di soggiorno dello straniero che sia rimasto vittima di malattia o infortunio, da cui derivi l’impossibilità a procurarsi i mezzi di sostentamento.

Ciò spinge a chiederci, se sia poi tanto importante in Italia dibattere sulla Convenzione ONU e promuovere una campagna per la sua ratifica, o se non sia più opportuno, invece, concentrare i nostri sforzi sui prossimi processi di progressiva comunitarizzazione delle politiche in materia di immigrazione e asilo, soprattutto dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam; processi che potrebbero significativamente incidere e svuotare anche di contenuto le parti più coraggiose della legislazione interna del nostro paese. In quest’analisi, bisogna tuttavia tenere presente che, con l’adesione alla Convenzione e in caso di sua effettiva entrata in vigore, i diritti degli immigrati previsti da una legislazione senza dubbio avanzata, quale quella di cui al D.L.vo n°286/98, ne risulterebbero rafforzati, non più sottoposti alla volatilità delle maggioranze parlamentari e politiche, così come rafforzata sarebbe la stabilità della condizione giuridica degli immigrati, presupposto indispensabile per una loro migliore integrazione.

A tutt’oggi la Convenzione non è entrata in vigore, mancando la ratifica dei 20 Stati membri richiesti[44]. Ad operare da freno sembra siano in maniera particolare le istanze di tutela che la Convenzione ONU fa valere a favore dei migranti in situazione irregolare. L’esigenza di legalità, che gli Stati fanno valere nei confronti dei singoli migranti, porta anche ad auspicare che tali Stati esercitino il loro potere normativo nell’ambito di regole concordate a livello internazionale e sottoposte a verifica, unendo così la legalità dei singoli ad una base comune di legalità internazionale. Prendendo come termine di riferimento la Convenzione ONU, si può affermare che nelle vigenti politiche migratorie è ancora troppo accentuato “l’unilateralismo nazionalistico”, senza che le migrazioni siano considerate nella loro completezza per quanto riguarda i vari aspetti del fenomeno e i vari paesi coinvolti. In questo modo, non si riesce ad esprimere la comune responsabilità tra paesi di partenza e paesi d’arrivo.

Un altro mito che la Convenzione ONU consente di sfatare, è quello che nel settore della mobilità abbiano un’efficacia prioritaria le normative repressive. La Convenzione invita innanzi tutto alla moderazione, perché destinatari delle sanzioni sono delle persone umane, i cui diritti fondamentali non possono essere in ogni caso calpestati. Aggiunge ancora la Convenzione che la regolarità costituisce per i migranti una situazione di maggiore pienezza giuridica, per cui i flussi regolari sono concepiti come forza incentivante della regolarità e oltre che dissuasiva dei traffici clandestini[45].

Per quanto riguarda i diritti dei lavoratori migranti, la ratifica della Convenzione ONU serve per non abbassare la guardia. Se la Convenzione non diventa concretamente operativa dopo aver raggiunto un numero sufficiente di ratifiche, difficilmente potrà diventare fonte concreta d’ispirazione per gli altri Stati. Per evitare questa impasse, è stata lanciata una campagna mondiale per la ratifica della Convenzione ONU sui diritti dei migranti, nel cui comitato promotori, che ha sede a Ginevra, sono rappresentati istituzioni operanti nel settore dei diritti umani, sindacati, organizzazioni ecclesiali. Obiettivo del Comitato è quello di assicurare nei vari contesti nazionali il più ampio sostegno alla Convenzione attraverso il coinvolgimento di funzionari pubblici, partiti politici, sindacati, organizzazioni di donne e così via. L’Italia, che come si è visto ha una normativa interna già in sintonia con i contenuti della Convenzione ONU, è stata scelta come uno dei paesi in cui spingere a fondo questa campagna.

 

Paragrafo 2

 

 

 

IL TRATTATO DI AMSTERDAM ED IL PROCESSO DI ARMONIZZAZIONE EUROPEO

 

 

 

Il 1° maggio 1999 è entrato in vigore il secondo trattato sull’Unione Europea, quello firmato ad Amsterdam il 2 ottobre 1997, che contiene importanti novità nelle materie dell’immigrazione e dell’asilo. Con il trattato di Amsterdam, esse entrano a far parte gradualmente del cosiddetto "Primo Pilastro" dell’Unione Europea, sono in pratica introdotte in ambito comunitario, rafforzando anche il ruolo del Parlamento europeo e della Corte europea di giustizia.

I cambiamenti introdotti dal Trattato sono finalizzati alla "creazione di un nuovo spazio senza frontiere interne" e all’obiettivo di "conservare e sviluppare l’Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione alla criminalità e la lotta contro quest’ultima" (art.B modificato).

L’entrata in vigore del trattato significa che i capi di Stato e di governo, il nuovo parlamento, la nuova Commissione e i parlamenti nazionali definiranno una strategia comune che riguarderà più temi fondamentali per l’Unione Europea che, fino ad oggi, non sono stati regolati da una politica comune, fra questi quello che a noi interessa, l’immigrazione dei lavoratori dei paesi terzi. Dalla metà degli anni ottanta, infatti, di fronte alle nuove caratteristiche dei flussi migratori verso l’Europa, alcuni Stati membri si sono dotati di strumenti di cooperazione che, essendo di tipo intergovernativo e non comunitario, sfuggivano ad ogni controllo democratico dell’Europarlamento e dei parlamenti nazionali. Delegavano a pochi ministri e funzionari Europei scelte, le cui ricadute interessavano la vita di milioni di migranti. Il sistema di Schengen fu il più importante a livello comunitario, ma non fu bilanciato sufficientemente dal Trattato di Maastricht. Il trattato di Amsterdam tiene conto della necessità di porre fine al “doppio binario” intergovernativo-comunitario e sancisce l’obbligo di preparare, entro cinque anni, una politica europea comune per la realizzazione dello Spazio Comune di libertà, sicurezza e giustizia.

Si è deciso di riservare un apposito spazio nel Trattato CE all’immigrazione, il nuovo titolo IV del testo s’intitola "Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone" ed investe, nello specifico:

- l’attraversamento delle frontiere esterne ed interne dell’Unione;

- l’asilo, l’immigrazione, la politica nei confronti dei cittadini degli Stati terzi;

- la cooperazione giudiziaria in materia civile.

Il trattato di Amsterdam stabilisce una "comunitarizzazione" graduale della politica migratoria e un termine, cinque anni, affinché gli Stati membri arrivino ad avere una politica comune in materia di immigrazione. Per un periodo transitorio di cinque anni dall’entrata in vigore del trattato è previsto che il Consiglio, nelle materie di cui sopra, deliberi all’unanimità su proposta della Commissione o su iniziativa di uno Stato membro e previa consultazione del Parlamento (art.63). Trascorso tale periodo sarà il Consiglio a deliberare su proposta della Commissione che farà da filtro alle richieste formulate dagli Stati membri ed il Consiglio, deliberando all’unanimità previa consultazione del Parlamento europeo, deciderà in merito alle materie comunitarizzate secondo la procedura di codecisione (art.189B).

Nel corso del periodo transitorio di cinque anni, ci si attende che sia il Consiglio a adottare misure in materia di immigrazione per quel che riguarda le condizioni di accesso e di soggiorno dei cittadini dei paesi terzi e i criteri secondo cui i cittadini, legalmente residenti in uno Stato membro, possano decidere di risiedere in un altro Stato membro.

Al testo del Trattato di Amsterdam è stato infine allegato un protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione Europea, con il compito di far confluire le norme Schengen, il Segretariato Schengen ed il suo personale nell’Unione Europea.

Nonostante l’indirizzo politico del Trattato di Amsterdam sia quello di una politica comune in materia d’immigrazione e asilo, il testo prende in considerazione le divergenze tra gli Stati membri, designando un’Europa degli affari interni dalla geometria variabile e dalla composizione flessibile. Questo significa sostanzialmente due cose: che lo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia non comprenderà tutti gli Stati membri allo stesso titolo; che gli Stati membri potranno concorrere in misura diversa alle varie tappe che si presenteranno. Il Trattato prevede, infatti, una certa flessibilità disciplinando al suo interno l’istituto degli “opting out” (cioè della scelta di “rimanere fuori”) di alcuni paesi rispetto a parti del Trattato, e quello delle “cooperazioni rafforzate” che un numero limitato di Stati membri (comunque superiore alla metà) può instaurare in campi specifici senza la partecipazione degli altri Stati. La nuova Europa dello Spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia nasce a dodici anziché a quindici Stati, dal momento che la Gran Bretagna, l’Irlanda (paesi che non hanno aderito a Schengen) e Danimarca (che ha una posizione particolare in Schengen per la quale può mantenere i controlli interni) hanno deciso di non seguire gli altri Stati membri dell’Unione e di unirsi a loro solo di volta in volta e con scopi limitati. Se a questo si aggiunge il fatto che, al termine dei negoziati di adesione, anche i nuovi Stati membri entreranno a far parte dello Spazio comune e si potranno avvalere delle opzioni offerte dal trattato, è difficile immaginare oggi la fisionomia geografica e politica che assumerà lo spazio europeo di gestione comune dei flussi migratori nel medio-lungo periodo. Si possono quindi immaginare scenari possibili che si collocheranno tra un’Europa migratoria “minima”, costituita dai soli paesi del gruppo Schengen e con all’interno un nucleo ristretto più convinto che si avvale della cooperazione rafforzata, e un’Europa migratoria “massima” comprendente, oltre ai dodici Paesi Schengen, anche Danimarca, Gran Bretagna[46], Irlanda e i sei nuovi Stati membri, così da creare un grande Spazio comune con norme omogenee in materia di immigrazione[47].

L’importanza indiscussa di questo Trattato sta nel fatto che, nonostante già si parli di una sua parziale modifica, esso ha posto un principio fondamentale dal quale difficilmente si potrà in futuro prescindere, la politica migratoria è materia comunitaria. L’Italia e la Spagna fino a ieri, e la Grecia da oggi[48], sono le nazioni considerate il “ventre molle” dell’Europa, lo scopo è che queste nazioni non siano più sole nell’affrontare la loro lotta, anche perché se riusciranno esse a risolvere la propria situazione migratoria, ne beneficerà l’Europa intera. Sebbene già con il trattato di Schengen si era precisato che, ad un abbattimento delle frontiere interne, sarebbe corrisposto un più severo controllo comune delle frontiere esterne, è soltanto con il Trattato di Amsterdam che questa condizione potrà divenire effettiva.

Il processo di armonizzazione della materia, passa attraverso numerose difficoltà, derivate dalla reticenza di molti Stati a delegare un potere così importante come quello del controllo delle proprie frontiere. Il raggiungimento di un punto d’incontro, passa attraverso una serie di nodi cruciali, per sciogliere i quali non sono sufficienti le dichiarazioni d’intento, occorre una reale volontà. È proprio tale volontà che sembra venire meno, quando si tratta di prendere decisioni importanti come quelle di seguito descritte. Non basterà né uno né cento trattati, se non vi sarà la piena convinzione nei mezzi dell’U.E. e nelle capacità dei suoi membri.

Un importante passo verso la comunitarizzazione della materia, nel rispetto del principio di cooperazione fra gli Stati, è stato offerto dalla Francia durante il suo periodo di presidenza dell’U.E. nell’anno 2000. Nell’area della giustizia e degli affari interni, con riferimento alle materie dell’immigrazione e dell’asilo, la Presidenza francese dell’Unione Europea ha posto al centro della sua azione, nel secondo semestre del 2000, la lotta all’immigrazione clandestina. Un documento di lavoro redatto dal Ministro dell’Interno francese, J.P. Chevenement, proponeva ai partner europei una serie di misure di controllo e di repressione dell’immigrazione clandestina. Particolare enfasi fu riservata nel documento al tema del controllo dell’immigrazione illegale con la proposta di adozione di alcune misure repressive mediante gli strumenti del diritto comunitario. La Presidenza francese dell’U.E. ha proposto innanzi tutto di rafforzare la partnership con i paesi di origine mediante processi di cooperazione allo sviluppo, ma nello stesso tempo si è dichiarata decisa a portare a compimento alcune misure di controllo, tra cui un accordo a livello comunitario per l’inasprimento delle sanzioni per i vettori di migranti illegali e l’armonizzazione delle misure penali nei confronti di coloro che favoriscono l’ingresso e la permanenza illegale degli immigrati. Una terza misura prospettata è la bozza di una direttiva volta ad assicurare un’effettiva esecuzione dei decreti di espulsione attraverso accordi per il loro mutuo riconoscimento da parte degli Stati membri. La Presidenza francese inoltre ha insistito affinché giungesse a conclusione la negoziazione per la stipula degli accordi di riammissione tra l’Unione Europea e la Russia, lo Sri-Lanka, il Pakistan e il Marocco.

All’inizio di luglio, la Presidenza francese ha sottoposto agli altri Stati membri un piano di azione per migliorare il coordinamento sul controllo dell’immigrazione clandestina. Il piano prevede di rafforzare lo scambio delle informazioni, anche attraverso l’invio di una rete di funzionari di collegamento (liasion officers) nei paesi di origine degli immigrati.

Nel settore dell’asilo, il documento della Presidenza francese menziona la necessità di armonizzare le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo (in particolare con riferimento alle misure di Welfare), di giungere ad una valutazione definitiva della Convenzione di Dublino con lo scopo della sua sostituzione con uno strumento di diritto comunitario e di sostenere l’imminente iniziativa della Commissione per la pubblicazione di una proposta di direttiva sulla procedura di asilo. Stranamente il documento di lavoro della Presidenza francese non fa menzione della proposta di direttiva della Commissione in materia di riunificazione familiare, così come nessun cenno viene riservato all’analoga proposta in materia di protezione temporanea. Nel campo dell’immigrazione, la Presidenza francese ha posto l’accento sulla necessità di migliorare l’integrazione degli immigrati regolarmente residenti, armonizzando innanzi tutto tra gli Stati membri le condizioni per il rilascio dei permessi di soggiorno e di residenza permanente. Il fatto tuttavia che non si faccia alcun cenno al principio della riunificazione familiare, è forse attribuibile alla posizione recentemente assunta da importanti suoi partner europei. Alcuni Stati membri dell’Unione Europea hanno espresso forti riserve e critiche, all’indirizzo di alcuni contenuti della proposta per una direttiva del Consiglio europeo sul diritto alla riunificazione familiare per i cittadini dei paesi terzi, adottata il 1 dicembre 1999 dalla Commissione europea, su iniziativa del Commissario per la giustizia e gli affari interni, Antonio Vittorino. Questa proposta è solamente la prima di una serie di altre iniziative, prese in conformità dell’art.63.3 lettera a) del Trattato di Amsterdam, sulle condizioni d’ingresso e di soggiorno e sulle procedure per il rilascio di visti e permessi di soggiorno di lunga durata da parte dei Paesi membri. La proposta riconosce il diritto alla riunificazione familiare per i cittadini dei Paesi terzi legalmente residenti nei paesi membri (con permesso di soggiorno della durata di almeno un anno), in particolare per lavoro subordinato, autonomo o studio. Nella proposta di direttiva i rifugiati riconosciuti e coloro che godono di un’altra forma di protezione complementare (asilo politico), usufruiscono di più favorevoli condizioni nell’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare. I familiari per i quali sarebbe possibile chiedere il ricongiungimento sono il coniuge, i figli minori, il convivente more uxorio (anche dello stesso sesso almeno per gli Stati membri che riconoscono tale legame), gli ascendenti a carico e i figli maggiorenni se dipendenti dai genitori per ragioni di salute e d’invalidità. Nella proposta vengono specificati i diritti connessi al permesso di soggiorno per riunificazione familiare, finalizzati all’inserimento sociale (lavoro, studio e formazione professionale). Dopo quattro anni di residenza, successivi all’avvenuta riunificazione, i familiari potranno chiedere uno status di soggiorno autonomo.

