Centro Studi Politica Internazionale -
CeSPI
Fondazione Friedrich
Ebert
DOSSIER
POLITICHE MIGRATORIE E DI COOPERAZIONE
NEL MEDITERRANEO
A cura di Andrea Stocchiero - CeSPI
Club Analisi Strategica Cooperazione
Decentrata - ASCOD
e MIGRACTION con il contributo della Compagnia di
San Paolo
Ministero Affari Esteri
Roma, 26 Ottobre 2001
Indice
Di Andrea Stocchiero – CeSPI
BEST PRACTICES TO FOSTER ECONOMIC GROWTH
AND MANAGE MIGRATION
9
By Philip Martin and Thomas Straubhaar
CREATION D’EMPLOIS ET FLUX MIGRATOIRES ENTRE LE MAROC ET
L’ITALIE : PLACE DE LA COOPERATION DECENTRALISEE 18
De Fouzi Mourji et Fatiha Bouharra
di Ferruccio Pastore - CeSPI
A cura di Lorenzo
Coslovi – CeSPI
A cura del Settore Affari Internazionali e Comunitari della Regione Piemonte
A cura del Servizio Attività Internazionali della Regione Toscana
IL CASO DEL PROGETTO DI RIENTRO ASSISTITO DI
MAROCCHINI
RESIDENTI NELLA PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO 65
A
cura dell’Ufficio Affari del Gabinetto della Provincia Autonoma di
Bolzano
A cura di
Marcello Goletti e Roberto Barbagli – Movimondo
di
Josep-Maria Pallàs – Segreteria per l’immigrazione della
Generalitat de Catalunya
Di Andrea Stocchiero – CeSPI
1. La crisi mediterranea e del Partenariato
Euromediterraneo
L’area mediterranea presenta forti squilibri di carattere sociale ed economico, che sono fonte di flussi migratori. Tali squilibri assumono una forza ancor più dirompente a seguito dei recenti avvenimenti terroristici. Vi è quindi la necessità oramai improrogabile di promuovere efficacemente una convergenza del benessere tra la riva Nord e quella Sud, che dovrebbe favorire una progressiva riduzione dei flussi migratori.
Le politiche adottate a partire dagli anni ’80 per favorire tale convergenza si fondano sulla liberalizzazione degli scambi e dei movimenti di capitale. E’ questa la tesi economicistica tradizionale secondo la quale la liberalizzazione del commercio e degli investimenti rappresenta la strada maestra per stimolare la crescita dei Paesi marginali e quindi nel tempo la convergenza con il tenore di vita dei Paesi più sviluppati[1]. Questo processo riduce le migrazioni di lavoro. Il commercio e i flussi di capitali sostituiscono i flussi migratori.
Questa tesi poggia tuttavia su assunzioni distanti dalla realtà. Non esiste una perfetta sostituibilità tra commercio e migranti[2]. Nel breve periodo la liberalizzazione può generare ulteriori spinte alle migrazioni piuttosto che frenarle[3]. La liberalizzazione può esacerbare e creare nuovi squilibri. Le inerzie al cambiamento del modello di sviluppo e i costi di aggiustamento sono tali che la liberalizzazione può essere rigettata per motivi sociali e politici.
Una seconda tesi che riprende la precedente, cercando di rispondere alle obiezioni, indica nella creazione di spazi regionali una forma di gestione politica e sociale del processo di transizione e in particolare dei costi di aggiustamento, che deve accompagnare lo sviluppo di un’area di libero scambio delle merci e dei capitali. Tutto ciò mantenendo un fermo controllo dei flussi migratori.
L’esperienza dell’Unione Europea è in tal senso significativa. Di qui ad esempio le politiche del Partenariato Euro-Mediterraneo e anche quelle di allargamento verso i Paesi dell’Europa Orientale. Nelle quali, accanto alla liberalizzazione economica e allo stop alle migrazioni, viene costruita una politica di assistenza alla transizione economica e di protezione sociale.
Ma anche in tal caso vi sono obiezioni ragionevoli: il NAFTA, ad esempio, sta generando maggiori squilibri e non convergenza; sono necessari cambiamenti politici ed istituzionali che sono difficilmente appropriabili in contesti diversi; gli effetti di breve periodo sono determinanti in situazioni politicamente e socialmente delicate; sono diversi i fattori che giocano sulle scelte migratorie.
