PAOLO BONETTI

Ricercatore di diritto costituzionale nell’Università degli studi di Milano Bicocca

Docente di Istituzioni di diritto pubblico e di diritto regionale

 

 

OSSERVAZIONI SUL DISEGNO DI LEGGE GOVERNATIVO A.S. N. 795 RECANTE LA MODIFICA DELLE NORME IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE E DI ASILO

 

 

1.1.      Considerazioni generali

 

     Fin dal luglio 2001 il Presidente del Consiglio dei Ministri fece mettere allo studio un’apposita iniziativa legislativa correttiva del T.U. del 1998, del quale si volevano correggere alcune norme qualificanti, senza però che ne risultasse stravolto l’intero impianto normativo.

      Dopo numerose riunioni del Consiglio dei Ministri e tenendo conto in parte di un critico parere della Conferenza unificata, il Governo potè presentare al Senato il 2 novembre 2001 un disegno di legge (A.S. 795) recante “Modifica delle norme in materia di immigrazione e di asilo”.

      L’analisi del disegno di legge che ha iniziato l’esame parlamentare suscita non poche perplessità  sull’opportunità e sulla legittimità delle norme che si vorrebbero introdurre.

     

1. La relazione illustrativa del disegno di legge richiama in modo piuttosto confuso una serie di conferenze internazionali sull’immigrazione svoltesi nel 1985 e nel 1995 (cioè in un periodo assai anteriore all’elaborazione ed entrata in vigore della legislazione del 1998) e afferma la necessità di regolare l’immigrazione che resterà comunque un fenomeno costante e inarrestabile. Tra l’altro si afferma da un lato che non si ferma “il pericolo di una vera invasione dell’Europa da parte di popoli che sono alla fame, in preda ad una inarrestabile disoccupazione o a condizioni di sottoccupazione” e dall’altro che “non si può, di converso, pensare di arrestare questo flusso migratorio ed il conseguente stato di illegalità con sanatorie indiscriminate”, ma conclude che occorre in vario modo affrontare il problema dell’immigrazione clandestina.

Le norme del disegno di legge sull’immigrazione appaiono però notevolmente sbilanciate:  il loro unico obiettivo sembra essere il contrasto dell’immigrazione clandestina e considerano lo straniero soprattutto come soggetto potenzialmente pericoloso per l’ordine pubblico o come lavoratore precario, mentre per diversi motivi sono prive di ogni “senso di umanità” con gli stranieri.

In primo luogo alcune disposizioni del ddl perseguono quel legittimo obiettivo di controllo del territorio dello Stato e di repressione dell’immigrazione clandestina con modalità che però incidono fortemente – con modalità talvolta incostituzionali - sui diritti fondamentali della persona (libertà personale, diritto di difesa, diritto d’asilo, diritti familiari e del lavoro) che spettano anche allo straniero.

In secondo luogo diverse norme del ddl finiscono per compromettere una realistica politica circa i nuovi ingressi e rendono precaria ed incerta la condizione degli stranieri già regolarmente soggiornanti in Italia.

In terzo luogo la restrizione dell’immigrazione regolare è attuata in forme e modi controproducenti, perché ignora che esiste comunque una notevole pressione migratoria.

Lo Stato può legittimamente avere come proprio interesse quello ad una regolare e contenuta immigrazione, ma tale interesse può essere effettivamente perseguito se si tiene conto delle caratteristiche oggettive del fenomeno migratorio che attraversa il mondo contemporaneo e del fatto che esso in presenza di un ineluttabile calo demografico e invecchiamento della popolazione non costituisce una minaccia, ma una risorsa che arricchisce la società ospitante, come dimostra l’esperienza della legislazione in vigore negli USA.

Infatti ogni legge che vuole efficacemente regolare l’immigrazione intende non già aumentare l’immigrazione, bensì aumentare l’immigrazione regolare e perciò non può ignorare le caratteristiche oggettive del fenomeno migratorio, perché altrimenti rischia di diventa illusoria: rassicura nel breve periodo, ma nel medio-lungo periodo finisce con l’incrementare l’immigrazione clandestina e il lavoro nero e così contribuisce ad aumentare il senso di insicurezza collettiva.

Poiché dunque il ddl nel complesso non si cura di favorire l’integrazione degli stranieri regolarmente soggiornanti, ma si occupa soltanto della prevenzione e della  repressione dell’immigrazione clandestina si può concludere che nel contenuto di tutte le norme del ddl, contrariamente  a ciò che prevedeva il programma elettorale in materia di immigrazione con cui la Casa delle libertà ha vinto le elezioni politiche generali del 2001, non vi è alcun equilibrio tra accoglienza e integrazione degli stranieri regolarmente soggiornanti e lotta contro l’immigrazione clandestina.

 

      2. Il contenuto complessivo di molte norme del ddl appare assai discutibile soprattutto perché sono sostanzialmente superflue (non innovano sostanzialmente le norme vigenti) o di dubbia legittimità costituzionale o controproducenti e contraddittorie rispetto all’intento di prevenire e reprimere l’immigrazione clandestina sotto diversi profili.

 a) E’ generalizzata l’ esecuzione immediata del provvedimento amministrativo di espulsione senza il rispetto della riserva di giurisdizione. Preoccupa non l’obiettivo di fondo, in sé legittimo, di eliminare l’immigrazione clandestina e di rendere efficaci le espulsioni, ma la scelta dei mezzi che si intendono adottare, in particolare la sommaria procedura che comporta l’accompagnamento immediato alla frontiera per semplice provvedimento amministrativo, senza effettiva possibilità di ricorso. L’accompagnamento immediato alla frontiera – che comporta conseguenze rilevantissime per ogni persona e per la sua famiglia - senza una preventiva pronuncia del giudice sembra inoltre contrastare con l’art. 13 della Costituzione come ha recentemente affermato la Corte costituzionale (cfr. sent. n. 105/2001). Il legittimo interesse dello Stato a tutelare l’integrità del suo territorio può realizzarsi in forme che non compromettano irreparabilmente la libertà personale e il diritto alla difesa dello straniero, prevedendo p. es. un trattenimento provvisorio dell’espellendo nei centri di permanenza in attesa della decisione del giudice, da adottarsi entro tempi brevissimi (48+48 ore), con la quale si pronuncia sia sulla convalida dfel trattenimento provvisorio, sia sulla richiesta dell’autorità amministrativa di disporre l’espulsione da eseguirsi con accompagnamento immediato alla frontiera, sia sul trattenimento definitivo in attesa del rimpatrio.

  b) E’ accentuata la precarietà dello straniero regolarmente soggiornante ed è minata la stabilità del suo soggiorno in un modo di dubbia legittimità costituzionale. La stessa terminologia ne è un indice significativo, col cambiamento del “permesso di soggiorno” in “contratto di soggiorno” secondo un regime che è di dubbia legittimità costituzionale perché viola la parità di trattamento tra lavoratori italiani e stranieri: il contratto vale per due anni, è legato al permesso di soggiorno di durata massima biennale e rinnovabile per altri due anni e non per quattro come prevede la legge vigente. Inoltre la carta di soggiorno  è rilasciata non più dopo 5 anni di soggiorno regolare ininterrotto, ma dopo 6 anni. Infine il lavoratore straniero che perda il posto di lavoro, allo scadere del permesso di soggiorno per lavoro subordinato non ha più un anno di tempo, ma soltanto sei mesi per trovarsi un altro lavoro regolare.

  c) Si produce una notevole restrizione dei ricongiungimenti familiari che viola il diritto a vivere in famiglia. Vengono esclusi dalla possibilità di ricongiungimento i genitori a carico quando vi siano altri figli e i parenti fino al terzo grado a carico inabili al lavoro: una restrizione alla legge in vigore che sarebbe apertamente in contrasto con la direttiva europea in corso di approvazione e con le norme costituzionali ed internazionali che proteggono il diritto a vivere in famiglia. Inoltre la precarietà e conseguente temporaneità del lavoro rischia di ridurre fortemente le possibilità di ricongiungimento.

   d) Si riducono e si rendono inutilmente difficili le possibilità di ingresso regolare di stranieri per lavoro: si ritornerebbe ad un sistema basato soltanto sulla preventiva chiamata nominativa del datore di lavoro, così dimenticando che esistono molti tipi di lavori per i quali è essenziale il preventivo incontro “in loco” della domanda e dell’offerta di lavoro. In tal senso l’abrogazione dell’ingresso per inserimento nel mercato del lavoro sarebbe del tutto controproducente di fronte all’elevata richiesta di manodopera presente in molte zone del Paese. Si avrebbe così un irrigidimento della disciplina degli ingressi regolari per lavoro secondo canali e forme che appaiono inutilmente complicate rispetto alle concrete esigenze del mercato del lavoro e che in realtà ripristinano un sistema analogo a quello che fino al 1998 non ha affatto limitato l'immigrazione, ma al contrario ha determinato un blocco dei nuovi ingressi regolari per lavoro e ha perciò incentivato il ricorso massiccio all'immigrazione clandestina e ha così costretto il legislatore ad intervenire nel 1987, nel 1990, nel 1995 e nel 1998 con provvedimenti di regolarizzazione.

       e) Si vanifica sostanzialmente l’accesso al diritto di asilo – uno dei diritti più universalmente tutelati dei migranti. Esso è disciplinato in due soli articoli, proprio mentre era già stato approvato dalla Camera nel marzo 2001 un ampio disegno di legge e sono in corso di approvazione in sede comunitaria tre direttive, ciascuna delle quali prevede decine di articoli molto dettagliati. Così l’area dei beneficiari del diritto d’asilo previsto dall’art. 10, comma 3 Cost. è tutelata a livello legislativo soltanto per quegli stranieri perseguitati ai quali è riconosciuto lo status di rifugiato. Inoltre sulle singole domande di riconoscimento dello status di rifugiato giudicherebbe non più un’unica Commissione centrale, bensì tante Commissioni territoriali, costituite prevalentemente da funzionari governativi, che con una procedura accelerata e sommaria, adotterebbero decisioni. All’eventuale decisione negativa seguirebbe – senza possibilità di presentare un ricorso avente effetti sospensivi – l’espulsione e così si vanificherebbe l’essenza stessa del diritto d’asilo - che comporta anzitutto la possibilità dell’accesso alla procedura e di un esame da parte di un soggetto imparziale. Inoltre in attesa dell’esito di tale procedura accelerata il richiedente asilo dovrebbe essere trattenuto in appositi centri di accoglienza (senza che sia previsto che anche in tal caso l’art. 13 Cost. impone una convalida giurisdizionale) o nei centri di permanenza temporanea e in tali casi non riceverebbe più alcun contributo di prima assistenza. Nessuna nuova misura è invece prevista in favore della condizione degli stranieri che abbiano ottenuto il riconoscimento dello status di  rifugiato.

 

    3. Una buona parte delle norme del ddl appare inopportuna, perché contrasta o omette di adeguare l’ordinamento italiano alle complesse e articolate norme comunitarie che sono state recentemente approvate o che sono in corso di approvazione proprio sui medesimi argomenti che sono oggetto del ddl:

    a) gli ingressi e i soggiorni per lavoro subordinato e per lavoro autonomo sono destinati ad essere regolati dalle norme della Proposta della commissione europea COM (2001) 386 (01) dell’11 luglio 2001 di direttiva del Consiglio relativa alle condizioni d'ingresso e di soggiorno dei cittadini di paesi terzi che intendono svolgere attività di lavoro subordinato o autonomo (direttiva alle cui norme la Commissione propone che ogni Paese membro si debba adeguare entro il 1 gennaio 2004).

     b) i modelli dei permessi di soggiorno sono destinati ad essere regolati dalla proposta della Commissione - COM (2001) 157: Proposta di Regolamento del Consiglio che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di paesi terzi.

    c) i ricongiungimenti familiari saranno regolati dalle norme generali contenute nella Proposta della Commissione – COM (2000) 624: proposta  modificata di direttiva del Consiglio relativa al diritto al ricongiungimento familiare (presentata dalla Commissione in applicazione dell'articolo 250, paragrafo 2 del trattato CE), alle cui norme tutti gli Stati membri, una volta definitivamente approvata, dovranno conformarsi entro il 31 dicembre 2002

     d) lo status degli stranieri titolari di un permesso di lungo periodo sarà regolato dalle norme della Proposta della Commissione COM (2001) 127: Proposta di direttiva del Consiglio relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano residenti di lungo periodo (la Commissione propone che ogni Stato membro debba adeguare il proprio ordinamento entro il 31 dicembre 2003).

     e) le sanzioni per i vettori: cfr. le sanzioni previste nei confronti dei vettori che trasportano stranieri clandestini sono regolate dalle recenti norme (già in vigore) della Direttiva 2001/51/CE del Consiglio, del 28 giugno 2001, che integra le disposizioni dell'articolo 26 della convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen del 14 giugno 1985, alle quali ogni Stato membro deve comunque adempiere entro l’11 febbraio 2003;

     f)  lo standard minimo per l’esame delle domande di asilo sarà regolato dalle norme della Proposta della Commissione – COM (2000) 528: Proposta di direttiva del Consiglio recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (la Commissione propone che ogni Stato membro debba adeguarsi a tali norme entro il 31 dicembre 2002);

     g) le misure di accoglienza dei richiedenti asilo saranno regolate dalle norme della Proposta della Commissione – COM (2001) 181: Proposta di direttiva del Consiglio recante norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri; (la Commissione propone che ogni Stato membro debba adeguarsi a tali norme entro il 31 dicembre 2002).

      h) la tipologia delle espulsioni dovrà essere arricchita dalle norme (già in vigore) della Direttiva 2001/40/CE del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di paesi terzi, alla quale ogni Stato membro dell’Unione deve adeguarsi entro il 2 dicembre 2002;

      i) il diritto d’asilo nella forma della protezione temporanea a sfollati per motivi umanitari dovrà adeguarsi alle norme (già in vigore) della Direttiva 2001/55/CE del Consiglio, del 20 luglio 2001, sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi; a tale direttiva ogni Stato membro ha già oggi l’obbligo di adeguarsi entro il 31 dicembre 2002.

    Appare dunque un inopportuno spreco di energie introdurre nell’ordinamento italiano una disciplina legislativa che contrasti o che non tenga conto delle norme comunitarie in vigore o di imminente adozione, anche perché  entro breve tempo l’Italia sarebbe comunque obbligata a riprendere in mano e rielaborare nuovamente tutta la materia. Occorrerebbe perciò rinviare ad altro ddl ben più articolato ogni modifica legislativa delle materie che siano oggetto di recenti o imminenti norme dell'Unione europea (nuovi ingressi di lavoratori stranieri, ricongiungimento familiare, asilo, status degli stranieri titolari di un soggiorno di lungo periodo).

    In ogni caso anche se durante l’esame parlamentare del ddl non vi fosse né uno stralcio, né una riformulazione del testo, è evidente che una nuova legge che dimentichi di adeguarsi alle norme comunitarie in materia avrebbe una durata di pochi mesi, perché entro breve termine Governo e Parlamento dovrebbero  approvare una ulteriore legislazione per adeguare di nuovo tutta la legislazione all’imponente massa di norme comunitarie che nel frattempo saranno entrate in vigore e alle quali l’Italia ha comunque l’obbligo di adeguarsi in virtù della sua appartenenza all’Unione europea.

Si aggiunga poi che appare contraddittorio che nel disegno di legge comunitaria 2001 (approvato dalla Camera all’inizio del novembre 2001 e ora all’esame del Senato: cfr. A.S. 816)  alcune di quelle direttive ricevono attuazione, secondo principi e modalità contrastanti con le norme del ddl in materia di immigrazione e di asilo. Infatti il disegno di legge recante disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge Comunitaria 2001, prevede che il Governo sia delegato ad emanare decreti legislativi entro un anno dall’approvazione della legge comunitaria, previa acquisizione del parere da parte dei competenti organi parlamentari, per tre delle direttive sopra citate, cioè la direttiva 2001/40 del 28 maggio 2001 (GUCE, L 149, del 2 giugno 2001, p. 34) sul riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi, la direttiva 2001/51 del 28 giugno 2001 (GUCE, L 187, del 10 luglio 2001, p. 45) che integra le disposizioni dell’art. 26 della Convenzione di Schengen, cioè “sanzioni nei confronti dei vettori” e la direttiva 2001/55 del 20 luglio 2001 sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati (GUCE L 212 del 7.08.2001, p. 12). La quarta direttiva oggetto di recepimento è la 2000/43 del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendente dalla razza e dall’origine etnica (GUCE L 180 del 19.07.2000, p. 22), ma per quest’ultima direttiva, l’art. 28 del disegno di legge comunitaria prevede anche criteri specifici ai quali il Governo dovrà attenersi nell’emanare i decreti legislativi e provvede all’attuazione diretta di alcune parti (peraltro tale direttiva trova già una parziale attuazione nei vigenti testi degli artt. 43 e 44 T.U.) .

 

4. Per conseguire effettivamente gli scopi espressamente indicati nel programma di governo proposto agli elettori - e per evitare effetti del tutto controproducenti – occorrerebbe chiedersi se prima di addivenire a modifiche legislative non sia invece più urgente provvedere a cambiamenti nell'azione diplomatica e nell'attuazione delle norme vigenti, utilizzando a tal fine l'amplissima discrezionalità che esse lasciano al Governo in carica. Infatti non occorre alcuna nuova legge, ma è sufficiente applicare quella in vigore per potenziare la dotazione e l’organizzazione delle forze di polizia, per aumentare il numero dei centri di permanenza temporanea e assistenza,  per negoziare nuovi accordi bilaterali di riammissione con altri Paesi, per adottare una programmazione annuale delle quote di ingresso per lavoro improntata a criteri innovativi.

Una legge sull’immigrazione è davvero efficace soltanto se riesce a regolare in modo lungimirante l’immigrazione. Perciò ogni legislazione sull’immigrazione risulta efficace soltanto se tiene conto delle caratteristiche oggettive che ha ogni movimento migratorio, perché se invece il suo obiettivo fosse soltanto quello di rassicurare il senso di insicurezza dei cittadini si rivelerebbe del tutto illusoria o, peggio, controproducente.

   In ogni caso poiché la materia disciplinata dal ddl riguarda aspetti essenziali dei diritti fondamentali della persona pare opportuno accantonare ogni fretta, quasi che il cambiamento in se stesso abbia chissà quali conseguenze benefiche.

   Infatti anche per la disciplina dell’immigrazione occorre evitare una prassi che è stata comune a tutti i Governi e i Parlamenti della Repubblica: illudere la pubblica opinione e/o illudersi che per ottenere un cambiamento di politiche pubbliche sia sufficiente elaborare un disegno di legge e farlo approvare dal Parlamento senza approfondire se le nuove norme siano davvero necessarie ed efficaci per ottenere gli scopi che ci si prefigge o, meglio, senza interrogarsi se davvero occorra un nuovo intervento legislativo o se invece sia più efficace e tempestiva un'impegnativa azione politica, amministrativa e diplomatica per dare una diversa o migliore attuazione alle norme vigenti.

Il disegno di legge non sembra contenere disposizioni efficaci per ridurre la gamma di situazioni irregolari, semmai il contrario, perché rendere più difficili le condizioni di ingresso e soggiorno per le persone che vivono onestamente e sono indispensabili al mercato del lavoro non può che aumentare la popolazione irregolare e le conseguenti violazioni da parte degli stessi datori di lavoro, rendendo ancor più difficile il governo del fenomeno migratorio.

La sensazione, dunque, è che si voglia modificare la legge non tanto per cambiare realmente la politica di governo ma più semplicemente per poter dire e far pensare  che ora le cose cambieranno.     

E’ di appena qualche settimana fa  una Comunicazione della stessa Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo relativa ad un metodo aperto di coordinamento della politica comunitaria in materia di immigrazione. La Comunicazione prevede che il Consiglio approvi degli orientamenti pluriennali ed individui degli obbiettivi a breve, medio e lungo termine per il raggiungimento dei quali dovrebbero poi essere considerati obbiettivi specifici nazionali.