I governi di taluni Stati membri ritengono la proposta troppo liberale[49] e per questo motivo la osteggiano. Nel corso delle negoziazioni tenutesi in primavera in seno al Gruppo Migrazione del Consiglio Europeo, alcuni emendamenti restrittivi hanno già raggiunto il consenso degli Stati membri. In particolare si è concordato che la direttiva non contempli più il diritto alla riunificazione familiare per i titolari di forme di protezione complementari a quella della Convenzione di Ginevra. Una minoranza di Stati membri (Spagna, Grecia, Portogallo, Austria) ritiene che debba essere esclusa dalla direttiva la tematica della riunificazione familiare per i rifugiati, per la quale si dovrebbe approntare uno strumento apposito. Ugualmente sembra destinata ad essere eliminata dal testo definitivo la possibilità del ricongiungimento con il partner convivente, ma al quale lo straniero non sia legato in matrimonio (nonostante nel testo proposto dalla Commissione questa possibilità fosse limitata ai paesi ove le coppie di fatto sono riconosciute ed equiparate a quelle sposate). Nonostante tali modifiche, il governo tedesco, tramite il suo Ministro dell’Interno, il socialdemocratico Otto Schily ha chiesto nuove modifiche in senso restrittivo nel proseguo delle negoziazioni, con particolare riferimento ai diritti accordati ai membri della famiglia e alle procedure prospettate per l’esercizio del diritto. Appare improbabile che in tempi brevi gli Stati membri dell’Unione Europea raggiungano un accordo sulle proposte contenute, mentre appare concreto il rischio che gli alti standard proposti dalla Commissione vengano abbassati su decisione degli Stati membri. Anche il Parlamento europeo stilerà un rapporto in merito (relatore il deputato tedesco Ms. Klamt). La prima bozza di tale rapporto, presentata alla discussione nel competente comitato parlamentare lo scorso 22 maggio, sembra orientata ad un atteggiamento critico e restrittivo verso le proposte liberali assunte dalla Commissione Europea. Viene infatti suggerito, di stralciare la materia della riunificazione familiare per i rifugiati, di rivedere la definizione di famiglia utilizzata e di cancellare ogni riferimento alle coppie di fatto non sposate. Si capisce quindi come la Presidenza francese non abbia fatto altro che seguire la via della maggioranza, nel non menzionare nel proprio documento il principio del ricongiungimento familiare.

Associazioni di diversi paesi europei, riunite nel Coordinamento Europeo per il diritto degli stranieri a vivere in famiglia, hanno seguito negli ultimi anni lo sviluppo del processo di armonizzazione europea delle politiche in materia di riunificazione familiare, promuovendo un’azione di lobby nei confronti delle istituzioni europee.

L’ECRE[50] ha diffuso nell’aprile 2000 una propria presa di posizione sulla proposta di direttiva avanzata dalla Commissione. L’ECRE considera la proposta di direttiva in maniera assai positiva, ritenendola pienamente in accordo con i principi internazionali relativi alla tutela dell’unità familiare. In particolare, l’ECRE "condivide il punto di vista della Commissione sul fatto che la riunificazione familiare è lo strumento necessario per rendere possibile la vita familiare e facilitare l’integrazione degli immigrati dei paesi terzi negli Stati membri". Inoltre "loda l’iniziativa della Commissione di esentare i rifugiati e i titolari della protezione complementare dai requisiti alloggiativi e di reddito quale pre-condizione per l’esercizio del diritto", auspicando peraltro l’adozione di emendamenti ed integrazioni al testo proposto dalla Commissione per rafforzare ulteriormente il diritto alla coesione familiare dei rifugiati, convenzionali e titolari di forme di protezione complementari, così come lo status dei loro familiari.

In un successivo e più articolato documento, diffuso nel luglio 2000, l’ECRE esprime una serie di raccomandazioni riguardo alla proposta di direttiva europea in materia di riunificazione familiare. L’ECRE insiste che la direttiva consideri il diritto alla riunificazione familiare non solo per i rifugiati riconosciuti in base alla Convenzione di Ginevra, ma anche per tutti coloro che godano di forme complementari di protezione e che entrambe le categorie possano essere esentate per l’esercizio del diritto dalla dimostrazione dei requisiti di reddito alloggiativi e di lunghezza della residenza, eventualmente richiesti per i migranti. L’ECRE inoltre chiede che per i rifugiati il diritto alla riunificazione familiare non venga limitato ai membri del nucleo familiare ristretto e che i richiedenti asilo appartenenti allo stesso nucleo familiare, non vengano divisi tra Stati differenti durante la procedura di riconoscimento dello status. Per quanto concerne la procedura per l’esercizio del diritto alla riunificazione familiare, l’ECRE raccomanda la fissazione di un termine, inferiore ai sei mesi, che garantisca la massima speditezza e chiede l’esenzione per i rifugiati e i titolari di forme di protezione complementari da ogni disposizione che richieda l’esibizione di prove documentali del legame di parentela, quando queste possano essere ottenute solo attraverso il contatto con le autorità del paese di origine.

Anche il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa è recentemente intervenuto sul diritto alla riunificazione familiare per i rifugiati e per le altre persone bisognose di protezione internazionale, con un’apposita raccomandazione n. R(99) 23, adottata il 15 dicembre 1999. La raccomandazione enfatizza la necessità di un pieno rispetto dal diritto alla riunificazione familiare per i rifugiati da parte degli Stati membri, in accordo con gli standard fissati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Altre difficoltà sono state di recente riscontrate al Vertice dei Ministri dell’Interno e della Giustizia dei Paesi dell’U.E., il quale non riesce a raggiungere un’intesa sul testo di un accordo di riammissione dei migranti clandestini tra Unione Europea e Regno del Marocco. La Commissione Europea ha predisposto le bozze delle decisioni del Consiglio europeo autorizzanti la Commissione a negoziare accordi di riammissione della Comunità europea con taluni paesi terzi (in primo luogo Marocco, Sri Lanka, Pakistan e Federazione Russa). Durante il loro vertice del 29 maggio scorso a Bruxelles, i Ministri dell’Interno e della Giustizia dei Paesi membri dell’Unione Europea non sono riusciti a superare le loro divergenze relative al testo di un accordo di riammissione tra Unione Europea e Regno del Marocco.

Le principali divergenze sono sorte tra la Spagna da una parte e alcuni Stati membri dall’altra. La Spagna, infatti, chiede che l’Unione Europea stipuli un accordo di riammissione con il Marocco più avanzato rispetto a quello bilaterale, che ha stipulato con Rabat il 13 febbraio 1992. Quest’ultimo consente attualmente alle autorità di frontiera spagnole di riconsegnare a quelle marocchine soltanto i cittadini marocchini che abbiano cercato di fare ingresso illegale in Spagna, mentre le autorità marocchine rifiutano la riammissione dei cittadini di paesi terzi (in particolare provenienti da paesi dell’Africa sub-sahariana) che cercano di fare ingresso illegale in Spagna dopo aver transitato attraverso il territorio marocchino. La motivazione ufficiale del rifiuto è mancanza di una prova concreta del loro transito sul territorio marocchino, un requisito impossibile da soddisfare visto che la quasi totalità degli immigrati africani arrivano in Marocco e poi in Spagna privi di documenti di viaggio. D’altro canto, la maggior parte dei migranti illegali fa ingresso in territorio spagnolo nelle due enclave sottoposte alla sovranità spagnola sul continente africano, le città di Ceuta e Melilla, circondate completamente dal territorio marocchino, per cui non vi sono dubbi sulla loro provenienza dal Marocco. Di conseguenza, il governo spagnolo insiste affinché l’accordo di riammissione tra Unione Europea e Marocco includa l’obbligo per quest’ultimo di riammettere non solo i clandestini di nazionalità marocchina, ma anche quelli di diversa nazionalità che siano transitati sul territorio marocchino prima di raggiungere un paese dell’Unione Europea. Altri Stati membri dell’U.E. sono più propensi a considerare il problema come una questione attinente più ai rapporti bilaterali tra Spagna e Marocco che non necessita di essere portata al livello europeo, tanto più che riguarderebbe, secondo taluni, reminiscenze della politica coloniale spagnola in Nord Africa. Secondo i dati forniti dal governo spagnolo e riportati nell’edizione di giugno della rivista "Migration News Sheet", nel corso del 1999 sarebbero stati registrati dalle autorità di polizia di frontiera spagnola 960.000 casi di respingimento di migranti illegali, il 70% de quali provenienti dalle enclave spagnole di Ceuta e Melilla. L’accordo di riammissione con il Regno del Marocco dovrebbe essere il primo di questo tipo a essere sottoscritto a livello di Unione Europea.

La Commissione Europea aveva predisposto lo scorso febbraio le bozze delle decisioni del Consiglio europeo autorizzanti la Commissione a negoziare accordi di riammissione della Comunità europea con taluni paesi terzi (in primo luogo Marocco, Sri Lanka, Pakistan e Federazione Russa). Gli accordi di riammissione saranno probabilmente impostati sul modello predisposto dal Consiglio Europeo nel 1994. A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, l’Unione Europea può concludere in prima persona accordi di riammissione con i Paesi terzi, volti a facilitare il rientro degli immigrati illegali. L’ECRE insiste affinché in ogni futuro accordo di riammissione vi siano specifiche disposizioni volte a tutelare i richiedenti asilo dal rischio di respingimenti "a catena" (chain refoulement). Poiché almeno tre dei quattro paesi indicati per la stipula di tali accordi sono noti per le continue violazioni dei diritti umani, l’ECRE sottolinea la necessità che negli accordi siano previste disposizioni volte a monitorare l’effettiva sicurezza delle persone rimpatriate o riammesse in base agli accordi.

La questione della riammissione degli immigrati illegali e dei richiedenti asilo la cui istanza è stata rigettata, è stata al centro dell’ultimo round di negoziazioni per la stipula di un nuovo accordo di collaborazione ventennale tra l’Unione Europea e i paesi ACP (African Caribbean and Pacific States) destinato a succedere alla Convenzione di Lomè, stipulata nel 1975 e venuta in scadenza il 29 febbraio 2000. I Paesi dell’Unione Europea volevano inserire una clausola di riammissione nella formulazione adottata dal Consiglio europeo per la giustizia e gli affari interni del 2 dicembre 1999, ma hanno incontrato l’opposizione dei Paesi ACP contrari all’obbligo di riammettere, in quanto paesi di transito, gli immigrati illegali e i richiedenti asilo non riconosciuti originari di Paesi terzi. Alla fine è stato raggiunto un compromesso che prevede la possibilità di negoziazione su richiesta di una delle parti (l’Unione Europea o ciascuno degli Stati ACP) per la stipula di accordi di riammissione di immigrati illegali e apolidi. I Paesi ACP sono pronti a garantire la riammissione dei propri cittadini residenti illegalmente sul territorio degli Stati membri dell’Unione Europea, ma sono riluttanti a fare lo stesso con i cittadini di Paesi terzi che hanno solo risieduto temporaneamente o anche hanno solo transitato attraverso il loro Paese.

L’armonizzazione di una materia così complicata non poteva di certo essere raggiunta senza passare per le difficoltà sopra descritte e per molte altre ancora, d’altro canto i paesi europei si trovano a dover intraprendere una strada, senza avere una reale seconda scelta. La storia, dopo aver dimostrato che la chiusura delle frontiere porta inevitabilmente all’immigrazione illegale, impone un’apertura seppur controllata delle stesse. I rischi che l’Europa corre innescando un meccanismo irreversibile, come quello dell’immigrazione, sono tali e tanti che dubbi e reticenze sono a dir poco doverosi, tuttavia, si deve anche tener conto del fatto che ormai l’immigrazione è un elemento indispensabile per lo sviluppo del nostro continente. Vi è uno studio delle Nazioni Unite che, esaminando il caso italiano, parte della constatazione del costante declino del tasso di natalità negli ultimi decenni, cui ha fatto riscontro un deciso incremento dell’aspettativa di vita, con conseguente trend di forte invecchiamento della popolazione. La ricerca delle Nazioni Unite giunge dunque alla conclusione che per mantenere costante il livello della popolazione complessiva tra il 2000 ed il 2050, l’Italia avrebbe bisogno di un flusso migratorio annuale pari a più di 230.000 unità, tre volte superiore a quello registrato annualmente nel periodo 1995-2000. Per mantenere costante il livello della popolazione in età di lavoro, il flusso migratorio dovrebbe essere ancora maggiore, pari a circa 350.000 unità annuali. Si deve però, sempre ed in ogni caso, considerare che quelli sopra citati non sono numeri ma persone ed è assolutamente necessario comprendere che l’immigrato, il quale spesso ha la sola colpa di essere nato in uno Stato che non offre possibilità, non può essere considerato un mero strumento da utilizzare e poi rispedire in patria. Ritengo che sia doverosa l’accettazione di una politica che renda la vita del lavoratore migrante almeno dignitosa e, se l’Europa vorrà dimostrarsi più civile e non solo più ricca, fra i primi provvedimenti da approvare, ve ne dovrà essere uno che riguardi il ricongiungimento familiare di tutti gli immigrati, lavoratori e rifugiati di qualunque genere.

