Ci sono pervenute per posta elettronica due idee che
ci sembrano meritevoli di discussione.
La prima viene da Sergio Briguglio: e’ una
proposta per un programma sull’immigrazione e sull’asilo. La
seconda viene dalla rivista Guerre e Pace: e’ il progetto di un convegno
nazionale da tenersi per Settembre prossimo, che dovrebbe coinvolgere, oltre
alle associazioni, tutte le forme di espressione autonoma dei migranti.
Entrambe le proposte vanno, ci sembra, nella giusta direzione di esprimere un
punto di vista autonomo della societa’ civile e dei migranti. In questo
contesto vorremmo inserire le
nostre riflessioni.
1. Le premesse: per una cittadinanza globale
Ci sembra anzitutto che la questione immigrazione
ponga un problema ormai ineludibile: quello della cittadinanza e dei diritti.
L’idea di cittadinanza si fonda tuttora sul
principio arcaico del sangue: hanno pieni diritti e sono riconosciuti come
cittadini coloro che sono nati sul territorio nazionale, e che possono vantare
genitori e parenti nati sul medesimo territorio. E’ l’appartenenza
alla nazione che fonda il pieno
riconoscimento del diritto della persona: si e’ costruita cosi’ la
frontiera tra ‘noi’, i nazionali, e ‘loro’, gli
stranieri.
Eppure quella che sbrigativamente definiamo
globalizzazione sembra aver abbattuto le frontiere: le persone si spostano,
circolano, viaggiano, valicano i confini nazionali, parlano lingue diverse,
comunicano su scala mondiale grazie alle nuove tecnologie. In un mondo ormai
globale ed interdipendente non e’ arcaico il principio
dell’appartenenza nazionale? E i migranti, con la loro stessa presenza, e
con le mille battaglie per il riconoscimento dei loro diritti, non pongono
esattamente questo problema?
Sono, forse, maturi i tempi per pensare ad una
cittadinanza globale, finalmente svincolata dal principio
dell’appartenenza nazionale, in cui ciascuno sia riconosciuto come
persona e come cittadino al di la’ della propria nascita e della propria
appartenenza originaria.
Il modello nazionale di cittadinanza sta mostrando i suoi
frutti amari: migliaia di stranieri vivono sul territorio italiano, lavorano,
fanno figli, frequentano i nostri luoghi di ritrovo, eppure hanno diritti
dimezzati. Alcuni di loro poi, definiti sbrigativamente clandestini, vivono
nella piu’ completa invisibilita’: non possono lavorare se non al
nero, non usufruiscono dei servizi pubblici, non possono rivolgersi alla
Giustizia, e la loro stessa presenza e’ illegale.
Noi non vogliamo clandestini ne’ stranieri, ma
cittadini, qualunque sia la loro origine.
2. La concretezza di un’utopia
Un sogno ad occhi aperti? Un’idea bella quanto
irrealizzabile? Forse.
Noi pero’ pensiamo che questa utopia sia
gia’ in cammino. Come ha scritto Anna Maria Rivera (Carta, Giugno 2000):
“per costruire questa utopia matura non valgono le scorciatoie giuridiche
ne’ le concessioni dall’alto. La cittadinanza transnazionale
e’ un processo che si costruisce per tappe, dal basso, attraverso il
conflitto. Cominciando ad affermare, praticare e negoziare un diritto di
civitas che prefiguri la pienezza della cittadinanza”.
Questo hanno fatto recentemente i migranti a Brescia.
E questo ha fatto il movimento contro i centri di detenzione.
Nessuno puo’ essere privato della propria
liberta’ senza una sentenza di tribunale: questo principio, che e’
tuttora la base di ogni ordinamento giuridico, e’ stato violato quando si
e’ prevista la detenzione per coloro che non hanno il permesso di
soggiorno. Per contrastare questa violazione si sono costruite manifestazioni e
ricorsi, e si e’ messa in campo una inedita presenza dei migranti, dentro
e fuori i centri di detenzione. Oggi i centri sono una realta’ fortemente
discussa, da piu’ parti ne viene chiesta l’abolizione, mentre
e’ ancora in campo il ricorso alla Corte Costituzionale. Non e’
questo un passo avanti nell’allargamento dei diritti di cittadinanza? Ci
sembra che questo intreccio tra mobilitazioni pubbliche e rivendicazioni che si
richiamano al diritto abbia prodotto risultati importanti.