“To conclude, the authors point out that
regional integration can only produce dynamic effects if the reforms that must
accompany any opening up of the economy are accepted politically and socially
… Consequently, one cannot expect the convergence of living standards
within regional groupings to be a sufficient means of controlling migration
flows”[4].
Insomma, la tesi della liberalizzazione cum regionalizzazione può non valere in contesti diversi; i fattori interni ai singoli Paesi sono determinanti nella capacità di sfruttare le opportunità e di gestire i costi di aggiustamento di un’apertura economica regionale. E’ di conseguenza necessario analizzare le situazioni caso per caso, regione per regione.
Un caso a noi vicino di tentativo di regolazione è proprio quello del Partenariato Euro-Mediterraneo, la cui tesi, implicita, è la perfetta sostituibilità delle migrazioni con i flussi commerciali e di investimenti, per cui si contrappone alla chiusura della mobilità delle persone la liberalizzazione delle merci e dei capitali. Ma questa politica non sta funzionando per le resistenze di molti governi dei Paesi del Mediterraneo meridionale (Paesi Med) ad associarsi all’area di libero scambio[5], per la scarsità dei finanziamenti diretti a sostenere le reti di sicurezza sociale e l’aggiustamento industriale, per gli scarsi flussi di investimenti privati nell’area, e proprio perché comunque non vi è perfetta sostituibilità tra commercio e migrazioni. I flussi di capitali esteri, sia privati sia pubblici, verso i paesi Med non sono in grado di sostituire il flusso delle rimesse e quindi l’emigrazione[6].
2. Il rilancio del Partenariato e il ruolo
delle migrazioni per lo sviluppo dei Paesi Med
In assenza di una terza via, il recente rilancio del Partenariato chiede una accelerazione della liberalizzazione delle economie dei paesi terzi e la formazione di nuovi mercati integrati a livello sub regionale.
L’integrazione economica di questi paesi nel mercato internazionale rimane la ricetta fondamentale per il loro sviluppo e quindi anche per la riduzione dei flussi migratori. La storia del XX secolo mostra come la crescita del commercio e degli investimenti internazionali sia stata la strada maestra per favorire lo sviluppo dei paesi emergenti, che in pochi anni si sono trasformati da paesi di origine a paesi di destinazione dei flussi migratori (si veda a tale proposito l’estratto del documento redatto da Thomas Straubhaar e Phil Martin in questo Dossier).
Comunque, è importante evidenziare che se nel lungo periodo la ricetta economica standard sembra funzionare, nel breve e medio periodo la realtà è ben più complessa ed aperta a involuzioni e situazioni di stallo. La continua insufficienza della crescita economica, i costi dell’aggiustamento e l’aumento della forza di lavoro nei paesi Med generano costanti pressioni migratorie.
A ciò si deve aggiungere ciò che in letteratura economica è ben conosciuto come il fenomeno del cosiddetto “migration hump”: secondo il quale anche i processi di ripresa economica producono nel breve periodo non una riduzione ma una crescita del flusso migratorio. Questo perché l’aumento relativo dei redditi delle famiglie dei Paesi emergenti consente una maggiore copertura dei costi di emigrazione. E’ soltanto quanto il differenziale dei redditi viene ridotto in modo sostanziale che diminuisce l’incentivo ad emigrare. Quindi, nei prossimi 10 anni, sia nel caso del persistere della crisi mediterranea sia nel caso di un successo del Partenariato Euro-mediterraneo, ci si può attendere una crescita della pressione migratoria.
Di qui l‘impossibilità di una politica di chiusura della fortezza europea e una relativa maggiore apertura, mostrata recentemente da alcuni paesi europei, a gestire i flussi migratori (si veda a questo riguardo l’analisi di Ferruccio Pastore sulla politica migratoria europea nel documento presentato in questo Dossier).
