Enduring Justice e guerra ai migranti.
Alcune note sul caso inglese
A partire dagli eventi dell’11 Settembre,
l’Inghilterra si è distinta significativamente dagli altri paesi
europei per aver inseguito un coinvolgimento immediato, diretto e senza condizioni
nella crociata globale antiterroristica. Il consenso manifestato
dall’opinione pubblica inglese nei confronti delle scelte nettamente
filoamericane e belliciste di Tony Blair si è rivelato ampio e diffuso,
e soprattutto non sembra risentire particolarmente nè dei bombardamenti
andati fuori bersaglio, nè dei ricorrenti “effetti
collaterali”, nè infine delle notizie di violente rappresaglie di
cui si starebbero rendendo protagoniste, entrate a Kabul, le milizie dell’Alleanza
del Nord.
È vero anche che è cresciuto nelle
ultime settimane un vasto movimento di opposizione alla guerra, denominato
“Anti-War Coalition”, il quale raccoglie un universo variegato di
sigle, gruppi, associazioni e individui di varia provenienza politica, che
contesta duramente la scelta militare e il protagonismo bellico-diplomatico di
Blair. Per il 18 Novembre l’Anti War Coalition ha indetto una
manifestazione nazionale a Londra.
“Not in my name” è la parola
d’ordine del movimento, che ritorna in tutte le occasioni:
manifestazioni, meetings,
dibattiti pubblici e appelli via internet. “Not in my name”,
cioè “non (fate la guerra) in mio nome”. Questo per quanto
riguarda la crociata portata avanti contro il nemico esterno, contro le forze
del male, contro quegli “evil men” i cui attentati suicidi hanno
messo a repentaglio “la stessa civilizzazione occidentale”, nelle
parole di Blair.
Ma il fronte militare non è che uno dei
versanti su cui questa guerra si sviluppa. E anzi ne costituisce un aspetto
forse addirittura secondario. L’impressione di una possibile conclusione
ravvicinata dell’intervento militare anglo-americano in territorio afgano
(a seguito della capitolazione dei Taleban) lascia presagire che altre saranno
le priorità della crociata nei prossimi tempi. Risoltosi provvisoriamente
in una vittoria simbolica (cioè largamente accettabile
all’opinione pubblica inglese) sul nemico esterno, l’investimento
repressivo può finalmente fare ritorno in patria, legittimandosi con la
necessità di contrastare ora i potenziali nemici “interni”:
gli asylum seekers.
Che la
“war on terrorism” si sarebbe tradotta breve tempo in una
“war on asylum seekers” o in una “war on immigrants”
non era del resto difficile da intuire. I segnali di un prossimo giro di vite
verso le politiche di asilo, di gestione dell’immigrazione e di controllo
delle frontiere si sono susseguiti sempre più chiaramente in Europa. Ma
anche su questo terreno l’Inghilterra sembra ambire a una posizione di
“avanguardia”, ed è del tutto prevedibile che, come nel caso
dell’intervento militare esterno, essa intenda suggerire ancora una volta
agli altri paesi europei la strada da seguire: se ne può trarre
un’impressione univoca provando a ricostruire le vicende che hanno
caratterizzato nelle ultime settimane questo fronte interno, un pò in
penombra, della “british war on terror”.
Il 3 Ottobre David Blunkett, ministro degli interni,
annuncia una riforma radicale della disciplina dell’immigrazione e
dell’asilo politico. I toni sono particolarmente enfatici: il ministro
parla di “rivoluzione complessiva” della legislazione esistente. Ma
non rivela i contenuti della riforma, limitandosi invece ad anticipare solo le
misure relative ai permessi per motivi di lavoro. Blunkett annuncia
l’introduzione di un sistema per così dire a “quattro corsie”
che permetterà al governo inglese di instradare in modo differenziato e
selettivo l’immigrazione di forza lavoro rispettivamente
“qualificata” e “dequalificata”,
“permanente” e “stagionale”. Asse portante della nuova
disciplina sarà la definizione delle quote annuali di forza lavoro
immigrata necessaria. I permessi di lavoro saranno temporanei, differenziati in
base ai livelli di qualificazione professionale esibiti dal/la richiedente,
senza possibilità di modificare il permesso in seguito per esempio all’acquisizione
di qualifiche superiori. I settori naturali di impiego di questa forza lavoro
precaria saranno, stando allo stesso Blunkett, “quei comparti in cui
abbiamo subito una drammatica riduzione di manodopera, come quello delle costruzioni
e della ristorazione nell’area di Londra”.
