LA CONDIZIONE DEGLI IMMIGRATI E DEI RIFUGIATI IN ITALIA AL TEMPO DEL DDL 795 SULL’IMMIGRAZIONE.

 

Premessa

Sono ormai numerose le prese di posizione dell’associazionismo cattolico e laico contro il DDL sull’immigrazione approvato dal Governo il 12 ottobre di quest’anno. Numerosi Forum sociali, l’Assemblea ONU dei popoli riunitasi a Perugina lo scorso ottobre, la Caritas, la Comunità di Sant’Egidio, e numerose altre associazioni si sono espresse in senso generalmente negativo nei confronti del nuovo provvedimento. E certamente da condividere sono le proposte di emendamento presentate da più parti ( per una rassegna completa si veda il sito www.briguglio.frascati.enea.it/immigrazione-e-asilo/  al mese di novembre 2001).

Una convergenza nei confronti del Disegno di legge governativo, sul fronte della difesa dei diritti degli immigrati e dei rifugiati si può, anzi si deve realizzare, anche partendo da posizioni diverse, alcune maggiormente propense a schierarsi per una battaglia sugli emendamenti, altre diversamente impegnate per respingere del tutto intere parti del DDL.

 E mancato peraltro un confronto effettivo da parte del Governo con le diverse componenti rappresentative del mondo dell’immigrazione, e l’attuale maggioranza si avvia anche in questo campo a procedere senza tenere in alcun conto le posizioni dell’opposizione, come è già avvenuto nei mesi scorsi in tema di disciplina dei rapporti di lavoro, di reati finanziari, di rogatorie internazionali, di riforma del Consiglio superiore della Magistratura.

Proprio la recente esperienza legislativa ed i frequenti strappi già apportati al nostro impianto costituzionale ci inducono ad operare adesso una riflessione che vada oltre la -pur legittima ricerca- di emendamenti che in qualche modo correggano, o attenuino la impostazione fortemente restrittiva – se non apertamente razzista e discriminatoria- del testo sull’immigrazione approvato dal Governo Berlusconi.

Nella elaborazione di una posizione di ferma opposizione rispetto al DDL sull’immigrazione attualmente all’esame del Parlamento, posizione da assumere con nettezza – a nostro avviso- per non avallare scelte che contrastano apertamente con il nostro dettato costituzionale e rendono precaria la condizione giuridica degli immigrati, occorre tenere presente i numerosi problemi irrisolti nel diritto applicato, quello che quotidianamente, nella pratica delle Questure e dei Tribunali, disciplina di fatto la materia dell’immigrazione e dell’asilo, e richiamare ancora una volta i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali, come soglia invalicabile per qualunque ipotesi di intervento legislativo ( e di possibile mediazione).

Come osservato nel documento del Forum “Diritti dei migranti, diritti dei rifugiati” tenutosi nell’ambito dell’ Assemblea ONU dei Popoli di Perugia del 12 ottobre 2001, “ Il Disegno di legge Bossi-Fini”, varato senza tenere in alcun conto le istanze della società civile e dei migranti, aggrava ed esaspera norme e pratiche già in atto, lacerando il tessuto della cittadinanza basata sulla convivenza e sul lavoro”.

 Nel periodo che va dal 1996 al 2000 si è purtroppo sprecata una situazione più favorevole, anche da un punto di vista internazionale, che avrebbe potuto permettere di conciliare meglio le esigenze di controllo del fenomeno migratorio con le politiche di accoglienza e di integrazione. Già a livello di prassi amministrative, consentite dalle maglie larghe della legge 40 del 1998 e poi del T.U.286/98, si sono introdotte di fatto misure di chiusura sempre più rigorosa nei confronti degli immigrati, prassi che adesso si avviano a trovare una definitiva sanzione legislativa, malgrado la grande quantità delle decisioni giurisprudenziali di annullamento o di sospensione dei provvedimenti illegittimi ( di espulsione, di trattenimento e di diniego di permesso di soggiorno) emessi dalla autorità amministrativa.

A partire da queste premesse appare corretto individuare - piuttosto che eventuali emendamenti alternativi al testo del DDL 795, testo che di per sé non appare facilmente emendabile - una serie minima di emendamenti soppressivi, almeno per depurare il disegno di legge da quelle previsioni che si pongono maggiormente in contrasto con il riconoscimento dei diritti fondamentali dei migranti, già affermati non solo dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali, ma dalla stessa giurisprudenza costituzionale e di legittimità.

 Gli emendamenti soppressivi non derivano dunque da una sterile contrapposizione ideologica,o da una utopica aspirazione umanitaria, ma sono soltanto frutto di una doverosa fedeltà ai valori fondanti della nostra carta costituzionale ed ai Trattati internazionali a garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo.

Si tratta di valori come il rispetto della persona umana, della salute, dell’unità familiare, del diritto di chiedere asilo e protezione umanitaria, sui quali non sono possibili mediazioni e compromessi. Se si perderà questa fondamentale battaglia di civiltà, come pure sembra probabile, attesi i rapporti di forza nell’attuale Parlamento italiano, anche alla luce delle recenti decisioni che già hanno intaccato di fatto l’impianto costituzionale, in materia di indipendenza della magistratura, rogatorie internazionali, reati finanziari, istruzione, lavoro, la responsabilità dovrà ricadere tutta su chi ha scelto strategicamente ( e su chi ha condiviso con il voto) una linea di “tolleranza zero” nei confronti dell’immigrazione, distruggendo sistematicamente le pur ridotte possibilità di ingresso legale e di integrazione finora consentite ai migranti, nella prospettiva complessiva di un rafforzamento dell’esecutivo e del sovvertimento del principio di divisione dei poteri, che hanno costituito finora la base del nostro stato democratico.

 

1) La legislazione dell’immigrazione in Italia, tra ordine pubblico e tutela dei diritti fondamentali.

La normativa italiana in tema di immigrazione ed asilo risulta caratterizzata dalla formulazione tanto generica nel riconoscimento dei diritti, quanto analitica nella sanzione delle infrazioni,con un frequente richiamo a norme regolamentari, che poi si applicano in base a circolari ministeriali ed a direttive emanate per fare fronte ai diversi problemi applicativi che si incontrano nella prassi delle questure e degli uffici di frontiera. Spesso, il diritto materiale che disciplina effettivamente la condizione giuridica dello straniero, si rinviene in circolari ed altri atti interni (anche telegrammi !) che possono mutare di giorno in giorno, se non di ora in ora.

Dopo l’ultima regolarizzazione del 1998, una selva di circolari, che in molti casi si smentivano a vicenda, ha allargato e ristretto “a fisarmonica” la possibilità di avvalersi della regolarizzazione, con il risultato che ancora oggi, a tre anni di distanza, numerosi immigrati che avevano fatto richiesta rimangono privi di un regolare permesso di soggiorno. In alcuni casi, il diniego di regolarizzazione è stato emanato affermando la pericolosità sociale del richiedente in situazioni che una successiva verifica della magistratura amministrativa dichiarava invece irrilevanti ai fini del diniego, annullando il relativo provvedimento ( da ultimo si veda la sentenza del TAR Piemonte n. 1643 del 27 luglio 2001, che nel caso di una ex prostituta affermava la illegittimità del provvedimento di diniego basato sulla presunta pericolosità sociale dell’interessata, ormai da tempo fuori dal “giro”). Ma in molti altri casi analoghi persone che avevano il diritto ad entrare in una condizione di soggiorno legale sono stati respinti nella clandestinità, e talvolta verso quegli stessi protettori ( o altri soggetti che “facilitano”, a caro prezzo beninteso,la presenza irregolare), ai quali avevano invano cercato di sottrarsi. Anche la successiva applicazione dell’art. 18 del T.U. 286/1998, che prevede uno specifico permesso di soggiorno per immigrati che vogliono sottrarsi al traffico della prostituzione si è verificata a macchia di leopardo, con grandi difformità da Questura a Questura, e con un impatto complessivo molto modesto.