Con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, la politica d’immigrazione e asilo sarà trasferita, in sede europea, dal terzo al primo pilastro. Il Terzo Pilastro fu il frutto di un compromesso politico tra gli Stati membri che spingevano per un’estensione delle competenze comunitarie e quelli che invece ritenevano sufficiente intensificare la cooperazione intergovernativa, fu per questo che rimase solo il prodotto di un’ingegneria istituzionale politicamente debole, con scarso potere vincolante nei confronti degli Stati membri e che, in sei anni, ha prodotto un’unica convenzione entrata in vigore: quella dell’Europol sulla cooperazione tra polizie dei paesi dell’Unione. L’accordo tra Stati da cui è scaturito il terzo pilastro, pur indirizzando verso l’armonizzazione delle normative nazionali, non ha portato ad una reale comunitarizzazione delle politiche in materia di immigrazione ed asilo, limitandosi ad un’unica competenza comunitaria in questo campo: quella sulla politica dei visti richiesti ai cittadini di Paesi Terzi che vogliono attraversare le frontiere esterne per recarsi nell’Unione Europea (art.100 C). Anche in questo caso, tuttavia, la divergenza di posizioni tra Commissione e Parlamento europei da un lato (contrari ad assumere un ruolo di controllo e di mera elencazione di paesi, ma favorevoli ad attribuire alle istituzioni comunitarie i mezzi per l’elaborazione di una generale politica migratoria), Consiglio e maggioranza degli Stati membri dall’altro (intenzionati a mantenere una propria autonomia), ha portato a limitare molto la possibilità di indirizzo delle istituzioni comunitarie verso una politica comune. Il terzo pilastro è quello della cosiddetta cooperazione intergovernativa, ed è caratterizzato, semplificando, dall’esistenza di un paralizzante diritto di veto in capo al singolo Stato, da scarsa trasparenza dei processi decisionali (scarso coinvolgimento del Parlamento europeo), dal carattere prevalentemente non vincolante delle decisioni assunte (la cosiddetta soft-law). Il primo pilastro è invece quello delle competenze comunitarie, e corrisponde a processi decisionali meno ingessati (maggioranza qualificata) e più trasparenti (meccanismo di codecisione Consiglio-Parlamento), a un ruolo propositivo più rilevante della Commissione, a un carattere vincolante delle decisioni assunte, a un controllo da parte della Corte di giustizia sull’applicazione e sull’interpretazione di tali decisioni. Un passaggio di questo genere comporterà quindi il trasferimento di una buona parte delle competenze in materia di immigrazione e asilo dallo Stato all’Unione europea.

Il processo di trasferimento prevede una prima fase - della durata di cinque anni - nella quale le decisioni eventualmente assunte avranno sì carattere vincolante, ma continuerà a valere il criterio dell’unanimità (e quindi il diritto di veto). Successivamente tale criterio lascerà il posto a quello della maggioranza qualificata. Ci si potrebbe quindi attendere che, sul piano formale, il quadro normativo di riferimento non sarà significativamente modificato nei prossimi cinque anni e che, nel bene o nel male, il trasferimento di competenze non sarà in ogni caso materia di cui occuparsi nell’immediato, soprattutto quando incomberanno le urgenze quotidiane di soccorso e assistenza a immigrati, rifugiati e profughi. È possibile evincere di quali basi si tratti esaminando i contenuti della soft-law (risoluzioni, raccomandazioni, posizioni comuni, etc., del Consiglio europeo) e delle proposte attualmente all’esame delle Istituzioni. Vi sono una serie di principali punti critici che da questi documenti emergono. Fino ad oggi, la soft-law europea ha riguardato principalmente il problema del controllo delle frontiere (per la difesa dall’immigrazione illegale) e quello delle espulsioni. Un’enfasi particolare è data anche, a livello di dichiarazione di intenti, alla necessità di favorire i processi di integrazione degli immigrati legalmente residenti. In mancanza della definizione dei criteri di ammissione degli immigrati, si tratta quindi di una politica attenta agli immigrati (ossia coloro che già sono sul suolo europeo) piuttosto che ai migranti (coloro che stanno giungendo). Per dire la verità, una buona dose di attenzione è stata prestata, di recente, al problema dei criteri di ammissione. La proposta relativa a una convenzione sulle norme di ammissione, presentata al Consiglio dalla Commissione il 30/7/97, presenta infatti un quadro dettagliato di tali norme. Si tratta, tuttavia, così come è emerso dall’ultimo seminario in materia[51] tenutosi a Cecina, di un’attenzione capace di far rimpiangere il precedente disinteresse. Questi sono alcuni degli elementi più censurabili:

a) L’ingresso per lavoro subordinato è consentito solo allo straniero chiamato da un datore di lavoro, con un contratto di durata non inferiore ad un anno, per una posizione lavorativa per la quale sia stata accertata l’indisponibilità, nel territorio dello Stato membro, di lavoratori comunitari o stranieri regolarmente soggiornanti per lavoro, nonché quella, nel territorio dell’Unione europea, di stranieri soggiornanti a titolo duraturo. Anche il rinnovo del permesso è condizionato all’esistenza di un contratto di lavoro e all’accertamento d’indisponibilità. Queste disposizioni costituiscono un distillato della poco funzionante applicazione che è stata data, dal 1987 ad oggi, alla legislazione italiana in materia e che, ostacolando oltre misura l’incontro diretto tra domanda e offerta di lavoro, ha reso indispensabili, tre imponenti sanatorie.

b) È consentito l’ingresso per lavoro stagionale, a condizioni analoghe - durata del contratto a parte - a quelle appena riportate, ma senza alcuna possibilità di stabilizzare la condizione di soggiorno in presenza di un’opportunità di lavoro con contratto a lungo termine.

c) L’ingresso per lavoro autonomo è consentito allo straniero che abbia mezzi sufficienti per intraprendere l’attività prescelta (e fin qui niente di male), ma solo a condizione che tale attività possa avere, si badi bene, effetti positivi sull’occupazione. Il rinnovo del permesso è condizionato all’effettiva occorrenza di tali effetti. L’attività presa in considerazione è quindi solo quella imprenditoriale di livello medio alto. Niente è previsto esplicitamente per la prestazione di servizi, essendo rinviata ad un successivo accordo tra le Parti contraenti la disciplina di questa particolare attività.

d) Gli studenti possono sì svolgere modeste attività lavorative che non intralcino il corso di studi, ma non hanno alcuna possibilità di convertire, al termine del corso, il permesso di soggiorno in un permesso per lavoro; né l’hanno gli stranieri ammessi per svolgere un tirocinio.

e) Salvo limitate eccezioni (da lavoro autonomo a lavoro subordinato e viceversa, e in caso di scioglimento del vincolo familiare che aveva motivato il rilascio di un permesso per motivi familiari), non è consentita la conversione dei permessi di soggiorno. Il permesso è poi revocato in caso di assenza dallo Stato ospitante di durata superiore a un trimestre per anno e, per pervenire all’equivalente di una carta di soggiorno (di durata non inferiore a dieci anni), lo straniero deve maturare un periodo di soggiorno regolare di durata compresa tra i cinque e i nove anni, a seconda del tipo di permesso posseduto.

Questi elementi risentono di un’impostazione di tipo protezionistico che può essere così schematizzata: il valore primario da difendere è la condizione del lavoratore nazionale. È evidente che una protezione dello Stato a favore dei lavoratori tutti, in un regime di libera concorrenza, si renda non solo auspicabile ma anche necessaria, tuttavia non si vede perché si debba interpretare tutto ciò vietando una leale concorrenza. Una reale protezione del lavoratore sarebbe comunque garantita da un controllo effettivo e reale affinché siano rispettate tutte le protezioni sociali previste[52], così che non vi possa essere nessuno che lavori al di sotto degli standard per legge fissati. Se davvero la concorrenza tra lavoratore immigrato e lavoratore nazionale fosse priva di vizi[53], non vi sarebbe più la necessità di impedire l’ingresso di immigrati a scopo lavorativo, sarebbero essi stessi che, qualora costatassero l’impossibilità di trovare occupazione, deciderebbero di cercarla altrove. Ben diversa è la situazione che si presenta ai nostri occhi in questo momento e quella che si prospetta per il futuro, infatti, al lavoratore straniero è richiesto di dimostrare costantemente di non essere un potenziale concorrente del disoccupato nazionale. La cosa è paradossale, dal momento che la vera causa del disagio del disoccupato nazionale risiede proprio nel fatto che a lui, in primo luogo, è impedito di entrare in concorrenza con il lavoratore immigrato[54].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paragrafo 3

 

 

 

PIANO D’AZIONE DEL CONSIGLIO E DELLA COMMISSIONE SUL MODO MIGLIORE PER ATTUARE AMSTERDAM

 

 

 

Il compito di preparare un piano d’azione “che indichi il miglior modo per attuare le disposizioni del trattato di Amsterdam concernenti uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, è stato attribuito alla Commissione ed al Consiglio, durante il Consiglio Europeo di Cardiff; la sede designata per la presentazione del piano è stata il Consiglio europeo di Vienna. I Capi di Stato e di Governo hanno riaffermato, a Pörtschach, l’importanza che annettono a questo tema, ed hanno lì deciso di tenere un Consiglio europeo speciale a Tampere nell’ottobre 1999.

Come abbiamo già avuto modo di costatare, il trattato di Amsterdam prevede che i settori relativi ai visti, all’asilo, all’immigrazione e alle altre politiche concernenti la libera circolazione delle persone, passino dal terzo pilastro al primo pilastro dell’U.E. (benché non tutte le procedure del primo pilastro siano applicabili), mentre le disposizioni relative alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, inserite nel nuovo titolo VI del TUE, rimangono nel terzo pilastro dell’U.E.. Oltre a queste modifiche delle competenze, il trattato di Amsterdam contiene anche orientamenti per un’azione nei settori attualmente attribuiti al terzo pilastro.

Quando il Consiglio europeo di Cardiff ha dato mandato al Consiglio e alla Commissione di presentare il piano d’azione, ha indicato chiaramente che, a suo avviso, tali disposizioni avrebbero offerto nuove opportunità per affrontare una questione che preoccupa molto l’opinione pubblica e per avvicinare quindi l’Unione europea ai cittadini. Senza sottovalutare quanto già conseguito in questo settore nel quadro del trattato CE, delle disposizioni del titolo VI del trattato di Maastricht e nell’ambito di Schengen, vale la pena ricordare i motivi per cui le nuove disposizioni adottate ad Amsterdam offrono maggiori possibilità. In primo luogo, esse ribadiscono l’obiettivo del mantenimento e dello sviluppo dell’Unione in quanto spazio di libertà, sicurezza e giustizia precisandone i diversi aspetti. In secondo luogo, esse dotano l’Unione del quadro necessario per realizzare tale obiettivo, rafforzano gli strumenti necessari e contemporaneamente, grazie al potenziamento del ruolo della Corte di giustizia europea e del Parlamento europeo, li sottopongono a un controllo democratico e giurisdizionale più rigoroso. Il metodo comunitario viene esteso sia attraverso la comunitarizzazione di vari settori dell’attuale “terzo pilastro”, sia con la soppressione delle restrizioni che si era soliti applicare alle istituzioni comunitarie nei settori della cooperazione di polizia e della cooperazione giudiziaria in materia penale. È stato reso più semplice l’accesso al bilancio comunitario. Infine l’integrazione di Schengen riconosce gli sforzi degli Stati membri, che si sono impegnati in tale collaborazione e fornisce all’Unione una base per ulteriori sviluppi.

Nell’elaborare il piano loro richiesto, il Consiglio e la Commissione sono partiti dall’idea che, uno dei fattori determinanti per la sua riuscita, sarebbe consistito nel far sì che lo spirito di cooperazione inter-istituzionale insito nel trattato di Amsterdam fosse tradotto in atto. Ciò soprattutto per le nuove responsabilità, incluso il più ampio diritto di iniziativa, che il trattato di Amsterdam conferisce alla Commissione. Ciò che conta, non è tanto dove si trovi il diritto di iniziativa, sia esso condiviso o esclusivo, quanto il modo in cui tale diritto viene esercitato. In ogni caso, il trattato prevede che per i cinque anni fissati per la piena realizzazione della libera circolazione delle persone, il diritto di iniziativa sarà condiviso da Commissione e Stati membri per le materie trasferite al quadro comunitario.

Anche se un piano d’azione, comunque sia elaborato, deve necessariamente, in termini concreti, rispecchiare le priorità e il calendario stabiliti nello stesso trattato di Amsterdam, esso deve altresì rispecchiare l’approccio e la concezione generali insiti nel concetto di “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”. Queste tre nozioni sono strettamente interconnesse. La libertà perde molto del suo significato se non la si può godere in un ambiente sicuro, pienamente sostenuti da un sistema giudiziario che riscuota la fiducia dei cittadini dell’Unione e delle persone che vi risiedono.

Queste tre nozioni indissociabili hanno un denominatore comune - i cittadini – e, ognuna di esse, non può essere pienamente realizzata senza le altre due. Il mantenimento del giusto equilibrio tra le stesse deve essere il filo conduttore dell’azione dell’Unione. Va rilevato in questo contesto che il trattato che istituisce le Comunità europee (articolo 61, ex articolo 73 I, lettera a), stabilisce un rapporto diretto tra le misure relative alla libertà di movimento delle persone e quelle specifiche per combattere e prevenire la criminalità (articolo 31, lettera e, del TUE) creando così un rapporto condizionale tra i due settori.

La libertà intesa come libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione europea resta un obiettivo fondamentale del trattato, e ad esso devono dare un contributo fondamentale le misure di accompagnamento collegate ai concetti di sicurezza e giustizia. Il risultato di Schengen ha indicato la via da seguire e fornisce la base da cui partire, tuttavia il trattato di Amsterdam consente anche di dare al termine “libertà” un significato che va oltre la libera circolazione delle persone attraverso le frontiere interne. È anche la “libertà” di vivere in un contesto di legalità, consapevoli che le autorità pubbliche utilizzano tutti i mezzi in loro potere, separatamente o insieme (a livello nazionale, dell’Unione e oltre) per combattere e limitare l’azione di chi cerca di negare tale libertà o abusarne. Il concetto di libertà deve, tuttavia, anche essere integrato dalla totalità dei diritti fondamentali dell’uomo, inclusa la protezione da qualsiasi forma di discriminazione, come previsto dagli articoli 12 e 13 del TCE e dall’articolo 6 del TUE.

Se si esaminano le future priorità, occorre fare considerazioni diverse per la politica di immigrazione, da un lato, e la politica di asilo, dall’altro. I futuri lavori in questi settori saranno sostanzialmente determinati dal fatto che lo stesso nuovo trattato prevede l’obbligo di adottare entro cinque anni provvedimenti in un vasto numero di settori connessi con l’immigrazione e l’asilo, riguardanti sia il merito sia la procedura. Un’imponente mole di lavoro è già stata svolta, tuttavia gli strumenti finora adottati sono spesso carenti sotto due aspetti: sono sovente basati su una “legislazione debole”, quali risoluzioni o raccomandazioni che non hanno effetti giuridicamente vincolanti e non prevedono meccanismi di controllo adeguati. L’impegno contenuto nel trattato di Amsterdam di usare in futuro gli strumenti comunitari consente di colmare se del caso tali carenze. Va accordata particolare priorità all’obiettivo, da un lato, di combattere l’immigrazione illegale e, dall’altro, di garantire l’integrazione e i diritti dei cittadini di paesi terzi presenti legalmente nell’Unione, nonché la necessaria protezione di quelli che ne hanno bisogno, anche se non soddisfano pienamente i criteri fissati dalla convenzione di Ginevra.