Siamo nel pieno dell’emergenza-recessione.
Licenziamenti di massa, immissioni di denaro pubblico, come non se ne vedevano
da almeno vent’anni, nelle casse di imprese che dichiarano
improvvisamente bancarotta, appelli allarmati alla moderazione salariale.
Nell’atmosfera fumosa delle Twin Towers che ancora bruciano, lo spettro
della recessione (che già da mesi si aggirava per l’Europa e per
gli Stati Uniti) finalmente si materializza e offre il fianco a nuove misure di
severità economica e di controllo della forza lavoro. Blunkett,
tempestivo, ne approfitta per annunciare il rinnovato impegno del governo
laburista per introdurre nuove, necessarie, estese misure di flessibilizzazione
e precarizzazione del lavoro.
A partire da quello immigrato.
L’8 Settembre, appena tre giorni prima che si
consumasse la tragedia americana, un tribunale inglese affrontava il caso di
quattro immigrati curdi detenuti nel centro di detenzione per migranti di
Oakington, poco lontano da Cambridge. I quattro denunciavano il governo inglese
per violazione dei diritti umani, essendo stati trattenuti nel centro, in
situazione di prigionia, senza che fosse contestato loro alcun reato e senza
che sussistesse alcun pericolo di fuga (il motivo “formale” per cui
si possono legalmente detenere in via preventiva i migranti in Inghilterra). Il
tribunale dà ragione ai ricorrenti, e stabilisce che in applicazione
della Convenzione Europea dei diritti umani di cui l’Inghilterra è
firmataria, la detenzione dei richiedenti asilo politico nei centri di
pemanenza costituisce palese violazione dei diritti umani. Il Ministro
dell’Interno ricorre in Corte d’Appello a contestare una decisione
che, se confermata, comporterebbe un risarcimento miliardario ai quattro, oltre
che la chiusura immediata del centro di detenzione di Oakington.
La decisione di appello giunge il 19 Ottobre, a poco
più di un mese di distanza dall’attacco terroristico agli Stati
Uniti. La corte accetta il ricorso presentato dal governo e ribalta completamente
la sentenza del tribunale, stabilendo che la detenzione dei migranti in attesa
di riconoscimento dello status di rifugiati è pienamente legittima. I
giudici sostengono che la detenzione non viola i diritti umani se si mantiene
entro limiti ragionevoli di tempo: limiti che possono, in circostanze
particolari, andare anche oltre quelli stabiliti dalla Corte Europea di
Giustizia. Nel manifestare tutta la propria soddisfazione per una decisione che
“fa prevalere il buon senso sul trionfalismo degli attivisti dei diritti
umani”, Blunkett puntualizza che Oakington (assieme agli altri centri di
detenzione) rappresenta il pilastro di una politica “rigorosa ma
giusta” di controllo dell’immigrazione.
Il fumo delle Twin Towers inizia a diradarsi, e
comincia a intravvedersi la nuova fisionomia del controllo dei migranti.
Bisogna però attendere il 29 Ottobre per la
vera svolta. Di recessione economica si parla decisamente meno:
l’economia di guerra si è già messa in moto. In compenso
imperversa il panico circa la possibilità che l’Inghilterra
diventi il target europeo degli attentati terroristici. Sui giornali britannici
circola la notizia che in uno dei bombardamenti sull’Afghanistan sono
morti alcuni soldati che si erano arruolati nelle milizie dei Taleban proprio
partendo dall’Inghilterra: immigrati entrati nel paese alcuni anni prima,
apparentemente “integrati” nelle città di residenza, e uno
di loro persino frequentatore assiduo della locale associazione sportiva.