Ci si chiede dunque che senso abbia agitarsi tanto per introdurre delle norme non tanto diverse, o comunque tali da non comportare sensibili mutamenti nel governo dell’immigrazione, quando invece a seguito dell’entrata in vigore delle citate norme comunitarie dovremo comunque fare i conti con un confronto ben più ampio sugli stessi problemi, col rischio evidente che la nuova legge sia già superata prima ancora di essere pronta.

Alla luce delle osservazioni critiche e di quelle specifiche di carattere giuridico-costituzionale che saranno di seguito illustrate si impone un profondo ripensamento del testo del ddl e/o una riduzione alle sole norme che appaiono essenziali per accrescere la prevenzione e repressione dell’immigrazione clandestina, accantonando le norme concernenti temi oggetto di direttive comunitarie in vigore o di imminente approvazione: in tal caso resterebbero soltanto le modifiche al T.U. immigrazione relative agli artt. 3 (politiche migratorie), 12 (norme penali), 13 (espulsione amministrativa), 14 (esecuzione dell'espulsione), 16 (espulsione come misura alternativa alla detenzione).

 Il rischio è che ancora una volta un Governo proponga e il Parlamento italiano approvi leggi le cui norme oltre a violare norme costituzionali, internazionali e comunitarie non sono applicabili per insufficienza di dotazioni finanziarie, amministrative e di personale e non servono affatto a regolare più efficacemente il fenomeno migratorio e a consentire allo Stato di perseguire il proprio interesse ad un’immigrazione contenuta e regolata, ma servono soltanto a rassicurare gli elettori timorosi per la propria sicurezza e a rafforzare la credibilità politica di chi le propone, il quale è sentito come difensore dell’ordine pubblico e dell’interesse nazionale.

   In ogni caso la storia del diritto degli stranieri in Italia e nel mondo dimostra che simili rassicurazioni sono assai effimere e controproducenti, perché quando un fenomeno migratorio è più represso senza che vengano meno le cause che lo originano esso lungi dal cessare si trasforma di fatto in un fenomeno meno regolare e meno controllato e ciò finisce per aumentare ancor di più la sensazione di insicurezza collettiva, trascinando la legislazione verso eccessi nei quali rischiano di raggiungere punte inaudite le norme formalmente ancor più limitative delle libertà individuali degli stranieri, alle quali si accompagna un concreto rischio della loro ancor più totale ineffettività.

 

1.2.      Le norme in materia di politiche migratorie

 

Il disegno di legge governativo interviene anzitutto sulla disciplina delle politiche migratorie e a tal fine prevede norme di contenuto finanziario e norme correttive della disciplina prevista dal vigente T.U. circa gli organi e gli strumenti a disposizione del Governo al fine di attuare la regolazione del fenomeno migratorio.   

 

1. L’art. 1 ddl prevede due distinte norme.

Il comma 1 prevede l’introduzione nel testo unico delle norme sulle imposte sui redditi  una norma che consente al Governo di  prevedere agevolazioni fiscali per favorire le elargizioni dei privati in favore di iniziative di carattere umanitario nei paesi non appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE).

Non è chiaro il motivo della collocazione di una simile norma in un disegno di legge sull’immigrazione, ma se il suo scopo fosse effettivamente quello di incentivare le azioni di prevenzione delle cause che inducono all’emigrazione per motivi di lavoro, allora sarebbe ragionevole prevedere espressamente che si deve trattare di elargizioni in favore di iniziative   condotte da enti aventi sede in Italia ed effettuate nei Paesi di maggiore emigrazione verso l’Italia e  finalizzate alla prevenzione delle cause che inducono all’emigrazione verso l’Italia o ad un positivo reinserimento in patria degli stranieri emigrati in Italia, secondo criteri che dovrebbero essere  definiti periodicamente nel medesimo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che individua gli enti destinatari di tali elargizioni.

In mancanza di precisazioni simili a quelle sopra ipotizzate la norma appare poco attinente alla materia di un testo normativo che si occupa di immigrazione e di asilo e perciò più opportunamente potrebbe far parte di norme di leggi finanziarie o tributarie, al fine di individuare una più efficace copertura finanziaria dei relativi oneri. La copertura finanziaria della norma nel ddl è infatti di dubbia legittimità costituzionale essendo collegata ad un evento del tutto futuro ed incerto, cioè al gettito derivante dall’auspicata regolarizzazione di rapporti di lavoro in atto con lavoratori stranieri che potrebbe derivare da un’applicazione stringente delle altre norme del ddl.

Il comma 2 orienta, nel quadro degli accordi internazionali, la cooperazione internazionale e gli aiuti a scopo non umanitario, all’adozione, da parte dei Paesi non appartenenti all’Unione europea, di politiche di attiva collaborazione finalizzate a contrastare le organizzazioni criminali operanti nell’immigrazione clandestina, nello sfruttamento della prostituzione, nel traffico di stupefacenti e di armamenti nonchè in materia di cooperazione giudiziaria. Tale secondo comma appare superfluo perché le misure che prevede possono essere già oggi adottate dal Ministero degli affari esteri in base alle leggi vigenti in materia di cooperazione allo sviluppo. Del resto un incentivo alla collaborazione è già espressamente previsto dalle vigenti norme del T.U. sull’immigrazione (cfr. artt. 2, 3, 19). Insistere più su una forma di sanzione invece che su incentivi (come sono le quote preferenziali di ingresso previste dagli artt. 2, 3 e 19 T.U. o la cessione a Paesi stranieri di apparecchiature per il controllo delle frontiere prevista dall’art. 10 T.U.) finirebbe col penalizzare proprio quei Paesi di maggiore emigrazione e impedirebbe all’Italia di adottare politiche graduali: una forma di sanzione potrebbe invece consistere nella revoca dei benefici previsti dalla vigente legislazione sull’immigrazione (p. es. riduzione o eliminazione delle quote preferenziali di ingresso per i cittadini di quei Paesi).

A ciò si aggiunga che simili misure sanzionatorie si possono rilevare poco efficaci circa la prevenzione e la repressione dell’immigrazione clandestina nei confronti di Paesi che abbiano un alto numero di emigrati in molte altre parti del mondo (si pensi alla Cina, alle Filippine, al Marocco): essi infatti al fine di mantenere un elevato livello di rimesse finanziarie da parte dei propri emigrati non avrebbero alcuna convenienza a vincolarsi al rispetto di particolari obblighi di rimpatrio di propri connazionali nei confronti di un Paese nel quale siano emigrati soltanto una piccola minoranza dei propri emigrati all’estero.

 

2. L’art. 2 ddl introduce un nuovo art. 2-bis T.U. il quale prevede l’istituisce di un Comitato per il coordinamento ed il monitoraggio dell’applicazione del T.U., articolato su due livelli: uno politico (un Comitato composto di Ministri competenti e di un Presidente di una Regione o Provincia autonoma) e un altro amministrativo (un gruppo di lavoro tecnico, con i rappresentanti dei Ministeri competenti e tre esperti designati dalla Conferenza unificata).

Occorre ricordare che un comitato interministeriale per il coordinamento ed il monitoraggio può essere istituito in qualsiasi momento senza che vi sia bisogno di modifiche legislative, ma con proprio decreto dal Presidente del Consiglio dei ministri in base alla legge n. 400/1988, così come è avvenuto nella precedente legislatura, e che la mera istituzione per legge di un organismo simile non può certo incrementarne l’efficacia operativa e sembra in controtendenza rispetto alla legislazione recente che mira a ridurre al minimo i comitati interministeriali.

E’ altresì evidente che la norma mira a dare una priorità al Ministero dell’Interno nel coordinamento dell’indirizzo amministrativo degli altri ministeri, ma così facendo si viola l’art. 95 Cost. che conferisce tale coordinamento al solo Presidente del Consiglio dei Ministri.

In tal senso accresce la confusione di ruoli, invece di semplificarla e di renderla conforme all’art. 95 Cost. che prevede una riserva di legge, la norma del comma 4 del nuovo art. 2-bis T.U. che attribuisce non alla legge, ma ad un regolamento governativo proposto dal Presidente del Consiglio dei Ministri l’individuazione delle modalità di coordinamento delle attività del gruppo tecnico con le strutture della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Invero un simile gruppo tecnico ben potrebbe collegarsi ad un apposito Dipartimento per l’immigrazione da istituirsi come “struttura di missione” presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 7, comma 3 D. Lgs. 30 luglio 1999, n. 303.

Il nuovo testo dell’art. 118 Cost., come riformato dalla L. cost. n. 3/2001, prevede espressamente che la legge statale deve prevedere forme di coordinamento tra Stato e Regioni in materia di immigrazione e perciò un coordinamento e un monitoraggio dell’applicazione della normativa sull’immigrazione non può escludere la presenza di rappresentanti delle Regioni, anche perché esse hanno potestà legislativa e amministrativa su aspetti della vita che riguardano anche la condizione degli stranieri. Perciò il ddl prevede che a livello politico faccia parte del Comitato un Presidente di Regione o Provincia autonoma, designato dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni, e che la Conferenza Stato-Regioni deve designare tre esperti del gruppo tecnico, anche se la figura di un esperto di per sé non può ritenersi direttamente coincidente con quella di un delegato delle Giunte regionali.

   

3. L’art. 3 ddl modifica la disciplina prevista dall’art. 3 T.U. circa la determinazione annuale dei flussi migratori.

 In primo luogo si prevede espressamente un termine per la determinazione delle quote di ingresso in Italia per lavoro. Essa anticipa al 31 dicembre dell’anno precedente a quello al quale il decreto di programmazione degli ingressi si riferisce il termine per la sua emanazione al fine di evitare ritardi che si ripercuotano sull’efficacia del sistema e sostituisce la disposizione per la quale, in caso di mancata emanazione del decreto di programmazione dei flussi di lavoro, valgono le quote dell’anno precedente.

 Si può peraltro osservare che l’effettiva entrata in vigore del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di determinazione delle quote di ingresso per lavoro subisce ritardi dovuti anche ad altre fasi della procedura (Parere parlamentare, emanazione definitiva, registrazione della Corte dei conti) e perciò sarebbe opportuno precisare che il termine del 31 dicembre si riferisce alla data entro la quale deve avvenire la pubblicazione del D.P.C.M.

 In secondo luogo si prevede che, prima di predisporre lo schema di decreto di determinazione delle quote di ingresso per lavoro, siano sentiti sia il Comitato per il coordinamento e il monitoraggio della legge, cui partecipa un Presidente di regione, sia la Conferenza unificata ed in tale sedi le Regioni possono avanzare le loro proposte, che peraltro non potrebbero essere vincolanti perché l’immigrazione spetta alla esclusiva potestà legislative ed amministrativa dello Stato in ragione del nuovo art. 117 Cost., come modificato dalla legge cost. n. 3/2001.

 Il coinvolgimento obbligatorio della Conferenza unificata Stato – Regioni – Città si configura come una delle forme di collaborazione tra Stato e Regioni che in materia di immigrazione che la legge statale deve prevedere ai sensi del nuovo testo dell’art. 118 Cost., come modificato dalla legge cost. n. 3/2001, anche se il ddl non prevede un termine per l’espressione del parere, né la possibilità per ogni Regione di esprimere il proprio dissenso e/o una esplicita proposta alternativa a quella prospettata dal Governo circa l’entità quantitativa o qualitativa delle quote di ingresso di lavoratori stranieri riguardanti la propria Regione. 

 Si prevede altresì la facoltà del Presidente del Consiglio dei Ministri di emanare con proprio decreto una ulteriore determinazione delle quote durante l’anno un termine, ma non si prevede che su tale decreto siano acquisiti i medesimi pareri parlamentari e della Conferenza unificata.

 Si prevede infine che in caso di mancata pubblicazione del decreto di programmazione annuale, il Presidente del Consiglio dei ministri provvede, in via transitoria, con proprio decreto, nel limite delle quote stabilite per l’anno precedente.

 Quest’ultima disposizione però appare assai poco chiara sotto diversi profili.

 In primo luogo il Presidente del Consiglio dei Ministri potrebbe intervenire “in via transitoria” sulla determinazione di quote soltanto se si prevedesse che poi durante l’anno entrasse effettivamente in vigore il D.P.C.M. di determinazione delle quote.

 In secondo luogo non si prevede quale natura giuridica abbia il decreto “transitorio”, né se su di esso si debbano acquisire i prescritti pareri parlamentari e della Conferenza unificata. La disposizione introdotta dall’art. 3 ddl appare perciò non priva di ambiguità e di dubbi di legittimità costituzionale perché impedisce alle Camere e alla Conferenza unificata di esprimere un proprio parere anche nei casi in cui il Governo scelga di non adottare una nuova determinazione delle quote di ingressi per lavoro, ma di adottare interventi “transitori” e così di fatto dà al Governo la facoltà totalmente discrezionale di togliere efficacia – in tutto o in parte - alle norme legislative in vigore in materia di ingressi per lavoro e ciò contrasta con la riserva di legge in materia di condizione giuridica dello straniero prevista dall’art. 10, comma 2 Cost.

In terzo luogo la norma finisce per consentire al Presidente del Consiglio dei Ministri di ritenere il limite delle quote adottato con il D.P.C.M. relativo all’anno precedente un mero limite massimo, al di sotto del quale sarebbe dunque consentito fare qualsiasi scelta, inclusa quella di non prevedere alcun tipo di quota di ingresso. La norma è in ogni caso lacunosa perché si riferisce soltanto ai precedenti limiti quantitativi, ma non prevede alcun effetto degli eventuali limiti qualitativi previsti in tale decreto.

 

 

 

           

1.3.      Le norme in materie di ingresso, soggiorno ed allontanamento

 

Uno degli aspetti fondamentali del ddl governativo è la modifica delle norme del T.U. in materia di ingressi soggiorni ed espulsioni.

La relazione al ddl parte dall’idea del “pericolo di una vera invasione dell’Europa da parte di popoli che sono alla fame, in preda ad una inarrestabile disoccupazione o a condizioni di sottocupazione” e afferma che il disegno di legge si presenta come orientato ad “affrontare il problema di fondo concernente l’immigrazione clandestina”. Occorre peraltro osservare che le norme in materia di ingresso sembrano idonee a prevenire non soltanto l’immigrazione clandestina, ma anche ogni tipo di immigrazione extracomunitaria. Infatti si accentua la precarietà della condizione giuridica dello straniero regolarmente soggiornante, per il quale l’integrazione sembra essere condizionata ai bisogni di manodopera a basso costo.

      

1.  L’art. 4 ddl (permesso di soggiorno) apparentemente innova la disciplina dell’ingresso per lavoro, prevedendo che il permesso di soggiorno per lavoro subordinato possa esser rilasciato soltanto dopo che sia stato stipulato un «contratto di soggiorno per lavoro», incontro della volontà del datore di lavoro e del lavoratore, certificato, all’estero, dalla rappresentanza diplomatica o consolare italiana e che la rappresentanza diplomatica o consolare prima dell’ingresso dello straniero sul territorio nazionale debba rilasciare certificazione per l’accertamento dei requisiti per lo svolgimento di un lavoro autonomo.

In realtà la norma appare assai complessa.

Il primo comma dell’art. 4 ddl. appare formulato in modo incomprensibile.

Il secondo comma appare superfluo perché già oggi il vigente testo del comma 3 dell’art. 5 T.U. prevede che la parificazione della durata del permesso di soggiorno a quella prevista nel visto di ingresso si applica nei casi in cui il T.U. non preveda termini diversi e tali termini diversi sono previsti proprio in materia di permessi per motivi di lavoro.

L’abrogazione prevista dal comma 3 appare in realtà fittizia, perché i successivi commi introdotti dal ddl ripristinano la medesima durata dei permessi di soggiorno che è prevista nella norma che si vuole abrogare.  

In proposito il ddl riproduce in realtà  norme già in vigore.

In primo luogo, come sarà meglio illustrato nel prossimo paragrafo, la firma di un contratto di soggiorno per lavoro prima del rilascio del permesso di soggiorno che si introdurrebbe nell’art. 5 T.U. per effetto del nuovo comma 3-bis  è istituto sostanzialmente analogo alla firma del contratto di lavoro subordinato prima dell'ingresso per lavoro che è già prevista dal vigente testo dell'art. 22, comma 8 T.U.

In secondo luogo la durata dei permessi di soggiorno per lavoro che sarebbe introdotta nell’art. 5 T.U. dal nuovo comma 3-bis è la medesima che già oggi prevista dall'art. 5, comma 3, lett. b) e d) T.U., lettere che la norma del comma 1 dell’art. 4 ddl vuole abrogare.

La norma del nuovo comma 3-ter appare in parte opportuna allorchè semplifica la vita del lavoratore stagionale e dell’amministrazione e prevede un permesso di soggiorno pluriennale per lavoro stagionale: dopo due anni di lavoro stagionale si può rilasciare un permesso triennale per lavoro stagionale, anche se il visto di ingresso per lavoro stagionale dovrebbe essere rilasciato ogni anno. Tuttavia la previsione della revoca immediata del permesso di soggiorno per lavoro stagionale in caso di abuso appare ambigua e di dubbia legittimità costituzionale: la mancata previsione di criteri per individuare tale abuso dà all’amministrazione una discrezionalità illimitata e così viola la riserva di legge in materia di condizione giuridica dello straniero prevista dall’art. 10, comma 2 Cost.

Anche la norma del nuovo comma 3 – quater appare superflua perché prevede come durata del permesso di soggiorno per lavoro autonomo la medesima durata biennale che è già prevista dalla vigente lettera d) che il comma 3 ddl vuole abrogare.

La norma del nuovo comma 3-quinquies opportunamente consente di completare la raccolta dei dati da parte dell’anagrafe informatizzata dei lavoratori extracomunitari già istituita dall’art. 21 T.U., prevedendo che in essa devono essere inseriti anche i dati di tutti coloro che prima o poi potrebbero comunque iscriversi nelle liste di collocamento e svolgere così un lavoro subordinato, cioè di tutti i tipi di visti per lavoro subordinato, stagionale e autonomo e per ricongiungimento familiare. Tuttavia per evitare lacune e rendere davvero completa tale raccolta sarebbe opportuno prevedere analoga comunicazione obbligatoria in tutti i casi di rilascio a stranieri che si trovano  regolarmente in Italia di titoli di soggiorno che consentono legalmente l’accesso al lavoro e cioè  la carta di soggiorno, il permesso di soggiorno per motivi familiari e il permesso di soggiorno per motivi di asilo.

La  norma del nuovo comma 3-sexies prevede la medesima durata massima di 2 anni  per i permessi di soggiorno per ricongiungimento familiare, cioè proprio la medesima durata che è oggi prevista dalla lettera d) che il comma 3 dell’art. 5 T.U. che l’art. 4 ddl vuole invece abrogare.

Il nuovo testo del comma 4 dell’art. 5 T.U. introdotto dal ddl prevede tre innovazioni rilevanti che rendono assai rigida e sostanzialmente vessatoria la disciplina dei rinnovi dei permessi di soggiorno.

In primo luogo si prevede che i termini entro i quali si deve presentare alla Questura la domanda di rinnovo del permesso di soggiorno non siano più uguali per tutti i tipi di permesso di soggiorno, ma differenziati sulla base della durata dei permessi. Più esattamente il termine generale di resta di 30 giorni, ma è portato a 60 giorni in caso di rinnovo di permesso di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato, che ha la durata di un anno, e a 90 giorni in caso di rinnovo di permesso di soggiorno per lavoro subordinato a tempo indeterminato, che ha la durata di due anni.   Si tratta di un’innovazione che irrigidisce in modo inutilmente vessatorio i termini e le modalità per il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro: anticipare da 30 a 60 e 90 giorni i termini rispettivamente previsti per la richiesta del rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato e a tempo indeterminato contribuisce a ridurre ulteriormente il tempo a disposizione del lavoratore straniero per trovarsi un nuovo posto di lavoro in caso di perdita dello stesso.

