Prima di affrontare il panorama parlamentare dei primi due mesi del 2001 relativo ai temi dell’immigrazione, abbastanza sconfortante nella sua pochezza e relativo a disegni di legge che molto difficilmente avranno un futuro, mi concedo una riflessione su un punto dell’attuale normativa che, probabilmente, andrà rimodulato: l’eccessiva rigidità delle tipologie di visto e di permesso di soggiorno e le conseguenti difficoltà di conversione.

Questa riflessione, che porgo ai lettori anche per stimolare un dibattito di idee, mi è sorta per la coincidenza di tre stimoli.

L’altro giorno mi ha telefonato una docente dell’università “la Sapienza” di Roma, raccontandomi le sue peripezie per assumere legalmente una determinata signora rumena che accudisse la madre inferma: la domanda presentata all’Ufficio del lavoro ad aprile 2000 è stata restituita con il prescritto nulla osta nell’ottobre successivo; il passaggio in questura ah richiesto un altro mese; finalmente l’invio, ai primi dello scorso dicembre, della documentazione alla signora rumena e alla nostra rappresentanza in Romania che, dopo, reiterate richieste, risponde che non potrà prendere in considerazione il caso prima del 22 febbraio 2001.

            Non so se quel che mi hanno raccontato è tutto vero, né se si tratta di un caso particolare; comunque si sposa benissimo con l’articolo di Attilio Giordano pubblicato su “il Venerdì di Repubblica” del 9 febbraio scorso sul viaggio allucinante per tempi e burocrazia che il datore di lavoro deve compiere per assumere legalmente un extracomunitario di  cui ha bisogno subito.

            Un'altra storia o, meglio, tante tantissime storie tutte uguali mi sono state raccontate da amici e parenti quando torno nella città natia. Esiste un segmento del locale lungomare ormai comunemente chiamato, il giovedì e la domenica, piazza Ucraina, per l’altissimo numero di signore alte e bionde, nella maggior parte distinte e benvestite, che l’affollano e che provengono tutte da quel lontano Paese.

            Mi hanno spiegato che esiste un notevole flusso di clandestine o di persone che entrano con un visto turistico e che, tramite una ormai fitta rete di conoscenze amicali o parentali, trovano subito lavoro (nero) presso le famiglie della città per la cura della casa o per l’assistenza agli anziani. Dopo un anno, un anno e mezzo, queste lavoratrici irregolari (ma stanno aumentando anche i colf maschi), messo da parte un gruzzoletto si licenziano per tornare in patria e consolano il costernato datore di lavoro con la promessa che l’indomani si sarebbe presentata la sorella, la cugina, l’amica, appena arrivata dall’Ucraina e sulla quale forniva le più ampie garanzie di serietà, moralità e voglia di lavorare.

            Il sistema funziona: gli stranieri sono contenti del loro lavoro “nero” e precario, i datori di lavoro si dicono soddisfattissimi delle prestazioni lavorative e anche degli extra, quali favole “esotiche” per i bambini e ricette culinarie “strane” da sfoggiare con gli amici; violenza e delinquenza zero.

 

Quello appena descritto non è certo un quadro ideale da prendere a modello: le colf ucraine hanno violato o aggirato la normativa per l’immigrazione, i datori di lavoro le hanno assunte in nero con tutte le conseguenze, anche penali che ne derivano sfruttando la debolezza della situazione irregolare delle aspiranti lavoratrici. Ma … il sistema funziona speditamente: garantisce un perfetto incontro fra domanda ed offerta di lavoro e, comunque, a sentire i datori di lavoro, ci sarebbe tutta la volontà di regolarizzare il rapporto … se ciò fosse possibile e facilmente possibile, senza defatiganti attese ed inutili ritorni al paese d’origine.

Il sistema normale di ingressi per lavoro, ben descritto nell’articolo di Attilio Giordano, formulato a suo tempo per ottenere la massima garanzia di far entrare solo lo straniero che aveva già ricevuto nel suo Paese una offerta di lavoro, nella pratica dei tempi di attuazione sembra costruito solo per datori di lavoro dotati di capacità divinatorie sul fabbisogno di manodopera necessario l’anno successivo.

E che sia necessario un preventivo incontro di conoscenza personale fra lavoratore e datore di lavoro è dimostrato dallo straordinario successo ottenuto dall’istituto dello “sponsor”, finalmente attuato lo scorso anno: 15.000 domande esaurite nel breve termite previsto di 60 giorni, nonostante qualche prevedibile intoppo nel rilascio delle fideiussioni dovuto alle incertezze della “prima volta”.

Questa “fuga” dal sistema ordinario della chiamata nominativa e delle liste, illegale nel caso delle colf ucraine, legale nel caso dello sponsor, appare almeno un sintomo dell’esistenza di qualcosa da raccordare fra l’impianto normativo ed il mercato del lavoro.

