Il disegno di legge
presentato dal Governo in materia di immigrazione e asilo e’ stato
accolto dal mondo delle associazioni e degli organismi non governativi esperti
in materia con sentimenti contrastanti: per un verso, di sostanziale sollievo a
fronte della scarsa corrispondenza tra i contenuti del disegno di legge e
quelli della usuale propaganda di alcuni dei partiti di maggioranza; per
l’altro, di disappunto nel vedere minacciato, in alcuni punti di notevole
rilievo, un quadro normativo gia’ difettoso e mal applicato.
Il disegno di legge,
nelle sue linee essenziali, puo’ essere visto come costituito da quattro
blocchi di disposizioni: asilo, espulsioni, integrazione, lavoro. Li ho
menzionati in quest’ordine, non perche’ sia quello in cui figurano
nell’articolato, ma perche’ corrisponde all’ordine di
negativita’ crescente, che ben si presta ad un esame critico sintetico
del testo.
L’asilo.
Fallito (miserevolmente) il tentativo di varare nella scorsa legislatura una
legge organica che disciplinasse adeguatamente la materia, la riforma delle
scarse norme vigenti (l’articolo 1 della legge Martelli e un
corrispondente decreto del Presidente della Repubblica) si e’ limitata a
incidere sulla procedura di riconoscimento dello status di rifugiato. Gli
elementi di novita’ principali sono due: il decentramento – a
livello provinciale - della Commissione deputata all’esame delle domande
di asilo, e la previsione di un trattenimento obbligatorio degli stranieri che
chiedano asilo essendo gia’ destinatari di un provvedimento di espulsione
o dopo essere stati intercettati in situazioni di ingresso o soggiorno
illegale. Il primo elemento potrebbe contribuire ad una notevole abbreviazione
dei tempi di attesa dei richiedenti asilo, e puo’ quindi essere salutato
come una novita’ positiva (a condizione che si curi adeguatamente la
formazione dei membri delle commissioni decentrate).
Il
secondo elemento sembra, in linea di principio, accettabile, corrispondendo
alla legittima esigenza dello Stato di tutelarsi dal rischio di sistematica ed
efficace elusione dei provvedimenti di allontanamento dal territorio nazionale
di stranieri non autorizzati a soggiornarvi. Destano pero’ preoccupazione
due aspetti non marginali: una formulazione ambigua della disposizione potrebbe
far estendere inutilmente e ingiustamente il trattenimento al caso di chi
chieda asilo emergendo spontaneamente dalla condizione di presenza formalmente
illegale. Lo straniero trattenuto non gode, poi, di un automatico effetto
sospensivo del ricorso avverso il diniego del riconoscimento dello status, ma
puo’ solo chiedere la sospensione del suo allontanamento al Prefetto
– autorita’ da cui dipende, pero’, nei fatti, la commissione
decentrata. La gravita’ del rischio di refoulement associato ad una decisione
errata della commissione imporrebbe di garantire un effetto sospensivo
automatico o, almeno, di assegnare al giudice del ricorso la decisione sulla
sospensione dell’allontanamento.
Le
espulsioni. Viene estesa, in modo per altro non scandaloso, la casistica in cui
l’espulsione viene eseguita con accompagnamento immediato alla frontiera
- il ricorso essendo cosi’ presentabile, di fatto, solo
dall’estero. Si raddoppia inoltre il tempo massimo di detenzione nei
centri di permanenza temporanea (portandolo a sessanta giorni) e quello
relativo al divieto di reingresso dell’espulso (portato a dieci anni).
Infine, e’ sanzionato penalmente, anziche’ solo
amministrativamente, il reingresso non autorizzato dell’espulso.
Si
tratta di norme che differiscono quantitativamente, piu’ che
qualitativamente da quelle vigenti. Sono censurabili dal punto di vista della
costituzionalita’ (l’espulsione immediata senza convalida
preventiva da parte dell’autorita’ giudiziaria) o
dell’efficacia (l’estensione dei tempi di detenzione o di divieto
di reingresso), ma, appunto, non molto piu’ di quanto lo sia, al
riguardo, la Turco-Napolitano.
L’integrazione.
Poche disposizioni vessatorie: il periodo di soggiorno legale per accedere alla
carta di soggiorno (permesso di soggiorno a tempo indeterminato) e’
innalzato da cinque a sei anni. I genitori a carico sono ammessi al
ricongiungimento se non hanno altri figli (si badi: “altri figli”,
non “altri figli in grado di mantenerli”!). I familiari entro il
terzo grado, inabili al lavoro secondo la legge italiana e a carico del
richiedente, non sono piu’ ammessi. Quest’ultima soppressione
e’ stata gabellata come indispensabile per spezzare un devastante
processo di ricongiungimento a valanga: uno straniero chiama un paio di
familiari, anche lontani; questi ne chiamano ciascuno un altro paio; e
cosi’ via, in una festa di famiglia allargata... In realta’, la
norma vigente si limita a consentire l’ingresso – per esempio
– di un nipote disabile, e, comunque, lo straniero entrato per
ricongiungimento non e’ a sua volta titolare del diritto al
ricongiungimento.