Molti dei “fortunati” che hanno ottenuto il permesso nel 1999,o anche più tardi, in virtù del DPCM ( decreto del presidente del Consiglio dei Ministri) che nel dicembre del 1998 consentiva la regolarizzazione, o pere motivi di protezione sociale, sulla base dell’art. 18 del T.U. 286 del 1998, rischiano oggi di ritornare nella irregolarità, non riuscendo a rinnovare il permesso di soggiorno per la impossibilità di provare i requisiti di reddito richiesti con altre successive circolari. La situazione italiana è tale che se non interverranno a breve termine provvedimenti di sanatoria permanente, nel giro di pochi anni potremmo ritrovarci con oltre 400.000 irregolari, tra clandestini veri e propri ed immigrati che vanno perdendo nel tempo il permesso di soggiorno. Ma forse questo, al di là dei proclami demagogici contro i clandestini , è un dato che risulta funzionale alla attuale composizione del nostro mercato del lavoro, fortemente caratterizzato dalla diffusione del lavoro nero.

Nell’agosto del 1999, a seguito della fine dei bombardamenti in Kosovo, un semplice telegramma precluse ai profughi che continuavano a giungere nel nostro paese per le persecuzioni etniche successive alla fine della “guerra”, la possibilità di accedere al permesso di soggiorno per motivi umanitari, già prevista da un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, emanato nel mese di maggio del 1999, in attuazione dell’art. 20 del T.U. 286 del 1998. Quando si è riusciti ad intervenire tempestivamente a tale riguardo, la magistratura ha accolto i ricorsi, come nel caso del tribunale di Firenze che con ordinanza del 10 febbraio 2001 ha sospeso un provvedimento di espulsione perché adottato in violazione dell’art. 19 del T.U. 286 del 1998 che vieta l’espulsione di uno straniero verso uno stato nel quale possa essere oggetto di persecuzione ( come nel caso dei rom espulsi in Kosovo, o in alcune regioni della Bosnia, della Macedonia e del Montenegro). In molti altri casi non è stato possibile presentare ricorsi tempestivi proprio per la immediata esecuzione dei provvedimenti di espulsione, e soggetti certamente titolari del diritto alla protezione umanitaria sono stati rimpatriati proprio sulla base della circolare ministeriale dell’agosto 1999 che abrogava di fatto il precedente decreto del 12 maggio 1999 (che invece prevedeva per tutti i profughi della Ex Jugoslavia la possibilità di un permesso di soggiorno a tempo determinato per motivi umanitari).

E che dire della circolare ministeriale del 23 ottobre 2000 che ha ristretto l’accesso alla carta di soggiorno rispetto alla previsione dell’art. 9 del T.U. 286 del 1998, con particolare”riguardo” ai titolari di permesso di soggiorno per studio o per lavoro a tempo determinato? Sullo stesso punto seguiva poi la circolare n.300 del 4 aprile 2001 che ridefiniva ancora una volta la stessa materia, ribadendo che la carta di soggiorno non poteva essere rilasciata agli immigrati che, pure in possesso di tutti i requisiti previsti dalla legge, erano titolari di un permesso di soggiorno per lavoro a tempo determinato; la stessa circolare escludeva, ai fini del rilascio della carta, la possibilità di utilizzare i periodi di presenza in Italia in base ad un permesso di soggiorno che non fosse “ teoricamente rinnovabile un numero indeterminato di volte”.

Ed ancora la circolare n.1124 del 9 aprile 2001 che, sulla base di un parere del Consiglio di Stato, escludeva dalla fruizione degli indennizzi per infortuni erogati dall’INPS gli immigrati che non fossero titolari di una carta di soggiorno, addirittura con effetto retroattivo, e con la conseguente richiesta di restituzione dell’indennizzo già ricevuto da immigrati vittima di gravissimi infortuni sul lavoro.

A conferma della enorme discrezionalità rimessa alle Questure in ordine al controllo delle situazioni di irregolarità, il Ministero dell’interno nell’aprile del 2001 emanava una circolare, la n.300 del 14 aprile 2001, nella quale si affermava testualmente quanto segue: “si è constatato che, nonostante le disposizioni più volte impartite in passato con specifiche circolari, continuano ad essere adottati, nei confronti dei cittadini stranieri rintracciati sul territorio nazionale in stato di clandestinità e privi di documento di riconoscimento, provvedimenti ai sensi dell’art.15 del T.u.l.p.s., con i quali l’Autorità di P.S. operante invita detti soggetti a presentarsi presso la Questura di Roma sulla base di mere dichiarazioni dei medesimi che affermano di domiciliare in quella provincia.

In merito si ribadisce che gli stranieri in posizione irregolare d soggiorno, dovunque dichiarino di risiedere, devono essere condotti presso la Questura competente per il luogo nel quale sono stati rintracciati, al fine dell’adozione dei conseguenti provvedimenti previsti dalla vigente normativa.

Si richiamano a tale proposito le circolari….(omissis).Ciò premesso si pregano le SS.LL. di voler sensibilizzare gli uffici dipendenti all’osservanza delle citate disposizioni nell’ottica di un più efficace contrasto al fenomeno dell’immigrazione clandestina”.

Cosa sarà mai successo nella Questura di Roma per sollecitare un tale intervento del ministero? Le stesse prassi erano diffuse peraltro in altre questure italiane e non risulta che abbiano meritato interventi altrettanto tempestivi. Quali dunque i limiti effettivi della discrezionalità amministrativa nella espulsione degli immigrati irregolari ?

Ecco come il diritto degli immigrati in Italia è diventato un diritto”per circolari”, in contrasto con la riserva di legge prevista dall’art. 10 della Costituzione in ordine alla disciplina della condizione giuridica dello straniero, e spesso in contrasto con le disposizioni di legge in materia di immigrazione ed asilo.

Con il risultato che decisioni fondamentali per l'esistenza dell'individuo, concernenti l'ammissione alla procedura di asilo, o la espulsione e l'accompagnamento in frontiera dell'immigrato irregolare, o ancora il ricongiungimento familiare o l'ammissione sul territorio per ricerca di lavoro, sono rimaste sottomesse alla più ampia discrezionalità amministrativa, discrezionalità che in uffici diversi ha condotto a provvedimenti difformi in presenza dei medesimi presupposti. E questo anche se la riserva di legge prevista dall’ art. 10 della Costituzione avrebbe dovuto comportare la illegittimità di quei provvedimenti amministrativi che appunto incidevano sulla condizione giuridica, ad esempio sulla libertà di circolazione o sulla libertà personale, degli stranieri.

 

2) Ruolo dei principi costituzionali nella disciplina dell’immigrazione e dell’asilo

Si potrebbe dunque osservare che nella disciplina italiana dell'immigrazione e dell’asilo si sia già sovvertito, con il prevalere delle prassi amministrative , il tradizionale ordine gerarchico delle fonti, che pone al vertice del sistema la Costituzione repubblicana del 1948.

Tra le fonti normative che disciplinano la condizione giuridica dello straniero occorre invece considerare innanzitutto proprio la Carta costituzionale, con particolare riferimento alla prima parte dedicata al riconoscimento dei diritti fondamentali dell'uomo; ed anche il legislatore ordinario avverte come principio il primato della normativa costituzionale, anche se poi nelle norme successive pone le premesse per il dilagare della discrezionalità amministrativa.

Secondo l'art. 2 del vigente Testo Unico sull'immigrazione n.286 del 25 luglio 1998, " allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle Convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti".

La Convenzione di Ginevra, la Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, le Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ed i principi affermati dalle Corti internazionali, a partire dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, costituiscono dunque parte integrante del nostro ordinamento giuridico in materia di immigrazione ed asilo.

In base alla Costituzione, nella definizione dei diritti fondamentali dell'individuo, e quindi da riconoscere a tutti, cittadini e stranieri, devono richiamarsi innanzitutto le seguenti disposizioni che non possono essere derogate dalla legge ordinaria o da provvedimenti amministrativi:

-artt.2 e 22: a tutti, compresi gli stranieri, devono essere riconosciuti i diritti inviolabili dell’uomo (l’art.2, che tutela la personalità dell'individuo,in particolare, va interpretato in collegamento con l’art.10.2 che prevede la riserva di legge nella disciplina della condizione giuridica dello straniero).