Ormai i mezzi di informazione ci hanno quasi convinto dell’avvenuto mutamento del mercato del lavoro, del tramonto del posto fisso e della futura, ma non troppo, abitudine a frequenti mutamenti di posto di lavoro, ma nel Testo Unico si trova più o meno  ripetuto l’impianto del collocamento con chiamata nominativa o numerica che per gli italiani non ha certo dato buona prova.

Insomma, specialmente per alcuni fra i lavori abituali degli immigrati, quali servizi alla persona o servizi domestici dove la preventiva conoscenza personale assume una valenza dominante, domanda e offerta di lavoro hanno ancora qualche difficoltà ad incontrarsi.

Qualcosa però è mutato: anche il parere della I Commissione della Camera sul Documento Programmatico 2001 – 2003 invita il Governo a prevedere una semplificazione delle procedure di conversione del visto, il muro dell’inconvertibilità del permesso di soggiorno rilasciato per scopi che non consentono il lavoro presenta già qualche crepa, oltre quella dell’art. 39, comma 7[1], del Regolamento di attuazione del T.U..

La prima spuntò quando, in sede di tavolo di lavoro interministeriale di lavoro sull’immigrazione, si decise di abolire l’incompatibilità della presenza – a qualsiasi titolo – in Italia dello straniero con il mero avvio della procedura di richiesta per chiamata nominativa, rimanendo fermo il principio del ritiro del visto presso il consolato d’Italia nel Paese di origine.

La seconda, più pregnante, è contenuta nel disegno di legge approvato alla Camera con il numero 5808 ed ora al Senato con il numero 4938 e non ancora calendarizzato, recante modifiche al Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 contenente il Testo Unico sull’immigrazione. L’articolo 3, secondo comma, infatti, aggiunge al comma 9 dell’articolo 5 del Testo Unico il seguente periodo “L'esistenza di una richiesta di autorizzazione al lavoro o della prestazione di garanzia di cui all'articolo 23 per il lavoratore straniero che rientri nell'ambito delle quote fissate dai decreti di cui al comma 4 dell'articolo 3, è considerata condizione sufficiente per la conversione di un permesso di soggiorno rilasciato ad altro titolo, rispettivamente, in permesso di soggiorno per lavoro subordinato, anche a carattere stagionale, o per inserimento nel mercato del lavoro”.

La modifica porta una enorme semplificazione nel mercato del lavoro e, a giudicare dal dibattito parlamentare[2], è condivisa anche da esponenti del Polo delle libertà. Infatti l’on. Rivolta (FI), nella dichiarazione di voto, si è riconosciuto nello spirito della norma preannunciando un voto favorevole, pur chiedendo un condivisibile ed apprezzabile maggior controllo sul contratto di lavoro che deve seguire la richiesta di autorizzazione al lavoro, onde far sì che esso sia reale e non fittizio.

Certo, aumenteranno moltissimo i “finti” permessi per turismo oppure i decreti flussi prossimi  venturi dovranno prevedere un maggior numero di permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, ma diminuiranno senz’altro gli ingressi clandestini di chi, ora, subisce la clandestinità pur di lavorare.

Se aumenteranno i “finti” permessi di soggiorno, contestualmente diminuiranno gli inutili e costosi viaggi di ritorno nel Paese di origine per “prendere il visto”, viaggi che non tutti gli aspiranti lavoratori, specialmente quelli provenienti dai Paesi più lontani, sono disposti a compiere, preferendo la clandestinità  o una condizione irregolare.

In definitiva si tratta di scegliere fra l’ingresso di uno straniero di cui si conosce nome, cognome, nazionalità e magari anche le impronte digitali – che, come suole affermare un amico, non sono altro che una fotografia estremamente ingrandita di una parte del corpo diversa dal viso - oppure continuare a dare la caccia agli stessi stranieri che un sistema macchinoso costringe ad entrare come clandestini o a divenire irregolari.

A mio sommesso parere, purché non vengano sforate le quote stabilite, preferisco il sistema meno complicato.

 



[1] art. 39, comma 7 Reg. Att.ne. Oltre a quanto previsto dall’articolo 14, lo straniero già presente in Italia, in possesso di regolare permesso di soggiorno diverso da quello che consente l’esercizio di attività lavorativa, può chiedere alla questura competente per il luogo in cui intende esercitare lavoro autonomo la conversione del permesso di soggiorno. A tal fine, oltre alla documentazione di cui ai commi 1, 2 e 3, e fino a quando non saranno operativi i collegamenti con il S.I.L., deve essere prodotta l’attestazione della Direzione provinciale del lavoro che la richiesta rientra nell’ambito delle quote di ingresso per lavoro autonomo determinate a norma dell’articolo 3, comma 4, del testo unico.

 

[2] Cfr. Aula Camera, dichiarazioni di voto sull’articolo 3 dell’A.C. 5808, 20 dicembre 2000, On. Dario Rivolta (FI).