Nomadi per forza

 

Odissea dei Dobreva

 

1 giugno 2001. Una famiglia estesa di rom kosovari, i Dobreva, è costretta a fuggire da Napoli. Sono circa 50 persone, minoranza musulmana in un campo abitato prevalentemente da cristiano-ortodossi. Abbandonano lavoro, casa e progetti futuri a causa dei continui scontri, delle malversazioni, delle minacce rivoltegli da una famiglia di rom ortodossi residenti anch'essi dietro al carcere di Secondigliano.Le minacce, anche quelle di morte, sono evidentemente credibili e per i Dobreva la fuga resta l'unica possibilità. E' passato poco meno di un anno dall'apertura a Secondigliano del primo 'villaggio d'accoglienza' autorizzato della Campania dove stanno stipate 750 persone.

Da circa cinque anni conosciamo i Dobreva e la loro partenza rappresenta per noi una grave perdita. Innanzitutto una perdita personale, perché ci unisce una forte amicizia; in secondo luogo la perdita di interlocutori politici privilegiati. Della stessa opinione saranno sicuramente il Comune di Napoli e le associazioni legate al campo dagli svariati progetti, in cui i Dobreva hanno ricoperto un ruolo fondamentale, come in quelli riguardanti la scolarizzazione dei bambini. Cos’è, allora, che non ha funzionato? Possiamo considerare questa un’ineluttabile storia, fra le tante, che nasce da intolleranza e da rivalità, una storia di “zingari” che, si sa, sono “di cultura un po’ difficile”?

E la Città, il Comune di Napoli, con quali responsabilità s’inseriscono in questo quadro?

Per rispondere ripercorriamo, forse troppo velocemente, la storia di questa famiglia negli ultimi venti anni.

 

A Pristina i Dobreva vivevano svolgendo attività commerciali, in un quartiere abitato da rom di religione musulmana e cristiano-ortodossa. L’incalzare della guerra (primi anni ‘90) segna per tutta la comunità l’inizio dell’infinito e obbligato viaggio. Abbandonano casa e averi per approdare in Italia dove non viene loro riconosciuto neanche il ‘titolo’ di profughi. L’unica soluzione abitativa possibile è la sistemazione in baracche che da soli costruiscono con materiali di fortuna, senza acqua, luce e servizi igienici, in condizioni sanitarie del tutto disumane, nel più totale disinteresse delle istituzioni.

I Dobreva si ‘sistemano’ a Secondigliano, degradata periferia del napoletano, sotto i ponti di quello che un giorno, forse, sarà l’asse mediano. A pochi metri lo stazionamento degli autobus e la fermata della Metropolitana che permettono una buona mobilità. Attorno al campo palazzi e negozi.   Nella zona sono stanziati circa un migliaio di rom, disseminati in vari campi abusivi. Vivono principalmente d’elemosina, quand’è possibile di lavori sottopagati. E’ facile immaginare come sia delicata la convivenza con gli altri abitanti del quartiere, con cui condividono la pesante emarginazione dal resto della città. Nel giugno di due anni fa scocca la scintilla che fa esplodere tensioni covate da tempo: un rom investe un motorino e muore una ragazza, figlia di un boss locale. Si scatena l’ira dei ‘cittadini’ del quartiere, con una vera e propria caccia allo zingaro che raggiunge l’apice con i roghi delle baracche. Ancora una fuga, che però questa volta si conclude con un ‘felice’ rientro a casa, grazie anche all’intervento di chi, preoccupato per l’aumentata presenza di pattuglie della polizia sul territorio, placa l’ira degli abitanti e promette tranquillità ai rom.

La situazione si mostra però troppo incandescente, la visibilità della questione rom in ambito cittadino e nazionale è forte, inoltre preme il progetto di apertura dell’asse mediano. Le amministrazioni locali trovano nella situazione di emergenza un’ulteriore legittimazione per la costruzione del nuovo megacampo attrezzato alle spalle del carcere di Secondigliano, promettendo un’accelerazione dei lavori, mai verificatasi. Il nuovo campo è, per chi lo ha progettato, una grande innovazione, segno d’accoglienza e solidarietà, anche se si parla, e purtroppo si è solo parlato, di soluzione provvisoria, non sostenibile su lunghi periodi. I gruppi che si occupano di politiche abitative da anni denunciano la pericolosità dei megacampi, luoghi di esclusioni, in pratica veri e propri ghetti, polveriere dove fermentano tensioni e illegalità, in una miscela capace di dimostrarsi esplosiva velocemente. Poco conta l’esperienza già provata da altre città italiane, dove la scelta di tale tipo di soluzione si è dimostrata tragicamente fallimentare. Inascoltate restano le voci di coloro che propongono soluzioni abitative alternative, come la costituzione di piccoli insediamenti per nuclei familiari, con partecipazione e coinvolgimento dei diretti interessati e degli abitanti del quartiere.