I progressi introdotti dal trattato di Amsterdam potenzieranno altresì il ruolo dell’Unione quale protagonista e partner a livello internazionale, sia sul piano bilaterale sia negli organismi multilaterali. Ne consegue che, anche in base al dialogo già avviato con un numero crescente di paesi terzi e organizzazioni e organismi internazionali (ad es. Interpol, UNHCR, Consiglio d’Europa, G8 e OCSE) nell’ambito della cooperazione in materia di giustizia e affari interni, quest’aspetto esterno dell’azione dell’Unione assumerà prevedibilmente una nuova e più impegnativa dimensione. Sarà necessario sfruttare appieno i nuovi strumenti disponibili a norma del trattato. In particolare il trasferimento a livello comunitario delle questioni relative all’asilo, all’immigrazione e alla cooperazione giudiziaria in materia civile consentirà alla Comunità - entro i limiti consentiti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea riguardante la competenza esterna della Comunità - di esercitare la sua influenza a livello internazionale in questi settori. Per quanto riguarda le materie che rimarranno nel campo d’applicazione del titolo VI del TUE, l’Unione può anche avvalersi della facoltà del Consiglio di concludere accordi internazionali nelle questioni inerenti al titolo VI del trattato, nonché della facoltà della Presidenza, assistita dal Segretario Generale del Consiglio e in piena associazione con la Commissione, di rappresentare l’Unione in questi settori.

Le nuove disposizioni del trattato di Amsterdam, nonché del protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea, che presentano marcatamente la caratteristica di abbracciare più pilastri, dovranno riflettersi anche nelle strutture di lavoro del Consiglio. Non era chiaramente intenzione del trattato stabilire più modi in cui i diversi elementi di questo spazio di libertà, sicurezza e giustizia sono trattati dalle strutture della Comunità europea da un lato, e dell’Unione europea dall’altro. In particolare poiché in entrambi i casi la responsabilità del conseguimento dell’obiettivo spetta, indipendentemente dal fatto che si tratti di una competenza del primo o terzo pilastro, al Consiglio nella sua composizione dei Ministri della Giustizia e degli Affari interni. Sarà pertanto essenziale stabilire prima dell’entrata in vigore del trattato di Amsterdam accordi adeguati a tale scopo che rispettino le disposizioni del trattato e facilitino nello stesso tempo il ruolo di coordinamento del Comitato dei Rappresentanti Permanenti. I lavori sulle necessarie disposizioni di carattere strutturale, comprese le riflessioni sulla necessità di un ulteriore coordinamento nei settori della migrazione e dell’asilo nonché del diritto civile da parte di comitati composti di funzionari ad alto livello, sono già in corso nell’ambito del Comitato K4, sulla base dell’articolo K4, paragrafo 1 del TUE. Tale riforma delle strutture di lavoro dovrebbe basarsi sui principi seguenti: razionalizzazione e semplificazione (un numero appropriato di gruppi che perseguano gli obiettivi stabiliti dal trattato, senza doppioni); specializzazione e responsabilità (gruppi composti di esperti aventi un livello di responsabilità sufficiente nel loro Stato, posto adeguato riservato alle strutture operative –Europol-, rete giudiziaria europea); continuità (permanenza dei gruppi che perseguono obiettivi permanenti del trattato, meccanismo di controllo dell’insieme degli strumenti adottati); trasparenza (chiarezza dei mandati e delle relazioni tra i gruppi) e flessibilità (possibilità di adattare le strutture a brevissimo termine per far fronte a problematiche nuove che richiedano un trattamento specifico urgente).

L’obiettivo del Trattato consiste nell’avviare nei prossimi cinque anni lo Spazio di libertà. Di conseguenza il piano della Commissione e del Consiglio per garantire a tutti i cittadini, una maggiore sicurezza, prevede l’elaborazione di misure d’accompagnamento, in particolare nei settori dei controlli alle frontiere esterne e della lotta contro l’immigrazione clandestina, tenendo comunque pienamente conto dei principi enunciati dagli articoli 6 del TUE nonché 12 e 13 del TCE. L’UNHCR sarà consultato, se necessario, in materia d’asilo. Le misure che saranno elaborate dovranno tenere debitamente conto, del fatto che i settori dell’asilo e dell’immigrazione sono distinti e richiedono impostazioni e soluzioni distinte.

Sarebbe opportuno elaborare una strategia globale in materia di migrazione, nell’ambito della quale svolga un ruolo di primo piano un sistema di solidarietà europea. A tal fine, le esperienze acquisite e i progressi compiuti, tramite la cooperazione in ambito Schengen, dovrebbero risultare particolarmente pertinenti per quanto riguarda il soggiorno per periodi brevi (fino a tre mesi), la lotta contro l’immigrazione clandestina nonché i controlli alle frontiere esterne.

Secondo il piano, una priorità generale dovrebbe essere costituita dal rafforzamento dello scambio di statistiche e informazioni in materia d’asilo e immigrazione. Questo scambio dovrebbe riguardare statistiche sull’asilo e l’immigrazione, informazioni sullo status dei cittadini di paesi terzi e sulla legislazione e politica nazionale, sulla base del piano d’azione della Commissione. Per completare l’area della libera circolazione, è fondamentale un’estensione rapida e completa dei principi della libera circolazione delle persone, in conformità del protocollo relativo all’integrazione dell’“acquis” di Schengen nell’ambito dell’Unione europea.

Il piano prevede una serie di misure, considerate più urgenti e di facile applicazione, da adottare entro due anni dall’entrata in vigore del Trattato. Innanzi tutto si stabilisce la necessità di cooperare al fine di ottenere una valutazione specifica dei paesi d’origine dei lavoratori migranti, in modo da potere elaborare un’impostazione integrata specifica per i singoli paesi. Questo è un provvedimento, a suo modo innovativo, che potrà essere utile tanto nell’affrontare la problematica dell’asilo, quanto quella dell’immigrazione per motivi lavorativi. Per quel che riguarda più specificatamente il settore dell’asilo politico[55], il primo riferimento viene evidentemente fatto alla Convenzione di Dublino, prevedendo una prosecuzione dell’esame dei criteri e delle condizioni per migliorare l’attuazione della Convenzione dell’eventuale trasferimento della base giuridica verso il sistema di Amsterdam (articolo 63, punto 1, lettera a) del TCE. Dovrà essere intrapreso uno studio volto a stabilire, in quale misura il meccanismo debba essere completato, tra l’altro, da disposizioni che consentano di attribuire ad un unico Stato membro la responsabilità del trattamento dei membri di una stessa famiglia quando l’applicazione dei criteri di competenza l’attribuisce a più Stati e di regolamentare in modo soddisfacente la questione della protezione, nel caso in cui un rifugiato cambi paese di residenza. A seguito dell’attuazione del sistema Eurodac, si prevede l’adozione di norme minime sulle procedure applicabili negli Stati membri per la concessione o la revoca dello status di rifugiato (articolo 63, punto 1, lettera d) del TCE) al fine, tra l’altro, di ridurre la durata delle procedure d’asilo. In questo contesto occorre prestare particolare attenzione alla situazione dei bambini, limitare i “movimenti secondari” dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, ma soprattutto, intraprendere uno studio al fine di stabilire il valore di un’unica procedura europea in materia di asilo.

Più specificatamente nel settore dell’immigrazione dei lavoratori migranti dei paesi terzi, si prevede l’istituzione di una coerente politica dell’U.E. in materia di riammissione e rimpatrio. La politica comune deve prevedere anche un’importante campagna d’informazione nei paesi di transito ed in quelli d’origine, un provvedimento questo che ha suscitato diverse reazioni. Da un lato, infatti, si sostiene che la diffusione dei mezzi di comunicazione, in particolar modo televisivi, in paesi sottosviluppati, ha di fatto creato una sorta di propaganda involontaria all’immigrazione. La diffusione di immagini televisive che ritraggono l’opulenza dei paesi OCSE in Stati che conoscono solo la miseria, è stata sicuramente un forte incentivo ad abbandonare il proprio paese d’origine alla ricerca di una condizione di vita migliore. Si pensi a quale effetto deflagrante hanno le immagini della nostra televisione in paesi come la Somalia, l’Etiopia, e gli altri Stati dell’Africa nera.  Proprio per questo motivo, si ritiene che vi sia la necessità di portare una corretta campagna informativa, indicando, oltre ai vantaggi ottenuti dai migranti regolari, la condizione di disperazione raggiunta dalla maggior parte di quelli irregolari. Un’altra parte degli esperti sostengono invece che il contributo che i mezzi di informazione danno alla pratica migratoria è solo marginale, a spingere più di tutto un lavoratore extracomunitario ad entrare con qualunque mezzo nel territorio dell’Unione, è principalmente la povertà e la mancanza di possibilità che lo circonda. Questa parte della dottrina ritiene quindi che, televisione o meno, la volontà di migrare è data dall’impossibilità di vivere dignitosamente nella propria terra. Nessuno, extracomunitario o meno, lascia il proprio paese piacevolmente. La migrazione comporta un sacrificio, dettato dall’abbandono dei propri affetti, e non possono essere soltanto delle immagini stampate o televisive a giustificarlo.

Per quanto riguarda la materia delle frontiere esterne, il piano prevede una procedura e delle condizioni comuni per il rilascio di visti da parte degli Stati membri (risorse, garanzie di rimpatrio o copertura di incidenti e malattia), nonché elaborazione di un elenco comune di paesi soggetti all’obbligo del visto di transito aeroportuale (soppressione dell’attuale “lista grigia”). Ritiene necessario definire le norme relative a un visto uniforme (articolo 62, punto iv) del TCE) ed elaborare un regolamento relativo, sia ai paesi i cui cittadini sono esenti dall’obbligo del visto negli Stati membri dell’Unione europea, sia ai cittadini cui è imposto l’obbligo del visto negli Stati membri dell’Unione europea (articolo 62, punto 2, lettera b), punto i) del TCE). La Commissione ed il Consiglio inoltre si auspicano un’armonizzazione ulteriore delle normative degli Stati membri in materia di responsabilità dei vettori, una categoria che dovrà essere particolarmente colpita nei prossimi anni, nel principio della lotta all’immigrazione clandestina di lavoratori.

Il piano prevede anche delle misure da adottare al più presto a norma delle disposizioni del trattato di Amsterdam, tra queste di particolare importanza sono le norme minime per assicurare protezione temporanea agli sfollati di paesi terzi che non possono ritornare nel paese di origine (articolo 63, punto 2, lettera a) del TCE.

Una serie di misure, per scelta politica o per impossibilità di riduzione dei termini, sono da adottare (secondo il piano) entro cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato. Quelle che qui interessano, sono le misure relative al settore dell’immigrazione:

1.    Migliorare le possibilità di allontanare le persone alle quali non è stato concesso il diritto di soggiorno, mediante un miglior coordinamento, nell’attuazione delle clausole di riammissione e lo sviluppo di relazioni ufficiali europee (delle Ambasciate), sulla situazione nei paesi d’origine.

2.    Elaborare una normativa per le condizioni di ingresso e soggiorno e norme sulle procedure per il rilascio da parte degli Stati membri di visti a lungo termine e di titoli di soggiorno, compresi quelli rilasciati a scopo di ricongiungimento familiare (articolo 63, punto 3, lettera a) del TCE).

3.    Definire con quali diritti e a quali condizioni i cittadini di paesi terzi che soggiornano legalmente in uno Stato membro possono soggiornare in altri Stati membri (articolo 63, punto 4 del TCE).

Il piano prevede che, nell’ambito degli organi competenti del Consiglio si potrebbe discutere, tenendo conto delle conseguenze sul piano dell’equilibrio sociale e dell’equilibrio del mercato del lavoro, sui presupposti in base ai quali, al pari dei cittadini della Comunità e dei loro familiari, i cittadini di paesi terzi possano insediarsi e lavorare in qualsiasi Stato membro dell’Unione.

Il piano d’azione elaborato dal Consiglio e della Commissione, tocca diversi aspetti dell’immigrazione, tanto di quella regolare, quanto di quella irregolare. Di fatto, l’Europa, già prima dell’approvazione del Trattato di Amsterdam, aveva preso coscienza dell’importanza della materia migratoria, in particolare per quel che riguarda il mercato del lavoro, ma è solo con l’approvazione di questo Trattato che tenta di dotarsi degli strumenti necessari a fronteggiare la situazione. Il cambio di prospettiva nell’analisi del problema è evidente, si è passati da una visione intergovernativa del problema, ad una comunitaria. Diversamente, d’altro canto non poteva essere. Non credendo ad un improvviso convincimento di tutti gli Stati membri della necessità di affidare agli organi europei la risoluzione del problema immigrazione, soltanto per dare maggiore vigore ed importanza all’Europa, sono più propenso a credere che essi non avessero una valida alternativa. Affrontare il flusso sempre crescente di lavoratori extracomunitari da soli, significava in un modo o nell’altro intraprendere una corsa alla chiusura delle frontiere, infatti, il flusso si sarebbe inevitabilmente riversato in massa verso il paese che poneva meno ostacoli all’ingresso. Constatato che la chiusura delle frontiere, oltre ad essere dannosa per la quasi totalità dei paesi europei (almeno per quel che riguarda i mercati del lavoro), crea inevitabilmente immigrazione irregolare (assai poco gestibile per definizione), la soluzione non poteva che essere cercata in ambito comunitario. Di qui il passaggio della materia dal terzo al primo pilastro e la necessità di un piano d’azione, elaborato dalla Commissione e dal Consiglio, che basa la riuscita del Trattato e consequenzialmente della politica migratoria Europea su un efficace coordinamento delle politiche dei singoli Stati. Un coordinamento che, difficilmente si sarebbe potuto raggiungere mediante una lunga serie d’accordi bilaterali e che, per questo motivo, andava perseguito a livello comunitario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paragrafo 4

 

 

 

IL CONSIGLIO EUROPEO DI TAMPERE

 

 

 

Il 15 e 16 ottobre 1999, a Tampere, il Consiglio europeo ha tenuto una riunione straordinaria sulla creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nell’Unione europea. All’inizio dei lavori si è proceduto, con il Presidente del Parlamento europeo, sig.ra Nicole Fontaine, ad uno scambio d’opinioni sui principali temi di discussione.