In secondo luogo la norma il potere di rinnovare il permesso di soggiorno è attribuito non più al Questore della provincia in cui lo straniero si trova (dimora), ma al Questore della Provincia in cui risiede. L’innovazione appare inutilmente vessatoria per lo straniero: poiché non esiste l’obbligo per gli stranieri di iscrizione anagrafica e comunque l’adempimento è assai gravoso dovendosi dimostrare la dimora abituale o, in base all’art. 6 T.U., la dimora per almeno 3 mesi in un centro di accoglienza, di fatto si impedisce agli stranieri non iscritti anagraficamente di rinnovare il proprio permesso di soggiorno o si impone agli iscritti che da poco abbiano trasferito la propria dimora o abbiano fatto domanda di trasferimento di residenza, di presentarsi alla Questura competente per un luogo col quale ormai non hanno più alcun legame.

In terzo luogo la durata del permesso di soggiorno rinnovato è ridotta a metà rispetto alla durata doppia rispetto a quella del permesso inizialmente rilasciato: si sopprime così la possibilità di rinnovare un permesso di soggiorno per una durata superiore al periodo precedente e ciò rafforza la precarietà della condizione di ogni straniero regolarmente soggiornante, che deve effettuare una sequenza di rinnovi biennali, senza che a ciò corrisponda un effettivo interesse dello Stato ed anzi la modifica proposta potrebbe aggravare i carichi di lavoro degli uffici delle Questure in modo che appare difficilmente sostenibile e comunque ingiustificato, anche considerando i tempi che nella prassi attuale sono necessari per l’espletamento della procedura di rinnovo e le incertezze che derivano dai lunghi periodi in cui lo straniero è in possesso solo della ricevuta della richiesta di rinnovo del permesso non ancora rilasciato (il che nella prassi ritarda le procedure di avviamento al lavoro).

Si deve osservare che già le norme vigenti prevedono tutti gli strumenti necessari al controllo del permesso di soggiorno anche durante il periodo di validità dello stesso, poiché il Questore già oggi in qualsiasi momento ha la facoltà di revocare il permesso di soggiorno "quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato" (art.5 comma 5 T.U.):  è molto più gravoso per gli uffici predisporsi ad esaminare domande di rinnovo generalizzato dei permessi con frequenza biennale – come avverrebbe secondo le norme proposte - , piuttosto che – come è già consentito dalle norme vigenti - emanare eventuali provvedimenti individuali di revoca quando ne ricorrono i presupposti di legge.

L’art. 4 ddl prevede poi nuovi commi 8 e 8-bis dell’art. 5 T.U. contenenti particolari cautele per evitare contraffazioni dei documenti di ingresso e soggiorno e particolari caratteristiche degli stessi, nonchè una particolare fattispecie criminosa.

Il nuovo testo del comma 8 dell’art. 5 T.U. di per sé non necessariamente avrebbe richiesto una modifica di norme legislative, anche perché il Ministero dell’Interno non ha provveduto ad attuare l’Azione comune dal vigente testo. Peraltro una simile modifica legislativa può apparire comunque inopportuna in considerazione della recente proposta della Commissione - COM (2001) 157: Proposta di Regolamento del Consiglio che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di paesi terzi.

La nuova norma penale del comma 8-bis sanziona la contraffazione di permessi di soggiorno, carte di soggiorno, contratti di soggiorno. Essa rappresenta un chiaro esempio di diritto penale speciale, assoggettando alla più severa pena prevista dall’art. 476 c.p.  per il falso commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico condotte commesse da privati e/o relative a documenti non aventi natura giuridica di atto pubblico, ossia condotte punite, ad esempio, dagli artt. 477 e 482 c.p. con pene inferiori.

Si colma così una lacuna nel sistema sanzionatorio, anche se per ragioni sistematiche la norma dovrebbe essere collocata nell’art. 12 T.U. che già contiene molte altre norme penali dirette a contrastare ogni tipo di agevolazione dell’immigrazione illegale. Peraltro la norma appare non del tutto idonea a raggiungere l’obiettivo della prevenzione e repressione dell’immigrazione clandestina, perché omette di sanzionare anche la contraffazione di altra documentazione essenziale ai fini degli ingressi e del soggiorno (visti di ingresso e di reingresso, nulla-osta al ricongiungimento familiare, autorizzazioni all’ingresso rilasciate nei casi previsti dagli artt. 13, comma 13, 17, 31, comma 3, e 33 T.U. rispettivamente dal Ministro dell’Interno, dal Questore, dal tribunale per i minorenni o dal Comitato per i minori stranieri). In ogni caso la norma

   

2.    L’art. 6 ddl (facoltà inerenti il soggiorno) introduce nell’art. 6 T.U. la norma secondo la quale il permesso di soggiorno per studio in un permesso di soggiorno per lavoro subordinato o autonomo può essere consentita, sempre nell’ambito delle quote annuali,  rispettivamente soltanto previa stipula di un “contratto di soggiorno” e soltanto previa certificazione dei requisiti da parte dell’Ufficio territoriale del Governo.

Nella relazione al ddl si afferma che la norma nel rispetto dell’articolo 5, paragrafo 2, della proposta di direttiva comunitaria riguardante le condizioni d’ingresso per lavoro dei cittadini extracomunitari (proposta di direttiva CNS-2001/0154), dà la possibilità allo straniero che si trova legalmente in Italia ad altro titolo, di stipulare comunque il contratto di soggiorno con il datore di lavoro.

In realtà si tratta di norma inutilmente vessatoria.

Appare eccessivamente oneroso e del tutto irragionevole che il datore di lavoro attraverso la stipula di un “contratto di soggiorno” sia obbligato ad impegnarsi a fornire una sistemazione alloggiativa e i mezzi per il rientro in patria anche nei casi di assunzione di straniero che già si trovi regolarmente in Italia per motivi di studio, il che comunque presuppone per legge che lo studente disponga già di mezzi finanziari e di un alloggio.

Si scoraggia così l’ingresso nel mercato del lavoro regolare dello studente che abbia magari terminato i suoi studi in Italia e così si incentiva ancora una volta il ricorso al lavoro illegale.

 

3.  L’art. 7 ddl (sanzioni per l’inosservanza degli obblighi di comunicazione dell’ospitante e del datore di lavoro) ripristina una sanzione pecuniaria (analoga a quella che già era prevista dall’abrogato art. 147 del  T.U. Leggi di P.S.) nel caso di mancata segnalazione dello straniero all’autorità di P.S. da parte dell'ospitante e del datore di lavoro.

Per le comunicazioni dei datori di lavoro la norma prevede un'inutile duplicazione di adempimenti (in base alle norme generali già vigenti ogni datore di lavoro deve fare entro 5 giorni dall’assunzione la denuncia della stipulazione del contratto di lavoro ai servizi per l’impiego) che invece potrebbero essere sostituiti da comunicazioni tra i servizi per l’impiego e le Questure, che comporta un irrigidimento che contrasta con la ripetuta esigenza di flessibilità del mercato del lavoro.

 

4.  L’art. 8 ddl (Carta di soggiorno) eleva da 5 a 6 anni della durata del soggiorno regolare quale presupposto richiesto per il rilascio della carta di soggiorno.

L'elevamento da 5 a 6 anni contrasta con gli scopi di integrazione sociale degli stranieri regolarmente soggiornanti e dunque appare un irrigidimento inutile, anche perché lo stesso art. 9 T.U. prevede che non è sufficiente il soggiorno ininterrotto per ottenere il rilascio della carta, ma  che lo straniero deve avere anche altri requisiti (reddito, alloggio, legame di parentela ecc.). Perciò appare un presupposto indimostrato l’affermazione relativa all’elevamento a 6 anni contenuta nella relazione illustrativa al ddl secondo la quale “appare questo un periodo di tempo più congruo per poter giudicare il complessivo inserimento dello straniero”. Si potrebbe però ritenere che la norma sia funzionale soltanto ad alleggerire il lavoro delle Questure e perciò intenda far coincidere la scadenza del terzo permesso di soggiorno (normalmente di durata biennale) con la richiesta della carta di soggiorno, per ridurre il numero di domande che devono essere esaminate dalle Questure. Se però fosse questo il vero scopo di una simile norma allora non si comprende per quale motivo il compito di provvedere al rilascio della carta di soggiorno, che è titolo di soggiorno di lungo periodo, non possa essere utilmente conferito all’istituendo Sportello unico per l’immigrazione presso gli uffici territoriali del Governo, seguendo modalità di scambio di informazione con la Questura analoghe a quelle previste dallo stesso ddl per il rilascio dei nulla-osta per i ricongiungimenti familiari.

In ogni caso la norma potrebbe rivelarsi del tutto inutile perché tra poco tutta la disciplina della carta di soggiorno dovrebbe essere rivista dal legislatore al fine di adeguarla alle complesse norme della recente proposta di direttiva della Commissione europea sui soggiorni di lunga durata, il cui presupposto di durata massima prevista è proprio 5 anni. Cfr. Proposta della Commissione COM (2001) 127: Proposta di direttiva del Consiglio relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano residenti di lungo periodo (la Commissione propone che ogni Stato membro debba adeguare il proprio ordinamento entro il 31 dicembre 2003).

Infine la norma del ddl appare in controtendenza con le recenti leggi di altri Paesi europei che prevedono il periodo di 6 anni come presupposto non già per il rilascio di un titolo di soggiorno di lunga durata, bensì per la concessione della cittadinanza.

   

5. L’art. 9 ddl (Coordinamento dei controlli di frontiera) riafferma in capo al Ministro dell’interno il coordinamento dei controlli alle frontiere.

Non si tratta peraltro di una novità perchè l’adozione di misure di coordinamento è  facoltà che già oggi può essere realizzata: in base al vigente comma 3 dell’art. 11 T.U.  le direttive per il coordinamento dei controlli di frontiera devono essere adottate dal Ministro dell’Interno, il quale – prima di adottarle - può sempre avvalersi del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, senza che occorra alcuna nuova norma legislativa.

Opportuna è invece la previsione di un compito di promuovere misure di coordinamento tra le autorità italiane competenti in materia di controlli sull’immigrazione e le competenti autorità europee competenti ad eseguire gli accordi Schengen. Tuttavia è di dubbia legittimità costituzionale che tale compito debba essere affidato al ministro dell’Interno e non al Presidente del Consiglio dei Ministri al quale soltanto spetta in base all’art. 95 Cost. il compito di promuovere e coordinare l’attività dei ministri. Infatti in base alla recente riforma dell’organizzazione del Governo da un lato spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri la responsabilità dell’attuazione degli impegni assunti nell’ambito dell’Unione europea e a tal fine si avvale di un apposito Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (art. 3 D. Lgs. 30 luglio 1999, n. 303), dall’altro i ministeri intrattengono nelle materie di rispettiva competenza i rapporti con l’Unione europea e con le organizzazioni e le agenzie internazionali di settore, ma la coerenza delle attività internazionali ed europee delle singole amministrazioni con gli obiettivi di politica internazionale spettano al Ministero degli affari esteri, il quale esercita comunque autonome competenze in materia di immigrazione (cfr. artt. 2, comma 4, e 12 D. Lgs. 30 luglio 1999, n. 300).

 

6.    L’art. 10 ddl (Disposizioni contro le immigrazioni clandestine) modifica le norme penali e processuali contenute nell’art. 12 T.U.   

Il comma 1 dell’art. 12 T.U. è modificato introducendo il reato di favoreggiamento dell'ingresso a fine di transito verso altri Stati. La norma apparentemente allarga l’area dell’incriminazione, ma in realtà pone fine alla controversa interpretazione riduttiva data dalla giurisprudenza della fattispecie incriminatrice già oggi prevista dall'art. 12, comma 1, T.U. che punisce il favoreggiamento dell’ingresso illegale nel territorio dello Stato, a prescindere dal tipo di scopo ultimo sotteso a questo ingresso (permanenza in Italia o transito verso altri Paesi). Tuttavia la norma appare di dubbia efficacia perché punisce il favoreggiamento dell’ingresso illegale in altri Stati di stranieri che si trovavano illegalmente in Italia e non già di qualunque straniero, anche se regolarmente soggiornante, voglia dal territorio italiano entrare illegalmente nel territorio di altri Paesi (si pensi a coloro ai quali le organizzazioni criminali fanno chiedere e/o ottenere asilo in Italia prima di farli espatriare).

Si introducono poi nell’art. 12 T.U. i nuovi commi 3 e 3 bis, che trasformano in fattispecie autonome le ipotesi previste quali circostanze aggravanti dall’originaria formulazione del comma 3 dell’art. 12 T.U. La ratio dell’innovazione mira ad un inasprimento del regime sanzionatorio in concreto applicato, inasprimento conseguito attraverso la sottrazione dei fatti oggetto delle nuove ed autonome fattispecie incriminatrici alla valutazione giurisdizionale sul possibile bilanciamento con circostanze attenuanti; tale ratio caratterizza anche la modifica del delitto di furto introdotta dalla L. 26 marzo 2001, n. 128, ma non risolve il  rapporto tra elementi costitutivi ed elementi circostanziali della fattispecie, rapporto la cui configurazione caso per caso resta, infatti, affidata all’interpretazione giurisdizionale.

In ogni caso la norma appare malformulata perché nella norma oggi vigente l’utilizzo di mezzi di trasporto internazionale o di documenti contraffatti costituisce un’autonoma figura, sicchè se non si aggiungesse prima della parola “utilizzando” la parola “ovvero” si punirebbe in modo più lieve rispetto ad oggi il favoreggiamento dell’ingresso a fine di lucro o in concorso con due o più persone che avvenga senza utilizzare mezzi di trasporto di linea o documenti contraffatti. 

Assai malformulata e lacunosa è la trasformazione da circostanza aggravante a  autonome figure di reato dei delitti più gravi oggi previsti e puniti dall’art. 12, comma 3 T.U, ultima parte. 

In primo luogo stupisce che si sopprima la norma vigente che punisce nel modo più duro il favoreggiamento dell’ingresso illegale di minori da impiegare in attività illecite per favorirne lo sfruttamento. Si tratterebbe di ipotesi che sarebbero punite alla stregua di un semplice favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e ciò contrasta con l’intento di rafforzare la prevenzione e repressione dell’immigrazione clandestina.

 In secondo luogo per un ulteriore rafforzamento della lotta allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina sarebbe necessario introdurre ben altre nuove altre misure, come le seguenti:

 1)  l’estensione della fattispecie del comma 3-bis al favoreggiamento del soggiorno illegale di prostitute e minori (spesso è difficile riuscire a provare che colui che sfrutta il soggiorno illegale dello straniero clandestino – prostituta, minore o criminale -  sia anche la medesima persona che ne ha favorito l’ingresso illegale) e al favoreggiamento dell’ingresso o del soggiorno illegale di stranieri destinati a commettere uno dei gravi delitti menzionati nell’art. 407, comma 2 lett. a) cod. proc. pen. (delitti contro la personalità dello Stato o traffico internazionale di armi o di stupefacenti, commercio di schiavi, prostituzione minorile, omicidi, atti di contrabbando ecc.) o di veicoli rubati;

  2)  L’introduzione nel codice penale di una circostanza aggravante comune destinata a colpire specificamente i delitti compiuti in Italia ai danni di o ad opera di straniero che era presente illegalmente sul territorio nazionale.

Occorre inoltre ricordare che nessuna norma del ddl colga l’occasione per provvedere ad adeguare le sanzioni attualmente previste nei confronti dei vettori che trasportano stranieri clandestini alle recenti norme della Direttiva 2001/51/CE del Consiglio, del 28 giugno 2001, che integra le disposizioni dell'articolo 26 della convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen del 14 giugno 1985, alle quali ogni Stato membro deve comunque adempiere entro l’11 febbraio 2003. Un simile adeguamento potrà essere adottato dal Governo con ulteriore distinto decreto legislativo da emanarsi in virtù della delega legislativa appositamente prevista dal disegno di legge comunitaria 2001.

Infine la lettera d) del comma 1  dell’art. 10 ddl  introduce nell’art. 12 T.U. la possibilità per navi militari o in servizio di polizia, di fermare, sottoporre ad ispezione ed eventualmente sequestrare imbarcazioni in acque nazionali o nella zona contigua alle acque internazionali, conducendole in un porto dello Stato allorchè si abbia fondato motivo che siano adibite al trasposto di clandestini. Per quanto compatibili le norme si applicano anche ai controlli concernenti il traffico aereo.

 

7. L’art. 11 ddl (espulsione amministrativa) modifica profondamente la disciplina dei provvedimenti amministrativi di espulsione previsti dall’art. 13 T.U.

La nuova disciplina dell'espulsione amministrativa rende ordinario il regime dell'esecutorità dell'espulsione amministrativa stessa, salvo che nei casi di straniero a cui il permesso sia scaduto da più di 60 giorni e non ne sia stato richiesto il rinnovo, rende più certi i tempi e i criteri per il rilascio o per il rifiuto da parte dell'A.G. del nulla osta all’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale, raddoppia da 5 a 10 anni il periodo di divieto di rientro (senza distinguere i diversi tipi di motivo di espulsione), trasforma il rientro illegale dell'espulso in delitto (con pene più che raddoppiate e processo per direttissima) e rende più precisi gli effetti penali e processuali di un eventuale rientro illegale dello straniero espulso.

La prima rilevante modifica attiene al nulla-osta dell’autorità giudiziaria all’espulsione: i nuovi commi da 3 a 3 sexies introdotti nell’art. 13 T.U. disciplinano i rapporti tra il procedimento penale e il procedimento per l’espulsione amministrativa.

In particolare il comma 3 prevede una procedura di silenzio-assenso per il rilascio del nulla osta dell’A.G. all’espulsione e disciplina le ipotesi in cui la richiesta del questore può essere rigettata; l’intera disciplina del nulla osta non trova applicazione per l’espulsione dello straniero in stato di custodia cautelare in carcere; il comma 3 bis disciplina il meccanismo del silenzio-assenso per l’ipotesi in cui l’espellendo sia stato sottoposto a misure pre-cautelari (arresto o fermo) e prevede la non concedibilità del nulla osta in caso di applicazione della custodia cautelare in carcere; il comma 3 ter disciplina il caso della revoca o della declaratoria di estinzione della custodia cautelare in carcere, prescrivendo che il giudice debba contestualmente pronunciarsi sulla richiesta di nulla osta; i commi 3 quater e 3 quinquies prevedono che, “acquisita la prova dell’avvenuta espulsione, se non è stato ancora emesso il provvedimento che dispone il giudizio”, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere; in caso di rientro illegale dello straniero espulso, troverà applicazione l’art. 345 c.p.p., con un nuovo esercizio dell’azione penale; il comma 3 sexies esclude la concedibilità del nulla osta qualora si proceda per i reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a) c.p.p. e per quelli di cui all’art. 12 T.U.

Il combinato disposto del nuovo comma 3  e del nuovo comma 3 sexies  prevede che il nulla-osta all’espulsione dello straniero debba essere negato dall’autorità giudiziaria soltanto per reati gravissimi o per esigenze processuali che comportino l’accertamento di responsabilità di persone concorrenti nel reato o imputate in procedimenti connessi o se sussiste un qualche interesse della persona offesa. Inoltre lo straniero clandestino che sia indagato o imputato e che si trovi in stato di libertà sarebbe espulso immediatamente dal territorio italiano (esclusi i delitti gravissimi di cui all’art. 407, comma 2, lettera a) c.p.p. e per quelli di cui all’art. 12 T.U.) allorchè sia esaurita la custodia cautelare.

La norma appare di dubbia legittimità costituzionale perché finisce per rinunciare alla pretesa punitiva dello Stato nei confronti di stranieri clandestini che siano imputati di reati di media gravità (furti ecc.) e crea una disparità di trattamento con i cittadini italiani o con gli stranieri titolari di carta di soggiorno che abbiano commesso tali reati: mentre costoro dovrebbero comunque essere sottoposti a tutto il procedimento penale e/o dovrebbero scontare comunque in Italia una pena detentiva, allo straniero clandestino si consente di sottrarvisi. Così la norma dimentica la necessità di prevenire e reprimere i reati che ledano beni costituzionalmente rilevanti e finisce per privilegiare ad ogni costo lo sfoltimento penitenziario e la prevenzione e repressione dell’immigrazione clandestina.