-art.3: principio di parità formale e sostanziale (da valutare tenendo contro degli interessi e dei diritti costituzionalmente riconosciuti ai cittadini), che deve intendersi anche come equiparazione del trattamento degli stranieri tra loro, senza discriminazioni di sesso, di religione, o di provenienza, fatta salva la posizione peculiare degli stranieri comunitari in base alle specifiche norme UE ed ai relativi trattati. Non si possono quindi discriminare gli stranieri extracomunitari in relazione allo stato di appartenenza, anche se non è da escludere che specifici trattati internazionali consentano, in casi definiti per legge, una disciplina più favorevole.

-art.10,comma 2 (che stabilisce la cd. riserva di legge): la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali; così, ad esempio, costituisce norma direttamente precettiva anche nel nostro ordinamento l'art. 33 della Convenzione di Ginevra, che sancisce il divieto di refoulement ( di respingimento) dello straniero in un paese nel quale possa subire trattamenti inumani o rischiare la vita.

In virtù del combinato disposto degli artt.3, 10, 24 ,25 e 27 della Costituzione, dovrebbe poi escludersi, nella disciplina della condizione giuridica dello straniero, il richiamo diretto all’art.31 delle disposizioni sulla legge in generale collegate al codice civile del 1942, disposizione che viene invocata spesso per negare discrezionalmente, di fatto senza motivazione alcuna,  il rilascio del permesso di soggiorno pure in presenza di tutti i requisiti previsti dalla legge.

-art.10, comma 3 (diritto d’asilo costituzionale). In base a questa norma il diritto di asilo deve essere accordato in tutti quei casi nei quali lo straniero non gode nel suo paese delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione italiana, L’Italia non ha ancora una disciplina dell’immigrazione e del diritto di asilo coerente con i trattati internazionali e con la previsione dell’art.10.3 della Costituzione. La legge Martelli del 1989 restava all'interno delle definizioni di rifugiato della Convenzione di Ginevra ( che richiede per la concessione dello status una persecuzione individuale da provare caso per caso) e non riconosceva generalmente il cd. asilo umanitario,adesso disciplinato dagli artt. 5 comma 6 e 19 del T.U. 286/98, nè dava attuazione all'art. 10.3 della Costituzione.

Si può constatare oggi come le richieste di asilo accolte dalla apposita commissione centrale corrispondano ad una minima parte delle richieste, che rientravano nella ristretta definizione della “persecuzione individuale” prevista dalla Convenzione di Ginevra, e costituiscano comunque una cifra irrisoria (1600 su 25.000 domande, secondo i dati del 2000); a differenza di quanto avvenuto anche in altri paesi europei (la Germania, ad esempio, dove fin dai primi anni 90' sono stati accolti centinaia di migliaia di profughi dalla ex Jugoslavia).

La condizione dei profughi in Italia, una volta negato l'accesso al diritto di asilo, quando però si riscontra la impossibilità del rimpatrio coatto a causa della situazione politica e militare nel paese di provenienza, viene così disciplinata in misura prevalente secondo la normativa del T.U. sull'immigrazione del 1998, che prevede il rilascio di un permesso di soggiorno biennale per motivi umanitari in base all'art.5.6; in una prospettiva di vita dunque precaria, nel miraggio ( da parte delle istituzioni italiane) di un rimpatrio del profugo nel suo paese di origine. Rimpatrio che spesso si è rivelato impossibile, oppure causa di disgrazie e successive persecuzioni, come è successo dopo il conflitto del 1999 nel caso di molti rom rimpatriati più o meno coattivamente, o illusi dal cd. "rimpatrio assistito", nei paesi di provenienza nella ex Jugoslavia.222

In base alla vigente normativa nazionale, proprio a causa della precarietà del permesso di soggiorno per motivi umanitari, si può dunque passare dalla condizione di profughi a quella di clandestini, con tutte le conseguenze negative che la normativa dei paesi comunitari, e dell'Italia in particolare, riserva agli immigrati privi di un permesso di soggiorno. Basti ricordare che è sufficiente il mancato rinnovo del passaporto per decadere dalla possibilità di chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ed è questo quello che si è verificato con i rom kosovari, giunti a partire dal 1992 nel nostro paese, che, soprattutto a seguito della guerra e della distruzione dei registri anagrafici  in quelle regioni, si sono visti negare dalle rappresentanze diplomatiche della ex Jugoslavia - termine entrato anche nel linguaggio della nostra burocrazia-la possibilità di rinnovare il passaporto.

 

Nella disciplina del diritto dell’immigrazione altre disposizioni costituzionali rivolte alla generalità dei cittadini possono assumere un particolare rilievo, da tenere presente per valutare la costituzionalità della normativa vigente, anche nella prospettiva di riforma introdotta dal DDL 795.

Si segnalano al riguardo le seguenti norme:

-art. 13 inviolabilità della libertà personale (riserva di legge e controllo giurisdizionale per i provvedimenti restrittivi) -art.14: inviolabilità del domicilio-art.15:diritto al segreto della corrispondenza -art.16: libertà di circolazione dei cittadini, norma applicabile anche agli immigrati regolari- art.24: tutela giurisdizionale, secondo cui, in particolare "la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento" -art.25: principio di legalità, secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso o sottoposto a misure di sicurezza fuori dei casi previsti dalla legge -art.27: presunzione di non colpevolezza. In base a questo principio l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva -art.29:diritto all’unità familiare -art.32:diritto alla salute come fondamentale diritto dell'individuo -art.35:tutela del lavoro- art.36 che garantisce al lavoratore una retribuzione "proporzionata" ed una esistenza ”libera e dignitosa”.

Sono norme che - con riguardo agli immigrati- vengono violate in un numero di casi molto superiori alle denunce ed ai ricorsi che gli avvocati e le organizzazioni umanitarie indipendenti riescono a presentare; spesso gli stranieri si trovano a subire in silenzio abusi di ogni genere, anche da parte di agenti istituzionali, preferendo il silenzio alla denuncia ed alle conseguenze sfavorevoli che questa generalmente comporta per la parte più debole.

Il controllo della magistratura, comunque, si verifica in modo effettivo soltanto in quelle ipotesi nelle quali l'immigrato sia raggiunto da una associazione indipendente o riesca comunque a farsi assistere da un avvocato. Nella quasi totalità dei casi, invece, viene meno qualunque possibilità di fare valere le proprie ragioni davanti al giudice, anche per la cronica mancanza di interpreti che sappiano svolgere il proprio incarico con obiettività ed imparzialità.

 

3) Diritti di soggiorno e di cittadinanza: diritti negati dal DDL 795/2001.

Nel suo complesso, il disegno di legge 795 approvato dal Consiglio dei ministri il 12 ottobre di quest’anno, a differenza del carattere compromissorio della legge Turco-Napolitano del 1998, che cercava di conciliare l’aspetto repressivo con la prospettiva della integrazione, appare condizionato da una impostazione securitaria molto netta e dalla preoccupazione di  considerare il fenomeno dell'immigrazione come una questione prioritariamente di ordine pubblico; con una visione restrittiva che và oltre la logica di sbarramento di Schengen e di Dublino -impostazione che in altri paesi europei viene oggi fortemente criticata e che sta dimostrando tutte le sue contraddizioni di fronte ad eventi tragici come quelli che stanno accadendo  in tante parti del mondo.

La gestione dei permessi di soggiorno rimane affidata ai poteri discrezionali delle prefetture, se non delle  questure, con la istituzione di uno sportello unificato che però non comporterà una semplificazione ma un aggravamento delle procedure; e ciò malgrado la richiesta avanzata da tempo per un trasferimento delle competenze relative ad una unica autorità indipendente, se non ai comuni, che in alcuni casi potrebbero adottare prassi ancora più restrittive ( si pensi ai comuni amministrati dalla Lega Nord) . Sembrano anzi accresciute le competenze del Ministero degli interni e degli uffici di polizia, sia per il ruolo che tale Ministero assume nel nuovo “Comitato per il coordinamento ed il monitoraggio”, sia per la istituzione in ogni provincia, presso la Prefettura, di uno “Sportello unico per l’immigrazione” responsabile dell’intero procedimento relativo all’assunzione dei lavoratori stranieri.