Lo scopo del Consiglio, era quello di trasmettere un forte messaggio politico per riaffermare l’importanza degli obiettivi proposti ad Amsterdam, ma principalmente, si è convenuti su di una serie di priorità e orientamenti programmatici, per realizzare rapidamente lo spazio di libertà e sicurezza comune. Nel corso del Consiglio si sono esaminati puntualmente i progressi compiuti per attuare le misure necessarie e rispettare le scadenze fissate dal trattato di Amsterdam, dal piano d’azione di Vienna e dalle presenti conclusioni. Il Consiglio europeo ha rilevato l’importanza di assicurare la trasparenza necessaria e di informare periodicamente il Parlamento europeo, il quale terrà un dibattito approfondito per valutare lo stato di avanzamento nella riunione del dicembre 2001.

Su di un punto tutti i rappresentanti degli Stati membri sono stati concordi: gli aspetti separati, ma strettamente connessi, dell’asilo e della migrazione richiedono la definizione di una politica comune dell’U.E. che comprenda una serie di elementi fondamentali. Innanzi tutto il partenariato con i paesi d’origine, l’Unione europea ha bisogno di un approccio generale al fenomeno della migrazione che abbracci le questioni connesse alla politica, ai diritti umani e allo sviluppo dei paesi e delle regioni di origine e transito. Ciò significa che occorre combattere la povertà, migliorare le condizioni di vita e le opportunità di lavoro, prevenire i conflitti e stabilizzare gli Stati democratici, garantendo il rispetto dei diritti umani, in particolare quelli delle minoranze, delle donne e dei bambini. A tal fine, ha invitato l’Unione e gli Stati membri a contribuire, nelle rispettive sfere di competenza ai sensi dei trattati, ad una maggiore coerenza delle politiche interne ed esterne dell’Unione stessa. Un altro elemento fondamentale per il successo di queste politiche sarà il partenariato con i paesi terzi interessati, nella prospettiva di promuovere lo sviluppo comune. Un approccio generale e comprensivo dei diversi aspetti, era anche auspicato dalla Convenzione ONU 45/158, già trattata in questo capitolo, dalla quale presumibilmente si è preso spunto È dunque evidente che si è raggiunta la consapevolezza che non un solo provvedimento, ma una serie ben congegnata e da tutti applicata, potrà dare governabilità ad una situazione che, altrimenti, rischia di sfuggire di mano ai singoli Stati membri. In secondo luogo, a Tampere si è convenuto che sarà l’Unione europea a garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati membri. Una politica d’integrazione più incisiva, dovrebbe mirare a garantire loro diritti e obblighi, analoghi a quelli dei cittadini dell’U.E., essa dovrebbe inoltre rafforzare la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale e prevedere l’elaborazione di misure contro il razzismo e la xenofobia.

Muovendo dalla comunicazione della Commissione relativa al piano d’azione contro il razzismo, il Consiglio europeo ha chiesto un’intensificazione della lotta contro il razzismo e la xenofobia. Gli Stati membri si dovranno ispirare alle migliori prassi ed esperienze, dovrà essere ulteriormente potenziata la cooperazione con l’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia e con il Consiglio d’Europa, la Commissione è, inoltre, invitata a presentare quanto prima, proposte di applicazione dell’articolo 13 del trattato C.E. concernente la lotta al razzismo e alla xenofobia. Per combattere la discriminazione più in generale, gli Stati membri sono stati invitati a elaborare programmi nazionali. In questo campo tuttavia una strategia comune europea sarebbe a dir poco auspicabile, norme sulla non discriminazione dei lavoratori migranti adottate a livello Europeo, pur rimanendo in ogni caso norme di indirizzo politico, andrebbero oltre le singole realtà politiche nazionali. Una impersonalità che, se a livello economico può a volte apparire dannosa, a livello politico in questo caso sarebbe opportuna; una normativa europea contro il razzismo e la discriminazione che superi le singole realtà politiche nazionali, avrebbe il grande vantaggio di non essere soggetta alle necessità elettorali contingenti. L’impersonalità dell’istituzione europea, potrebbe in questo caso risultare vantaggiosa[56] per presentare provvedimenti che, in un paese governato dalla destra potrebbero venire considerati “politicamente dannosi” e in uno guidato dalla sinistra equi, o viceversa. Una legislazione europea in questo senso, pur rimanendo politica, avrebbe la possibilità di non tenere conto della tendenza dell’opinione pubblica in questo e quel paese, che invece tanto interessa ai singoli governi nazionali. Il Consiglio europeo, invece, ha riconosciuto la necessità di un ravvicinamento delle legislazioni nazionali relative alle condizioni di ammissione e soggiorno dei lavoratori dei paesi terzi, in base a una valutazione comune sia degli sviluppi economici e demografici all’interno dell’Unione sia della situazione nei paesi di origine. A tal fine, esso chiede al Consiglio decisioni rapide, sulla base di proposte della Commissione. Tali decisioni dovrebbero tenere conto non solo della capacità di accoglienza dei singoli Stati membri, ma anche dei loro legami storici e culturali con i paesi di origine. Un riavvicinamento di questo genere può essere considerato, oltre che necessario, anche utile se sarà poi utilizzato per giungere ad un’unica legge europea, allo stesso tempo elaborata ed imposta dall’Europa agli Stati membri.

 A Tampere, si è riconosciuto che occorre ravvicinare lo status giuridico dei cittadini (e quindi anche dei lavoratori) dei paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri. Alle persone che hanno soggiornato legalmente in uno Stato membro per un periodo di tempo da definire e che sono in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata, dovrebbe essere garantita una serie di diritti uniformi, il più possibile simili, a quelli di cui beneficiano i cittadini dell’U.E., ad esempio il diritto ad ottenere la residenza, ricevere un’istruzione, esercitare un’attività in qualità di lavoratore dipendente o autonomo. Il Consiglio europeo ha approvato l’obiettivo di offrire ai cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente in maniera prolungata l’opportunità di ottenere la cittadinanza dello Stato membro in cui risiedono.

Il Consiglio europeo ha inoltre rilevato la necessità di una gestione più efficace dei flussi migratori in tutte le fasi, in questo senso ha chiesto che siano sviluppate, in stretta cooperazione con i paesi d’origine e transito, campagne d’informazione sulle effettive possibilità d’immigrazione legale e che siano adottate misure per prevenire qualsiasi forma di tratta di esseri umani. Ha dunque posto l’attenzione sulla necessità di un’attenta campagna informativa non solo in Europa, ma soprattutto nei paesi di partenza; ha chiesto che sia ulteriormente sviluppata un’attiva politica comune in materia di visti e documenti falsi, la quale preveda anche una più stretta cooperazione fra i consolati dell’U.E. nei paesi terzi e, se necessario, la creazione di servizi comuni dell’U.E. preposti al rilascio dei visti. Collaborazione e informazione sembrano essere le strade scelte dall’Unione europea per tentare una gestione del fenomeno, tuttavia, gli Stati membri sono sempre sottoposti al ricatto dei paesi del terzo mondo che, per frenare l’emigrazione dalle loro terre (vuoi perché effettivamente ne necessitano, vuoi per alimentare dittature già opulente) chiedono in cambio soldi e costruzione di infrastrutture. È chiaro che costruire in loco ed avviare programmi a medio – lungo termine di cooperazione può essere, comunque, un tentativo valido per creare direttamente nei paesi di emigrazione le condizioni di un’esistenza civile. Sebbene l’esperienza passata ci ha insegnato che la cooperazione debba essere tenuta sotto strettissimo controllo, per evitare che si trasformi in un gigantesco affare per funzionari ed imprenditori senza scrupolo, non è detto per questo che vi si debba rinunciare. È da tenere a mente il monito di Davidson[57] il quale sostiene: «Non è più tempo di ipocrisie, è meglio lasciare in pace l’Africa, gli aiuti della cooperazione non servono a nulla. Il continente africano potrà risollevarsi solo se si scrollerà di dosso il pietismo interessato dei paesi ricchi. La cooperazione, gli aiuti economici, i contributi ai paesi africani sono una solenne menzogna dei paesi ricchi perché dagli anni ‘60 i paesi africani sono diventati nominalmente indipendenti ma il colonialismo continua tramite la Banca Mondiale: con la terribile strozzatura dei debiti, con la politica dei prezzi, con il controllo delle multinazionali, ecc. … Dal gennaio 1982 al dicembre 1990, il Terzo mondo ha versato all’Occidente, come interessi e ammortamento dei debiti, dodici miliardi e quattrocentocinquanta milioni di dollari. Sono questi dati OCSE e corrispondono a sei piani Marshall. … Non servono a nulla perché il 90% degli aiuti dei ricchi alimenta la classe dei paesi ipocritamente generosi, donatori solo perché l’elargizione degli aiuti torna a loro vantaggio: stipendi per funzionari, acquisti di materiali, mezzi di trasporto, ecc. Gli aiuti sono capitali reinvestiti nelle banche occidentali».

Senza voler giungere alle drastiche conclusioni di Davidson, rimane in ogni caso da stabilire come ed in che misura tale cooperazione dovrà prendere luogo, se sarà l’Europa o gli Stati singolarmente a farsene carico, chi controllerà la loro destinazione. Interrogativi ai quali, tuttavia, il Consiglio Europeo non ha dato risposta.

Durante il vertice di Tampere, il Consiglio si è dichiarato determinato ad affrontare alla radice l’immigrazione illegale, soprattutto contrastando coloro che si dedicano alla tratta di esseri umani e allo sfruttamento economico dei migranti. Esso chiede di adottare norme che prevedano sanzioni severe contro tale grave reato. Il Consiglio è stato invitato a adottare entro la fine del 2000, sulla base di una proposta della Commissione, una normativa a tal fine, in base ad essa gli Stati membri, congiuntamente all’Europol, dovrebbero adoperarsi ad individuare e smantellare le organizzazioni criminali coinvolte. Rivolgendosi direttamente agli Stati membri, ha chiesto una più stretta cooperazione e assistenza tecnica fra i servizi preposti al controllo delle frontiere, per esempio mediante programmi di scambio e trasferimenti di tecnologia, in particolare alle frontiere marittime, e la rapida integrazione degli Stati candidati in tale cooperazione. In tale contesto il Consiglio ha espresso soddisfazione per il memorandum d’intesa tra l’Italia e la Grecia che prevede di rafforzare la cooperazione tra i due paesi nel Mare Adriatico e nello Ionio per quanto riguarda la lotta alla criminalità organizzata, al contrabbando e alla tratta di essere umani.

In seguito all’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione, i paesi candidati devono accettare appieno il medesimo e le ulteriori misure fondate su di esso. Il Consiglio europeo ha ulteriormente sottolineato l’importanza di controlli efficaci alle future frontiere esterne dell’Unione da parte di professionisti qualificati e specializzati. Ha inoltre chiesto di sviluppare l’assistenza ai paesi di origine e transito, al fine di promuovere il rientro volontario e di aiutare le autorità di tali paesi a rafforzare la loro capacità di combattere efficacemente la tratta degli esseri umani e di adempiere i loro obblighi di riammissione nei confronti dell’Unione e degli Stati membri. Il trattato di Amsterdam ha conferito alla Comunità competenze nel settore della riammissione, il vertice europeo ha invitato il Consiglio a concludere accordi di riammissione o a includere clausole tipo in altri accordi fra la Comunità europea e i paesi terzi o gruppi di paesi pertinenti.

Quanto venuto fuori dal vertice è tutto sommato quanto ci si attendeva, una serie di indirizzi da seguire per dare piena applicazione al trattato di Amsterdam. Sebbene la politica europea appaia, anche al termine del Consiglio europeo di Tampere, ancora lacunosa e poco coraggiosa, non mi sembra sia il caso di usare l’appellativo “la fortezza Europa” per definire il nostro continente, se non altro perché ancora sono in discussione le modalità con cui dare vita a questa politica.

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

Capitolo III

 

 

 

 

 

La legislazione comunitaria in vigore

 


 

 

 

 

 

 

 

 

Paragrafo 1

 

 

 

L’AZIONE DEL CONSIGLIO PER LA CREAZIONE DI UN PROGRAMMA D’AZIONE A FAVORE DEI LAVORATORI MIGRANTI DEI PAESI TERZI

 

 

 

La legislazione comunitaria in materia di lavoratori migranti di paesi terzi presenta più di una mancanza, ma prima fra tutte quella di essere esclusivamente composta di soft-law (risoluzioni, decisioni, direttive), evitando quindi di imporsi in maniera efficace nella scelta dell’indirizzo da prendere. L’art.189 del Trattato CEE prevede che i regolamenti comunitari siano «direttamente applicabili» in ciascuno degli Stati membri e, per quel che riguarda l’Italia, la Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza del 27 dicembre 1973, n° 183 a proposito della sua legittimità costituzionale:

«Con l’art.189 del Trattato CEE è stato attribuito al Consiglio ed alla Commissione della Comunità, il potere di emanare (…) atti aventi contenuto normativo generale al pari delle leggi statali, forniti di efficacia obbligatoria in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri, cioè immediatamente vincolanti per gli Stati e per i loro cittadini, senza la necessità di norme interne di adattamento e di ricezione».

La corte ha quindi precisato che:

«i regolamenti comunitari non debbono essere oggetto di provvedimenti statali di carattere riproduttivo, integrativo o esecutivo, che possono comunque differirne o condizionarne l’entrata in vigore e tanto meno sostituirsi ad essi, derogarvi o abrogarli, anche parzialmente».

Il fatto che l’Europa, pur avendo gli strumenti per imporsi, abbia preferito optare per una linea d’auspici e consigli, anziché di atti vincolanti, lo si deve ad una cultura europea ancora troppo poco sviluppata e da più parti osteggiata. Utilizzando tale metodologia di intervento, da un lato si indica in linea di principio (nella maniera più generica possibile) qual è l’orientamento da intraprendere, dall’altra, di fatto, si lascia la piena discrezionalità sull’interpretazione di tali linee guida e sui metodi da utilizzare per applicarle. Il fatto che ogni Stato abbia potuto applicare diverse tipologie di politiche migratorie nel corso degli anni, oggi diviene un ostacolo molto difficile da superare nel lavoro d’armonizzazione che si sta cercando di intraprendere, un ostacolo impossibile se si tenta di superarlo con provvedimenti di soft-law.