In ogni caso l’introduzione dell’istituto del silenzio-assenso per il rilascio del nulla-osta può rendere ineffettivo il controllo da parte dell’autorità giudiziaria perché non si prevede che il termine decorra dalla data dell’effettivo ricevimento della richiesta da parte del magistrato competente. Inoltre la norma sul nulla osta all’espulsione da parte dell’autorità giudiziaria sembra considerare soltanto lo straniero indagato o imputato, ma non sembra tenere conto dello straniero che abbia assunto la qualità di persona offesa in un procedimento penale, una qualità rispetto alla quale le esigenze processuali (ad esempio, la testimonianza in dibattimento) appaiono di enorme rilevanza, anche alla luce dei princìpi introdotti dal nuovo art. 111 Cost.

La seconda rilevante modifica capovolge la vigente disciplina dell’espulsione che è effettuata mediante intimazione e, solo in determinati casi, con l’accompagnamento alla frontiera, il che consente alla maggior parte degli intimati di non ottemperare all’ordine di lasciare il territorio nazionale: con le modificazioni introdotte dal ddl l’espulsione con accompagnamento alla frontiera diviene la forma ordinaria di esecuzione del provvedimento amministrativo di espulsione. L’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro 15 giorni è lasciata dal successivo comma 5 come modalità di esecuzione del provvedimento amministrativo di espulsione soltanto quando esso è disposto nei confronti di uno straniero il cui permesso di soggiorno sia scaduto da più di 60 giorni e che non abbia provveduto a chiederne il rinnovo, anche se in tal caso si prevede comunque la facoltà di disporre il trattenimento dello straniero presso un centro di permanenza temporanea e assistenza.

L’esecutorietà immediata dell'espulsione amministrativa è misura che di per sè può essere legittimamente scelta dallo Stato per dare effettività al controllo delle frontiere e delle condizioni di ingresso e soggiorno degli stranieri. Tuttavia sono le modalità di tale esecutorietà prescelte dal ddl a presentare notevoli problemi di attuazione pratica e evidenti profili di incostituzionalità.

Dal punto di vista pratico l’esecutorietà di quasi tutti i tipi di provvedimento amministrativo di espulsione prevista dal nuovo testo dei commi 4 e 5 dell’art. 13 T.U. comporta l’obbligo di provvedere all’accompagnamento alla frontiera di quasi tutti gli espulsi. Poiché però è notorio che  diverse difficoltà pratiche impediscono spesso l’immediato rimpatrio è evidente che l’esecutorietà dei provvedimenti amministrativi di espulsione prevista dal ddl appare fittizia perché esso non prevede uno stanziamento finanziario supplementare per provvedere ad un ingente aumento del numero di centri di permanenza temporanea e assistenza nei quali si dovrebbero trattenere gli espellendi in attesa della rimozione degli impedimenti al rimpatrio. Infatti nella relazione finanziaria al ddl si prevede che il numero di tali centri sia aumentato soltanto di 10 in tre anni e che si debba provvedere effettivamente all’accompagnamento immediato di circa 36.000 stranieri. Non è dato comprendere come si possa effettivamente provvedere all’accompagnamento delle altre centinaia di migliaia di stranieri clandestini che si dice si trovino sul territorio dello Stato. Anzi le stesse nuove norme introdotte dal ddl nell’art. 13 T.U. e soprattutto nell’art. 14 T.U. rendono manifesto che il trattenimento dell’espellendo non è affatto obbligatorio, ma resta facoltativo allorchè manchi un centro di permanenza. Ciò però significa che in mancanza dell’istituzione di numerosi nuovi centri di permanenza il ddl non configura affatto un sistema di effettivo accompagnamento immediato alla frontiera per quasi tutti gli espulsi perché lo straniero espellendo in attesa del nulla-osta dell’autorità giudiziaria resta sottoposto ad un'illimitata discrezionalità dell’autorità di pubblica sicurezza che può disporne il trattenimento quando, come e se vuole e significa altresì che l’innovazione si sostanzia soprattutto in una eliminazione del termine di 15 giorni entro i quali lo straniero oggi può impugnare il decreto di espulsione di fronte al giudice e ottenerne l’annullamento.

Dal punto di vista costituzionale molte norme relative alla nuova disciplina dei provvedimenti amministrativi di espulsione si prestano alle più gravi critiche.

In primo luogo le modificazioni introdotte dal ddl violano la riserva di giurisdizione prevista dall'art. 13 Cost.: come ha confermato la sent. n. 105/2001 della Corte costituzionale l'accompagnamento immediato alla frontiera dello straniero è una misura limitativa della libertà personale e come tale deve essere sempre disposto con provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria e/o da questa  convalidata entro 48 ore.

Più esattamente la Corte ha affermato che l’accompagnamento in frontiera "inerisce alla materia regolata dall’art.13 della Costituzione in quanto presenta quel carattere di immediata coercizione che qualifica, per costante giurisprudenza costituzionale, la restrizione della libertà personale e che vale a differenziarle dalle misure incidenti solo sulla libertà di circolazione"; pertanto il controllo giudiziale previsto dal vigente testo dell’art. 14 T.U. in sede di convalida del provvedimento di trattenimento dello straniero nei centri di permanenza temporanea "deve investire i motivi che hanno indotto l’amministrazione a disporre quella particolare modalità esecutiva dell’espulsione".

In base a tale orientamento della Corte Costituzionale, qualora si voglia introdurre nell’ordinamento come generalizzata modalità di esecuzione dell’espulsione l’accompagnamento coattivo alla frontiera deve anche essere previsto il preventivo o successivo controllo giurisdizionale su questo provvedimento attraverso una procedura di autorizzazione o di convalida da parte di un giudice da svolgersi entro i termini di cui all’art. 13 Cost. e tale procedura deve essere prevista non soltanto, come nel caso sul quale si è espressa la sentenza n. 105/2001, quando oltre al provvedimento amministrativo di espulsione da eseguirsi con accompagnamento alla frontiera sia contestualmente disposto il trattenimento nel centro di permanenza temporanea, ma anche in tutti i casi in cui il provvedimento amministrativo di espulsione, immediatamente esecutivo, sia eseguito con la modalità dell’accompagnamento alla frontiera senza che sia disposto il trattenimento nel centro di permanenza temporanea.

Perciò qualora si intenda modificare la vigente disciplina legislativa sistema attuale per generalizzare l’accompagnamento coattivo in frontiera come modalità ordinaria di esecuzione del provvedimento amministrativo di espulsione (con l’unica eccezione dell’ipotesi dello straniero che si sia trattenuto nel territorio dello Stato quando il permesso di soggiorno è scaduto di validità da più di sessanta giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo), occorre trarre la conseguenza, necessaria dopo la pronuncia sopra richiamata, che qualsiasi provvedimento del genere, in quanto privativo della libertà personale, deve essere comunicato entro 48 ore dall’autorità di pubblica sicurezza all’autorità giudiziaria e da questa convalidato nelle successive 48 ore e in caso contrario tali provvedimenti "si intendono revocati e restano privi di ogni effetto" (art.13 comma terzo Cost.).

Altrimenti il legislatore introdurrebbe nell’ordinamento una misura di privazione della libertà personale sottratta alla garanzia della riserva di giurisdizione prevista dall’art.13 Cost.

Sarebbe dunque  conforme al sistema costituzionale soltanto la previsione di un accompagnamento alla frontiera dello straniero disposto con provvedimento del giudice: giudice competente per il procedimento penale nell’ambito del quale lo straniero sia detenuto oppure, se lo straniero non sia  detenuto, giudice della convalida del trattenimento.

Nel primo caso il giudice sarebbe chiamato a valutare sia la sussistenza di impedimenti processuali all’esecuzione dell’espulsione, sia l’accompagnamento alla frontiera.

Nel secondo caso sarebbe legittimo  prevedere un duplice trattenimento: un trattenimento “provvisorio” (48 + 48 ore) disposto dal questore al solo fine di impedire allo straniero di rendersi irreperibile nelle more dell’adozione del provvedimento espulsivo, con il contestuale obbligo per  il questore stesso di inviare al giudice sia la richiesta di convalida, sia la richiesta motivata di disporre l’espulsione con accompagnamento alla frontiera, sia l’eventuale richiesta motivata di trattenimento “definitivo”, e un trattenimento “definitivo” (30 + 30 giorni) che sarebbe disposto dal giudice entro 48 ore dalla comunicazione dell’avvenuto trattenimento provvisorio, su richiesta del Questore qualora sussista uno degli impedimenti indicati nell’art. 14, comma 1,   T.U.: il giudice sarebbe così chiamato a pronunciarsi, sentito lo straniero e il suo difensore, in modo contestuale su tre provvedimenti, l’uno pregiudiziale all’altro: a) la convalida del trattenimento provvisorio; b) l’espulsione con accompagnamento alla frontiera, c) il trattenimento definitivo.

In secondo luogo il ddl viola la riserva rinforzata di legge prevista dall'art. 10, comma 2 Cost., nella parte in cui si viola l'art. 1 del Prot. n. 7 Conv. eur. dir. uomo del 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990 n. 98, che impone di lasciare agli stranieri già regolarmente soggiornanti un termine per potersi di difendere contro l'espulsione prima che questa sia eseguita, salvo che l’espulsione sia disposta per gravi motivi di ordine pubblico.

E’ evidente infatti che devono ritenersi regolarmente soggiornanti non soltanto coloro il cui permesso di soggiorno sia scaduto senza che ne sia stato chiesto il rinnovo entro 60 giorni, ma anche tutti gli stranieri espulsi ai sensi dell’art. 13, comma 2 T.U., lett. b) e c) che erano in possesso di un permesso di soggiorno prima della sua revoca o del suo annullamento o comunque dell’espulsione .

In terzo luogo è comunque chiaro che il diritto alla difesa dello straniero espulso è privato di ogni effettività in tutti i casi in cui si preveda che il ricorso possa essere presentato soltanto dopo che il provvedimento sia già stato eseguito con accompagnamento alla frontiera.

Da un lato infatti si prevede la facoltà di presentare ricorso giurisdizionale all’estero da parte di stranieri espulsi con accompagnamento alla frontiera, ma essa appare di scarsa efficacia se si considera che il danno alla libertà personale e alla propria incolumità nel Paese di invio potrebbe essersi già prodotto e se si ricorda che in molti Paesi non ha sede alcuna rappresentanza diplomatico-consolare italiana e che allorchè vi sia occorrono spesso tempi lunghi per potervi accedere, il che provoca inevitabili costi ingenti derivanti dalla necessità di trattenersi in loco per giorni; appare perciò mistificatoria l’elevazione da 30 a 60 giorni del termine per la presentazione del ricorso all’estero prevista dal nuovo comma 8 dell’art. 13 T.U.

Dall’altro lato appare del tutto liberticida la norma che prevede un termine per il ricorso di 60 giorni che decorre dalla data del provvedimento di espulsione e non dalla data della comunicazione dello stesso allo straniero.

Occorre ricordare che qualsiasi tipo di provvedimento espulsivo è sottoposto al divieto previsto dall’art.19, comma 1 T.U. secondo il quale in nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione. Nel caso di un provvedimento amministrativo di espulsione immediatamente esecutivo e disposta con accompagnamento in frontiera si impedisce allo straniero di far valere i propri motivi di impugnazione fondati non solo sull’illegittimità del provvedimento, ma anche sul pericolo alla propria vita che potrebbe derivare appunto dall’esecuzione dell’espulsione in violazione del divieto previsto dall’art. 19 T.U.

Del resto la responsabilità degli Stati è stata da tempo riconosciuta dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nei casi di espulsioni eseguite in violazione dell’art.3 della convenzione "quando sussistano seri motivi per ritenere che la persona rientrata nel suo paese rischi di essere sottoposta a torture o a pene e trattamenti inumani" (Sentenza n.20.3.1991; Commissione c. Svezia nel caso Cruz Varas).

Anche al di là di questa ipotesi, comunque le condizioni in cui verrebbe esercitato il diritto di difesa attraverso la proposizione del ricorso dall’estero divengono talmente difficoltose e vessatorie da privare il diritto stesso di qualsiasi effettività; in particolare occorre ricordare che il diritto di difesa deve potersi articolare nel diritto alla prova ed alla partecipazione all’attività processuale, anche personalmente e non solo attraverso il proprio difensore, e che questi aspetti divengono praticamente impossibili per gli stranieri che siano già stati espulsi, salva la possibilità (assai poco disciplinata) di ottenere un visto di ingresso per motivi di giustizia ai sensi dell’art. 17 T.U.

In queste condizioni risulta violato il principio sancito dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955 n. 848, che impone agli Stati aderenti di concedere allo straniero il tempo e le facilitazioni necessarie per predisporre la propria difesa e quello espresso dall’art.13 della stessa Convenzione in cui si prevede "la possibilità di ricorsi effettivi".

La nuova disciplina dell’espulsione amministrativa appare comunque carente dal punto di vista comunitario, perché non dà attuazione alla recente Direttiva 2001/40/CE del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di paesi terzi, alla quale ogni Stato membro dell’Unione deve adeguarsi entro il 2 dicembre 2002 e alla quale l’ordinamento italiano si adeguerà con un decreto legislativo che il Governo adotterà in adempimento del disegno di legge comunitaria 2001.

Infine  l’art. 11 comma 7 ddl sostituisce il comma 13 dell’art. 13 T.U. e introduce i commi 13 bis e 13 ter: la prima disposizione aumenta la pena edittale per il reato di rientro senza autorizzazione dello straniero espulso, portandola, nel minimo, da due mesi di arresto a sei mesi di reclusione e, nel massimo, da sei mesi di arresto a un anno di reclusione; il nuovo comma 13 bis prevede una fattispecie ad hoc per la trasgressione del divieto di reingresso dello straniero espulso sulla base di un provvedimento giudiziario, fattispecie punita con la reclusione da uno a quattro anni. La terza disposizione prevede che “per i reati di cui ai commi 13 e 13 bis è sempre consentito l’arresto in flagranza dell’autore del fatto e, nell’ipotesi del comma 13 bis è consentito il fermo. In ogni caso contro l’autore del fatto si procede con rito direttissimo”. La prima parte della norma deroga alla disciplina contemplata dall’art. 381 c.p.p. primo e secondo comma (individuazione dei reati che consentono l’arresto) e a quella di cui al quarto comma (requisiti della gravità del fatto e della pericolosità del soggetto); rimane fermo, invece, il presupposto dello stato di flagranza di cui all’art. 382 c.p,, presupposto, peraltro, svuotato - con riferimento alla fattispecie di cui al nuovo comma 13 bis - dalla possibilità di procedere comunque al fermo dell’indiziato. La seconda parte della norma estende la possibilità di procedere con il giudizio direttissimo a tutte le ipotesi contemplate dall’articolo in esame.

Da ultimo appare assai opinabile la norma del nuovo comma 8 dell’art. 13 T.U. che da un lato aumenta da 5 a 10 anni il periodo di divieto di rientro e dall’altro sposta però dal giudice all’autorità amministrativa che dispone il provvedimento di espulsione la facoltà di disporre un eventuale riduzione del periodo di divieto di rientro: la norma si presta alle più diverse interpretazioni e conferisce una quasi illimitata discrezionalità amministrativa all’autorità di pubblica sicurezza, per evitare la quale appare opportuno mantenere la vigente norma che prevede un generale periodo di divieto di rientro (la cui durata ben potrebbe essere differenziata dal legislatore a seconda del tipo di espulsione), riducibile soltanto dal giudice e soltanto su richiesta dell’interessato.

     

8. L’art. 12 ddl (Esecuzione dell'espulsione) introduce nell’art. 14 T.U. il raddoppio da 30 a 60 giorni del termine massimo del trattenimento nei centri di permanenza dello straniero espulso o respinto e la previsione di una sanzione penale per lo straniero uscito dal centro alla scadenza che non lasci il territorio nazionale, con ulteriore espulsione coattiva.

Nella relazione illustrativa si afferma che “l’esperienza ha dimostrato che i trenta giorni ora previsti come termine massimo per il trattenimento nei centri di permanenza temporanea non sono sufficienti per assicurare il riconoscimento del clandestino, presupposto indispensabile del suo rimpatrio. Il nuovo termine di sessanta giorni dovrebbe consentire il riconoscimento della quasi totalità dei trattenuti”.

Tuttavia l’affermazione appare poco convincente. 

Se infatti il problema è la difficoltà di identificazione della persona da allontanare allora tale problema resterà anche dopo che lo straniero sia dimesso dal centro e dunque un rimedio  all'ineffettività dell’esecuzione dei provvedimenti di allontanamento dal territorio dello Stato è efficace soltanto se è accompagnato dall'effettiva stipulazione ed entrata in vigore di precisi accordi di riammissione con i Paesi di origine, accordi che già oggi sono previsti e incentivati dagli artt. 2, 3, 10 e 19 T.U. Con i Paesi con cui simili accordi sono in vigore appare sufficiente il vigente  termine massimo di trattenimento di 30 giorni. In ogni caso è evidente che per stipulare tali accordi non occorre alcuna modifica delle vigenti norme legislative, bensì occorre una forte azione diplomatica del Governo nei confronti dei Governi di quei Paesi.

In tal senso la norma del ddl potrebbe rivelarsi inutilmente costosa, sia sotto il profilo della restrizione della libertà personale, sia sotto il profilo degli aggiuntivi oneri finanziari da sostenere per l'aumento del numero dei centri di permanenza.

Il nuovo comma 5-bis inoltre rende evidente che l’esecutività dei provvedimenti amministrativi di espulsione che l’art. 11 ddl prevede di generalizzare è del tutto illusoria, perché si consente che tali  provvedimenti restino ad esecuzione differita qualora non sia stato possibile trattenere lo straniero in un centro di permanenza temporanea  (prevedibilmente per mancanza di spazi e/o di centri).

L’art. 12 ddl introduce infatti nell’art. 14 T.U. la disciplina del caso in cui “non sia stato possibile trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea ovvero siano trascorsi i termini di permanenza senza aver eseguito l’espulsione o il respingimento”, disciplina incentrata, in prima battuta, sull’ordine rivolto dal questore allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni. Decorso tale termine, “lo straniero che senza giustificato motivo” si trattiene nel territorio dello Stato è punito – ai sensi del comma 5 ter - con l’arresto da sei mesi ad un anno e viene espulso con accompagnamento coatto alla frontiera; lo straniero, nuovamente espulso in base al comma 5 ter, che si trattiene senza giustificato motivo nel territorio dello Stato è punito – ai sensi del comma 5 quater - con la reclusione da uno a quattro anni; per tutti questi reati si prevede l’arresto obbligatorio dell’autore del fatto e il giudizio con rito direttissimo e in ogni caso di mancato rispetto del termine di 5 giorni il questore ha la facoltà di adottare un nuovo provvedimento di trattenimento dello straniero in un centro di permanenza temporanea e assistenza.

Il tenore letterale della disposizione incriminatrice non chiarisce se l’espulsione dell’inadempiente sia da configurarsi come provvedimento amministrativo (nel qual caso la riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost. imporrebbe comunque una convalida giurisdizionale) o come misura di sicurezza disposta dal giudice.

In ogni caso integra la nuova fattispecie incriminatrice il trattenersi nel territorio dello Stato (occorre dunque che si provi che lo straniero espulso non è mai uscito dal territorio italiano) e la mancanza di giustificati motivi. Perciò non costituisce reato il permanere nel territorio italiano per motivi non dolosi, cioè per motivi che hanno oggettivamente impedito allo straniero di allontanarsi dal territorio italiano e che sono indipendenti dalla coscienza e dalla volontà dello straniero.

Senz’altro si devono considerare “giustificati motivi” la perdurante mancanza di vettori disponibili al viaggio di rimpatrio, la comprovata esigenza dello straniero di sottoporsi a cure mediche garantite dall’art. 35 T.U., l’avvenuta sottoposizione dello straniero a misure cautelari detentive o comunque interdittive dell’espatrio o a carcerazione o a misure di sicurezza detentive, il sopraggiungere di uno degli elementi ostativi all’espulsione ai sensi dell’art. 19 T.U. (si pensi soprattutto al caso di  eventi sopraggiunti nel Paese in cui lo straniero dovrebbe essere inviato che metterebbero in pericolo la sua vita, libertà o incolumità e al caso della donna che si trovi in stato di gravidanza e del suo marito convivente), ma anche la manifesta indisponibilità da parte dello straniero di mezzi economici necessari per coprire le spese del viaggio fino al Paese di invio.