Va dunque soppresso l’intero art.2 del nuovo DDL, che introduce un supercomitato “per il coordinamento e il monitoraggio” assegnando un ruolo dominante al Ministero dell’interno, con la costituzione presso questo Ministero di un nuovo” gruppo tecnico di lavoro” formato dai rappresentanti dei Dipartimenti degli affari regionali e da altri ministeri interessati alle politiche migratorie. Quanto previsto dalla norma sopra richiamata appare anche in contrasto con l’art. 95 della Costituzione e con numerose previsioni del T.U. 286 del 1998, che assegnano al Presidente del Consiglio dei Ministri i ruoli di coordinamento e di indirizzo degli altri Ministeri.

 

Nel DDL 795 la disciplina dei permessi di soggiorno per motivi di lavoro appare fondata su una ipotesi di incontro a distanza tra domanda ed offerta che l'esperienza  ha già dimostrato del tutto irrealizzabile. La "determinazione" dei flussi d'ingresso, legata alla stipula di un contratto di lavoro, con la introduzione del contratto di soggiorno,così come sembra configurata dal DDL, aggrava pesantemente il meccanismo della "chiamata a distanza" introdotto della legge Martelli del 1990 e si tradurrà in una vera e propria chiusura delle frontiere, costituendo oggettivamente una spinta verso un ulteriore aumento della clandestinità.

Punto centrale del nuovo DDL, approvato dal governo Berlusconi il 12 ottobre scorso, è il nuovo "contratto di soggiorno", la cui concessione è legata all'esistenza di un contratto di lavoro, con la conseguenza che lo status giuridico dell'immigrato dipende dalla persistenza del rapporto di lavoro e quindi, in ultima analisi, dalla volontà  del datore di lavoro.

Legare la possibilità di soggiorno legale alla stipula di un contratto di lavoro significa esporre gli immigrati ad ogni sorta di ricatti, e farà crescere in modo esponenziale il mercato dei falsi contratti, oltre a rendere ancora più ampia la diffusione del lavoro nero.

Andrebbero dunque soppressi per intero, in particolare, gli artt. 4 e 5 del DDL 795 che introducono appunto il contratto di soggiorno , aggravando la disciplina già prevista dal vigente art. 22 del T.U. n.286 del 1998, con la imposizione al futuro datore di lavoro di provare anticipatamente ( prima ancora dell’arrivo dell’immigrato) “una adeguata sistemazione alloggiativi per il lavoratore”. Con i tempi che hanno già  queste procedure, si prevedono oneri che si tradurranno in una forte disincentivazione per le pure ristrette possibilità di ingresso legale nel nostro paese.

 

 

All'inasprimento della disciplina degli ingressi corrisponde una pericolosa precarizzazione di tutti gli immigrati, anche quelli i regola da anni nel nostro paese. Si allontana la prospettiva della stabilizzazione dei permessi di lunga durata ( carta di soggiorno), allungando i tempi e richiedendo requisiti di reddito sempre più difficili da provare.

Già adesso si sta tentando- in via amministrativa- il restringimento dei diritti sociali ai soli immigrati che appunto riescano a conseguire tale documento. In molti casi che – in base alla normativa vigente - dovrebbero essere trattati riguardando gli immigrati regolari alla stessa stregua dei cittadini, per gli indennizzi assicurativi a carico dell’INPS in caso di infortunio, ad esempio, si sta limitando, in base a disposizioni amministrative che contrastano con la legge, il diritto alla prestazione assicurativa ai pochi immigrati già in possesso della carta di soggiorno. Nel restringere l'accesso alla carta di soggiorno il governo, con il disegno di legge attualmente all’esame del Parlamento, si sta ponendo in rotta di collisione con lo sviluppo della normativa comunitaria che appare orientata a riconoscere il soggiorno di lunga durata dopo soli cinque anni, esattamente come attualmente previsto dalla vigente disciplina italiana.

Occorre pertanto sopprimere la norma che prevede la elevazione del limite temporale richiesto per il conseguimento della carta di soggiorno ( art. 8 del DDL 795).

 

 

Una volta decaduti dal permesso di soggiorno, non rimane alcuna via per un rientro nella legalità, e nel mondo del lavoro, si intende del lavoro legale, perché il mercato nero assorbe immediatamente l’immigrato, già inserito da anni nel nostro paese, che ha perso il permesso di soggiorno. In caso di licenziamento, se l'immigrato non trova entro un brevissimo periodo ( sei mesi) una nuova occupazione ( regolare) si va incontro alla decadenza del permesso di soggiorno. Va dunque soppresso, in particolare, l’art.15 del DDL che riduce da un anno a sei mesi il periodo di iscrizione del lavoratore straniero che ha perso il posto di lavoro.

 In molti casi, addirittura, si verifica la imposizione del licenziamento dell’immigrato regolare da parte del datore di lavoro, che prospetta all’immigrato la possibilità di continuare a lavorare alle sue dipendenze, ma in nero, quindi in una condizione di estrema ricattabilità e precarietà.

Con le modifiche proposte alla disciplina dei rapporti di lavoro dal DDL 795, si introduce in sostanza un principio di netta differenziazione tra i lavoratori immigrati ed i lavoratori italiani che contrasta non solo con la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ( n. 9047 dell’ 11 luglio 2001) che riafferma la parità di trattamento in caso di licenziamento, ma con l’art. 1 della convenzione dell’OIL n. 143/75, già recepito dalla legge 943/86 e dal’art. 2 del T.U. 286/98 che vietano appunto, anche nella disciplina dei casi di risoluzione del rapporto, la discriminazione dei lavoratori stranieri 

 

Nel DDL 795 viene inoltre preclusa agli stranieri  titolari di un permesso per lavoro autonomo,la possibilità di trovarsi una occupazione più stabile, introducendosi forti limitazioni alla possibilità di conversione del permesso di soggiorno. Anche gli studenti vedono complicata la possibilità di conversione del loro permesso di soggiorno in un permesso per lavoro. Tutto nella direzione di rendere più difficili i percorsi di integrazione.

Desta preoccupazione in questo quadro la abolizione ( o il forte ridimensionamento) della previsione dello “sponsor”, introdotta nel 1998, di quei soggetti individuali o collettivi che dovrebbero garantire per un primo limitato periodo il sostentamento dell'immigrato che giunge in Italia sempre su chiamata ma senza un contratto di lavoro: se questa previsione non sarà invece riformulata, accrescendo il numero delle chiamate per sponsor, attualmente molto limitate,  si rischia di continuare a legalizzare il lavoro nero ed il caporalato e di estendere i casi di ricatto e di lavoro sotto salariato ( nel 2001 a fronte di quindicimila posti previsti per la sponsorizzazione, le richieste hanno raggiunto la soglia limite in soli 13 giorni e molti hanno pagato indebitamente cifre elevate alle compagnie di assicurazione, senza avere poi la possibilità di fare rientrare nel tetto massimo previsto dalla legge gli stranieri che avevano sponsorizzato). A tutti gli esclusi da questo canale di ingresso legale non rimane oggi altra via che la clandestinità, magari solo per alcuni mesi di lavoro stagionale nelle campagne o nell'edilizia.

Va dunque mantenuto l’istituto dello sponsor, sopprimendo la norma abrogatrice dell’art.23 del T.U.286/98 contenuta nel nuovo art.16 del DDL 795. La previsione di titoli di prelazione, che gli immigrati conquisterebbero dopo corsi di formazione professionale all’estero, appare solo come un  “escamotage” che vorrebbe nascondere la sostanziale abrogazione dell’unica possibilità di ingresso legale in Italia per ricerca di lavoro, finora consentita dalla vigente normativa.