La testimonianza che la problematica dei lavoratori migranti dei paesi terzi sia di vecchia data, sta nei diversi provvedimenti che, sin dai primi anni di vita delle Comunità, hanno tentato di darvi soluzione. La risoluzione del Consiglio del 9 febbraio 1976, relativa “ad un programma d’azione a favore dei lavoratori migranti e dei loro familiari”, ne è una testimonianza, inoltre, essa fa riferimento ad una risoluzione del Consiglio del 21 gennaio 1974, relativa ad un programma d’azione sociale a favore dei lavoratori migranti e dei loro familiari. Tale programma prevedeva la possibilità per i lavoratori cittadini degli Stati membri di trovare un’occupazione nella propria regione, ma sosteneva anche che, in attesa che le regioni d’origine dei lavoratori migranti si sviluppassero economicamente e socialmente, fosse necessario migliorare le condizioni della libera circolazione di questi lavoratori e dei loro familiari e cercare soluzioni adeguate per eliminare progressivamente le limitazioni ingiustificate dei loro diritti che potessero sussistere nella regolamentazione comunitaria in vigore. Tutto ciò chiaramente si rifaceva al progetto economico della Comunità che, ove privato di uno dei suoi elementi fondamentali, ossia la libera circolazione del fattore lavoro, avrebbe visto cedere l’intera struttura del suo impianto. Tuttavia la parte che qui maggiormente interessa, è senza dubbio quella che riguarda direttamente i lavoratori migranti dei paesi terzi, citata tra gli obiettivi di detta risoluzione:

«…considerando che è inoltre necessario migliorare la situazione dei lavoratori cittadini degli Stati terzi e dei loro familiari ammessi negli Stati membri perseguendo la realizzazione della parità di trattamento con i lavoratori cittadini degli Stati membri e dei loro familiari per quanto riguarda le condizioni di vita e di lavoro, di salario e di diritti economici…».

Una dicitura questa che può assumere diverse interpretazioni a seconda dell’angolo di prospettiva dalla quale la si interpreta, ma alla quale, sicuramente, non si può negare l’espressa volontà nella parità di trattamento dei lavoratori migranti dei paesi terzi con i cittadini degli Stati membri riguardo agli elementi sopra descritti. Si tratta di una risoluzione del 1976, ancora oggi in vigore[58], che tuttavia scarsi riscontri ha trovato tanto nelle politiche nazionali, quanto in quella europea degli anni a venire. Si pensi alla clausola della preferenza nazionale che molti Stati hanno adottato nel corso di questi anni[59], la quale, di fatto, ha relegato i lavoratori migranti dei paesi terzi in alcune tipologie di vita e di impiego, che nulla hanno a che vedere con la parità di trattamento citata in questa risoluzione. Questa è solo una delle contraddizioni esistenti, si pensi all’evidente contrapposizione di questo provvedimento con la risoluzione del Consiglio del 20 giugno 1994[60], la quale prevede limitazioni all’ammissione dei cittadini extracomunitari nel territorio degli Stati membri a fine di occupazione. I buoni propositi della risoluzione del 9 febbraio 1976 sono, per lo più, rimasti tali, senza mai prendere la connotazione di atti veri e propri, anzi, in più di un’occasione, sono anche stati contraddetti da atti successivi. La risoluzione del Consiglio del 27 giugno 1980, relativa agli orientamenti per una politica comunitaria del mercato del lavoro, contiene la seguente dicitura:

«L’integrazione del mercato del lavoro comunitario deve essere fornita nel quadro della libera circolazione della manodopera nella Comunità, in particolare mediante l’effettiva realizzazione del SEDOC[61], tenuto conto della priorità all’occupazione da accordare ai lavoratori cittadini degli Stati membri della Comunità e della necessità di contenere i flussi di manodopera provenienti da paesi terzi…».

Non c’è dunque da stupirsi se nelle legislazioni nazionali degli Stati appartenenti alla Comunità Europea, si riscontrano orientamenti politici riguardo alle misure da prendere sui lavoratori migranti dei paesi terzi, del tutto discordanti. La risoluzione del 9 febbraio 1976[62] e quella del 27 giugno 1980[63], fanno entrambe parte della legislazione comunitaria in vigore, pur dichiarando l’una la parità di trattamento, l’altra il principio della preferenza per i lavoratori comunitari.

Nella risoluzione del febbraio 1976 viene ribadita, inoltre, la necessità di prendere in considerazione la possibilità di provvedimenti che tengano conto delle situazioni esistenti in ogni Stato membro e, in particolare, della diversa consistenza e delle diverse caratteristiche dei movimenti migratori, nonché dell’entità e della densità delle popolazioni immigrate. È facilmente comprensibile come la situazione migratoria spagnola, non possa essere equiparata a quella tedesca. In Spagna, infatti, la vicinanza con il Marocco favorirà una tipologia d’immigrazione temporanea, difficilmente un lavoratore migrante che proviene dall’area Maghrebina si fermerà per un periodo di tempo prolungato. In Germania al contrario, esistendo già diverse comunità sul territorio, prima fra tutti quella d’area turca, la migrazione di lavoratori tenderà a trasformarsi da temporanea a definitiva. Non è pensabile dunque poter affrontare due realtà così diverse con un provvedimento unico, si possono invece avere provvedimenti diversi ed un unico scopo.

Nell’ultima parte della risoluzione, precisamente al punto 2 c), l’argomento lavoratori migranti dei paesi terzi viene così affrontato:

«…promuovere la realizzazione delle parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di vita e di lavoro, di salario e di diritti economici a favore dei lavoratori cittadini di Stati terzi e dei loro familiari che risiedono legalmente negli Stati membri».

Al punto 5 punti a) - b) sostiene:

«…intraprendere una concertazione appropriata delle politiche di migrazione nei confronti di Stati terzi; intensificare la collaborazione tra gli Stati membri nella lotta contro l’immigrazione clandestina dei lavoratori cittadini degli Stati terzi e fare in modo che siano previste adeguate sanzioni per reprimere il traffico e gli abusi connessi con l’immigrazione clandestina e che siano adempiuti gli obblighi dei datori di lavoro e salvaguardati i diritti dei lavoratori inerenti al lavoro svolto, senza pregiudicare le altre conseguenze da trarre dall’illiceità del loro soggiorno di lavoro».

Due passaggi che se potevano avere un senso nel 1976, quando ancora si stavano indicando le linee guida di una politica migratoria europea, divengono parole inutili oggi, quando le si sentono pronunciate nei discorsi ufficiali di Bruxelles. Le linee guida che l’Europa ha scelto dovrebbero essere, a parte alcune eccezioni, ormai ben chiare (accoglienza, parità di trattamento con i lavoratori migranti dei paesi terzi giunti regolarmente, dura lotta all’immigrazione clandestina, protezione sociale verso tutti i soggetti economici), ora servono provvedimenti europei vincolanti, previsti dall’art.189 del Trattato CEE, che diano maggiore incisività all’azione politica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paragrafo 2

 

 

 

Gli orientamenti per una politica comunitaria delle migrazioni

 

 

 

La risoluzione del Consiglio del 16 luglio 1985 sugli orientamenti per una politica comunitaria delle migrazioni, è il frutto di una consapevolezza che i paesi membri andavano via via sviluppando. Essi si rendono conto che la politica migratoria fino allora portata avanti, ha delle conseguenze inaspettate e indesiderate. I lavoratori che provengono da stati terzi, iniziano a prolungare i tempi di permanenza nel paese che li ospita e un numero sempre maggiore di comunità, decide di stabilirsi in maniera definitiva nello Stato che lo ospita. A questa consapevolezza si deve il riferimento nel preambolo del testo:

«…considerando che i cambiamenti economici e sociali successivi alla risoluzione del 9 febbraio 1976 e la nuova situazione delle popolazioni straniere richiedono che venga aggiornata la politica comunitaria di migrazione…».

Nel fare riferimento alla risoluzione del 27 giugno 1980 sugli orientamenti per una politica comunitaria del mercato del lavoro, in questo caso, non si ripropone il principio della “preferenza europea”, si punta sulla necessità di organizzare e favorire la libera circolazione della manodopera all’interno della Comunità, utilizzando principalmente lo strumento delle consultazioni tra Stati membri, sulle politiche in materia di migrazione seguite nei confronti dei paesi terzi.

L’orientamento per una politica comunitaria sulle migrazioni indicato, sembra essere quello dell’integrazione:

«…considerando che la presenza di gruppi di popolazioni provenienti da paesi terzi tende sempre di più a stabilizzarsi e che pertanto lo sviluppo di una politica comunitaria in materia d’inserimento, integrazione e partecipazione sociale dovrebbe anche contribuire alle misure adottate per un consolidamento progressivo di detti gruppi…».

Nel 1985 la Comunità prende atto che il processo d’apertura delle frontiere ai lavoratori extracomunitari iniziato nel secondo dopoguerra, è un processo irreversibile. Nel momento in cui si tentano di chiudere i canali legali, non si fa altro che tendere la mano all’immigrazione clandestina, sicuramente dannosa per il mercato del lavoro interno; da tale presa di coscienza deriva questa risoluzione. Nella risoluzione, dopo avere ribadito che i settori concernenti l’accesso, il soggiorno e l’occupazione dei lavoratori migranti dei paesi terzi sono di competenza dei governi degli Stati membri, al punto 3. si riconosce l’opportunità di promuovere la cooperazione e la concertazione tra questi ultimi e la Commissione, per quanto riguarda la politica migratoria. Al punto 6. si auspica una dichiarazione comune contro la xenofobia e il razzismo, la definizione di progetti pilota per l’organizzazione di riunioni informative in loco destinate al personale delle amministrazioni locali che sono in contatto con gli immigrati, assistenza legale gratuita, istruzione alloggio, ecc. Una serie d’agevolazioni che debbono puntare in maniera inequivocabile all’integrazione, senza fare alcun riferimento a misure di restrizione del flusso d’entrata, il tutto finanziato dal Fondo Sociale Europeo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paragrafo 3

 

 

 

Comunicazione e concertazione della Commissione con i paesi terzi in materia di migrazioni

 

 

 

Lo strumento della concertazione tra Stati membri, per quel che riguarda la materia delle migrazioni, è senz’altro quel che più si avvicina all’idea di armonizzazione delle politiche nazionali. La possibilità di intraprendere un cammino di consultazione a livello sovranazionale, mediato dalla presenza di un’istituzione europea, lo avevano auspicato tanto la risoluzione del 9 febbraio 1976, quanto quella del 16 luglio 1985, ma è soltanto con la decisione 88/384/CEE dell’8 giugno 1988, che l’argomento viene affrontato in maniera specifica e non più come marginale rispetto ad altre problematiche comunque correlate. La decisione del 1988[64] prende, tuttavia, spunto più precisamente da due atti precedenti, entrambi citati nel preambolo: la decisione 85/381/CEE dell’8 luglio 1985[65] che istituisce una procedura di comunicazione preliminare e di concertazione sulle politiche migratorie nei confronti degli Stati terzi; la sentenza della Corte di Giustizia del 9 luglio 1987[66]. Mediante quest’ultima sentenza la Corte di giustizia ha stabilito che: «la collaborazione tra gli Stati membri in campo sociale, prevista dall’articolo 118, primo comma, si estende alle politiche migratorie nei confronti dei paesi terzi e che, in virtù del secondo comma dell’art.118, che attribuisce il compito di organizzare consultazioni, quest’ultima è abilitata ad emanare norme cogenti». La decisione 88/384/CEE interviene, quindi, a modificare la decisione 85/381/CEE, aggiornandola alla succitata sentenza.

Si tratta sicuramente di un atto importante, non tanto per la sua applicazione pratica, quanto per la scelta d’indirizzo che contiene in sé. Esso rappresenta, infatti, la volontà degli Stati di giungere all’assunzione di una posizione comune nei confronti dei lavoratori migranti dei paesi terzi, prevedendo esplicitamente il dovere di informare e la possibilità di concertare misure adottate a livello nazionale:

«Art.1 Gli Stati membri informano, in tempo utile e al più tardi al momento in cui i progetti sono resi pubblici, la Commissione e gli altri Stati membri in merito a progetti di misure che essi intendono prendere nei confronti dei lavoratori cittadini dei paesi terzi e dei loro familiari per quanto riguarda l’ingresso, il soggiorno, l’occupazione, ivi compreso l’ingresso, il soggiorno e l’occupazione illegali, nonché per quanto concerne l’attuazione della parità di trattamento in materia di condizioni di vita e di lavoro, di retribuzioni e di diritti economici, …, il ritorno volontario di tali persone nel paese d’origine…».

La possibilità della concertazione è prevista invece all’art.2, la richiesta deve giungere entro due settimane dal ricevimento delle informazioni, su iniziativa di uno Stato membro o della Commissione. Gli scopi di questo provvedimento sono esplicitamente esposti nell’art.3:

«a) facilitare l’informazione reciproca…, agevolare l’adozione di una posizione comune da parte degli Stati membri; b) …allo scopo di progredire verso l’armonizzazione delle legislazioni nazionali sugli stranieri, promuovere l’inclusione di accordi bilaterali del maggior numero di disposizioni comuni…».

Senza possibilità di equivoco viene prevista una volontaria limitazione della sovranità nazionale, allo scopo di raggiungere l’obiettivo ultimo dell’armonizzazione delle politiche, ma questo, come tutti gli altri provvedimenti comunitari, è frutto di un accordo e in comune con molti altri accordi europei ha il difetto di essere incompleto. Non si capisce, altrimenti, perché si sia utilizzato uno strumento non direttamente vincolante, la decisione, la quale può essere completamente stravolta nel suo significato dall’atto che le da applicazione nell’ordinamento interno. È mancato ancora una volta il coraggio di adottare un atto vincolante, come il regolamento, il quale avrebbe sicuramente meglio disciplinato questo campo. Un regolamento avrebbe di certo previsto anche delle conseguenze nel caso in cui la concertazione non fosse andata a buon fine, ipotesi tutt’altro che remota e che non viene per nulla presa in considerazione dal testo del documento. Dunque, sebbene la decisione 88/384/CEE rappresenti un gesto di buona volontà da parte degli Stati membri, essa appare del tutto insufficiente a disciplinare una materia complessa come quella della concertazione, in un ambito dove ogni atto provoca una grande risonanza nazionale ed internazionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

Paragrafo 4

 

 

 

Le limitazioni nell’ammissione dei cittadini extracomunitari nel territorio degli Stati membri al fine di occupazione

 

 

 

In tutto il XIX secolo e nella prima metà del Novecento era il “bianco europeo” ad espandersi in altri continenti, a colonizzare l’Africa e l’Asia, a popolare le Americhe e l’Oceania. Oggi sono gli Africani e gli Asiatici ad emigrare, ad «invadere» l’Europa. Nei fatti, è ancora il nord industrializzato a dettare su scala mondiale le regole del gioco economico, il nord esporta nel sud il suo modello di sviluppo. Mai come oggi si può sostenere che l’uomo bianco abbia tanto dominato sul pianeta, eppure, al culmine del suo dominio, si sente accerchiato e ciò perché se prima il colonizzatore era di casa tra i colonizzatori, ora accade esattamente il contrario[67]. Si sta sviluppando un nuovo tipo di razzismo, quello per intenderci, alla Jean Marie Le Pen con i suoi slogan del tipo: «quattro milioni di disoccupati, quattro milioni d’immigrati», e ciò che più è preoccupante, è che a coltivarlo non è un piccolo partito estremista di un singolo Stato, bensì l’Europa intera.