Invece nel caso in cui lo straniero si trattenga in Italia per la mancanza di documenti di identificazione e/o di viaggio necessari occorrerà distinguere: il reato potrebbe sorgere soltanto qualora si provi che l’indisponibilità di documenti di identificazione derivi dall’occultamento o dalla distruzione o alterazione di documenti di cui era in possesso lo straniero (si pensi a straniero del cui passaporto l’amministrazione aveva potuto fare una copia in un determinato momento, ma del cui furto o smarrimento non è stata fatta regolare denuncia dopo di allora), mentre in ogni altro caso occorrerà valutare da quanto tempo lo straniero ha ricevuto l’ordine di allontanarsi dal territorio nazionale in rapporto ai tempi necessari alla rappresentanza diplomatico-consolare del suo Paese per rilasciare i documenti necessari.

 Occorre dunque una valutazione rigorosa della norma incriminatrice perché altrimenti essa farebbe rivivere la fattispecie che era prevista dall’art. 7 bis della L. n. 39/1990 che puniva con la reclusione da sei mesi a tre anni lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione che non si fosse adoperato per ottenere dalla competente autorità diplomatica o consolare il rilascio del documento di viaggio occorrente, fattispecie dichiarata incostituzionale per violazione del principio di tassatività dalla sent. n. 34/1995 della Corte Costituzionale.

 Un’interpretazione rigorosa s’imporrà comunque. Infatti poiché le stesse nuove norme prevedono il caso dell’espulsione eseguita con la mera intimazione a lasciare il territorio nazionale entro 5 giorni quando non è stato possibile trattenere lo straniero in un centro di permanenza è evidente che altrimenti si finirebbe per arrestare e trasferire nel circuito penitenziario stranieri espulsi che privi di alcun altro mezzo finanziario si sono trattenuti nel territorio dello Stato per il solo motivo che lo Stato stesso non ha provveduto a dotarsi di un numero adeguato di centri di permanenza per dare effettività all’espulsione. Si produrrebbe così una massiccia immissione di stranieri nel circuito penitenziario già sovraffollato, il che non comporterebbe certo un aumento dell’effettività dei provvedimenti di espulsione.

     

 9. L’art. 13 ddl (Espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione) riproduce il medesimo testo dei due commi dell’art. 16 T.U.  e ne aggiunge altri che introducono, a fianco della espulsione disposta discrezionalmente dal giudice a titolo di sanzione sostitutiva della pena dello straniero clandestino che debba essere condannato ad una pena inferiore a 2 anni di reclusione e non possa beneficiare della sospensione condizionale della pena, una vera e propria espulsione come misura alternativa alla detenzione, disposta dal magistrato di sorveglianza e applicabile d’ufficio a qualsiasi straniero che debba scontare una pena detentiva anche residua non superiore ai due anni di reclusione (esclusi i delitti indicati nell’art. 407, comma 2 lett. a) cod. proc. pen. e quelli previsti e puniti dall’art. 12 T.U.) e che si trovi in una delle situazioni individuate dall’art. 13 comma 2 T.U. quali presupposto del provvedimento amministrativo di espulsione (straniero clandestino o potenzialmente pericoloso) e che sia stato identificato, tanto che il giudice abbia potuto acquisire le informazioni degli organi di polizia sull’identità e sulla nazionalità dello straniero.

 L’espulsione a titolo di sanzione alternativa alla detenzione è eseguita con accompagnamento immediato alla frontiera, ferma la necessità di acquisire i necessari documenti di viaggio, in mancanza dei quali lo straniero resta in stato di detenzione.

 Una simile nuova misura può apparire opportuna qualora si ritenga preminente rispetto all’interesse alla pretesa punitiva dello Stato l’interesse allo sfoltimento dell’affollamento di stranieri irregolari nell’ambito degli istituti penitenziari ed è comunque circondata da un minimo di garanzie giurisdizionali e di difesa: l’esecuzione del decreto di espulsione è sospesa fino alla decorrenza del termine di dieci giorni dalla comunicazione allo straniero, durante i quali egli può presentare opposizione al tribunale di sorveglianza il quale decide nel termine di 20 giorni, e fino alla decisione del tribunale di sorveglianza.

 La nuova norma introdotta dal ddl precisa opportunamente gli effetti processuali di un eventuale rientro in Italia dello straniero espulso: la pena è estinta dopo 10 anni dall’esecuzione dell’espulsione, salvo il caso di reingresso illegale, nel qual caso la detenzione è ripristinata.

 Occorre peraltro rilevare che poichè si tratta di un’espulsione obbligatoria la nuova misura sembra voler prefigurare per tutti gli stranieri clandestini recidivi come unica prospettiva al termine della pena l’espulsione nel proprio Paese. Perciò l’innovazione, lungi dal favorire lo svuotamento del sistema penitenziario, potrebbe invece indurre gli stranieri detenuti a fornire sempre generalità nuove e false al fine di ostacolare in ogni modo la propria identificazione e di impedire l’espulsione.

 In ogni caso la nuova norma non sembra dare effettività ai diritti fondamentali di cui comunque è titolare anche lo straniero detenuto e che potrebbero essere messi in concreto pericolo da un eventuale rimpatrio in un Paese che non li rispetti occorrerebbe prevedere espressamente che le ipotesi di espulsione quale misura alternativa alla detenzione prevista dal nuovo articolo non sono applicabili agli stranieri che si trovino nelle condizioni per le quali l’art. 19 T.U. prevede un divieto di espulsione.

 Si deve infine osservare che la nuova figura non prevede il consenso dello straniero quale presupposto dell’allontanamento, anche se  l’espulsione senza consenso sembra essere stata censurata, seppur incidenter tantum, dalla Corte costituzionale che, nella sentenza n. 62/1994, dichiarò infondata un’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 7 commi 12 bis e ter L. n. 39/1990 affermando proprio, tra l’altro, che la subordinazione del rilascio del provvedimento di espulsione che era previsto dalla tale norma impugnata alla richiesta dell’interessato (o del suo difensore), per quanto atipica, non costituiva un arbitrario elemento di favore nei confronti dello straniero, ma rappresentava un requisito diretto, nella fattispecie, ad armonizzare la condizione dello straniero ai valori costituzionali cui il legislatore deve riferirsi nel prevedere una misura pur sempre incidente sulla libertà personale, cioè su un diritto inviolabile dell’uomo. La mancata previsione, quale presupposto della misura, della richiesta del condannato e, dunque, il carattere officioso del provvedimento di allontanamento  sembrano snaturare il carattere di pena alternativa dell’espulsione e il ruolo del magistrato di sorveglianza, perchè nell’ordinamento giuridico italiano le misure alternative costituiscono un favor per il condannato, anche se nelle ipotesi previste dall’art. 57 ord. pen. esse sono applicabili non soltanto a richiesta del condannato o dell’internato, ma anche dai loro prossimi congiunti o possono essere proposti dal consiglio di disciplina.

 

 

1.4.  Le norme in materia di disciplina del lavoro

  

 La nuova disciplina del lavoro subordinato prevista dal ddl prevede un solo tipo di ingressi per lavoro subordinato nell’ambito dei limiti previsti dalle quote annuali previste dal Governo, cioè l’ingresso su chiamata nominativa di un datore di lavoro disponibile per l’assunzione.

 Il ddl prevede dunque di restringere gli ingressi per lavoro subordinato ad un solo canale, cioè a quello che per decenni in Italia si è sempre rivelato assai poco efficace ai fini della regolazione dei flussi migratori e della prevenzione dell’immigrazione clandestina in un mercato del lavoro molto vischioso e caratterizzato da molte mansioni in cui è invece essenziale il preventivo incontro tra domanda ed offerta di lavoro.

   Infatti il ddl in realtà ritorna al passato ripristinando un sistema assai simile a quello vigente fino al 1998 che non aveva affatto limitato l'immigrazione, ma al contrario avendo ostacolato di diritto i nuovi ingressi regolari per lavoro aveva incentivato di fatto il ricorso massiccio all'immigrazione clandestina, il che aveva indotto il legislatore ad intervenire nel 1987, nel 1990, nel 1995 e nel 1998 con provvedimenti di regolarizzazione della posizione di centinaia di migliaia di stranieri entrati illegalmente in Italia.

  Nella relazione illustrativa si afferma che il ddl si fonda anzitutto sull’intento di “giustificare l’ingresso e la permanenza sul territorio nazionale dello straniero per soggiorni duraturi solo in relazione all’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa sicura e lecita, di carattere temporaneo o anche di elevata durata. In questo ambito sono garantite adeguate condizioni di lavoro e di alloggio, collegando il contratto di lavoro ad un impegno del datore di lavoro nei confronti del lavoratore e dello Stato e rendendo sempre possibile il rientro volontario nel paese di origine, mediante una garanzia dei mezzi necessari”.

  Tutta la disciplina lavoristica del ddl si rivela in realtà  assai poco innovativa anche se apparentemente ruota dunque attorno ad un “contratto di soggiorno”.

    

  1.  L’art. 5 ddl (Contratto di soggiorno per lavoro subordinato) introduce infatti un art. 5-bis T.U. che prevede l’istituzione di un "contratto di soggiorno", istituto che, al di là dell’operazione di immagine, sotto diversi profili si rivela di scarsa concretezza ed efficacia e di dubbia legittimità costituzionale.

  Secondo la relazione illustrativa al ddl “con il sistema delineato, all’immigrato non comunitario si punta a garantire condizioni di vita e di lavoro decorose, invece della mera iscrizione nelle liste di collocamento, e lo si inserisce e conserva in un circuito di legalità che riduce i rischi di eventuali opere di reclutamento da parte della criminalità.” Occorre però ricordare che tali garanzie già sono presenti nella normativa vigente e che dunque l’istituto del “contratto di soggiorno” non si configura affatto come un’innovazione sostanziale perché in realtà riproduce in parte due norme già oggi vigenti, il cui testo lo stesso ddl riproduce nel nuovo testo dell’art. 22, comma 2 lett. b) e c) T.U.

  Infatti già in base alle norme vigenti dal 1998 il datore di lavoro che presenti domanda di autorizzazione al lavoro per l’assunzione dall’estero di un lavoratore extracomunitario ha l’obbligo di esibire alla Direzione provinciale del lavoro (inglobata oggi nel medesimo ufficio territoriale del governo presso il quale il ddl opportunamente prevede l’istituzione di uno sportello unico per l’immigrazione) un contratto di lavoro subordinato formato dal lavoratore prima dell'ingresso (cfr. art. 22, comma 8 T.U.) e idonea documentazione indicante le modalità della sistemazione alloggiativa per il lavoratore straniero (cfr. art. 22, comma 2 T.U.). Del resto né la norma del vigente art. 22 T.U., né la norma introdotta dal ddl si curano di precisare chi deve pagare per l’alloggio, e a quali condizioni, e chi è effettivamente tenuto a trovarlo e poichè il problema degli alloggi per immigrati è spesso di difficile soluzione e appare talvolta politicamente scomodo o complicato, si continua a preferire una garanzia meramente formale dell’alloggio e dunque l’effettiva disponibilità di un alloggio potrebbe continuare a restare soltanto sulla carta.

  Tuttavia rispetto alle garanzie richieste dal vigente testo dell’art. 22 T.U. ai fini del rilascio dell’autorizzazione al lavoro il nuovo art. 5-bis T.U. introdotto dal ddl prevede per il datore di lavoro l’obbligo a fornire una nuova e ulteriore garanzia, cioè l’impegno al pagamento da parte del datore di lavoro delle spese di rientro in patria del lavoratore nel Paese di provenienza

  Dal punto di vista giuridico l’introduzione di quest’ultimo obbligo appare sostanzialmente malformulato o comunque irragionevole sia per gli ingressi di lavoratori da assumere a tempo indeterminato o determinato, i quali comunque in base al testo (vigente e futuro) dell’art. 22 T.U. hanno il diritto di cercarsi un nuovo posto di lavoro in caso di perdita del posto di lavoro precedente, sia per gli ingressi per lavoro stagionale, nei quali l’impegno dovrebbe essere sostenuto pro-quota da ciascuno dei datori di lavoro.

  Si deve inoltre osservare che tale ulteriore obbligo che nella prassi italiana fu in vigore fino al 1986 può costituire per taluni tipi di datori di lavoro (si pensi ai casi del datore di lavoro domestico o dell’imprenditore individuale o dell’artigiano) un onere eccessivo e inutile e come tale è suscettibile di irrigidire il mercato del lavoro. E’ assai probabile che per tali datori di lavoro non costituirà affatto un disincentivo all’impiego di manodopera straniera e un incentivo a ricorrere a manodopera nazionale, bensì al contrario proprio a causa della sempre più diffusa carenza di manodopera costituirà un incentivo a ricorrere al lavoro illegale di stranieri che già si trovino clandestinamente in Italia, ed è evidente che tale effetto paradossale si pone proprio in completa contraddizione con l’intento che il ddl vorrebbe perseguire.

In ogni caso l’istituto stesso del “contratto di soggiorno” appare di assai dubbia legittimità costituzionale.

      Infatti il nuovo “contratto di soggiorno per lavoro subordinato” ha caratteri propri, disciplinati direttamente dalla legge, i quali lo rendono differente rispetto ad ogni contratto di lavoro individuale a tempo determinato o indeterminato concernente i lavoratori italiani o stranieri regolarmente soggiornanti in possesso di un titolo di soggiorno che consente l’accesso al lavoro subordinato.

      In primo luogo, la durata di questo “contratto di lavoro” per i lavoratori immigrati extracomunitari appare  correlata alla durata del permesso di soggiorno, perché in base al nuovo testo dell’art. 5 T.U. introdotto dall’art. 4  ddl,  la durata del permesso di soggiorno per lavoro subordinato coincide con quella del “contratto di lavoro” e deve essere compresa entro limiti legislativamente prestabiliti, che appaiono limiti imperativi, in misura diversa a seconda che si tratti di “lavoro stagionale” (in genere nove mesi), di “lavoro subordinato a tempo determinato” (un anno) o di “lavoro a tempo indeterminato” (due anni).

       Perciò il “contratto di soggiorno per lavoro subordinato”, in quanto contratto individuale di lavoro, non appare mai assimilabile, neppure quando sia formalmente qualificato tale, ad un normale contratto di lavoro a tempo indeterminato, sia perché la continuità del rapporto di lavoro concluso al momento del primo ingresso sarebbe subordinata al permesso di soggiorno, sempre temporaneo e non valevole per più di due anni, salvo rinnovo, sia perché proprio in ragione della durata legale massima del permesso soggiorno per lavoro subordinato, al “contratto di soggiorno per lavoro subordinato”, del quale non è prevista invece alcuna durata minima, sembrano di ardua applicazione, le tutele previste per la generalità dei contratti a tempo determinato, per aspetti essenziali quali il regime delle proroghe e gli effetti connessi al protrarsi di fatto del rapporto oltre il termine.

       Inoltre, il “contratto di soggiorno per lavoro subordinato” rispetto ad ogni altro contratto di lavoro, deve recare, alla stregua di requisito di validità, l’impegno del datore di lavoro ad assicurare una sistemazione alloggiativa e le spese per il rientro nel proprio paese al lavoratore extracomunitario. In apparenza, questa previsione sull’alloggio, che ha essere “adeguato”, potrebbe sembrare una garanzia aggiuntiva per il lavoratore, ma in realtà, poiché l’impegno del datore di lavoro è richiesto “a pena di nullità” del contratto di lavoro dall’art. 5 ddl, allorché l’impegno medesimo non sia contrattualmente assunto il permesso di soggiorno del lavoratore medesimo potrebbe essere considerato carente di presupposto, mentre nulla è previsto per il caso in cui, pur assumendolo in sede contrattuale, il datore di lavoro non soddisfi effettivamente tale impegno per l’alloggio “adeguato”.

       Mediante l’istituzione di un simile “contratto di soggiorno per lavoro subordinato” il possesso di una determinata cittadinanza è assunto a fattore discriminante della disciplina dei contratti individuali, perché si predispone per legge un tipo di rapporto contrattuale applicabile soltanto agli immigrati extracomunitari in quanto tali e disciplinato a misura degli stessi, sia perché i requisiti di validità del contratto hanno possibili riflessi sulla validità del permesso di soggiorno, sia perché circa le garanzie di durata e stabilità del rapporto di lavoro i lavoratori immigrati extracomunitari si troverebbero per legge in una posizione deteriore a paragone dei lavoratori italiani.

       Tuttavia si tratta di un istituto che appare in sé incostituzionale, sia perché gli artt. 35, 36, 37, 38, 39, 40 Cost. garantiscono allo stesso modo tutti i lavoratori, senza differenziare tra chi è cittadino italiano e chi non lo è, sia perché viola la riserva rinforzata in materia di condizione giuridica dello straniero prevista dall’art. 10, comma 2 Cost., in quanto non appare conforme all’art. 8 della Conv. O.I.L. n. 143/1975, ratificata e resa esecutiva con L. 10 aprile 1981, n. 158, che prevede che lo straniero regolarmente soggiornante per motivi di lavoro deve usufruire di un trattamento identico a quello dei cittadini nazionali, specialmente per quanto riguarda le garanzie relative alla sicurezza dell’occupazione, alla riqualifica, ai lavori di assistenza e di inserimento. 

 

  2. L’art. 14 ddl (Determinazione dei flussi di ingresso) riformula le norme dell’art. 19 T.U.

  Il comma 1 introduce tra le quote preferenziali di ingressi per lavoro che devono essere previste nel D.P.C.M. di determinazione le quote riservate di ingressi per lavoro a stranieri oriundi italiani residenti in Paesi extracomunitari. La norma appare senz’altro opportuna perché da un lato coglie un’esigenza di rientro in Italia sempre più diffusa tra alcune collettività italiane all’estero (soprattutto nei Paesi dell’America latina) e dall’altro lato consente l’ingresso di persone la cui ascendenza italiana fa presumere un grado maggiore di conoscenza della lingua italiana e dunque una maggiore probabilità di inserimento nel mondo del lavoro italiano.

  La norma però si presta a diversi interrogativi.

  Anzitutto ci si chiede quale possa essere l’applicabilità concreta di una simile norma poiché si stima che oggi nel mondo vivano circa 60 milioni di persone oriunde italiane, sicchè, non essendo verosimile che tutti costoro aspirino al rientro o che comunque possano entrare in territorio italiano, la norma dà al Governo una notevole discrezionalità nello scegliere quantità e qualità di tali “ritorni” di stranieri extracomunitari aventi un avo italiano e residenti in qualsiasi Paese extracomunitario e ciò potrebbe avvenire non senza polemiche tra i cittadini italiani all’estero e tensioni anche di carattere diplomatico con i Paesi di cui costoro sono cittadini. Per prevenire tali controversie sarebbe necessario stipulare accordi bilaterali soltanto con taluni Paesi nei quali il desiderio del rientro degli oriundi italiani è più forte, ma per raggiungere tale scopo non serve una  modifica delle norme legislative vigenti, perché esso può essere perseguito con la conclusione di appositi accordi bilaterali di regolazione dei flussi migratori con taluni Paesi di insediamento dei discendenti di italiani e sulla base di tali accordi le quote riservate possono essere comunque già oggi disposte dall’annuale D.P.C.M. di determinazione delle quote ai sensi dei vigenti artt. 2, 3, 21 T.U.

  In ogni caso la norma del ddl appare malformulata perché non usa una terminologia analoga a quella prevista dalle norme vigenti in materia di cittadinanza italiana. Perciò invece di “lavoratori di origine italiana per parte di almeno uno dei genitori fino al terzo grado in linea retta di ascendenza, residenti in Paesi non comunitari” occorreva riferirsi a stranieri residenti in Paesi non appartenenti all’Unione europea, i cui ascendenti in linea retta fino al terzo grado sono stati cittadini italiani”.