Nemico interno e nemico esterno iniziano a corrispondere.
Blunkett va quindi alla Camera dei Comuni e in un
discorso dal tono grave ed enfatico rivela finalmente il contenuto
dell’attesa rivoluzione nella disciplina dell’immigrazione e
dell’asilo politico. Premettendo che il governo ha il “dovere morale
fondamentale di tutelare coloro che fuggono dalla persecuzione, ma anche di
proteggere i confini e l’integrità della nazione”, il
ministro annuncia di voler lanciare un segnale al mondo intero:
“l’Inghilterra non sarà tollerante verso
l’immigrazione illegale”.
Le misure annunciate sono diverse. Innanzitutto viene
abolito il famigerato sistema dei “vouchers”, cioè dei
buoni-denaro consegnati ai richiedenti asilo politico per acquistare beni
alimentari e di prima necessità da sempre criticato per gli effetti
stigmatizzanti che produceva. Gli stranieri erano infatti immediatamente
riconoscibili come ‘asylum seekers’ ogni volta che esibivano il
voucher nei supermercati, e questo li esponeva a episodi frequenti di
discriminazione razziale. Cosa subentra al posto dei voucher? Versamenti in
denaro accreditati direttamente su nuove carte magnetiche, simili alle carte di
credito. Unica
particolarità è che però oltre al nome, il cognome
e i dati del/la titolare, queste carte recano anche la foto della persona e le
sue impronte digitali. L’identificazione è quindi assicurata, in
qualsiasi momento, senza possibilità di frodi o falsificazioni.
Non è che l’inizio. La riforma riduce
drasticamente la possibilità di presentare ricorso contro le decisioni
che rifiutano il riconoscimento dello status di rifugiato e dispone
l’espulsione immediata dei non aventi diritto al permesso di soggiorno:
tanto immediata che la stessa comunicazione di rifiuto del permesso ha luogo
alla presenza delle forze dell’ordine, in modo che l’interessato
possa essere prontamente dedotto nel più vicino centro di raccolta per
espellendi. A tal proposito Blunkett annuncia anche l’istituzione di
nuovi centri di detenzione che porterà dagli attuali 1900 a 6000 i posti
disponibili e l’obbligo per i migranti di presentarsi regolarmente ai
centri di controllo per segnalare la loro presenza.
Un ultimo particolare che potrebbe essere sfuggito
è che la popolazione inglese non porta documenti di identificazione: la
legge non lo richiede e anzi questa “peculiarità liberale”
dell’Inghilterra è gelosamente apprezzata dai cittadini inglesi.
Ma i fatti dell’11 Settembre giustificano una radicale inversione di
tendenza. Si parla ormai insistentemente della possibilità di introdurre
in un futuro più o meno prossimo, l’obbligo della carta
d’identità per tutti i cittadini. Questo non manca peraltro di
determinare reazioni anche vigorose da parte dell’opinione pubblica.
Perchè non testare quindi le nuove misure sui migranti?