Non si tiene nella benché minima considerazione, il fatto che oggi a prevalere siano i fattori di spinta su quelli d’attrazione. Anche senza richiami particolari da parte degli opulenti Stati europei, il flusso migratorio non rallenterebbe, né tanto meno si arresterebbe. Eppure sembra che il legislatore europeo sia convinto del contrario, pur in una condizione d’innegabile difficoltà, non ammette la possibilità che si sia intrapresa la strada sbagliata, ma ribadisce con maggior vigore la posizione che fino ad oggi è risultata fallimentare.

Il 20 giugno 1994 il Consiglio emanava una risoluzione dal titolo: «risoluzione del Consiglio del 20 giugno 1994 sulle limitazioni all’ammissione di cittadini extracomunitari nel territorio degli Stati membri per fini d’occupazione[68]». Mai risoluzione è stata più discussa, critiche sono giunte da tutti gli organismi che s’interessano di lavoratori extracomunitari, ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le critiche non derivano da un semplice sentimento solidaristico o ad una posizione presa. Questo è un provvedimento che poco convince proprio sul piano che dovrebbe essergli più congeniale, quello della pratica. Partendo dalla considerazione che il titolo elimina ogni forma di dubbio in relazione alla natura solidale della risoluzione, questa è mirata a fornire un indirizzo politico di natura restrittiva sul piano prettamente pratico – economico, tralasciando tuttavia di indicare le modalità d’attuazione. Da verificare se tale mancanza sia dovuta al fatto che lo strumento della risoluzione è uno strumento di mero indirizzo, o se si sia voluto utilizzare uno strumento d’indirizzo anziché un altro sicuramente più efficace come il regolamento, perché in verità la via indicata non è praticabile, almeno nel medio lungo periodo.

La risoluzione del 20 giugno 1994 rappresenta una vera e propria svolta nella politica europea sui lavoratori migranti dei paesi terzi, si tratta di una scelta di campo apparentemente definitiva, in netto contrasto con le precedenti. Non vi è più traccia della parità di trattamento da utilizzare tra i cittadini degli Stati terzi e quelli comunitari, tanto auspicata nella risoluzione del 9 febbraio 1976, profondamente mutato sembra anche l’atteggiamento nei confronti del ricongiungimento familiare. Il punto V° lettera A della risoluzione così recita:

«Gli Stati membri si riservano il diritto di autorizzare, in conformità del diritto nazionale, il coniuge e i figli a carico ad accompagnare le persone ammesse ai sensi della presente risoluzione».

Si tratta quindi di decidere caso per caso in base alla legislazione nazionale, il tema del ricongiungimento familiare non entra a far parte del processo d’armonizzazione. In questo caso non si è ritenuto opportuno definire una via certa ed uguale per tutti, si è preferito scegliere caso per caso e Stato per Stato, vincolando il lavoratore extracomunitario spesso ad accettare compromessi, come quello di firmare accordi dove si stabilisce che il coniuge o i figli non entrano nel paese per scopi lavorativi, che sarebbero condannabili da qualunque tribunale per i diritti dell’uomo. Tuttavia, visto quanto stabilito nel punto VI°, tale mancanza fornisce ancora qualche speranza ai genitori che hanno i figli ed il coniuge lontano, di farli giungere:

«…Il Consiglio stabilisce che si dovrà continuare ad applicare e, se necessario, a rafforzare le misure restrittive sull’ammissione dei cittadini extracomunitari a fini di occupazione. A questo scopo, il Consiglio conviene che le politiche nazionali degli Stati membri nei confronti dei cittadini extracomunitari che chiedono l’ammissione sul loro territorio o il permesso di rimanervi per fini di occupazione siano disciplinate dai principi che seguono, principi che gli Stati membri non possono rendere meno restrittivi nell’ambito del diritto interno…».

Ciò che prima di tutto salta agli occhi è una vera e propria discriminazione nei confronti di coloro che non hanno la cittadinanza dell’unione europea, una comunità molto vasta che comprende sì tutte le popolazioni del terzo mondo, ma che in fondo contiene anche quelle di Stati e continenti molto avanzati. Non era, infatti, pensabile applicare principi così restrittivi nei confronti dei cittadini statunitensi, giapponesi, ecc.; in tal senso interviene il punto B (Persone cui non si applica la presente risoluzione), il quale sostiene che tali principi di armonizzazione non si applicano:

«ai cittadini extracomunitari, beneficiari, per l’accesso a un’occupazione, dei diritti derivanti da accordi disciplinati dal diritto comunitario conclusi con paesi terzi».

I paesi europei si sono tutelati anche nel punto VII° della lettera C della presente risoluzione, dove si stabilisce che nulla vieta ad uno Stato membro di continuare ad ammettere cittadini extracomunitari ai fini di occupazione, conformemente ad accordi da esso conclusi alla data di adozione della presente risoluzione, a favore di cittadini di un paese terzo con il quale ha legami particolarmente stretti. Si tratta di usare misure differenti a seconda dello Stato di nascita del lavoratore migrante, egli non avrà alcun problema a stabilirsi in uno Stato terzo qualora sia membro della Comunità, sarà comunque ben accetto se proverrà da uno Stato OCSE, avrà la strada completamente sbarrata se proverrà dal terzo mondo.

Tanto il punto 1 della lettera C, il quale prevede il principio della preferenza comunitaria, tanto il punto 2 il quale prevede che prima bisogna trovare un lavoro poi, in caso si ottenga il permesso di soggiorno, si può partire, quanto il punto 3 il quale stabilisce che, di norma, se si perde il lavoro bisogna tornare in patria e ripercorrere completamente l’iter, anche se il giorno stesso si è trovato un altro impiego, non rappresentano vie percorribili. Il legislatore, in questo caso, è stato poco attento a non ripercorrere gli errori già commessi nel passato. Quanto previsto nel punto 3 è già stato sperimentato in Francia negli anni passati[69], senza ottenere alcun successo e giungendo alla conclusione di dover cambiare le regole. Trovo di scarsa utilità porre dei principi che, di fatto, non possono essere attuati, non credo sia sufficiente sostenere che l’immigrazione clandestina non è tollerabile, quando poi si pongono le condizioni perché questa aumenti a dismisura. Non è trasformando l’Europa in una fortezza inaccessibile che si risolverà il problema della pressione migratoria. Ancora una volta, sotto la spinta di pressioni politiche ed elettorali, si è scelta la strada per alleggerire nel breve periodo, anziché risolvere nel lungo. L’Europa, se davvero vuole risolvere il problema, non può far finta di non sapere che lo stretto di Gibilterra è largo poche miglia e che lo spazio di mare che divide l’Italia dall’Albania è percorribile con un gommone. Senza voler entrare nel merito della questione morale, dal momento che, in questa ed in molte altre risoluzioni, si è tenuto conto unicamente dell’aspetto economico del problema, ci si dovrebbe rendere conto che il flusso migratorio non è contenibile a piacimento. La ricca Europa non può pretendere di accettare categorie di lavoratori da sfruttare per impieghi degradanti non ricopribili da lavoratori nazionali, respingendo persino i familiari di questi lavoratori, pretendendo di espellerli non appena l’impiego sarà terminato, senza provocare un sussulto di sdegno, un giudizio d’inciviltà ed un assicurato fallimento.

L’impostazione prettamente economica che la politica migratoria europea ha assunto, spingerebbe a pensare che nel caso di un lavoratore extracomunitario, che intenda intraprendere un’attività economica autonoma all’interno della comunità e quindi creare occupazione, versando tutti i contributi dovuti, le condizioni siano favorevoli. Purtroppo anche in questo caso, invece, ci si trova di fronte ad un atteggiamento discriminatorio, documentato nella “Risoluzione del Consiglio del 30 novembre 1994 concernente la limitazione all’ammissione di cittadini di paesi terzi nel territorio degli Stati membri ai fini dell’esercizio di un’attività professionale autonoma”[70]. Tale risoluzione prevede che, qualora l’impresa rappresenti valore aggiunto e presenti vantaggi per l’economia ospitante, possa anche essere accettata, la decisione è a discrezione dello Stato ospitante. Tale risoluzione come espressamente previsto dalla parte C punto 1.1, concerne solo le persone e non riguarda la creazione di società. Per «attività professionale autonoma» s’intende qualsiasi attività esercitata individualmente o nella forma giuridica di una società ai sensi dell’art.58, secondo comma del trattato CE senza, in entrambi i casi, vincolo di subordinazione nei confronti di un datore di lavoro[71].

Come inequivocabilmente si deduce dal punto 2.2 e dal resto della risoluzione, l’ingresso è aperto a tutti i soci dell’impresa, tuttavia, nessuna menzione viene fatta nel caso delle cooperative. Probabilmente se alcune migliaia di extracomunitari provenienti da un paese non privilegiato secondo i criteri del punto 11[72], decidessero di formare una cooperativa sul suolo comunitario, rispettando il principio di utilità economica, il legislatore si troverebbe costretto rimettere mano alla risoluzione, o ad effettuare una “forzatura” sulla stessa.

L’esercizio della discriminazione viene compiuto anche al punto 3.4, questo prevede che si possa richiedere al cittadino extracomunitario (proveniente da paesi poveri) una prova che esso soddisfi le condizioni dello Stato ospitante in materia di qualifiche professionali e accesso alla professione. La difficoltà nel superare quest’ostacolo è probabilmente insormontabile, innanzi tutto perché i titoli di studio della stragrande maggioranza dei paesi del terzo mondo non sono riconosciuti, in secondo luogo, perché non si definisce chi e in conformità a quali criteri dovrebbe stabilirne l’idoneità.

Entrambe queste risoluzioni, quella del 20 giugno e quella del 30 novembre 1994, non fanno altro che fornire un’ampia serie di strumenti di discrezionalità ai governi degli Stati membri, nello stabilire quando, chi e perché autorizzare ad entrare nel territorio comunitario a scopi lavorativi. In tal modo gli Stati pensano, o meglio hanno l’illusione, di poter disporre a piacimento della manodopera extracomunitaria, con la possibilità di espellerla nel momento in cui il sistema economico ne è saturo. Si ripropone l’illusione di poter trattare il fattore lavoro come una variabile qualsiasi del sistema economico, senza voler comprendere che un flusso di entrata regolare caratterizzato da insormontabili ostacoli, non fa che aprire le porte ad un flusso irregolare, questo sì veramente dannoso per il sistema economico. 

 

 

Paragrafo 5

 

 

 

La decisione del Consiglio concernente lo scambio di informazioni riguardanti gli aiuti per il ritorno volontario nel paese di origine di cittadini di Stati terzi

 

 

 

La concertazione, il confronto e l’armonizzazione delle politiche comunitarie in materia di lavoratori migranti dei paesi terzi, non può che essere interpretata positivamente, infatti, essa è, se correttamente realizzata, sinonimo di maggiore efficienza. Il lavoro d’armonizzazione che gli Stati membri stanno compiendo è senz’altro finalizzato a creare un’unica grande frontiera esterna, dove le condizioni d’ingresso siano uniche in ogni suo punto. D’altro canto, le istituzioni europee da un lato tendono a creare le condizioni per il futuro, ma dall’altro debbono porre rimedio alla situazione esistente. Uno degli strumenti utilizzati è la “Decisione del Consiglio del 26 maggio 1997 concernente lo scambio di informazioni riguardanti gli aiuti per il ritorno volontario nel paese d’origine di cittadini di paesi terzi”[73]. Il Consiglio prevede una serie di aiuti economici nei confronti di coloro che, pur volendolo, non possono rientrare nel paese di origine poiché non hanno la possibilità di far fronte alle spese. L’aspetto interessante di questa decisione sta nel fatto che essa non è indirizzata unicamente a coloro che soggiornano legalmente, bensì anche ai lavoratori clandestini. Nel preambolo della decisione il Consiglio manifesta la sua preoccupazione nell’interpretazione della stessa, specifica quindi che per coloro che risiedono legalmente, questo non vuole essere un incoraggiamento a fare ritorno nel proprio paese di origine, bensì una facilitazione per coloro che hanno già deciso in questo senso. Per coloro che si trovano sul suolo comunitario in maniera clandestina, il timore è quello di provocare un “effetto calamita” indesiderato. Il piano di incentivi, in questo caso, è mirato a ridurre il numero delle presenze irregolari, gli Stati dovranno fare quindi particolare attenzione perché questo non si trasformi in un pericoloso stimolo a varcare le frontiere, regolarmente o meno. Secondo quanto previsto all’art.1 della decisione, gli Stati membri che hanno adottato normative per l’elaborazione di programmi volti al sostegno del ritorno volontario di cittadini di paesi terzi nel loro paese di origine, ne riferiscono una volta l’anno al Segretario generale del Consiglio. Quest’ultimo trasmette le informazioni agli altri Stati membri ed alla Commissione. I dati da trasmettere al Segretario Generale, devono riguardare il tipo di sostegno accordato, i requisiti richiesti per la concessione e l’entità dell’eventuale “effetto calamita”. Il Segretario Generale, ricevute tutte le informazioni suddette, elabora annualmente un progetto di relazione, che presenterà alla Commissione ed agli Stati membri (art.2). Infine gli Stati membri e la Commissione, in sede di Consiglio, si scambieranno i loro punti di vista sui programmi indicati all’art.1.

 

 

 

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[1] L’esempio della Germania non è casuale, essendo stato il Cancelliere tedesco Helmuth Kohl al Consiglio europeo di Lussemburgo del 28-29 giugno 1991 ad invitare i partners europei a dar vita al più presto ad una politica dell’immigrazione e dei visti meno eterogenea e più coerente con il modello di Europa senza frontiere interne. Questa posizione veniva poi ribadita alla riunione dei ministri degli interni e della giustizia della CEE tenutasi a Copenaghen nel giugno del 1993 per discutere delle politiche migratorie.

1 Mentre i fattori d’attrazione vengono considerati importanti nel processo decisionale dell’emigrante, quelli di spinta sono fondamentali. Vedi cap. I par.3; vedi pag. 159.

 

[2] Edoardo del Vecchio: “un triangolo del nostro tempo: economia, demografia e cultura nel       fenomeno dell’immigrazione”. In Anna Badeschi: “Cittadinanza europea e extracomunitari: il fenomeno dell’immigrazione nel processo di integrazione europea”. CEDAM, 1995.