  Il comma 2 prevede ulteriori specificazioni per la stesura del decreto di programmazione delle quote che devono altresì essere predisposte in base ai dati sulla effettiva richiesta di lavoro suddivisi per regioni e per bacini provinciali d’utenza ed elaborati dall’anagrafe informatizzata del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Non si comprende però quale sia l'efficacia di tale suddivisione territoriale, se cioè costituisca una mera base documentale che debba essere tenuta in considerazione per la predisposizione del decreto o se comporti la suddivisione di quote tra le Regioni fino ad impedire allo straniero entrato in Italia per lavorare in un determinata regione di trasferire in un’altra Regione altrove il proprio posto di lavoro, nel qual caso si finirebbe per limitare in modo incostituzionale la libertà di circolazione e soggiorno nelle diverse zone del territorio italiano degli stranieri regolarmente soggiornante o la loro possibilità di instaurare rapporti di lavoro.

  

 3.  L’art. 15 ddl (Lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato e lavoro autonomo) sostituisce l’intero art. 22 T.U. istituendo, in ogni provincia, presso la prefettura - ufficio territoriale del Governo, uno sportello unico per l’immigrazione, responsabile dell’intero procedimento relativo all’assunzione di lavoratori subordinati stranieri a tempo determinato ed indeterminato; inoltre prevede la disciplina e le modalità operative per la sottoscrizione da parte del lavoratore straniero del contratto di soggiorno per lavoro subordinato. Tra gli adempimenti dello sportello unico, è prevista anche l’acquisizione e la comunicazione agli uffici consolari del codice fiscale dell’immigrato ai fini del rilascio del visto di ingresso.

 Occorre preliminarmente osservare che la norma interviene su una disciplina che dovrà comunque essere profondamente modificata di nuovo fra pochi mesi per adeguarla alle norme della direttiva comunitaria in materia - cfr. Proposta della commissione europea COM (2001) 386 (01) dell’11 luglio 2001 di direttiva del Consiglio relativa alle condizioni d'ingresso e di soggiorno dei cittadini di paesi terzi che intendono svolgere attività di lavoro subordinato o autonomo – direttiva delle cui complesse e assai articolate norme (alle quali la Commissione propone che ogni Paese membro si debba adeguare entro il 1 gennaio 2004) il ddl non tiene in alcun conto, al di là delle proclamazioni contenute nella relazione illustrativa. Anzi il ddl contrasta in diversi punti con le progettate norme comunitarie.

In realtà il ddl prevede come unica modalità di ingresso per lavoro subordinato quella assai simile a quella che avviene tramite l'autorizzazione al lavoro su richiesta di un datore di lavoro italiano, per la quale già oggi all’art. 22, comma 8 T.U. impone la stipula di un contratto di lavoro tra datore di lavoro e lavoratore.

La procedura per l’assunzione di lavoratori stranieri dall’estero prevista dal ddl in realtà in gran parte riproduce sostanzialmente quella già oggi prevista l'art. 22 T.U. (aggiornandola alla recente istituzione degli uffici territoriali del Governo che hanno inglobato anche le Direzioni provinciali del lavoro), ma, come si è illustrato,  aggiunge agli obblighi del datore di lavoro quello di garantire le spese del rientro in patria dello straniero. Tale obbligo - che nella prassi italiana fu in vigore fino al 1986 - appare un onere eccessivo e inutile per il datore di lavoro e ciò, e ciò può irrigidire il mercato del lavoro e incentivare il ricorso all'immigrazione clandestina.

Assai rilevante è invece la norme del nuovo comma 4 dell’art. 22 T.U., la quale prevede che prima del rilascio del nulla-osta al lavoro dall’estero i centri per l’impiego abbiano l’obbligo di svolgere una verifica preventiva in tutta Italia dell’indisponibilità di altri lavoratori già iscritti nelle liste di collocamento a ricoprire il posto di lavoro richiesto. Si intende così ripristinare una verifica che fu in vigore nella legislazione italiana fino al 1998 e che fu abrogata dal T.U. proprio perché era stata una delle principali cause del blocco di nuovi ingressi regolari per lavoro e del sostanziale incentivo all’ingresso illegale. Si tratta infatti di un meccanismo che potrebbe essere utilizzato soltanto per le assunzioni effettuate con chiamata numerica e per i lavori generici e non già per quei rapporti di lavoro in cui è essenziale il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, nei quali il datore di lavoro si vedrebbe costretto ad assumere in alternativa al lavoratore straniero, che si presume conosca, un lavoratore avviato dai centri per l’impiego.

E’ vero peraltro che tale meccanismo ha un temperamento, perchè la nuova norma dell’art. 22 T.U. introdotto dal ddl prevede per procedere all’avviamento al datore di lavoro di altro lavoratore disponibile in alternativa al lavoratore straniero residente all’estero il decorso di un termine massimo di 20 giorni ed un meccanismo di silenzio-assenso, ma è anche vero che da un lato non si prevede alcun limite territoriale per la ricerca di altri lavoratori disponibili, e dall’altro - in contraddizione con l’intento di agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e di evitare un inutile prolungamento dell’iscrizione nelle liste di collocamento - si escludono i lavoratori extracomunitari già iscritti in Italia nelle liste di collocamento dalla possibilità di accedere al nuovo posto di lavoro.

I nuovi testi dei commi 5 e 6 dell’art. 22 T.U. come riformato dal ddl prevedono una procedura apparentemente più celere e senz’altro più semplificata rispetto al vigente art. 22 T.U. per il datore di lavoro interessato all’assunzione di un lavoratore straniero residente all’estero: lo Sportello unico per l’immigrazione presso l’Ufficio territoriale del Governo dovrebbe entro il termine complessivo di 40 giorni rilasciare il nulla-osta all’ingresso per lavoro subordinato, dopo aver verificato l’indisponibilità di altri lavoratori, il rispetto dei limiti previsti dal D.P.C.M. di determinazione delle quote e il rispetto dei contratti collettivi nazionali  e dopo aver sentito d’ufficio il Questore (il che comporta la soppressione del vigente obbligo per il datore di lavoro di adoperarsi per ottenere il nulla-osta di P.S. dopo aver ottenuto l’autorizzazione al lavoro).

La maggior celerità delle procedure previste dal ddl rispetto al vigente sistema è però sostanzialmente apparente, sia perché il termine di 40 giorni per la loro conclusione non è altro che la somma dei due termini di 20 giorni ciascuno previsti dai vigenti testi degli artt. 30 e 31 regolam. rispettivamente per la risposta da parte della Direzione provinciale del lavoro sulla domanda di autorizzazione al lavoro e per il rilascio del nulla-osta di P.S. da parte della Questura, sia perché il nuovo testo del comma 6 dell’art. 22 T.U. nel testo previsto dal ddl non contiene alcun nuovo termine per il rilascio del visto di ingresso per lavoro subordinato, sicchè tale termine  resta fissato nel medesimo termine di 30 giorni oggi vigente in base all’art. 31, comma 5 regolam.

La semplificazione delle procedure appare invece sostanziale e ancor più accentuata perché allo Sportello unico spetterebbe il compito di provvedere d’ufficio all’invio al consolato italiano all’estero del nulla-osta (che dunque non passerebbe più attraverso un invio da parte del datore di lavoro al lavoratore all’estero il quale poi oggi deve presentarlo al consolato) e all’assegnazione del numero di codice fiscale al lavoratore straniero, oltre che alla conservazione del contratto di soggiorno che dovrebbe essere firmato dal lavoratore entro 8 giorni dal suo ingresso in Italia.

   Il nuovo testo del comma 11 dell’art. 22 T.U. modificato dal ddl conferma che in caso di perdita del posto di lavoro lo straniero non è costretto a lasciare il territorio nazionale, ma ha diritto di restarvi per trovare un altro posto di lavoro.

   Tuttavia la norma introdotta dal ddl prevede che il periodo massimo oltre la scadenza del permesso di soggiorno per lavoro subordinato durante il quale è consentito il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato e l’iscrizione nelle liste di collocamento sia ridotto da 1 anno a  6 mesi.

   In proposito occorre ricordare che dal punto di vista giuridico l’art. 8 della Convenzione n°143/75 dell’O.I.L., ratificata e resa esecutiva con L. 10 aprile 1981, n. 158, alla quale il legislatore ha l’obbligo di attenersi in base alla riserva di legge rinforzata prevista dall’art. 10, comma 2 Cost., impedisce espressamente che la perdita del posto di lavoro possa comportare l’automatica perdita del permesso di soggiorno e impone che il lavoratore straniero usufruisca di un trattamento identico a quello dei cittadini nazionali specialmente per quanto riguarda le garanzie relative alla sicurezza dell’occupazione, la riqualifica, i lavori di assistenza e di reinserimento.

 Il primo obbligo internazionale sopra citato appare formalmente rispettato anche dal termine ridotto e dimezzato previsto dalla nuova norma introdotta dal ddl, anche se una violazione potrebbe prodursi qualora continuasse la prassi illegittima (ancorchè di fatto imposta dalla necessità di commisurare l’elevato numero di procedimenti amministrativi con la scarsa dotazione di personale e di apparecchiature) praticata da molte Questure le quali non rispettano il termine previsto dall’art. 5, comma 9 T.U. di 20 giorni per il rilascio del permesso di soggiorno richiesto, ma impongono allo straniero di richiedere alla Questura stessa un appuntamento per presentare la documentazione per il rinnovo, fissano la data di tale appuntamento a mesi di distanza dalla prenotazione e  poi impiegano numerosi altri mesi per rilasciare il permesso richiesto. E’ evidente che, in mancanza del permesso di soggiorno rinnovato, è improbabile che un datore di lavoro accetti di perfezionare un rapporto di lavoro regolare, cosicché è facilmente comprensibile che la restrizione del termine massimo di disoccupazione potrebbe spingere inutilmente nella clandestinità un grande numero di stranieri regolarmente soggiornanti che in realtà vivono onestamente. 

   Il secondo obbligo internazionale sopra citato appare invece sostanzialmente violato perchè la nuova norma si configura come uno sostanziale scoraggiamento del reimpiego di lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti titolari di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato: ne aumenta la condizione giuridica precaria e lega eccessivamente il loro destino alle mutevoli variazioni dell'andamento del mercato del lavoro e in ogni caso non prevede una disciplina di favore per i casi in cui il mancato reimpiego del lavoratore sia causato da infortuni sul lavoro, malattie professionali, malattia, maternità, frequenza a corsi di formazione e riqualificazione professionale legalmente riconosciuti.

   La norma penale del nuovo comma 12 dell’art. 22 T.U. introdotto dal ddl in conformità con lo scopo di prevenire e reprimere l’immigrazione clandestina prevede un opportuno inasprimento della pena pecuniaria del datore di lavoro illegale: si aumenta la pena pecuniaria per il datore di lavoro che occupa alle sue dipendenze stranieri privi del permesso di soggiorno o il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato: l’ammenda da due a sei milioni di lire è sostituita dalla pena proporzionale di cinque milioni di ammenda per ogni lavoratore impiegato.

   La nuova norma però sembra incorrere nel medesimo errore compiuto dal legislatore del 1998, perché estende la sanzione penale a tutti i casi di lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno per lavoro in corso di validità. Da un lato si dimentica che la legge consente comunque l’accesso al lavoro a stranieri in possesso di altri titoli di soggiorno  (carta di soggiorno, permesso di soggiorno per motivi familiari, per studio, per asilo ecc.) e dall’altro pone in capo al datore di lavoro l’onere – spesso materialmente difficile da eseguire - di verificare costantemente se il titolo di soggiorno del suo lavoratore non sia scaduto, revocato o annullato.

 Nel nuovo art. 22 T.U. introdotto dall’art. 15 ddl appare assai discutibile la  soppressione nel comma 13 di quella norma (già oggi vigente nell’art. 22 T.U. e che è prevista anche dalla proposta di direttiva comunitaria) che prevede che il lavoratore straniero appartenente ad un Paese che non abbia concluso con l’Italia appositi accordi bilaterali di sicurezza sociale, il quale rientra in patria ha la facoltà di chiedere ed ottenere la restituzione dei contributi previdenziali obbligatori versati in Italia in suo favore maggiorati del 5% annuo.

La facoltà che si vorrebbe abrogare costituisce invece un importantissimo strumento per disincentivare concretamente il lavoratore straniero dall’accettare il lavoro nero e per consentire allo straniero che lo desideri un effettivo e dignitoso reinserimento in patria in quei Paesi che non abbiano ancora concluso con l’Italia specifici accordi bilaterali di sicurezza sociale. Su tale aspetto dunque le norme del ddl appaiono in piena contraddizione sia con il proclamato intento di prevenire e reprimere il ricorso al lavoro in condizioni illegali, sia con le norme della proposta di direttiva comunitaria.

      Sotto il profilo costituzionale non appare comunque giustificato “ragionevolmente”, in relazione all’art. 3 Cost., che lo Stato italiano incameri i contributi del lavoratore, allorchè questi rientri in Patria prima di aver maturato i requisiti per la pensione di anzianità o di vecchiaia o di invalidità, cioè quando questi non ne possa ricevere alcun vantaggio e non abbia alcun perdurante legame “solidale” con il mondo del lavoro italiano.

     Da ciò deriva anche che poiché la copertura finanziaria dei maggiori oneri previsti dal ddl è assicurata dall’art. 27 ddl “mediante utilizzo dei minori trasferimenti all’INPS” che erano necessari per trasferire i fondi corrispondenti ai contributi previdenziali da restituirsi ai lavoratori extracomunitari, l’intera copertura finanziaria del ddl pur essendo obbligatoria ai sensi dell’art. 81 Cost. è assicurata con mezzi di dubbia costituzionalità.

 

 

   4.  L’art. 16 ddl pur recando la rubrica “prestazione di garanzia per l’accesso al lavoro” prevede in realtà la soppressione dell’istituto della prestazione di garanzia per inserimento nel mercato del lavoro prevista dal vigente art. 23 T.U. e la sua sostituzione con una futura e incerta (perché rinviata a norme regolamentari) programmazione di corsi di formazione professionale all’estero nei Paesi di origine da enti abilitati, la cui frequenza comporterebbe un titolo di prelazione per i nuovi ingressi per lavoro subordinato o autonomo, prevede titoli di prelazione nel collocamento dei lavoratori stranieri derivanti dall’aver frequentato corsi di istruzione e di formazione professionale organizzati.

   E’ vero che l’art. 16 ddl da un lato consente che a tali programmi partecipino le Regioni e le Province autonome sia nella fase propositiva sia in quella realizzativa e dall’altro individua le finalità della predetta attività, indirizzata all’inserimento lavorativo mirato nei settori produttivi italiani che operano sia all’interno dello Stato che nei paesi di origine nonchè allo sviluppo di attività produttive o imprenditoriali autonome nei Paesi di origine.

   E’ vero però che la norma appare dotata di un’assai scarsa effettività perchè rinvia ad un futuro incerto il finanziamento di tali iniziative, poiché non è stata accolta la proposta formulata dalla Conferenza unificata che mirava ad accollare tale finanziamento allo Stato, in considerazione degli oneri di bilancio e dei conseguenti problemi di copertura finanziaria che avrebbe comportato.

   Occorre ricordare che l’istituto della prestazione di garanzia per inserimento nel mercato del lavoro fu per la prima volta introdotto nell’ordinamento italiano dal legislatore nel 1998 – anche se è stato effettivamente applicato soltanto a partire dai D.P.C.M. di determinazione delle quote per il 2000 e per il 2001 –, ma che nella legislazione da molti anni vigente negli Stati Uniti e in Canada, l’utilizzo degli sponsors per gli ingressi – insieme con la regolarizzazione degli immigrati presenti sul territorio nazionale e con la programmazione dei flussi – fa parte delle scelte di fondo della politica migratoria.

   In ogni caso l'ingresso per inserimento nel mercato del lavoro garantisce l’ingresso nel territorio dello Stato in forma regolare, con il sostegno offerto dallo sponsor che costituisce comunque una garanzia a copertura di qualsiasi eventuale costo nella fase iniziale di inserimento (vitto, alloggio e sostentamento) e valorizza le capacità di integrazione che anche i gruppi di immigrati già presenti regolarmente nel Paese sono in grado di esprimere. In particolare esso riesce a coniugare due esigenze fondamentali: da un lato assicura un inserimento assistito, valorizzando anche le reti di assistenza familiare e le catene migratorie, aumentando così sia il sostegno all’immigrato nella fase di primo inserimento, sia la sicurezza sociale complessiva e dall’altro prevedendo un periodo prefissato di tempo per l’inserimento consente la ricerca di lavoro da parte dello straniero presente sul territorio nazionale e l’incontro diretto tra domanda ed offerta di lavoro che costituisce da sempre la modalità prevalente di avviamento al lavoro per la manodopera in Italia, sia essa nazionale o straniera.

  Si tratta dunque di un istituto introdotto nel 1998 nella legislazione italiana proprio al fine di dare una disciplina giuridica ad un elemento fondamentale e tipico dal punto di vista dell’antropologia di tutte le migrazioni per lavoro (inclusa quella italiana all’estero), le quali avvengono non tanto attraverso le vie ufficiali, bensì attraverso la cosiddetta "catena migratoria" dei connazionali (amici, parenti e conoscenti) che vivendo già nel Paese di immigrazione, aiutano i nuovi ingressi di amici e parenti e conoscenti e ne orientano l'inserimento sociale e lavorativo.

  In tal senso il fatto che nel 2000 e nel 2001 la maggioranza di coloro che hanno presentato la prestazione di garanzia (sponsors) sia costituita da persone straniere non è affatto una circostanza da guardare con sospetto (al contrario qualche sospetto di elusione potrebbe far sorgere il garante italiano...), bensì è la migliore conferma che l'istituto dell’inserimento nel mercato del lavoro può essere assai utile per incanalare, controllare e far venire alla luce il naturale movimento migratorio che altrimenti, lungi dal cessare si affiderebbe a canali criminali e clandestini. A ciò si aggiunga che tale canale è indispensabile per quei tipi di lavori di fiducia che esigono un incontro diretto sul territorio tra datore di lavoro e lavoratore (p. es. lavoro domestico, assistenza alle persone, lavoro nelle imprese artigiane e nelle piccole imprese ecc.) e il cui fabbisogno di manodopera appare assai elevato e non soddisfatto da lavoratori italiani.

  La soppressione di tale istituto appare dunque del tutto controproducente rispetto all’intento di prevenire efficacemente l'immigrazione clandestina.

  Neppure può essere considerata elemento che induca a ritenere inutile  l’ingresso per inserimento nel mercato del lavoro la circostanza – più volte ricordata dal Ministero del Lavoro – che al 31 dicembre 2000 erano iscritti nelle liste di collocamento oltre 200.000 extracomunitari, dei quali circa 110.000 non avevano mai lavorato.

  E’ vero che secondo le statistiche ufficiali gli extracomunitari iscritti al collocamento sono passati da 209.000 (dicembre 1999) a 269.300 (dicembre 2000), anche se  il flusso mensile degli extracomunitari avviati ad un rapporto di lavoro regolare è in costante e notevole aumento: gli extracomunitari avviati ogni mese al lavoro sono passati da una media di 10.800 (1996) a una media di 18.600 (1999). Peraltro tutte le tabelle rese note dal Ministero del Lavoro indicano che i dati dall'inizio del 1999 sono parzialmente stimati e rimangono ancora denotati da un forte ritardo rispetto al periodo di riferimento e da una copertura territoriale parziale, tanto che si afferma che saranno oggetto nei prossimi mesi di una più approfondita analisi anche la fine di confrontarli con le informazioni derivanti dalle segnalazioni di avvio al lavoro inviate all’INAIL.