Il 19 Novembre aprirà i battenti Yarl’s
Wood: centro di detenzione capace di contenere 900 persone, collocato nei
pressi di Bedford. Dal costo di ottanta milioni di sterline, il centro è
qualificato dal ministero dell’interno come “struttura
aperta”: uno cioè di quei luoghi dai quali i migranti possono
“liberamente uscire”. Unica particolarità: occorre
rispettare precisi orari di rientro serale, pena la perdita di qualsiasi
diritto all’accoglienza e l’espulsione immediata. Questa struttura
“aperta” è circondata per tutto il suo perimetro da una cancellata
di due metri e mezzo di altezza, a sua volta sormontata sormontata da tre linee
di filo spinato. Dozzine di telecamere a circuito chiuso ne sorvegliano
costantemente l’interno, congiuntamente a fotocellule capaci di catturare
qualsiasi movimento nell’ambiente circostante. Il centro, considerata la
sua natura “aperta”, è destinato ad “accogliere”
intere famiglie, bambini compresi, e probabilmente per periodi di tempo non poi
così limitati come pretenderebbe la sentenza della Corte
d’Appello, dal momento che al suo interno si sono predisposti spazi
destinati all’attività scolastica. Insieme a Yarl’s Wood,
è poi in via di realizzazione un altro centro di detenzione presso
l’aeroporto di Heathrow, la cui capienza sarà di altri 550 posti
circa. Questi si sommano a loro volta ai 400 di Oakington. Entro la primavera
del 2002 la capienza complessiva dei centri sarà estesa a 2800 persone,
e per raggiungere i 6000 posti nei prossimi due anni.
I centri di permanenza saranno gestiti dalle imprese
leader del business carcerario: Wackenhut, Sodexho, Serco e altre. Si tratta di
aziende specializzate nella realizzazione, nell’“arredamento”
e nella gestione di carceri private. Sicurezza interna, lavanderie,
attività ricreative ed educative, assistenza medica e psicologica: fanno
tutto loro.
Il movimento di privatizzazione del sistema carcerario
e della sicurezza in genere, ormai giunto negli Stati Uniti a livello tanto
avanzato che le prigioni gestite da imprese sono la maggioranza e il personale
di sicurezza privato supera di molto quello dipendente dallo stato, inizia a
penetrare in Europa passando per l’Inghilterra (meglio, passando per i
centri di detenzione temporanea inglesi). I primi tentativi di appaltare ai
privati la costruzione e la gestione delle carceri risalgono al governo
conservatore di John Major, e suscitarono al tempo una decisa reazione da parte
dell’opposizione laburista. I motivi di critica erano semplici, e in
sè ragionevoli: per i privati la carcerazione diventa un affare (i gestori
percepiscono infatti sovvenzioni statali proporzionate al numero di detenuti
presenti), per cui hanno interesse a mantenere nell’istituzione
più individui possibile e il più a lungo possibile. Inoltre il
recupero dei criminali rapprersenta un dovere sociale dello stato che non
può essere delegato interamente ad attori economici. Appena entrato in
carica, l’ex ministro dell’interno laburista Jack Straw confermava
quindi che nessuna nuova prigione sarebbe stata costruita da (o peggio ancora
affidata in gestione a) privati finchè il Labour Party fosse rimasto al
potere.
A pochi anni di distanza scopriamo che neanche uno dei
centri di detenzione per migranti esistenti o in corso di realizzazione in
Inghilterra è gestito dallo stato. Viene da pensare che quelle critiche
valessero solo per le prigioni destinate a rinchiudere coloro che commettono
reati o che sono sospettati di averne commessi. Per coloro invece, la cui
stessa presenza è un reato, per i migranti, il discorso sembra essere
abbastanza diverso.
Durante l’estate 2001, a vent’anni esatti
dai fatti di Brixton, l’Inghilterra ha visto nuovamente materializzarsi
lo spettro del conflitto etnico: a Bradford, a Burnley e a Oldham la
comunità asiatica si è infatti sollevata mettendo a fuoco interi
quartieri, affrontando la polizia per giorni e facendo temere il peggio. Questi
fatti sono stati interpretati, dai politici come dalla gran parte dei
commentatori inglesi, come una reazione tutto sommato comprensibile delle
comunità immigrate alle provocazioni del neofascista British National
Party. Insomma, i gruppi asiatici si sarebbero rivoltati contro quelle
sistematiche ‘incursioni’ nei loro quartieri di cui si erano resi
protagonisti nei mesi precedenti alcuni gruppetti di neofascisti ubriachi e
violenti.