[3] Giorgio Fuà: “Conseguenze economiche dell’evoluzione demografica”. cap.6 ed. IL MULINO, 1986.

[4] S.Castles G. Kosak: “Immigrazione struttura di classe in Europa occidentale”. Milano. F. Angeli, 1976.

[5] La Svizzera limitò gli effettivi stranieri già negli anni sessanta.

 

[6]Anna Badeschi: “Cittadinanza europea e gli extracomunitari: il fenomeno dell’immigrazione nel processo di integrazione europea”. CEDAM, 1995.

[7] A. Pacini, Politiche immigratorie per l’Italia e per l’Europa, in XXI Secolo, Maggio 1990.

[8] Il dato risale al 1990.

[9] Quest’accordo si basava più su interessi politici che economici, vi era l’interesse di legare la Turchia all’occidente sotto la pressione degli Stati Uniti. A riguardo Loukas Tsoukalis: “The EEC and the Mediterranea: is global policy a misnomer?”. International Affairs, Luglio, 1977, pp.422-438.

[10] La politica di cooperazione portata avanti dai paesi della Comunità non è stata, considerando le ingenti risorse finanziarie impegnate, sufficientemente razionalizzata. L’Italia, ad esempio, negli anni ‘80 con il Governo Craxi ha contribuito a costruire innumerevoli cattedrali nel deserto.

[11] Inizialmente fu ratificata da Portogallo, Spagna, Turchia, Svezia e Olanda.

 

[12] In prima fila la Gran Bretagna.

[13]Sarah Collinson: “Gli Stati di accoglienza europei negli anni novanta: verso un’armonizzazione delle politiche migratorie?”. In “Le migrazioni internazionali in Europa” p.212. IL MULINO, Bologna, 1994.

[14] Le misure adottate dalla Francia (settembre 1980 accordo Franco - Algerino) e dalla Germania (luglio 1982 agevolazioni finanziarie) per incentivare i rientri non sortirono gli effetti sperati. Sarah Collinson op. cit.

 

[15] A tale riguardo Clara Bisegna: “La politica dell’immigrazione”. In “L’Italia nella politica internazionale”, 1990-1991, IAI, Franco Angeli, Roma, 1993, pp. 336-354.

[16] Ciò è facilmente deducibile dalla comunicazione della Commissione delle Comunità europee: Commission Communication to the Council and the European Parliament on Immigration, Bruxelles, 23 ottobre 1991.

 

[17] Sarah Collinson: op. cit.

 

[18] Luise Druke: “Refugee protection in the post cold war Europe: asylum in the Schengen and EC harmonization process”. In “Les accords de Schengen”. pp.105-149

[19] La soluzione di diversi problemi è stata oggi individuata nell’immigrazione stessa, si consideri la crisi del sistema previdenziale italiano e non solo.

[20] Cfr. M. Bruni, 1988b, (op cit.)

[21] Turchia, Egitto, Siria, Tunisia, Libano secondo una fonte O.N.U. sono tra i principali esportatori di manodopera dell’area sud est del mediterraneo e l’esportazione di manodopera è destinata a crescere fortemente fino a raddoppiare nel 2025.

[22] L’Australia ha programmato un piano di immigrazione fino al 2031, quando la quota di immigrati salirà a 220.000 e ciò sarà possibile in rapporto alle condizioni dell’economia del paese. Il piano di immigrazione australiano non tiene conto della sorprendente e sempre più massiccia immigrazione giapponese, indubbiamente dalle caratteristiche alquanto diverse da quella proveniente dal terzo mondo. Quella giapponese è infatti ricca di capitali alla ricerca di investimenti migliori di quanto non possano essere reperiti nelle isole nipponiche, ma presenta alcuni punti di contatto con quella tradizionale. Il grande flusso di giapponesi, che si verifica soprattutto nel Queensland, preoccupa infatti gli australiani che temono lo sviluppo di un processo di colonizzazione economica.

[23] Edoardo Del Vecchio: “Un triangolo del nostro tempo: economia, demografia e cultura nel fenomeno dell’immigrazione”. In A. Badeschi: op. cit.

[24] Cfr. E.M.R. Bonora (1983), Mercato del lavoro e movimenti migratori in Europa occidentale, in P. Caputo, Il ghetto diffuso, Franco Angeli, Milano.

[25] In Italia ormai da anni siamo abituati anche a vedere un ulteriore metodo di entrata: navi affollatissime di disperati che giungono sulle nostre coste pieni di dolore, ma anche di speranza.

 

[26] Palidda S., Reyneri E.: “Immigrazione e mercato del lavoro”. In Chiesi A.M., Regalia I., Regini M.: “Lavoro e relazioni industriali in Europa”. La nuova Italia Scientifica, Roma, 1995.

 

[27] Il termine deriva dall’introduzione nel 1908, per la prima volta, proprio ad opera della Ford, del sistema delle catene di montaggio nella fabbricazione delle automobili.

[28] Ci si riferisce ovviamente ai lavoratori extracomunitari immigrati in maniera regolare, o che comunque abbiano usufruito di una sanatoria.

[29] Si rientra qui nella sfera dei lavori non desiderati: la popolazione europea è disposta ad accettare lavoratori extracomunitari, purché non invadano le sue sfere d’interesse. Accetta lavoratori qualificati a patto che siano tanto pochi da essere considerati benefici per il mercato, o almeno non dannosi per l’occupazione.

[30] Diretti per larghissima parte in Germania dove già vi era una cospicua comunità.

 

[31] Senza voler giungere agli estremi di Singapore, dove una recente disposizione introduce l’obbligo di punizioni corporali obbligatorie per gli immigrati illegali, i loro datori di lavoro e i loro agenti.

 

[32] Osserviamo come questa conclusione prescinda dal fatto che l’offerta di lavoro straniera corrisponda ad una maggior disponibilità’ a lavorare a salari più bassi; e’ pero’ vero che lo spostamento del punto di equilibrio nella direzione indicata sarà’ tanto più’ accentuato quanto maggiore e’ questa disponibilità’. Si noti anche come una grande disponibilità’ possa essere associata sia a grande disponibilità’ del singolo lavoratore, sia ad un alto numero di lavoratori presenti.

 

 

[33] Dati, grafici e spiegazioni a riguardo sono disponibili presso l’UCSEI negli appunti del Seminario “Analisi di alcune scelte di politica migratoria sulla base di un semplice modello macro-economico”; presentato all’UCSEI il 19/2/1999.

[34]Naturalmente questa affermazione non significa che la soddisfazione si trasferisca direttamente dai lavoratori nazionali ai datori di lavoro, senza che i lavoratori stranieri giochino alcun ruolo. E’ anzi proprio la presenza nel sistema di questi che, accrescendo la concorrenza tra lavoratori, provoca l’arretramento dei lavoratori nazionali. Il vero significato dell’affermazione sta nel fatto che non vi e’ alcun trasferimento netto di soddisfazione dai nazionali (datori di lavoro e lavoratori) agli stranieri; vi e’ piuttosto un trasferimento di soddisfazione intra-nazionale da lavoratori a datori di lavoro.

 

[35] A differenza di quanto si può invece dire per gli immigrati regolari o regolarizzati.

 

[36] Per libero mercato si intende un mercato privo di qualunque regola, anche legale.

 

[37]Il tentativo di aggiudicarsi le prestazioni di immigrati illegali a condizioni salariali più’ basse di quelle fissate dalla legge fa entrare i datori di lavoro in concorrenza tra loro e induce, nei fatti, una lievitazione dei salari degli immigrati illegali, fino a valori, pari a quelli di legge, in corrispondenza ai quali ai datori di lavoro non conviene più’ rischiare le conseguenze di una trasgressione delle norme.

 

[38]Il datore di lavoro dovrà, tenere in considerazione che il lavoratore extracomunitario regolare goderà di tutte le protezioni del suo collega comunitario, salario minimo e versamenti pensionistici inclusi.

 

 

 

[39] Un diritto ribadito anche nell’art.40 che così recita: «1. Migrant workers and members of their families shall have the right to form associations and trade unions in the State of employment for the promotion and protection of their economic, social, cultural and other interests. 2. No restrictions may be placed on the exercise of this right other than those that are prescribed by law and are necessary in a democratic society in the interests of national security, public order (ordre public) or the protection of the rights and freedoms of others».

[40] La Convenzione si riferisce al principio di non discriminazione nel trattamento del lavoratore già impiegato. Riguarda il numero delle ore di lavoro, il trattamento remunerativo, le ferie pagate e ad altri principi di diritto del lavoro, non fa alcun riferimento, invece, al diritto pieno ed inderogabile d’accesso a tutte le tipologie d’impiego. D’altro canto diversamente non potrebbe essere in quanto, all’art.52 è prevista la possibilità di restringere l’accesso a determinate categorie d’impiego, in nome di un non meglio specificato interesse nazionale.

 

[41] Organizzazione Internazionale del Lavoro.

 

[42] La quale, tra l’altro, invita gli Stati a ratificare la Convenzione Internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.

[43]Walter Citti, Segretario ASGI, intervento al Convegno sull’Immigrazione, Roma 12 maggio 1999.

[44] Nove sono gli Stati che hanno approvato o ratificato la convenzione: Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Colombia, Egitto, Marocco, Filippine, Seychelles, Sri Lanka e Uganda.

[45] Franco Pittau, Caritas di Roma, Dossier Statistico Immigrazione.

 

[46] Il Regno Unito ha espresso la volontà di entrare a far parte, seppure in modo parziale, degli accordi di Schengen, ma il processo di adesione è bloccato dall’opposizione della Spagna in relazione alla controversa questione dell’applicazione di questo e altri strumenti anche al territorio di Gibilterra.

[47] Inserto Euronote n°5/99

 

[48] La Grecia è entrata ufficialmente a far parte dello "spazio Schengen" di libera circolazione a partire dal primo gennaio 2000. Da quella data, i controlli di frontiera ai porti greci sono stati aboliti per i collegamenti da e verso destinazioni in seno a paesi dell’Unione Europea che sono parte degli accordi di Schengen. I controlli di frontiera agli aeroporti greci sono stati tolti a partire dal 26 marzo 2000.

 

[49] Si capisce perché quindi la Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, giaccia dimenticata nei cassetti del Segretario Generale delle Nazioni Unite.

 

[50] European Council on Refugees and Exiles.

 

[51]Si tratta del Seminario intitolato: “L’Unione Europea e l’armonizzazione della legislazione in materia di immigrazione ed asilo” condotto dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) nell’ambito del “V meeting internazionale antirazzista”, svoltosi a Cecina nei giorni 17-24 luglio 1999.

[52] Con un controllo reale e sanzioni sufficientemente severe da scoraggiare l’assunzione di manodopera “in nero”.

[53] Si tenga conto che per raggiungere il traguardo di una concorrenza priva di vizi, si dovrebbe dare a tutti la medesima opportunità di istruzione, condizione ad oggi non realizzabile.

 

[54]Come già sostenuto nel capitolo I, infatti, si può facilmente comprendere come il lavoratore nazionale non possa competere con l’immigrato clandestino che accetta ogni tipo di condizione e che comunque entrerà sul territorio, mentre può tranquillamente farlo con l’immigrato regolare che dovrà rispettare certi standard. L’Unico modo per evitare che l’immigrato clandestino sia assunto, è colpire duramente chi lo assume, un provvedimento che comunque deve essere preso a livello europeo, per non rischiare di perdere completamente competitività a livello di singolo Stato. Il paradosso sta dunque nell’aver convinto i lavoratori nazionali che il loro disagio derivi dalla concorrenza con i lavoratori migranti, mentre in verità esso deriva dal fatto che tale concorrenza manchi (o sia fortemente squilibrata), proprio a causa dell’irregolarità di molti migranti.

[55] Un settore che è andato aumentando sempre di più negli ultimi anni, fino ad interessare il mercato del lavoro di diversi paesi europei, in particolare quelli che avevano una legislazione più permissiva al riguardo (Francia e Germania).

 

[56] Il cittadino europeo non riesce, infatti, ancora a riconoscere l’istituzione europea come propria, ne sono una dimostrazione le percentuali di aventi diritto che si sono presentati alle urne nelle ultime elezioni, bassissime in tutta Europa.

 

[57] Basil Davidson, Il fardello dell’uomo bianco, SEI, Torino 1995

 

[58] EUR-Lex: Legislazione comunitaria in vigore – Documento 376Y0214(01)

[59] E che da molte parti ancora si richiede.

[60] Tale risoluzione nella parte C, punto 1 prevede: «Gli Stati membri terranno conto delle richieste di accesso sul loro territorio per fini di occupazione solo qualora l’offerta di posti di lavoro proposta in uno Stato membro non possa essere coperta dalla manodopera nazionale e comunitaria o dalla manodopera non comunitaria che risiede legalmente e a titolo permanente in detto Stato membro e che fa già parte del regolare mercato del lavoro di detto Stato …».

[61] Si tratta di un servizio informatico che prevede la realizzazione di una grande banca dati europea, in grado di far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro.

[62] Gazzetta Ufficiale n° C 034 del 14/02/1976 pag. 0002 – 0003.

[63] Gazzetta Ufficiale n° C 168 del 08/07/1980 pag. 0001 – 0004.

[64]88/384/CEE: Decisione della Commissione dell’8 giugno 1988 che istituisce una procedura di comunicazione preliminare e di concertazione sulle politiche migratorie nei confronti dei paesi terzi. Gazzetta Ufficiale n. L 183 del 14/07/1988 pag. 0035–0036

[65] Gazzetta Ufficiale n. L 217 del 14/08/1985 pag. 0025

[66] Cause riunite 281,283,284,285 e 287/85

[67] Franco Ippoliti e Francesco Pinto: “Stranieri, politica e diritto”. In “L’Europa degli stranieri” a cura di Alberto Perduca e Francesco Pinto. Quaderni di «Questione Giustizia». Franco Angeli editore, 1993.

[68] Gazzetta Ufficiale n. C 274 del 19/09/1996 pag. 0003 – 0006.

 

[69] Vedi Capitolo 1.

 

[70] Gazzetta Ufficiale n. C 274 del 19/09/1996 pag. 0007 – 0009.

 

[71] Parte C, punto 1.2

[72]«Nulla nella presente risoluzione vieta a uno Stato membro di riservarsi il diritto di ammettere nel suo territorio, a norma della sua legislazione nazionale, cittadini di paesi terzi che vi effettuino ingenti investimenti nel settore commerciale e industriale, qualora valide ragioni economiche giustifichino un’esenzione dai principi della presente risoluzione che limitano le attività economiche in cui si sia impegnato il cittadino di un paese terzo».

 

[73] Gazzetta Ufficiale n. L 147 del 05/06/1997 pag. 0003 – 0004.