  In ogni caso anche se le cifre degli iscritti al collocamento fossero complete ed ufficiali non darebbero comunque un’immagine attendibile dell'effettiva situazione dei disoccupati perchè esse sono comunque fondate ancora sulle precedenti liste di collocamento e non già sui nuovi "elenchi anagrafici" (che devono distinguere le diverse tipologie di disoccupati, considerando tali non più tutti coloro che dichiarino di cercare un lavoro, ma soltanto coloro che interpellati dai servizi per l'impiego si dicano effettivamente disponibili ad assumere subito un'occupazione e a svolgere attività di formazione o riqualificazione professionale).

  Infatti tali elenchi anagrafici sono stati disciplinati soltanto dal regolamento approvato con D.P.R. 7 luglio 2000, n. 442 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13 febbraio 2001), il cui art. 8 prevede che restano in vigore le precedenti liste fino alla predisposizione dei nuovi elenchi anagrafici, i quali dovranno essere predisposti dai Servizi per l'impiego (dal 1998 amministrati da ogni Provincia) soltanto entro 6 mesi (cioè entro la fine di novembre 2001 o l'inizio del 2002) dall'entrata in vigore dei decreti ministeriali (D. Min. Lavoro 30 maggio 2001, pubblicati nella Gazz. uff. 2 luglio 2001) che hanno predisposto la scheda anagrafica e la scheda professionale dei lavoratori, nonchè la codifica delle professioni e la classificazione dei lavoratori, utili anche ai fini dell'immissione di tali elenchi anagrafici nel S.I.L. (sistema informativo lavoro), cioè in quel sistema di collegamento telematico tra tutti i centri per l'impiego, le società autorizzate al lavoro interinale e al collocamento privato.

  Poiché dunque soltanto all'inizio del 2002 saranno forse disponibili cifre complete ed attendibili,  prima di  allora qualsiasi cifra sui disoccupati è inattendibile e probabilmente assai gonfiata, se sono vere le notizie di stampa secondo le quali in molte Province i Centri per l'impiego riferiscono che soltanto un quarto di coloro che si erano iscritti nelle precedenti liste di collocamento accettano di essere considerati disoccupati "effettivi" e di essere inclusi nei nuovi elenchi anagrafici.

  Intanto le stesse recenti tabelle ministeriali segnalano la costante e forte diminuzione del tasso di disoccupazione in tutti i territori. Infatti a luglio 2001 era del 12,5 % a livello nazionale, con i consueti forti divari (anche se la disoccupazione diminuisce ovunque): al centro-nord il tasso è soltanto del 6,6%, al Sud è del 27,8%.

  E’ dunque evidente che non si può fondare una così rilevante modifica legislativa su dati così non aggiornati e non disaggregati. Lo stesso Ministro del Lavoro e delle politiche sociali ha ordinato un'indagine supplementare su tali disoccupati e si riserva di presentarne gli esiti e di trarne le conseguenze durante l'esame parlamentare del ddl.

  In ogni caso l'esistenza di qualsiasi cifra di disoccupati extracomunitari non può di per sé costituire la prova dell'inutilità e dannosità dell’istituto degli ingressi per inserimento nel mercato del lavoro previsto dal vigente art. 23 T.U., per diversi motivi:

  1) i visti di ingresso per inserimento nel mercato del lavoro sono stati effettivamente rilasciati soltanto nel 2000 e nel 2001 e sono non più di 30.000 (che sarebbe comunque una minima percentuale rispetto al totale dei disoccupati extracomunitari) e non si dispone di cifre attendibili sul loro effettivo impiego regolare;

  2) gli stranieri in cerca di prima occupazione sono non soltanto i nuovi immigrati “per inserimento nel mercato del lavoro”, ma soprattutto sono altre categorie di stranieri regolarmente soggiornanti aventi titolo per l’iscrizione nelle liste di collocamento e cioè : a) i minori che abbiano compiuto 14 anni o abbiano compiuto la maggiore età; b) le persone (p. es. coniuge o genitori) ricongiuntesi al familiare; c) le persone che hanno regolarizzato la propria posizione nel 1998/99, ma non in tempo per poter continuare la propria attività lavorativa iniziata illegalmente; d) le persone che hanno ottenuto lo status di rifugiato; e) le persone titolari di un permesso di soggiorno per motivi umanitari o che comunque godono di uno status di protezione temporanea per motivi umanitari;

  3) ogni analisi del mercato del lavoro è verosimile se si fonda non già su una massa indistinta di disoccupati, bensì su disoccupati suddivisi per settori, qualifiche, mansioni, zone di iscrizione ecc.;

  4) tutti i servizi per l'impiego sono stati trasferiti dallo Stato alle Province e sono in corso di riorganizzazione e , come si è sopra ricordato, durante il 2001 i Centri per l’impiego stanno procedendo ad una puntuale e radicale revisione e ripulitura delle liste di collocamento dalle persone che non sono effettivamente disponibile ad assumere immediatamente un posto di lavoro e dunque le cifre del 2000 sugli iscritti al collocamento restano ampiamente sopravvalutate.

Alla luce di quanto sopra ricordato appare un presupposto del tutto indimostrato e indimostrabile l’affermazione contenuta nella relazione illustrativa del ddl secondo la quale la soppressione dell'istituto dello sponsor sarebbe collegata al fatto che esso “nella sua attuazione non ha raggiunto  l’obiettivo di favorire l’ingresso nella realtà lavorativa dei lavoratori stranieri”.

L’abrogazione dell’ingresso per inserimento nel mercato del lavoro è inutile anche perché la vigente disciplina legislativa prevista dall’art. 23 T.U. già oggi consente al Governo la massima discrezionalità nella determinazione delle quote e dunque gli consente di adottare ogni forma di cautela contro possibili abusi. Pertanto già nel sistema normativo vigente - senza che dunque sia necessaria alcuna modifica legislativa - il D.P.C.M. di determinazione annuale delle quote ben potrebbe di volta in volta prevedere anche limiti qualitativi, cioè p. es. potrebbe disporre che in presenza di un numero di domande di autorizzazione all’ingresso a seguito di prestazione di garanzia superiore a quelle previste dal decreto stesso le autorizzazioni stesse siano rilasciate prioritariamente se supportate da una garanzia prestata da soggetto residente in quelle Province in cui il tasso di disoccupazione sia inferiore alla media nazionale e/o da una garanzia alla quale sia  allegata documentazione attestante la comprovata disponibilità a farsi carico dell’inserimento lavorativo del nuovo immigrato da parte di società private di collocamento legalmente autorizzate o di associazioni o enti iscritti nel registro nazionale degli enti che operano in favore degli stranieri istituito dall’art. 42 T.U. e/o la documentazione attestante che i requisiti professionali dello straniero sono idonei a soddisfare ben determinati settori, qualifiche e mansioni in cui si verifica una persistente e generalizzata carenza di manodopera.

 

5. L’art. 17 ddl (Lavoro stagionale) disciplina il lavoro stagionale riproducendo il medesimo testo del vigente art. 24 T.U., con i correttivi necessari per renderlo adeguato e compatibile alla nuova procedura prevista per gli ingressi per lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato (inclusa la criticata verifica preventiva dell’indisponibilità di altri italiani o comunitari iscritti nelle liste di collocamento, che però per tali tipi di ingressi deve esaurirsi entro il termine di 5 giorni) nel nuovo testo dell’art. 22 T.U. riformato dall’art. 15 ddl.

 

6 . L’art. 18 ddl (Ingresso e soggiorno per lavoro autonomo) in realtà si limita ad introdurre nell’art. 24 T.U. un nuovo comma che prevede la revoca del permesso di soggiorno e l’espulsione dello straniero con accompagnamento immediato alla frontiera a seguito di condanna con provvedimento irrevocabile per i reati di produzione, smercio o distribuzione di prodotti falsi, contraffatti o in violazione delle norme di tutela del diritto di autore.

La previsione dell'espulsione immediata per lo straniero che commercia, produce o distribuisce prodotti falsi e contraffatti di per sé non suscita particolari problemi, ma la norma prevista dal ddl si espone a numerose critiche.

In primo luogo non si chiarisce se la revoca del permesso di soggiorno e l’espulsione siano da intendersi quali misura di sicurezza o pena accessoria alla condanna definitiva oppure se debbano essere disposta con provvedimento amministrativo, nel qual caso il provvedimento amministrativo di espulsione da eseguirsi con accompagnamento alla frontiera disposto dall’autorità di pubblica sicurezza violerebbe la riserva di giurisdizione prevista dall'art. 13 Cost.

In secondo luogo la ragionevolezza e l’equità della norma appaiono dubbie sotto due profili.

Da un lato simili sanzioni inserite in un articolo dedicato al lavoro autonomo sembrano riferirsi ai soli stranieri titolari di un permesso di soggiorno per lavoro autonomo e non già ad ogni straniero titolare di qualsiasi tipo di permesso di soggiorno.

Dall’altro lato una simile sanzione potrebbe essere efficace e ragionevole se almeno si accompagnasse ad una specifica aggravante da prevedersi nei confronti di chiunque ceda a qualsiasi titolo merce contraffatta a stranieri.

     

7.  L’art. 19 ddl  (attività sportive) affida al Ministro per i beni e le attività culturali il compito di determinare il limite massimo annuale di ingresso dall’estero degli sportivi stranieri che svolgano attività sportiva a titolo professionistico o comunque retribuita. Secondo le dichiarazioni rese da tale ministro al momento dell’approvazione del disegno di legge “si stabilisce così un limite a quello che stava altrimenti diventando un fenomeno del tutto abnorme, fonte di molteplici effetti perversi. Primo: l’irresponsabile avviamento al professionismo di atleti troppo giovani provenienti in genere da Paesi in via di sviluppo. Secondo: la sistematica penalizzazione di tutte le tradizionali scuole sportive giovanili ( i vivai ) del nostro Paese. Terzo: la condizione di crescenti difficoltà nelle quali si stanno venendo progressivamente a trovare le nostre stesse squadre nazionali”.

In realtà si può dubitare dell’effettiva intenzione del Governo di raggiungere l’obiettivo proposto, peraltro opinabile.

Infatti la  norma del ddl appare superflua perché lascia la proposta all’autonoma iniziativa del CONI, cioè a quel medesimo organismo che già oggi in base all’art. 40, comma 14 regolam. è competente a  esprimere il proprio assenso all’assunzione dall’estero di sportivi stranieri. Poiché infatti in base all’art. 27 T.U. la disciplina degli ingressi e dei soggiorni degli sportivi è compresa tra quei speciali tipi di attività lavorative per le quali il regolamento governativo di attuazione del T.U. può prevedere norme e condizioni speciali si tratta di materia che è già attribuita alla potestà regolamentare del Governo, il quale dunque avrebbe potuto introdurre già da tempo simili norme per via regolamentare senza la necessità di ricorrere ad alcuna modifica legislativa.

Inoltre qualora la previsione di limiti numerici agli sportivi extracomunitari si ritenesse applicabile anche agli stranieri che siano già regolarmente soggiornanti in Italia con un titolo di soggiorno che di per sé consente loro l’accesso al mercato del lavoro, la norma sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione della riserva di legge rinforzata in materia di condizione giuridica degli stranieri prevista dall’art. 10, comma 2 Cost., poiché viola la parità di trattamento tra lavoratori italiani ed extracomunitari regolarmente soggiornanti prevista dalla Conv. O.I.L. n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata e resa esecutiva con legge 10 aprile 1981, n. 158, principio ribadito dall’art. 2, comma 3 T.U. e dalla sentenza n. 454/1998 della Corte costituzionale.

 

 

1.5.      Le norme in materia familiare

 

Le norme del ddl che incidono sul diritto all’unità familiare apportano sostanziali limitazioni la cui legittimità costituzionale appare in diversi aspetti assai dubbia.

 

1.   L’art. 20 ddl (Ricongiungimento familiare) è norma articolata che incide sul contenuto dell’art. 29 T.U.

 In primo luogo essa esclude dai soggetti passivi del ricongiungimento familiare i genitori che non abbiano altri figli. Si tratta di una restrizione immotivata del diritto al riacquisto dell’unità familiare.

  In tal modo si impedisce di fatto il ricongiungimento con la maggioranza dei genitori a carico, poiché è notorio che nel mondo la grande maggioranza delle coppie ha in media almeno due figli. Una simile ingiustificata limitazione viola il diritto all’unità familiare previsto dall’art. 8 Conv. eur. dir. uomo e non è nemmeno conforme alla direttiva comunitaria di prossima adozione in materia di ricongiungimento familiare (cfr. Proposta della Commissione – COM (2000) 624: proposta  modificata di direttiva del Consiglio relativa al diritto al ricongiungimento familiare (presentata dalla Commissione in applicazione dell'articolo 250, paragrafo 2 del trattato CE), la quale limita tale diritto al ricongiungimento di genitori che siano a totale carico del figlio che fa richiesta di ricongiungimento, indipendentemente dal numero dei figli. 

 In secondo luogo la norma esclude dal ricongiungimento familiare i parenti entro il terzo grado a carico e inabili al lavoro, ma anche in tal caso si pone in radicale contrasto con la citata proposta di direttiva sul ricongiungimento familiare in corso di approvazione a livello dell'Unione europea che espressamente consente di ricongiungersi anche a tali categorie di persone.

Occorre ricordare non soltanto che il diritto a vivere in famiglia è tutelato dagli artt. 29, 30, 31 Cost., ma anche che i Patti internazionali del 1966 sui diritti civili e politici riconoscono la famiglia quale nucleo naturale e fondamentale della società assicurandone sostegno e protezione, mentre anche la convenzione n. 143/1975 dell’O.I.L., ratificata dall’Italia e resa esecutiva con L. 10 aprile 1981, n. 158 invita gli Stati parte ad agevolare il ricongiungimento familiare di tutti i lavoratori migranti che risiedono legalmente nel loro territorio, così come anche gli art. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo riconoscono il diritto al rispetto della vita privata e familiare e quello a sposarsi e a costituire una famiglia.

Pertanto l’esclusione dalla possibilità di ricongiungimento dei genitori a carico e dei parenti entro il terzo grado, a carico e inabili al lavoro, è costituzionalmente illegittima per violazione della riserva di legge rinforzata prevista dall’art. 10, comma 2 Cost., poiché si tratta di norme che contrastano con i principi espressi da tali norme internazionali: è necessario assicurare il ricongiungimento di queste persone quando sono a carico del richiedente e non hanno più alcun sostegno familiare nel Paese d’origine o, nel caso di figlio maggiorenne, hanno necessità di cure e sostegno materiale e affettivo da parte della propria famiglia in quanto ad es. colpite da grave handicap e per questa ragione inabili al lavoro.

Per queste ragioni la citata proposta di direttiva comunitaria prevede all’art.5 comma primo che sia riconosciuta la possibilità di ottenere il ricongiungimento dei genitori del richiedente o del coniuge quando siano a carico del richiedente e non abbiano alcun altro effettivo sostegno familiare nel Paese d’origine, a prescindere dalla composizione del nucleo familiare e dall’esistenza di altri figli se questi non sono comunque in grado di provvedere; la stessa possibilità è riconosciuta anche ai figli maggiorenni "qualora non possano oggettivamente provvedere al proprio sostentamento a causa del loro stato di salute".

  Si tratta dunque di previsioni normative che costituiscono uno standard comune di riconoscimento del diritto all’unità familiare, al di sotto del quale la legislazione nazionale non potrà comunque legittimamente porsi.

  In ogni caso il ddl non coglie l’occasione per prevedere alcuna norma che recepisca e adatti l’ordinamento italiano a quella proposta di direttiva, alla quale tutti gli Stati membri, una volta definitivamente approvata, dovranno conformarsi entro il 31 dicembre 2002.

  L’ultima parte dell’art. 20 ddl modifica l’art. 29 T.U. spostando la competenza al rilascio dei nulla-osta al ricongiungimento familiare dalle Questure ai nuovi Sportelli unici per l’immigrazione istituiti presso gli Uffici territoriali del Governo.

 

  2.   L’art. 23  ddl (disposizioni di contrasto ai matrimoni simulati) prevede la revoca del permesso di soggiorno nelle ipotesi di matrimonio simulato e finalizzato soltanto ad ottenere la possibilità di soggiornare in Italia utilizzando il permesso di soggiorno per motivi familiari che è rilasciabile ai coniugi conviventi di cittadini italiani, nei confronti dei quali l’art. 19 T.U. prevede un divieto di espulsione.

Di per sé appare ragionevole l’esigenza della prevenzione e repressione dell’uso simulato del matrimonio con cittadini italiani o comunitari al solo fine di evitare un provvedimento di espulsione e di ottenere un permesso di soggiorno.

Tuttavia ogni norma che preveda un’ingerenza dello Stato su tale materia deve essere effettuato con la massima cautela per non incorrere in violazione del diritto di formare una famiglia, garantito a tutti dagli artt. 29, 30 e 31 Cost. e dalle norme internazionali (cfr. art. 12 Conv. eur. dir. uomo).

Inoltre la nuova norma prevede un trattamento discriminatorio della famiglia comprendente stranieri extracomunitari rispetto a quella costituita soltanto da cittadini italiani: poiché dunque il fattore discriminante è soltanto la cittadinanza di uno o di entrambi i coniugi, si tratta di una distinzione la cui ragionevolezza è costituzionalmente dubbia ai sensi dell’art. 3 Cost. perché nella protezione della famiglia gli artt. 29 e 30 Cost. non distinguono i cittadini italiani dagli stranieri.

Perciò non appare adeguato alla delicatezza del bene costituzionalmente tutelato affidarne la gestione all’autorità di pubblica sicurezza invece che agli ufficiali di stato civile e agli uffici del pubblico ministero che in base alle norme del codice civile sovraintendono a tutta la materia matrimoniale. Per prevenire la celebrazione in Italia di matrimoni strumentali ben si potrebbe prevedere un’indagine preventiva alla celebrazione da parte del pubblico ministero su segnalazione dell’ufficiale di stato civile qualora lo straniero nubendo non sia in grado di esibire un titolo di soggiorno in corso di validità.

In ogni caso la norma del ddl conferisce un’eccessiva discrezionalità all’autorità di pubblica sicurezza perché non prevede criteri (anche temporali) e modalità precise per l’accertamento dell’effettiva convivenza dopo la celebrazione del matrimonio.

 

 

1.6.      Le norme in materia di alloggio ed integrazione sociale

 

  In materia di alloggi e di integrazione sociale le norme previste dal ddl appaiono assai confuse.

  L’art. 21 ddl (Centri di accoglienza e accesso all'abitazione) prevede due distinte norme.

  Il primo comma abroga il vigente  comma 1 dell’art. 40 T.U. nella parte in cui prevede la facoltà prevista per il sindaco di disporre l’alloggiamento di stranieri non regolarmente soggiornanti che si trovino in situazione di emergenza, la cui applicazione peraltro, come prevede espressamente la norma che si vorrebbe abrogare, non impedisce il rispetto delle norme sulla loro espulsione o respingimento.

  La norma appare del tutto controproducente, perché non spiega come si possa provvedere ad alloggiare costoro anche quando non siano disponibili centri di permanenza temporanea e assistenza o quando si verifichi un ingresso per motivi di calamità naturale o di disastri pubblici. Così la norma finisce per gravare di tali oneri i soli enti del “privato sociale”.

  Di fronte alla richiesta dell’ANCI di non sopprimere la citata disposizione contenuta nell’articolo 40 T.U. il Governo ha invece risposto con l’introduzione di una disposizione transitoria (art. 26, comma 3 ddl) in base alla quale, fino alla realizzazione di una adeguata rete di centri di permanenza temporanea e di assistenza – da accertare da parte del Ministro dell’interno, previo parere del Comitato per il monitoraggio della legge –, il sindaco conserva quei medesimi poteri di intervento per disporre l’alloggiamento di stranieri sprovvisti di titoli di soggiorno in situazioni di particolare gravità, ferme restando le disposizioni sull’allontanamento dal territorio dello Stato degli stranieri non in regola.