Il megacampo è costruito, il regolamento è redatto, e il 26 luglio scorso la comunità rom del campo abusivo di Via Zuccarini a Scampia, tra cui i Dobreva, è trasferita nel nuovo campo autorizzato, situato alle spalle del carcere di Secondigliano. L’ingresso è sulla circonvallazione esterna, strada a percorrenza veloce. Nei dintorni né case né negozi.

I rom finalmente hanno l’acqua, la luce, il gas. Il prezzo è però un po’ più caro di quello riportato sulle bollette. I bambini e le donne sono praticamente reclusi, completamente dipendenti dalle auto degli uomini e dalla buona volontà delle associazioni, la fermata dell’autobus più vicina è a circa due chilometri e lungo la strada su cui le macchine sfrecciano ad alta velocità non c’è neanche un segnale che avverta della presenza di un insediamento abitativo. In ciascun container (40 mq) e’ alloggiata una famiglia, con nonni e nipoti, per un totale di otto o nove persone. La distanza tra le piazzole è minima.

Non più topi, ma un tremendo fetore fuoriesce dai tombini. Niente asse mediano sulla testa, ma tralicci dell’Enel ad alta tensione, che, come dimostrato da una ricerca condotta da Legambiente, producono un campo magnetico di intensità superiore al limite massimo di tollerabilità. A sei mesi dall’entrata sono tre le persone investite all’ingresso del “villaggio”, due feriti e un morto.

Ad un anno dalla sua apertura il campo è gestito con modalità autoritarie, contrariamente al regolamento che prevedeva un comitato di gestione composto da associazioni, rom e istituzioni. Le strutture comuni vanno gradatamente deteriorandosi, come la casupola destinata ad ospitare un ambulatorio medico e che è ora ridotta a quattro mura bruciacchiate.

Tra i circa venti operatori rom che hanno lavorato in progetti comunali quasi tutti sono della famiglia Dobreva. In particolare Sead e Severdjian Dobreva si danno molto da fare, divenendo mediatori culturali dopo un anno di corso seguito presso la Gesco Campania e partecipando intensamente alla vita cittadina.

I bambini dei Dobreva sono tra quelli che frequentano la scuola con maggiore continuità e buoni risultati.

 

Percorso interrotto. Da chi, dai rom cattivi? Da un campo ghetto? Dall’amministrazione che non è riuscita a tutelare le persone e non ha fatto sentire adeguatamente la sua presenza? Si ricorda che in concomitanza con l’apertura del campo è stato stipulato un patto di cittadinanza, ispirato ai più illuminati principi. Un patto tra la comunità rom e la Città di Napoli, anche se è rimasto sconosciuto alla quasi totalità dei rom e ancor di più ai cittadini napoletani, in cui si considera non risolta la questione abitativa e che intende la costruzione del campo stesso come una soluzione provvisoria.

Ognuno è libero di trovare il proprio capro espiatorio. I Dobreva sono nuovamente profughi, in un disperato pellegrinaggio per l’Italia tornano a vivere in campi abusivi. Alla ricerca di possibili soluzioni alternative come una casa, che mai nessuno darà loro in affitto, soprattutto ora che con il container hanno perso il lavoro e la residenza, condizioni ritenute indispensabili per ricevere un minimo di credibilità.

 

Lanciamo un appello alla Città (Comune e Provincia di Napoli, Regione Campania, Partiti, Associazioni, Singoli Cittadini…) e in particolare al nuovo Sindaco Rosa Russo Iervolino, affinché si impegni per:

·      garantire le condizioni necessarie ad un ritorno dei Dobreva nella città in cui stavano costruendo il loro futuro, trovando, per loro, un’immediata sistemazione.

·      ristabilire condizioni di vivibilità minima nel campo, prendendo ogni necessario provvedimento.

·      invertire radicalmente la linea fin qui seguita nelle politiche sociali rispetto ai rom, considerando superata l’esperienza del megacampo ed  avviando pratiche di convivenza basate su  soluzioni abitative partecipate, alternative a quella dei megacampi (case, insediamenti abitativi per nuclei di massimo 50 persone, palazzi ed edifici dismessi da riattare…). Facendo sì che tali esperienze diventino una possibiltà-modello per ogni famiglia rom che decida di uscire dai confini del “campo”.

 

 

Napoli, 13 giugno 2001

 

Com.p.a.re

(comitato per l’assegnazione e realizzazione di soluzioni abitative non ghetto per i rom)

compare98@yahoo.com

 

 

Sottoscrivono l’appello