 

 

 

Nello stesso disegno di legge il riconoscimento del principio costituzionale dell'unità familiare, dopo il significativo progresso della legge 286 del 1998, viene rimesso in discussione dalla limitazione dei casi di ricongiungimento al solo coniuge ed ai figli minori. Anche in questo caso le prassi amministrative stanno anticipando la disciplina restrittiva che si vorrebbe introdurre per legge: la determinazione di requisiti particolarmente rigorosi per gli alloggi, integrando condizioni che non vengono soddisfatte neppure dalle abitazioni di moltissimi italiani, sta già restringendo in modo sostanziale le possibilità di ricongiungimento familiare. In ogni caso la disciplina che il governo vorrebbe introdurre si pone in contrasto frontale con la proposta di direttiva comunitaria sul ricongiungimento familiare attualmente in discussione che dopo la definitiva approvazione costringerà l'Italia ad adeguarsi a quanto previsto a livello comunitario entro il 31 dicembre 2002. La nuova disciplina del ricongiungimento familiare contrasta con l’art. 8 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che riconosce il diritto della persona a vivere con la propria famiglia, entro un ambito più ampio di quello assolutamente nucleare che adesso si vorrebbe introdurre nel nostro paese escludendo i parenti entro il terzo grado e restringendo la possibilità di ricongiungimento dei genitori ( solo se non hanno altri figli idonei a mantenerli: e chi valuterà caso per caso le situazioni ?). Non rimane che attendere, se passerà la modifica legislativa, una serie di ricorsi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.

 

4) Nuova disciplina delle espulsioni e contrasto alla clandestinità nel DDL 795/2001.

Ma gli aspetti più preoccupanti del nuovo disegno di legge governativo,consistono soprattutto nell'inasprimento dell'apparato sanzionatorio della clandestinità. La nuova disciplina che dovrebbe essere introdotta dal DDL 795 renderà immediatamente esecutive tutte le diverse ipotesi di espulsione, quasi senza alcuna differenza a seconda dei diversi tipi e motivi dell’espulsione, trasformando in delitto il rientro illegale dell’espulso. L’immediato accompagnamento forzato in frontiera si avvia a diventare la norma, anche se non si scorge con quali mezzi economici e con quali garanzie di difesa si potrà realizzare. A fronte di un numero elevatissimo di soggetti passibili di accompagnamento forzato ( e di internamento nei centri di detenzione) si corre il rischio di una ulteriore espansione della discrezionalità amministrativa nello scegliere ( o nel selezionare) i casi di effettivo rimpatrio forzato.

 Si cancella persino quella norma che in base alla legge del 1998 consente al sindaco di disporre l'alloggiamento di stranieri irregolari che si trovino in situazioni di emergenza. In questo modo l'assistenza di tutti coloro sono privi di permesso di soggiorno graverà esclusivamente sugli enti privati non convenzionati.  E questo anche nel caso di sbarchi di massa di profughi, prima della loro ammissione alla procedura di asilo. Queste associazioni non potranno però fare fronte ai conseguenti maggiori oneri, con la ulteriore conseguenza che aumenterà il numero degli immigrati costretti a dormire nelle stazioni, nei giardini pubblici o sotto i ponti ( con le ormai consuete morti per assideramento).

Si introduce il reato di permanenza irregolare nel territorio dello stato, si raddoppia il termine di non rientro dopo il rimpatrio coatto, fino a dieci anni, senza distinguere tra i diversi casi di espulsione, e si inasprisce la sanzione penale per casi di un ulteriore rientro clandestino. Al danno si aggiunge la beffa: i maggiori costi previsti dalla nuova disciplina delle espulsioni e dall’aumento dei casi di detenzione amministrativa sarà finanziata sottraendo agli immigrati che fanno ritorno nel loro paese dopo anni di lavoro in Italia, quanto hanno versato i loro datori di lavoro all’INPS ( somma che attualmente viene restituita ai lavoratori che rientrano nei paesi di origine).

Proprio questa parte del disegno di legge Bossi Fini peggiora la disciplina introdotta con la legge 40 del 1998 e presenta numerosi profili di incostituzionalità, riprendendo alcune soluzioni che in passato erano state oggetto di censura proprio davanti alla Corte costituzionale.

L’intero sistema delle espulsioni previsto dal nuovo DDL si pone in contrasto con i principi costituzionali che affermano il rispetto della dignità della persona umana(art.2), la parità di trattamento(art.3), il diritto alla difesa(art.24), il principio di legalità e la presunzione di innocenza(art.27), il diritto alla salute (art.32): sotto questi profili, la nuova disciplina, come l'attuale normativa, in materia di respingimento, espulsioni e centri di detenzione amministrativa, va radicalmente respinta e non sembra sufficiente qualche modifica puramente nominalistica per superare le evidenti rotture con il nostro dettato costituzionale. Per restare nel solco delle nostre tradizioni democratiche e per rispettare la nostra Costituzione, occorre dunque una sostanziale riformulazione della normativa in materia di ingressi, soggiorno ed espulsioni, con innovazioni anche rispetto alla disciplina già vigente, in modo da limitare l’accompagnamento forzato ai casi più gravi offrendo alternative di rientro nella legalità per tutti coloro che dichiarino la propria vera identità e possano provare uno stabile inserimento sociale, lavorativo o familiare. Inoltre, come si è osservato (BONETTI)," la nuova disciplina dell'espulsione amministrativa appare comunque carente dal punto di vista comunitario, perchè omette di dare attuazione alla recente direttiva 2001/40/CE del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di paesi terzi, alla quale ogni Stato membro dell'Unione deve adeguarsi entro il 2 dicembre 2002".

 

5) Allontanamento forzato dello straniero irregolare e garanzie di difesa.

Appare molto grave, soprattutto, il rischio che con le modifiche introdotte dal DDL alla normativa vigente,e nella forte limitazione dei diritti di difesa, sia disattesa la riserva di legge prevista dalla Costituzione in tema di condizione giuridica dello straniero, per quanto attiene i diritti fondamentali dell’individuo.

La nuova disciplina priva gli immigrati di quei diritti di difesa e di ricorso che secondo l'art. 24 della Costituzione vanno riconosciuti a tutti, cittadini e stranieri. Secondo quanto previsto dal DDL presentato ad ottobre in Consiglio dei Ministri, l'espulsione o il respingimento possono essere immediatamente eseguiti anche in presenza di un ricorso al giudice. I termini di ricorso rimangono brevissimi e, malgrado la possibilità del tutto teorica di presentare ricorsi dall’estero, dopo la esecuzione delle espulsioni, si viola la riserva di giurisdizione riconosciuta anche dalla sentenza della Corte Costituzionale n.105 del 2001, secondo la quale la misura di accompagnamento forzato in frontiera, traducendosi in una misura limitativa della libertà personale, deve essere sempre disposta o convalidata dall’autorità giudiziaria con provvedimento motivato .

Viene dunque meno definitivamente ( già adesso è fortemente limitato)  il controllo del magistrato sui provvedimenti di polizia limitativi della libertà personale degli irregolari, ed il "clandestino" può essere direttamente respinto in assenza di un provvedimento impugnabile, e quindi ritrovarsi lontano migliaia di chilometri quando il giudice decide poi sulla infondatezza della misura di allontanamento ( come si è già verificato in qualche caso anche alla luce della normativa vigente).

E questo anche se la Corte Costituzionale con la sentenza n.105 del 2001 aveva affermato che il principio affermato dall'art. 13 della Costituzione vale anche per gli stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione con accompagnamento coatto in frontiera, imponendo in sostanza il controllo dell'autorità giurisdizionale entro 48 ore dall'inizio del  "trattenimento" dello straniero. Ed in base a questa considerazione, se il principio vale nei casi di espulsione seguiti da "trattenimento", non si vede, proprio alla stregua dell'art. 3 della Costituzione, perchè non debba valere per gli immigrati respinti o espulsi direttamente senza un trattenimento nei centri di detenzione.

In sostanza le misure limitative della libertà degli immigrati da allontanare coattivamente, ed i tempi e le stesse modalità di esecuzione  rimangono soggette ad una ampia discrezionalità.