  E’ evidente la contraddizione: l’art. 21, comma 1 ddl abroga una norma il cui contenuto sostanziale è però contestualmente mantenuto in vigore dall’art. 26, comma 3 ddl. Né si può affermare che si tratti di una disposizione effettivamente transitoria se si pensi che essa sarà applicabile fino a quando (evento futuro e incerto) il Ministro dell’Interno non abbia accertato che sia stata realizzata una rete di centri di permanenza temporanea adeguata. Tale rete non sarà mai adeguata se si pensa che il numero di stranieri irregolarmente soggiornanti anche grazie alle norme del ddl è destinato ad aumentare e già oggi si stima superi le diverse centinaia di migliaia, mentre la relazione tecnica al ddl prevede la realizzazione di una decina di centri per consentire un effettivo allontanamento di circa 36.000 stranieri l’anno.

  Dunque nella stesura finale del ddl il Governo ha preferito fingere che il ripristino dell’abrogazione sia temporaneo invece di riconoscere che di per sé l’abrogazione della norma dell’art. 40 T.U. è priva di senso.

  Il secondo comma dell’art. 21 ddl inserisce poi nell’art. 42 T.U. un nuovo comma 1-bis che precisa che l’accesso alle misure di integrazione sociale è riservato agli stranieri che dimostrino di essere in regola con le norme che disciplinano il soggiorno in Italia.

  La norma appare del tutto superflua sia perché i vigenti testi degli artt. 40, 41, 42 T.U. prevedono già oggi che le misure di integrazione sociale si applichino soltanto in favore di stranieri regolarmente soggiornanti, sia perché tale disposizione sulla base dei noti criteri interpretativi previsti dall’art. 14 disp. prel. cod. civ., in quanto norma generale, non può neppure prevalere sulle norme speciali previste dagli artt. 35 e 38 T.U., le quali, in virtù di inderogabili norme costituzionali ed internazionali, consentono anche agli stranieri privi di titolo di soggiorno di accedere rispettivamente alle cure urgenti ed essenziali e alle scuole dell’istruzione obbligatoria durante la minore età.

 

 

1.7.      Le norme in materia di diritto d’asilo

 

  Il Capo II ddl (articoli 24 e 25) disciplina la revisione delle norme in materia di diritto d’asilo introducendo una procedura semplificata e accelerata per il riconoscimento dello status di rifugiato anche al fine di non consentire che tale istituto sia utilizzato impropriamente, al solo scopo di procrastinare o di evitare un provvedimento di allontanamento dello straniero dal territorio dello Stato disposto per irregolarità di soggiorno.

  L’intera normativa proposta deve essere analizzata unitariamente.

    

  1. Occorre anzitutto fare osservazioni complessive sui profili generali, costituzionali, internazionali e comunitari della nuova disciplina.

   Il riconoscimento dello status di rifugiato è tuttora regolato dall’art. 1 D.L. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39 (cosiddetta legge Martelli), il quale prevede che a coloro che presentino una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato  – indipendentemente dalla posizione di regolare o irregolare e di eventuale sottoposizione a procedimento di allontanamento o altro – sia rilasciato un permesso di soggiorno in attesa della definizione della richiesta.

   In proposito il progetto di direttiva comunitaria che regola lo standard minimo delle procedure che gli Stati membri devono adottare per il riconoscimento dello status di rifugiato (proposta di direttiva CNS - 2000/0238, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Comunità europea n. C062 E del 27 febbraio 2001) prevede, all’interno del principio generale della non trattenibilità dei richiedenti asilo per il mero fatto di esaminare la loro istanza, alcune eccezioni (art. 11), nonchè una cosiddetta procedura semplificata (artt. 27 e ss.) per esaminare quelle domande che si presumono manifestamente infondate; l’esito sfavorevole di questa procedura semplificata, salvo l’obbligo di rispondere (art. 33, par. 3) – anche negativamente – all’istanza del richiedente asilo che chiede di rimanere sul territorio nazionale per tutta la durata dell’eventuale ricorso, non impone agli Stati membri di sospendere gli effetti di una decisione sfavorevole di primo grado in attesa dell’esito del ricorso.

   In generale occorre rilevare che molte norme del titolo II del ddl appaiono intempestive e di dubbia illegittimità costituzionale. 

   In primo luogo è evidente che è assai inopportuno racchiudere in soli due articoli una disciplina così delicata e complessa di un diritto costituzionalmente garantito.  Non a caso dunque il ddl sul diritto d'asilo che era stato approvato dalla Camera dei deputati il 7 marzo 2001 conteneva circa 20 articoli. 

    Infatti il ddl fa uno stralcio della disciplina complessiva del diritto d'asilo che anzitutto trascura di adeguare l’ambito soggettivo del diritto d’asilo garantito a livello legislativo a quello previsto a livello costituzionale. E’ infatti noto che in base all’art. 10, comma 3 Cost. il diritto d’asilo non soltanto agli stranieri che temano a ragione di essere perseguitati individualmente per motivi di lingua, razza, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali, ai quali è riconosciuto lo status di rifugiato previsto dalla Convenzione firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, ratificata e resa esecutiva con L. 24 luglio 1954, n. 722,  ma più in generale a tutti coloro ai quali non sia garantito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana per effetto di eventi diversi da una persecuzione (guerre, guerre civili, violazione generalizzata dei diritti fondamentali, disordini gravi e generalizzati, carestie, calamità naturali ecc.). In tal senso è assai importante rilevare che il ddl assicura tutela sempre e soltanto ai rifugiati e non anche agli altri tipi di asilanti, che oggi sono sempre più numerosi  nell’ambito degli esodi di massa e così il ddl continua a confondere e assimilare il diritto di asilo previsto dall’art. 10, comma 3 Cost. con la protezione internazionalmente dovuta allo straniero a cui si è riconosciuto lo status di rifugiato, proprio mentre la recente giurisprudenza della Cassazione ha affermato che il diritto di asilo può essere riconosciuto anche in sede giudiziaria, sulla base dell’applicazione immediata dell’art. 10, comma 3 Cost., anche indipendentemente dalla verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

La disciplina del diritto d’asilo prevista dal ddl si pone dunque in grave contrasto con l’art. 10, comma 3 Cost. anzitutto perché sostanzialmente limita l’accesso ad un diritto soggettivo dello straniero che è il più tutelato sia a livello costituzionale, sia a livello internazionale.

In secondo luogo appare inopportuno introdurre nell’ordinamento norme che disciplinano ancora una volta parzialmente la materia del diritto d’asilo, anche perché occorre e/o occorrerà comunque adattare tutta la legislazione anche alle ben più complesse ed articolate norme previste dalle direttive comunitarie recentemente  approvate in materia o in corso di approvazione:

    1) Direttiva 2001/55/CE del Consiglio, del 20 luglio 2001, sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi; a tale direttiva ogni Stato membro ha già oggi l’obbligo di adeguarsi entro il 31 dicembre 2002;

    2) Proposta della Commissione – COM (2000) 528: Proposta di direttiva del Consiglio recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato; (la Commissione propone che ogni Stato membro debba adeguarsi a tali norme entro il 31 dicembre 2002);

    3) Proposta della Commissione – COM (2001) 181: Proposta di direttiva del Consiglio recante norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri; (la Commissione propone che ogni Stato membro debba adeguarsi a tali norme entro il 31 dicembre 2002).     

   In terzo luogo le nuove norme del ddl introducono soltanto una procedura accelerata e sommaria di talune domande di riconoscimento dello status di rifugiato (non è chiaro come e se la procedura ordinaria possa davvero continuare ad essere applicabile) da parte di neo-istituite commissioni territoriali – i cui membri effettivi sarebbero prevalentemente soltanto funzionari governativi – le quali avrebbero il potere di adottare decisioni immediatamente esecutive ed impugnabili dal richiedente asilo con un ricorso privo di automatici effetti sospensivi prima che sia eseguito l’allontanamento coattivo dello straniero. Il grande numero di ipotesi previste dall’art. 1 bis renderà il trattenimento del richiedente asilo non già eccezionale, bensì del tutto ordinario, mentre la natura sommaria della procedura semplificata e l’immediata esecutività della decisione della commissione territoriale, anche in presenza di un ricorso giurisdizionale, rischia di produrre irreparabili danni per la vita del richiedente asilo nel caso di decisioni negative che siano state impugnate. Occorre poi rilevare che la struttura delle "commissioni territoriali" é tale da non configurare un organo "terzo" rispetto all’amministrazione dello Stato, non essendo dotato di reale autonomia valutativa e decisionale. Appare inoltre assai improbabile che ognuna di tali Commissioni sia in grado di acquisire in pochi giorni elementi di verifica nell'ambito dell'istruttoria e ciò potrebbe indurle ad addossare al richiedente l’onere della prova, che però sarebbe diabolico, specie se si considera la mancata previsione di adeguata assistenza del richiedente da parte di soggetti indipendenti. In ogni caso appare violato il diritto ad un ricorso "effettivo", non potendosi considerare tale un ricorso proponibile solo a seguito del rimpatrio o comunque senza effetto sospensivo.

   Questi soli elementi sono da soli capaci di privare di ogni effettività il diritto d’asilo che l’articolo 10, comma 3 Cost. prevede come diritto soggettivo perfetto.

   In quarto luogo si prevede un’ulteriore notevole precarizzazione della condizione del richiedente asilo disponendone il trattenimento presso speciali centri di accoglienza o presso  i centri di permanenza temporanea, il che comporta nuovi oneri alle finanze dello Stato, ai quali si fa fronte mediante la soppressione della vigente possibilità generalizzata per il richiedente asilo di fruire di un contributo di prima assistenza, che peraltro è conservata dall’art. 1-quinquies soltanto per coloro che non fruiscono di assistenza presso centri di accoglienza.

In ogni caso è impoortante osservare che l’effettiva applicazione delle norme introdotte dall’intero titolo II ddl è rinviata dal nuovo art. 1-septies all’entrata in vigore di un apposito regolamento di attuazione da approvarsi entro 6 mesi dall’entrata in vigore della legge.

Dunque si prevede che l’applicazione delle norme di un’intera parte del ddl  sia rinviata ad un futuro incerto e ciò non fa che confermare la necessità di uno stralcio della materia e del suo rinvio ad un organico ddl sul diritto d’asilo. Infatti sarebbe del tutto privo di senso rinviare l’entrata in vigore di una disciplina stralcio del diritto d’asilo, peraltro affetta da gravi dubbi di legittimità costituzionale, ad un momento futuro nel quale però sarà comunque necessario rivedere di nuovo l’intera disciplina legislativa per adeguarla alle direttive comunitarie che nel frattempo saranno entrate in vigore.

 

2. Nell’esame dell’articolato del titolo II del ddl si trovano luci ed ombre.

In attesa di una disciplina organica del diritto di asilo, il ddl corregge anzitutto l’obbligo del  rilascio del permesso di soggiorno contenuto nell’art. 1 L. n. 39/1990, mutuando proprio dalla proposta di direttiva comunitaria i casi in cui è possibile trattenere il richiedente asilo, nonchè la possibilità di allontanamento dopo il primo grado concessa dalla procedura accelerata.

Si prevedono poi diversi casi in presenza dei quali è possibile disporre il trattenimento o la proroga del trattenimento dei richiedenti asilo, sulla base di un procedimento – quale quello conseguente alla violazione delle norme di ingresso sul territorio – già avviato prima della richiesta di asilo. Il trattenimento dovrebbe permanere fino all’esito della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato e affinchè tale procedura semplificata sia efficace, occorre che essa sia completata prima dello scadere del termine previsto per il trattenimento e perciò si è ritenuto necessario mutare la natura la Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, che sarà denominata «Commissione nazionale per il diritto di asilo», e istituire altresì apposite commissioni territoriali in sede decentrata.

Più esattamente in base al nuovo art. 1- quater L. n. 39/1990 presso taluni Uffici territoriale del Governo designati dal Ministro dell’Interno sono istituite le commissioni territoriali, che sono presiedute da un funzionario di carriera prefettizia e sono composte da un funzionario della polizia di Stato, da un rappresentante dell’ente territoriale designato dalla Conferenza unificata, da un rappresentante dell’ACNUR e, all’occorrenza, da un funzionario del Ministero degli affari esteri.   In caso di parità, prevale il voto del Presidente. Tali commissioni procedono all’esame delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato provvedendo all’audizione dell’interessato entro 30 giorni dalla trasmissione della domanda, salvi i termini più brevi previsti in caso di esame della domanda con la procedura accelerata. Contro le decisioni delle commissioni è consentito il ricorso al tribunale ordinario.

Invece in base al nuovo art. 1- quinquies la Commissione nazionale per il diritto d’asilo, è presieduta da un prefetto e composta da un dirigente della Presidenza del Consiglio, un funzionario della carriera diplomatica, un funzionario di carriera prefettizia del Dipartimento immigrazione e un dirigente di P.S. e vi partecipa un rappresentante dell’ACNUR, può articolarsi in sezioni e ha compiti di indirizzo e coordinamento delle commissioni territoriali, formazione e aggiornamento dei componenti delle stesse, raccolta di dati statistici nonchè poteri decisionali in tema di revoche e cessazione degli status di rifugiato in precedenza riconosciuti.

Il nuovo art. 1 bis L. n. 39/1990 prevede così che lo straniero che presenti domanda di asilo possa essere trattenuto in uno degli appositi centri di accoglienza per richiedenti asilo per il tempo strettamente necessario per verificarne o determinarne la nazionalità o l’identità ovvero  per verificare gli elementi su cui si basa la domanda, qualora tali elementi non siano immediatamente disponibili ovvero  in dipendenza del procedimento concernente il riconoscimento del diritto ad essere ammesso nel territorio dello Stato.

Il trattenimento del richiedente asilo è invece obbligatorio sia se lo straniero è stato fermato in una situazione di ingresso o soggiorno irregolare, sia se era già stato sottoposto a espulsione o respingimento e in tale ultimo caso il trattenimento deve essere disposto in un centro di permanenza temporanea e assistenza ai sensi dell’art. 14 T.U. ovvero si provvede  al prolungamento per ulteriori 30 giorni del trattenimento già disposto in uno di tali centri.

Occorre però soffermarsi sulla natura giuridica del trattenimento che dovrebbe essere disposto nei confronti del richiedente asilo.

Il trattenimento nei centri di permanenza temporanea disposto nei confronti dello straniero che abbia presentato la domanda di asilo quando era già destinatario di un provvedimento di espulsione o di respingimento sembra debba essere regolato dalle norme dell’art. 14 t.U. ed è dunque sottoposto alla procedura di convalida giurisdizionale (cfr. art. 1-bis, comma 4).

Invece in tutti gli altri casi il trattenimento del richiedente asilo è attuato “per il tempo strettamente necessario alla definizione delle autorizzazioni alla permanenza nel territorio dello Stato in base alle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286” (cfr. art. 1-bis, comma 1) e avviene nei centri per accoglienza per richiedenti asilo, il cui numero, modalità di gestione e caratteristiche dovrà essere regolato da apposito regolamento governativo da adottarsi entro 6 mesi dall’entrata in vigore della legge (cfr. art. 1-bis, comma 4). 

Gravi dubbi di legittimità costituzionale riguardano il trattenimento del richiedente asilo in questi ultimi speciali centri di accoglienza per richiedenti asilo. Infatti qualora il richiedente asilo sia condotto in tali centri dalle forze di polizia con accompagnamenti forzati e/o qualora tali centri siano sottoposti a vigilanza costante da parte delle forze di polizia, tale per cui allo straniero non sarebbe consentito allontanarsene senza che il trattenimento debba essere ripristinato dalle stesse forze di polizia, allora sarebbe evidente che tale tipo di trattenimento sarebbe una limitazione della libertà personale dello straniero e in tal senso non potrebbe essere disposto al di fuori della procedura di convalida giurisdizionale prevista dall’art. 14 T.U., in mancanza della quale si tratterebbe di un provvedimento limitativo della libertà personale che sarebbe in insanabile violazione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost.

Si prevede poi che nelle ipotesi di trattenimento obbligatorio di cui all’art. 1 bis comma 2, la definizione dell’istanza di riconoscimento dello status di rifugiato ha luogo attraverso una procedura semplificata, con la quale l’Italia assume di essere il Paese responsabile dell’esame della domanda ai sensi della Convenzione di Dublino e per la quale sono previsti tempi brevissimi e cadenzati sia nella fase di trasmissione da parte del questore della documentazione necessaria alla valutazione della richiesta, sia nella fase della decisione della istituita commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato: il questore trasmette gli atti alla commissione territoriale entro 2 giorni; la commissione territoriale procede all’audizione entro i successivi 15 giorni e decide entro i successivi  3 giorni; tuttavia si prevede che qualora alla scadenza dei termini la procedura semplificata non si sia ancora conclusa, allo straniero deve essere rilasciato un permesso temporaneo fino alla conclusione della procedura.

Si prevede anche che qualora il richiedente asilo che prima della presentazione della domanda di asilo era già destinatario di un provvedimento di espulsione o di respingimento si allontani senza autorizzazione dal centro di permanenza temporanea e assistenza in cui è trattenuto s’intende abbia rinunciato alla domanda di asilo. Dunque in base all’art. 14 t.U. il trattenimento dovrà essere immediatamente ripristinato, ma non avrà alcun seguito la sua domanda di asilo e si potrà senz’latro procedere all’esecuzione del provvedimento di respingimento o di espulsione.

Di grande importanza sono le norme che prevedono che il ricorso contro la decisione negativa della commissione territoriale resa in caso di procedura semplificata deve essere presentato entro 15 giorni., anche dall’estero, non ha effetti  immediatamente sospensivi, anche se si prevede che  lo straniero abbia facoltà di chiedere al prefetto un’autorizzazione alla permanenza nel territorio nazionale fino all’esito del ricorso, nonché quella secondo la quale la decisione giurisdizionale di rigetto del ricorso è immediatamente esecutiva.

   In generale le norme hanno un evidente intento dissuasivo. Poiché infatti chi fugge dal proprio Paese raramente si presenta ufficialmente alla polizia di frontiera del Paese di destinazione, perché ancora non sa che cosa gli potrebbe accadere e teme di essere rimpatriato nel Paese dal quale è costretto a fuggire, è probabile che parte degli stranieri che finora hanno presentato domande di riconoscimento dello status di rifugiato sia indotta alla clandestinità e quindi alla ”rinuncia” all’esame della propria istanza qualora l’accoglienza iniziale dovesse consistere in una sorta di detenzione, anche se non è esplicitato se il trattenimento negli speciali centri di accoglienza per richiedenti asilo comporti l’obbligo di non uscire dal centro e debba dunque essere sottoposto a convalida giurisdizionale (la mancanza della quale renderebbe comunque incostituzionale tale misura per violazione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost.).

     

2.8. Verso ulteriori norme regolamentari?

 

L’art. 26 ddl (norme finali) sembra prevedere due tipi di regolamenti che si trovano in posizione contraddittoria l’uno con l’altro.

  Il primo comma prevede un nuovo regolamento di attuazione e integrazione delle norme della nuova legge e di revisione e armonizzazione alle sue norme del regolamento di attuazione del  T.U. delle leggi sull’immigrazione, da adottarsi entro 6 mesi dall’entrata in vigore della nuova legge.

Il secondo comma prevede un altro tipo di regolamento di “revisione ed integrazione delle disposizioni regolamentari vigenti sull’immigrazione, sulla condizione dello straniero e sul diritto di asilo”, la cui emanazione dovrebbe avvenire entro 4 mesi, finalizzato soltanto a razionalizzare l’impiego della telematica nelle comunicazioni in tali materie tra le amministrazioni pubbliche, ad assicurare la massima interconnessione tra gli archivi già realizzati o in via di realizzazione presso le amminstrazioni pubbliche e a riordinare tali archivi.

Quest’ultimo regolamento mal si concilia col regolamento previsto dal primo comma e con il regolamento di attuazione in materia di diritto d’asilo che in base al nuovo art. 1-bis, comma 3, L. n. 39/1990 introdotto dall’art. 25 ddl dovrebbe essere a sua volta emanato entro 6 mesi dall’entrata in vigore della legge.

L’aumento della selva di disposizioni legislative e regolamentari invece di semplificare rischia di riprodurre i fenomeni di farraginosità del diritto degli stranieri che negli scorsi decenni hanno portato già tanti danni ad un equilibrato governo del fenomeno migratorio in Italia.