Anche
a questo proposito, tuttavia, deve essere sottolineato come normativa e prassi
vigenti abbiano parzialmente snaturato lo spirito con cui erano state pensate
certe norme. Il ricongiungimento familare trova, ad esempio, un enorme ostacolo
nel vincolo relativo alla disponibilita’ di un alloggio che rientri nei
sontuosi parametri previsti dalle leggi regionali per l’edilizia
popolare; e il computo del periodo di soggiorno legale di un lavoratore, ai
fini dell’accesso alla carta di soggiorno, viene azzerato, in base a una
circolare del Ministero dell’interno, ogni qual volta l’interessato
incorra, anche per pochi giorni, in una fase di disoccupazione: una sorta di
gioco dell’oca ideato da burocrati di intelligenza - forse -non
acutissima.
Il
lavoro. Il tanto sbandierato “contratto di soggorno” e’, in
realta’, la classica chiamata nominativa di un lavoratore ancora
soggiornante all’estero. Un certo appesantimento, curiosamente nella
linea di un irrigidimento del mercato del lavoro, e’ rappresentato
pero’ dall’obbligo, per il datore di lavoro, di garantire la
copertura delle spese di eventuale rimpatrio del lavoratore e dal preventivo
accertamento di indisponibilita’ di manodopera nazionale e comunitaria
– riesumazione, inutile piu’ che dannosa, e comunque allineata con
le mode europee, di una vecchia disposizione del 1986, cancellata dalla legge
Turco-Napolitano.
La
vera novita’ – ed e’ un grave passo indietro – e’
la proposta soppressione dell’articolo 23 del Testo unico: quello sulla
sponsorizzazione. Quest’articolo aveva concentrato, in materia di
immigrazione per lavoro, il meglio della riflessione del Governo Prodi e del
Parlamento allora in carica: il primo aveva congegnato il meccanismo della sponsorizzazione
da parte di privati, associazioni o enti locali del lavoratore straniero nella
fase di ricerca di lavoro in Italia; il secondo aveva esteso la
possibilita’ di una tale ricerca al lavoratore capace di automantenersi.
Si trattava – e si tratta – di una rivoluzione copernicana nella
politica di immigrazione: da un lavoratore costretto ad aspettare
all’estero un’improbabile chiamata da parte di un datore di lavoro
che non ha, per via della distanza, alcun modo di conoscerlo preventivamente, a
un lavoratore autorizzato, sotto certe ragionevolissime condizioni, ad entrare
in Italia per cercare da se’ un datore di lavoro interessato ad
assumerlo.
In
questi ultimi due anni, il canale della sponsorizzazione – soggetto
comunque al rispetto di un tetto annualmente imposto dal Governo in sede di
programmazione dei flussi – e’ stato mortificato da tetti
risibilmente bassi: quindicimila ingressi nel 2000, esauriti in una decina di
giorni - e si era ancora in fase di sperimentazione; quindicimila anche per il
2001, esauriti in poche ore, con una proporzione, tra domande presentate dagli
aspiranti sponsor e domande accolte dalle questure, di dieci a uno! E tuttavia
ha dimostrato di essere la sola alternativa seria, per l’inserimento nel
mercato del lavoro, all’ingresso clandestino. Quelle che da quindici anni
a questa parte figurano come chiamate nominative di lavoratori residenti
all’estero sono, nella quasi totalita’ dei casi, regolarizzazioni
di rapporti di lavoro nati nell’illegalita’ e sanati, de facto, da un temporaneo rimpatrio
del migrante.
Ora il
Governo Berlusconi, invece di ampliare le alternative alla
clandestinita’, propone di sopprimerle. Propone anche di rendere
piu’ arduo il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, con la
previsione di limiti piu’ severi sulla massima durata tollerabile dello
stato di disoccupazione. E’ ovvio prevedere un maggior tasso di
irregolarita’, a dispetto dell’inasprimento delle norme sulle
espulsioni. Qualcuno dice che, lungi dall’essere frutto di una errata
valutazione, e’ proprio il risultato che si vuol conseguire: un bacino di
clandestinita’ piu’ ampio, piu’ ricattabile e, quindi,
piu’ disposto a sottostare alla piena flessibilizzazione del rapporto di
lavoro. Ma uno straniero sotto minaccia di espulsione deve accettare di
lavorare anche quando una normale valutazione della convenienza economica lo
indurrebbe a rifiutare. E’ una riproposizione, senza catene e senza
frusta, della schiavitu’. E’ possibile che persone del valore di
Ruggiero e Martino la scambino per flessibilizzazione?