Anche oggi, peraltro, nella prassi di molte Questure, gli immigrati" clandestini" vengono trattenuti nei centri di permanenza temporanea in apposite sezioni di "transito", oppure in centri di accoglienza, come a Lampedusa (luoghi che di fatto funzionano come centri di detenzione) senza ricevere tempestivamente, e comunque nei termini di legge, i provvedimenti di espulsione e di trattenimento, totalmente privati dei diritti di difesa. Questi immigrati, tra i quali molti richiedenti asilo, rimangono così di fatto "sequestrati" per giorni, senza alcuna possibilità di comunicazione con l'esterno, e senza neppure la possibilità di proporre un ricorso giurisdizionale. Altre volte il "respingimento", già previsto dal T.U. 286 del 1998

( che, a differenza dell'espulsione, non consiste sempre in un provvedimento formale notificato all'interessato, trattandosi spesso di una mera attività di cui resta traccia solo nei registri interni degli uffici di polizia) non è disposto nell'immediatezza dell'ingresso clandestino, ma dopo molti giorni di una detenzione amministrativa che rimane del tutto arbitraria, perchè fuori dalle previsioni della vigente normativa ( Testo Unico 286 del 1998, artt. 12,13 e 14). Adesso queste prassi arbitrarie rischiano di diventare regola nelle nuove previsioni in tema di espulsioni ed accompagnamenti forzati in frontiera introdotte dal DDL 795.

La proposta di legge governativa tende infatti a sancire la prassi più recente delle Questure e degli uffici di frontiera, apertamente contro  il dettato della legge vigente e contro la posizione espressa dalla Corte Costituzionale appena pochi mesi fa: in ogni caso, secondo la sentenza n.105/2001 della Corte, il provvedimento di accompagnamento coattivo in frontiera è un provvedimento autonomo, che deve essere convalidato dal magistrato. In base all’attuale normativa, se i termini temporali previsti per l'intervento di controllo del giudice( 48 ore) dall'art. 13 Cost. non vengono rispettati, la convalida non potrà più operare ed il provvedimento di espulsione o di respingimento, o di trattenimento, sarà dunque caducato, con la conseguenza che lo stesso trattenimento oltre le 96 ore, come l’accompagnamento forzato in frontiera –in assenza della convalida del magistrato - saranno assolutamente illegittimi. Il DDL approvato dal governo il 12 ottobre scorso, sottraendo la libertà degli stranieri espulsi o respinti al controllo del magistrato, strappa di fatto l'art. 13 della Costituzione.

 

6) La nuova disciplina delle espulsioni alla luce del diritto internazionale e del diritto costituzionale.

La parte del DDL sull’immigrazione  che riguarda la esecuzione delle espulsioni rimane comunque l’aspetto più dubbio non solo dal punto di vista della legittimità costituzionale e della concreta successiva attuazione, ma anche tenendo conto di quanto affermato dalle convenzioni internazionali.

Ed infatti in base all’art.2,protocollo n.4, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, lo straniero regolare (ma la disposizione è da estendere a tutti gli stranieri in virtù del combinato disposto degli artt. 3 e 24 della Costituzione) può essere espulso soltanto in esecuzione di un provvedimento adottato conformemente alla legge e deve avere la possibilità di far valere le ragioni che si oppongono alla sua espulsione, di fare esaminare il suo caso e di farsi rappresentare, davanti all’autorità competente. Si osserva peraltro da parte della dottrina, che “devono ritenersi “regolarmente soggiornanti tutti gli stranieri espulsi ai sensi dell’art. 13, comma 2, T.U. 286/98, lett. b e c, che erano in possesso di un permesso di soggiorno prima della sua revoca o del suo annullamento, o comunque dell’espulsione”, e non soltanto coloro “ il cui permesso di soggiorno sia scaduto senza che ne sia stato chiesto il rinnovo entro 60 gg.” (BONETTI).

Ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo deve essere consentito allo straniero di esercitare tali diritti prima della espulsione, salvo che tale provvedimento sia necessitato dall’ordine pubblico o sia motivato da ragioni di sicurezza nazionale : ma questo si può verificare solo per l’espulsione amministrativa disposta dal Ministro o in altri casi eccezionali in base ad un provvedimento motivato. In tutti gli altri casi va accordata allo straniero la possibilità di una piena difesa giurisdizionale prima della esecuzione del provvedimento di espulsione.

Il DDL Bossi-Fini, prevede il carcere per l’immigrato che riaccompagnato in frontiera, rientri una seconda volta illegalmente nel nostro territorio. Con questa norma, si arriva a trattare come reato la presenza irregolare dello straniero nel territorio italiano. Lo stesso principio di legalità dettato dall'art. 10 della Costituzione sembra in questo caso gravemente compromesso, come il principio di adeguatezza e proporzionalità della pena ( con riferimento ad altre fattispecie incriminatici che prevedono sanzioni minori per reati molto più gravi); ed in proposito possono valere le stesse considerazioni fatte in tema di espulsioni amministrative. Non è prevista una specifica figura di reato, ma lo straniero che rientra clandestinamente nel nostro paese è passibile di una sanzione penale e andrà ad infoltire la già abbondante popolazione carceraria con la prospettiva successiva di un rimpatrio forzato. Abbastanza insomma per aumentare ancora la tensione nelle carceri italiane.

Bisognerebbe restringere i casi di espulsione  e di trattenimento nei centri di detenzione alle ipotesi di reato più gravi, o alle condanne già definitive, con particolare riguardo alle ipotesi di continuazione e di associazione per delinquere, in modo da evitare una successiva fase discrezionale da parte delle autorità incaricate di eseguire l'espulsione (con la conseguenza che potrebbe essere espulso l'immigrato più ignorante o quello privo dei mezzi per difendersi, e non invece quello più pericoloso). In ogni caso le espulsioni amministrative non possono essere disciplinate alla stessa stregua di quelle disposte per motivi di sicurezza o legate alla commissione di un reato.

 

In particolare,va soppresso del tutto il nuovo articolo 11 del  DDL 795, che, anche nel caso di espulsione amministrativa, rende l’accompagnamento coatto in frontiera la forma ordinaria di esecuzione dell’espulsione, e questo con un sistema di controllo giurisdizionale che contrasta con i requisiti prescritti dalla sentenza  della Corte Costituzionale n. 105 del 2001. In questo modo il DDL 795 si pone contro una decisione interpretativa emessa dalla Corte Costituzionale appena pochi mesi fa!

 

 

 7) L'inasprimento della disciplina dei centri di detenzione amministrativa nella proposta di legge governativa.                                                                                                       

La misura di sicurezza disposta dall’autorità di P.S. consistente nell'internamento coatto nei centri di permanenza temporanea a fini di “protezione e assistenza”, in realtà vere e proprie strutture detentive,  non appare rispondere ai caratteri imposti dall’art.13.3 della Costituzione perché non si possono fare rientrare tra i “casi eccezionali di necessità e di urgenza”, i soli che legittimino la sostituzione della polizia giudiziaria all’autorità giudiziaria nella restrizione alla libertà personale, una fattispecie che in atto ha come possibili destinatari oggi ben 150.000 immigrati irregolari, ed in futuro un numero ancora maggiore, tra questi, alcune decine di migliaia già raggiunti dal provvedimento di espulsione! Ed adesso si vorrebbe anche raddoppiare da trenta a sessanta giorni il tempo di trattenimento coatto. Come se non fosse assolutamente pacifico, e riconosciuto dagli stessi operatori di polizia,  che se il riconoscimento non avviene nei primi trenta giorni, ben difficilmente potrà effettuarsi nei successivi trenta( o più) giorni di detenzione.

Secondo le previsioni del DDL del governo, la permanenza nel "centro di custodia e di assistenza temporanea ai clandestini" potrà arrivare dunque a sessanta giorni, sempre che il ritardo dell'espulsione o del respingimento non sia imputabile a fatto della autorità italiana". Si deve comunque osservare che già attualmente, in base alla legge approvata nel 1998 la n. 40, poi trasfusa nel Testo Unico 286 del 1998, i diritti di difesa degli immigrati internati nei cd. Centri di permanenza temporanea, che in tutti i paesi europei si chiamano più semplicemente centri di detenzione, sono ridotti al minimo Già oggi peraltro, in quasi tutti i casi, contro il decreto di convalida del trattenimento o di proroga è ammesso soltanto ricorso in Cassazione e il relativo ricorso non sospende la misura o la esecuzione della espulsione (art. 14 del T.U. 286/98).