Una lettura che non solo ha permesso al Labour di
“assolvere” completamente le proprie politiche nei confronti della
popolazione immigrata residente e di quella in arrivo nel paese, ma addirittura
di legittimarle e di rafforzarle: più polizia nelle strade dei quartieri
etnicamente diversificati, maggior rigore verso l’immigrazione
clandestina per agevolare l’integrazione di quella regolare, limiti al
numero di immigrati ammessi nel paese per non prestare il fianco a sentimenti
xenofobi. Queste le risposte immediate del Labour ai fatti dell’estate
2001.
Ora, a ribellarsi è stata la fascia di
immigrati che tradizionalmente ha goduto dei ‘migliori’ livelli di
inserimento lavorativo, economico, sociale e familiare in Inghilterra: la
comunità asiatica. Un’immigrazione di lunga data, giunta ormai
alla terza o quarta generazione, nella maggioranza dei casi perfettamente
angloparlante, che ha costruito negli anni reti di relazione e
solidarietà particolarmente forti. Impiegata nel settore dei servizi,
soprattutto nella forma del lavoro autonomo (ristoranti, bar, locali, taxi). Le
sue nuove generazioni accedono in proporzione elevata all’educazione
secondaria e universitaria. E’ una popolazione sistematicamente
sottorappresentata nelle statistiche carcerarie, e tendenzialmente meno colpita
da crimini a sfondo razziale di quanto non lo siano altri gruppi. Insomma, la
comunità immigrata che forse meno avrebbe di che protestare. Ma cosa
succederà quando a sollevarsi sarà invece la comunità
afrocaraibica? Quella comunità i cui tassi di disoccupazione sono i
più alti del paese, i cui giovani sono incarcerati in misura
sproporzionata ai reati che commettono, le cui donne sono state accusate di
fare figli solo percepire i sussidi sociali mandando così in rovina il
generoso sistema di welfare britannico, i cui membri di sesso maschile sono
arbitrariamente fermati e perquisiti dalla polizia, i cui adolescenti subiscono
il tasso di violenze razziste (nelle scuole, nei pub, nelle discoteche e nelle
strade) più alto del paese? Sarà difficile attribuirne la
responsabilità ai gruppetti del British National Party.
Tutte le guerre solennemente dichiarate e
militarmente combattute hanno uno spazio di vita limitato. Iniziano, si portano
avanti e poi cessano, se possibile producendo un vincitore e uno sconfitto. Ma il discorso è molto diverso per
quanto riguarda il versante non militare della guerra in corso. La guerra
all’immigrazione non è mai stata dichiarata esplicitamente, le
ostilità non sono mai ufficialmente iniziate: è per questo che
possono durare all’infinito. Non si tratta di un compito da svolgere, di
una missione da portare a compimento, di un’operazione da concludere,
bensì di un regime da riprodurre indefinitamente. Il regime
dell’inclusione subordinata, dei permessi stagionali e delle carte
d’identità su base etnica, della libertà vigilata e delle
misure paracarcerarie, del lavoro precario e del filo spinato materiale o
immateriale.
Ciò che però non si deve pensare
è che la guerra all’immigrazione, portata avanti
dall’Inghilterra e presto, temiamo, anche dal resto d’Europa, sia
una pura “conseguenza” della guerra in corso alla “minaccia
terroristica”. Al contrario, essa ne rappresenta il vero volto,
l’essenza, la ragion d’essere se si vuole. È a partire dalla
guerra non dichiarata delle città globali, europee e non, contro i loro
ghetti che si può comprendere il senso della guerra dichiarata
dall’Impero alle sue province. Quest’ultima rilancia sulla scena
globale la guerra locale in corso contro i “dannati della metropoli”.
Ma è poi nuovamente qui, nella metropoli che essa ritorna a combattersi,
con accresciuta determinazione, in nome della minaccia terroristica agitata dai
dannati della terra. I tempi sembrano maturi per dire “Not in their name”.
Alessandro De Giorgi
Keele, 14 Novembre 2001