Il movimento contro i centri di detenzione ci insegna
che la cittadinanza, intesa in senso ampio, non e’ un insieme di principi
da stabilire una volta per tutte, da mettere nero su bianco in una qualche
dichiarazione di intenti: e’ piuttosto un processo da costruire passo
passo, da negoziare punto per punto, da ottenere per tappe successive
attraverso battaglie e conflitti.
3. La legge 40 e le sue eccezioni
Questo modello di cittadinanza da costruire e
negoziare ‘passo passo’ e’ alla radice di alcune
contraddizioni che troviamo nella stessa legge 40. L’impianto della
legge, si sa, e’ ispirato ad
una concezione fortemente restrittiva dell’immigrazione: si stabilisce
l’ingresso regolare solo attraverso il canale astruso e burocratico dei
flussi, si proibisce qualunque forma di regolarizzazione per chi e’
gia’ in Italia, si tratta l’irregolarita’ solo con strumenti
espulsivi.
Eppure, proprio in quella legge, che andrebbe
totalmente riscritta, vi sono eccezioni sorprendenti. In particolare, il
diritto all’assistenza sanitaria di emergenza anche per i cosiddetti clandestini
(cosa non prevista dalla normativa fino al decreto Dini), il diritto alla
scolarizzazione dei minori anche se privi di soggiorno: due eccezioni
significative, e spesso mal applicate, al principio che vorrebbe fare dei
clandestini i nuovi fantasmi giuridici, invisibili e senza diritti di alcun
tipo.
Queste eccezioni non esistono per caso: sono frutto
anch’essi di mobilitazioni e di conflitti, di negoziazioni e di una
presenza autonoma dei migranti che ha attraversato tutti gli anni ‘90.
4. Estendere i diritti esistenti, conquistarne di
nuovi
La strada da percorrere allora non e’ quella di
scrivere il libro dei sogni, un insieme di dichiarazioni ‘piu’
radicali’, ‘piu’ di sinistra’, ‘piu’
coerenti’; e nemmeno quella di ottenere qualche piccola concessione. Se
il dibattito tra associazioni si riducesse a quello, arcaico e un po’
mortificante, che divide i moderati dagli estremisti, i radicali dai cauti, gli
utopisti dai realisti, si farebbe un torto alle esperienze piu’ avanzate
prodotte in questi anni.
La strada e’ invece quella di rivendicare passo
passo nuovi diritti, lavorando per ridurre la forbice che separa i regolari dai
clandestini, e gli stranieri dagli italiani; abbattendo cioe’ la
frontiera che separa i cittadini a pieno titolo dai nuovi invisibili.
Questo percorso si costruisce prima di tutto lavorando
per affermare una interpretazione piu’ garantista possibile della legge
esistente: le mille battaglie e trattative ‘caso per caso’ che
tutti noi costruiamo quotidianamente nei rapporti con le Questure, i tanti
ricorsi al TAR in cui si cerca di affermare una giurisprudenza piu’
aperta, sono un aspetto essenziale della nostra attivita’. Nel solco di
questo lavoro si possono formulare anche proposte di modifica della legge (o
del regolamento attuativo) che non ne alterino l’impianto complessivo.
In questa direzione vanno, ci pare, le osservazioni di
Sergio Briguglio, che possono essere considerate una preziosa agenda di lavoro:
agevolare le conversioni dei soggiorni di breve durata in soggiorni per lavoro;
abolire le disposizioni sull’alloggio per i ricongiungimenti familiari;
rendere piu’ flessibili le norme a carattere repressivo (espulsioni) etc.