Purtroppo in questo “campo” dobbiamo rilevare come la normativa vigente contenga già molti  principi che adesso saranno sviluppati ed inaspriti dal DDL 795.

Sono tristemente noti i tragici fatti che hanno segnato la storia dei centri di detenzione nel nostro paese con decine di morti, ferimenti e violazioni diffuse del diritto di difesa e del diritto alla salute, dal centro di via Corelli a Milano sino alla sperduta struttura di Pian del lago a Caltanissetta. E’ ancora in corso a Trapani un procedimento penale nel quale è imputato un Prefetto per omicidio colposo plurimo a seguito della morte di sei immigrati dopo un rogo scoppiato all’interno del centro Serraino Vulpitta. Subito dopo la legge 40 del 1998 venivano aperti in tutta Italia numerosi centri di detenzione, ma a parte le condizioni strutturali ed igieniche disastrose, le norme regolamentari che ne disciplinavano l’attività venivano emanate un anno dopo, e solo nell’autunno del 2000, dopo la strage del Vulpitta di Trapani, entrava in vigore la cd.”Carta dei diritti”, che riconosceva agli immigrati trattenuti nei centri un minimo di diritti di comunicazione con l’esterno.

Il DDL Bossi-Fini lascia ancora nel vago quali siano le" efficaci misure" che il questore adotta, avvalendosi della forza pubblica" affinchè lo straniero non si allontani indebitamente dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura nel caso questa venga violata" ( è questa la terminologia del tutto vaga che caratterizza la legge 40 del 1998). In che modo e con quali garanzie giurisdizionali verrà “ripristinata” la misura restrittiva della libertà personale dello straniero irregolare? Quali misure di contenzione sarà possibile adottare? Con quali mezzi bloccare la fuga dei “clandestini”?

 

 

Già nel vigore della vigente normativa, sono di fatto negate le più elementari garanzie costituzionali della libertà personale dello straniero irregolare, la cui compressione nella fase di ripristino della misura dell’internamento,viene sostanzialmente affidata alla discrezionalità dell'autorità di polizia. Non vi sono differenze tra gli internati, né ve ne saranno alla luce della nuova normativa introdotta dal DDL 795/99:: soggetti pericolosi provenienti dal circuito carcerario, già condannati per gravi reati, vengono trattenuti insieme con immigrati irregolari colpevoli soltanto di non avere un valido titolo di soggiorno o colpevoli al più di avere smerciato un CD illegale.

Per la detenzione amministrativa pare non esista il principio di adeguatezza e di proporzionalità. Si deve ricordare in proposito che, fuori dai casi di flagranza di reato, la misura restrittiva della libertà personale si può imporre in base al codice di procedura penale solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce l’ergastolo o una pena superiore a tre anni.

Per tutte queste ragioni, di fatto e di diritto, bisogna continuare a battersi per la chiusura dei centri di detenzione amministrativa, contro ogni ipotesi di rinchiudervi anche i richiedenti asilo. Deve perciò essere soppresso per intero l’art. 12 del DDL Bossi-Fini che raddoppia la durata della detenzione amministrativa, misura costituzionalmente non legittima e inattuabile nella pratica.

 

8) L'espulsione come misura sostitutiva della detenzione.

Rimane ancora in contrasto con la Carta costituzionale, e con la logica- oltre che con il principio della effettività della pena-  la previsione di una espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione.

Si tratta di una norma già prevista dalla L.39/90(art.7.12 bis e 12 ter) modificata dal d.l.14.6.1993 n.187 e pure presente nella legislazione tedesca, integrando la sospensione  dell’esecuzione della custodia cautelare o della pena detentiva in caso di allontanamento coattivo dello straniero dal territorio dello stato.

La norma perseguirebbe il fine di decongestionare le strutture carcerarie. La previsione, peraltro, continua ad  apparire gravemente contraria agli artt.3 e 27 della Costituzione perché consente all'immigrato che ha commesso un reato e subito una condanna, di sottrarsi all'applicazione della  pena, a differenza dei cittadini e degli stranieri comunitari.

Considerando come gli stranieri che delinquono siano frequentemente inseriti in organizzazioni criminali, lo scopo che la norma si prefigge appare nei risultati pratici  incentivare proprio l’immigrazione clandestina, che si vorrebbe contrastare; in quanto il rimpatrio forzato agevola la possibilità di sostituzione della manovalanza criminale che nei trasferimenti internazionali potrebbe assumere anche funzioni di corriere con la (quasi) certezza dell’impunità.

La previsione appare poi irragionevole, perché consente l’espulsione dello straniero che sia entrato nel territorio dello stato proprio al fine di compiere un delitto (seppure di modesta entità),si pensi ai piccoli corrieri della droga o ai livelli più bassi del racket della prostituzione, che spesso appartengono alla stessa nazionalità delle prostitute. Non solo, ma sul piano della effettiva operatività della misura l’immigrato in possesso di un regolare permesso di soggiorno, magari da molti anni nel nostro paese e stabilmente inserito, spesso con famiglia a carico, può essere espulso in alternativa alla esecuzione della pena, ed è quindi trattato alla stessa stregua di un “clandestino” appena arrivato.

Se appare incostituzionale la norma che prevede la “scelta” da parte dell’immigrato di sostituire la esecuzione della pena con la espulsione, ancora più stridente appare il contrasto tra la stessa disciplina costituzionale- che afferma il principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva e ribadisce la necessaria effettività della pena- e le nuove previsioni del DDL 795 che invece consentono di eseguire l’accompagnamento forzato in frontiera di immigrati che sono ancora in attesa di una condanna definitiva,e questo anche contro la loro volontà, sulla base di un semplice nulla osta concesso dall’autorità giudiziaria.

Va quindi soppresso l’art. 13 del DDL che peggiora ulteriormente la già drastica previsione dell’art. 16 del T.U. 286 del 1998, introducendo, nel caso di immigrati sottoposti a procedimento penale, l’istituto del silenzio assenso per il nulla osta richiesto all’autorità giudiziaria per le espulsioni con accompagnamento immediato: la norma nei suoi risultati pratici consentirà di violare impunemente la riserva di giurisdizione, sottraendo al controllo effettivo del magistrato misure gravissime limitative della libertà personale, come l’espulsione con accompagnamento immediato. Ancora una volta in contrasto con quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.105 del 2001.

 

 

9) Contrasto del traffico di esseri umani e diritti dei richiedenti asilo.

L’unico canale reale di ingresso dei richiedenti asilo e protezione umanitaria rimane ancora quello clandestino. Quasi tutti i titolari dei diritto di asilo o protezione umanitaria presenti nei paesi europei sono giunti seguendo le vie della immigrazione clandestina. Manca quasi dappertutto la possibilità di chiedere asilo extra-territoriale ( con una istanza da inoltrare presso una rappresentanza diplomatica o consolare italiana all’estero).

Si verifica spesso dunque, proprio per effetto delle espulsioni e dei respingimenti indiscriminati disposti sulla base degli accordi di riammissione, la possibilità di una violazione del principio di “non refoulement” ( non respingimento) affermato dall'art.33 della Convenzione di Ginevra. La mancata garanzia  dei diritti fondamentali degli stranieri potenziali richiedenti asilo o protezione umanitaria, allontanati coattivamente dal nostro territorio, ha un solo nome, di triste memoria: deportazione.

Si deve sottolineare soprattutto come la disciplina dei respingimenti e delle espulsioni già vigente in Italia in base al Testo unico 286 del 1998, risulti già oggi lesiva dei diritti fondamentali dei profughi, perché continua a mancare una regolamentazione legislativa dell’asilo corrispondente alla previsione dell’art.10 comma secondo della Costituzione (e tutto viene affidato anche in questo caso alla discrezionalità delle questure ed alla eventuale “raccomandazione” della commissione centrale competente a decidere sulle istanze di asilo).

La proposta contenuta nel DDL Bossi-Fini, che introduce la detenzione amministrativa dei richiedenti asilo, e istituisce commissioni decentrate ( anche queste già introdotte di fatto nella prassi dalle autorità amministrative soprattutto a seguito di sbarchi di profughi in Puglia ed in Calabria, con risultanti sconfortanti). La nuova disciplina aggraverà la situazione perchè limita fortemente il diritto di difesa anche per i profughi; e soprattutto perché non garantisce un giudizio imparziale, per la composizione della commissione di cui faranno parte in prevalenza funzionari di polizia o comunque rappresentanti del Ministero degli interni. Ai richiedenti asilo verrà sostanzialmente impedito l’esercizio del diritto di difesa, ed è prevista anche per loro la detenzione amministrativa, in casi che di fatto diventeranno la norma, così ad esempio in tutte le ipotesi di ingresso clandestino.

Dal DDL 795 va dunque stralciata l’intera materia del diritto di asilo, con la soppressione degli artt. 24 e 25 che introducono procedure sommarie che non rispettano gli artt. 10 e 24 della Costituzione, più volte affermati dalla Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale a favore degli immigrati irregolari che chiedono asilo o protezione umanitaria.

La materia dell’asilo e dei regimi di protezione complementare va affrontata organicamente, senza scorciatoie, ripartendo dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione che, dalla fondamentale pronuncia n. 4674 del 1997, riconosce la immediata precettività dell’art. 10.3 della nostra Carta costituzionale, e tenendo conto dei contenuti del DDL sull’asilo, giunto nella passata legislatura quasi all’approvazione definitiva, dopo un dibattito che – a differenza di quanto sta avvenendo adesso - aveva coinvolto tutte le associazioni .

In ogni caso, la nuova disciplina che si vorrebbe introdurre contrasta con direttive comunitarie già approvate o in corso di approvazione in materia di asilo e protezione umanitaria, senza prevedere neppure misure di sostegno per gli immigrati ammessi alla procedura e per coloro ai quali venga riconosciuto il diritto di asilo. Anzi sembra già deciso il drastico ridimensionamento dei fondi del Progetto nazionale asilo (PNA), fondi derivanti peraltro per metà dal contributo 8 per mille e per la restante metà dal FER ( Fondo europeo rifugiati). Per il 2002 si passerà dagli otto miliardi dell'anno precedente alla cifra irrisoria di soli due miliardi con la chiusura della maggior parte dei centri di accoglienza per rifugiati aperti in Italia.

 

 

10) Considerazioni conclusive

Il vero contrasto al traffico di clandestini ed alla tratta consiste, oltre che nel favorire la legalizzazione degli ingressi, nell'aiuto allo sviluppo e nel ristabilimento delle minime condizioni di legalità e democrazia nei paesi di provenienza e di transito. Gli accordi bilaterali con paesi che non sono in grado di controllare la mafia interna che gestisce i traffici di esseri umani sono solo un regalo fatto alle tante mafie che incassano più volte ingenti profitti sulla movimentazione delle stesse persone.

Bisogna demistificare soprattutto la diffusa convinzione secondo la quale, in tempi di disoccupazione e di “riforma” dello stato sociale, qualunque ingresso o regolarizzazione di nuovi immigrati attenterebbe ai diritti riconosciuti ai cittadini residenti. Questa cultura dell’egoismo non potrà arrestare i flussi migratori che sono frutto di situazioni internazionali che l’Italia non è nelle condizioni di modificare da sola, questa stessa cultura  potrà solo aggravare, ad uno ad uno, tutti i problemi connessi all’immigrazione, a partire dalla xenofobia ormai sempre più diffusa anche tra gli strati più deboli della popolazione.

Il disegno di legge Bossi Fini, come affermato nel Documento dell’Assemblea dell’ONU dei popoli riunitasi a Perugia il 12/13 ottobre 2001 “favorisce coloro che lucrano sul traffico di esseri umani e sul lavoro nero, lasciando all’immigrazione l’unica via della clandestinità e dello schiavismo. Condanna milioni di lavoratori alla precarietà permanente con effetti devastanti di destrutturazione del mercato del lavoro per tutti. Estende agli asilanti la detenzione amministrativa. Affida la vita dei cittadini stranieri all’arbitrio della polizia”.

 

Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 in America, la xenofobia, l’intolleranza nei confronti degli immigrati registrano in tutta Europa e nel nostro stesso paese un’inquietante incremento. Il fatto che oggi in Italia la gerarchia del pregiudizio e della stigmatizzazione veda ai primi posti,dopo gli albanesi ( e sempre dopo gli zingari), gli immigrati di fede musulmana, è l’esito esemplare di un processo di costruzione del capro espiatorio. Prima gli Albanesi, dopo essere stati i “cugini separati” dell’altra sponda dell’Adriatico, sono progressivamente divenuti nell’opinione, forse maggioritaria, della popolazione italiana, l’immagine inquietante e minacciosa del clandestino. Poi i Rom sono stati oggetti di un vero e proprio martellamento mediatico che ha legittimato sgomberi violenti ed illegali di numerosi campi  come quello avvenuto nel 2000, alla vigilia del Giubileo, a Tor dè Cenci a Roma, con vittime anche tra i bambini, e tante tragedie umane indegne di un paese civile.

Adesso, gli immigrati di fede musulmana vengono vissuti come una minaccia per la nostra sicurezza, per la nostra integrità culturale e religiosa, in definitiva  per la nostra libertà.

Un tale processo di costruzione del pregiudizio risulta possibile anche in virtù degli esiti perversi, sul piano economico e sociale, delle scelte economiche adottate dai grandi gruppi finanziari e dai governi che, in Europa e nel mondo, se ne fanno portavoce: l’indebolimento dei legami sociali e dei sentimenti solidali sono anche il risultato di queste scelte. Il DDL 795 approvato dal governo Berlusconi si inquadra all’interno di queste scelte, e va contrastato evidenziando il costo sociale immenso che queste scelte comportano, in termini di attacco alle regole di convivenza civile ed ai diritti di cittadinanza, non solo per gli immigrati ma per l’intera popolazione italiana.

Per questo occorre battersi per scelte legislative che legalizzino al massimo la presenza degli immigrati, per dare regole certe ed eque al mercato del lavoro, con il riconoscimento dei diritti sociali e di cittadinanza, come strumento ineludibile per battere il traffico di clandestini e per praticare -nei fatti e non solo a parole- una autentica politica di accoglienza e di integrazione. Altrimenti prevarrà soltanto la cultura dell’egoismo e dello sfruttamento.

 

Se non si riuscirà ad invertire la rotta, orientando lo sviluppo economico verso un modello di società solidale e di tutela delle risorse umane e ambientali, tali sacche sono destinate ad ampliarsi e diffondersi. Secondo alcune stime, entro il 2040 il numero di abitanti dei paesi poveri sarebbe destinato a raddoppiare, passando dai quattro agli otto miliardi di persone. Anche se si tratta di stime che, non tenendo conto delle controtendenze che già si profilano, probabilmente vanno ridimensionate, esse tuttavia ci fanno comprendere che il flusso delle migrazioni verso i paesi ricchi resterà inarrestabile. Esso è “governabile” da parte dei paesi “più sviluppati” solo con serie politiche dell’accoglienza nella legalità e dell’inserimento sociale nei confronti dei migranti; nonché con scelte di politica internazionale che favoriscano l’autosviluppo, l’autodeterminazione, e la democrazia dei paesi svantaggiati, soffocati  dalla morsa di dittature,di guerre civili,del crescente debito internazionale verso i paesi ricchi.

 

Se tali orientamenti non si affermeranno, il rischio è che gli stati di diritto dei paesi ricchi si possano trasformare in stati di polizia: per garantire, all’interno, il benessere di strati della popolazione sempre più ristretti e per difendere la popolazione locale dall'"invasione" degli immigrati; per realizzare, all’esterno, operazioni di polizia internazionale ed iniziative belliche volte a sostenere regimi impresentabili, con i quali intrattenere vantaggiosi rapporti economici e politici, anche al fine di garantire il predominio politico ed economico dei paesi più sviluppati a danno dei paesi più deboli, dai quali continueranno a provenire in futuro, sempre più massicci, i flussi migratori.

 

 

 Fulvio Vassallo Paleologo

 Università degli studi di Palermo