A questo lavoro se ne deve pero’ affiancare un
altro, altrettanto realistico ma piu’ capace di prefigurare nuove forme
di inclusione e di cittadinanza. Si tratta di affermare il principio per cui
alcuni diritti della persona non possono essere subordinati al permesso di
soggiorno. Se gia’ oggi la legge prevede alcuni diritti anche per i
clandestini (assistenza sanitaria e tutela dei minori), perche’ non
chiedere un’estensione di questi diritti? Perche’ non far appello
ai principi fondativi del diritto, alle dichiarazioni internazionali
sottoscritte dall’Italia, alla Costituzione o alle Carte fondamentali? Per
far questo, occorrera’ mettere in campo anche competenze specifiche,
dovranno essere stimolati e sollecitati interventi di esperti nel campo del
diritto. Si dovra’ cioe’ praticare quell’intreccio tra
mobilitazione pubblica e avanzamento della dottrina giuridica che gia’
e’ stato sperimentato con un certo successo per i centri di detenzione.
Si tratta di un lavoro non facile, su cui nei prossimi mesi la nostra piccola
associazione lavorera’ con tutte le proprie forze. Ci sembra che le tante
realta’ sparse per l’Italia, i tanti ‘cantieri sociali’
che in questi anni hanno lavorato per i diritti dei migranti, possano dare
contributi migliori del nostro.
5. Un nuovo modello di regolarizzazione a regime
Bisognera’ allora lavorare tutti insieme per
definire alcuni obiettivi: a questo potrebbe servire l’appuntamento di
Settembre di Guerre e Pace. Ulteriore estensione del diritto
all’assistenza sanitaria, nuove forme di protezione sociale non vincolate
alla collaborazione con la giustizia, allargamento delle tutele per i minori,
liberalizzazione della normativa sulla carta di soggiorno ecc.
Una particolare attenzione va pero’ riservata al
tema del lavoro e della cosiddetta ‘regolarizzazione a regime’.
Gran parte delle associazioni italiane propone da tempo questa formula, presa a
prestito dalle legge spagnola: e’ l’idea per cui puo’
ottenere il permesso di soggiorno qualunque straniero presente sul territorio
nazionale, a patto che dimostri di avere maturato un rapporto di lavoro (una
specie di ‘sanatoria permanente’). Si tratta di un dispositivo
assai avanzato perche’ scardina il meccanismo farraginoso dei flussi,
consentendo la regolarizzazione anche a chi e’ gia’ in Italia. Ha
pero’ il difetto, in molte formulazioni nelle quali viene espresso, di
essere concepito come meccanismo ‘premiale’: il clandestino,
stigmatizzato comunque in quanto tale, viene premiato se dimostra di avere un
lavoro. Ovvero, semplificando molto: lo straniero puo’ essere accettato
solo se lavora, se non costituisce un peso e un costo per la comunita’
nazionale.
A noi sembra che la regolarizzazione di tutti coloro
che lavorano al nero debba avere un altro significato. Cosi’ come
l’assistenza sanitaria e la scolarizzazione dei minori, anche la tutela
dei diritti sindacali e della sicurezza sul lavoro non possono essere
subordinati al possesso del permesso di soggiorno. Chi lavora al nero deve
avere la possibilita’ di rivendicare i propri diritti senza subire un decreto di espulsione.
E’ il diritto dell’individuo, non il meccanismo premiale che deve
fondare la possibilita’ del soggiorno. Cosi’, forme di
regolarizzazione ‘a regime’ potrebbero essere previste non solo per
chi lavora, ma per tutti coloro che solo attraverso l’emersione dalla
clandestinita’ possono rivendicare i propri diritti individuali: per le
forme di protezione temporanea; per coloro che ricevono assistenza sanitaria;
per chi stipula al nero un contratto di affitto o di locazione; per chi
usufruisce di servizi pubblici ecc.
Le forme con cui concretizzare questo ragionamento
debbono essere studiate e discusse con attenzione, perche’ risultino
credibili e praticabili.
6. Conclusioni
Quelle che vi abbiamo sottoposto sono solo note provvisorie sulle quali e’ necessario lavorare. Noi stessi cercheremo nelle prossime settimane di precisare meglio alcune proposte, avvalendoci anche della consulenza di esperti del diritto. Ci sembra pero’ che debba aprirsi un dibattito quanto piu’ possibile ampio, a partire dalle proposte e dai documenti che gia’ stanno circolando. L’appuntamento di Settembre potrebbe essere un momento importante per ritrovarsi tutti insieme e per definire un programma condiviso.