L’impossibilità della chiusura deriva anche da un’altra importante considerazione. Le migrazioni costituiscono una risorsa fondamentale per gli investimenti e i consumi dei Paesi Med grazie al trasferimento delle rimesse. Le rimesse sono la principale fonte di finanziamento in valuta pregiata delle importazioni di beni e servizi necessari per lo sviluppo dei Paesi Med. Beni e servizi che peraltro vengono acquistati soprattutto nei mercati europei.
Come si può apprezzare nella tabella seguente, le rimesse sono più importanti degli investimenti diretti esteri e dell’aiuto allo sviluppo. Sembra quasi paradossale rilevare la maggiore efficacia – per finanziare le economie dei Paesi Med - di una politica che accresca il flusso delle rimesse e che quindi preveda misure di maggiore apertura all’immigrazione, piuttosto che delle attuali politiche di promozione degli investimenti e di cooperazione allo sviluppo.
Tabella - Confronto dei flussi delle rimesse,
dell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) e degli investimenti diretti
esteri (IDE) in Egitto, Marocco e Tunisia (in milioni di dollari)
|
Egitto |
Marocco |
Tunisia |
|||
|
1992 |
1995 |
1992 |
1995 |
1992 |
1995 |
Rimesse |
5.430 |
3.417 |
2.147 |
1.890 |
563 |
659 |
APS |
3.602 |
2.022 |
360 |
496 |
88 |
71 |
IDE |
455 |
505 |
390 |
278 |
521 |
259 |
Fonte: IMF e
DAC-OCSE
Le rimesse rivestono una grandissima rilevanza per la stabilità sociale, economica e politica dei Paesi Med. Si può quindi ben intendere il rifiuto di questi Paesi ad accettare misure di chiusura dei mercati del lavoro europei e a concordare piani di ritorno degli emigrati.
A ciò si deve aggiungere, come si vedrà tra breve, che l’impossibilità di una chiusura deriva anche da una domanda di lavoro che si scopre consistente nei nostri distretti industriali e nelle aree metropolitane, e a cui risponde adeguatamente l’offerta flessibile degli immigrati.
In questi ultimi anni è quindi tramontata la politica della chiusura ai flussi migratori. Piuttosto si cercano nuove misure per una gestione controllata delle migrazioni e per rilanciare un co-sviluppo dell’area mediterranea. In questo quadro risultano ancora insufficienti le iniziative volte a valorizzare direttamente le risorse e le capacità dei migranti al fine dello sviluppo dei paesi di origine.
3. Migrazioni e internazionalizzazione
Il CeSPI con il programma di ricerca triennale “Circuiti economici e circuiti migratori nel Mediterraneo” ha affrontato la questione della valorizzazione dei migranti in una politica di co-sviluppo[7]. Obiettivo centrale di questa politica è lo sviluppo dei mercati dei Paesi Med e in particolare dell’industria e dell’occupazione. Oltre il 90% del tessuto imprenditoriale di questi paesi è costituito da micro e piccole imprese. Ne deriva l’evidenza della necessità di partire dal rafforzamento e dalla crescita di tale tessuto[8].
Nel quadro delle politiche, ancora insufficienti, che si stanno adottando per lo sviluppo della micro e piccola impresa, è possibile con un approccio territoriale identificare alcune forze reali, sociali ed economiche, che possono essere i vettori della convergenza euro-mediterranea. La politica di cooperazione acquista maggiore impatto e sostenibilità se sostiene le dinamiche “naturali” dell’integrazione. Dinamiche che sul versante dei Paesi Med poggiano sulle micro e piccole imprese, sul versante italiano si rifanno alle forze che caratterizzano il nostro sviluppo, i distretti industriali, e nel mezzo si fondano sulla connaturata transnazionalità dei migranti.
Nelle ricerche realizzate è emerso un parallelo interessante tra le catene migratorie e le reti lunghe dell’internazionalizzazione dei distretti industriali italiani[9]. Così come i migranti seguono in modo cumulativo delle rotte prestabilite da alcuni pionieri e così facendo rafforzano le relazioni tra alcuni territori di origine e alcuni territori di destinazione, così l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese italiane segue delle piste tracciate da alcune imprese leader. Nel tempo queste imprese si coagulano e si installano in gruppi in determinati territori dei Paesi Med.
Esistono alcuni casi di mobilità del capitale e del lavoro tra territori italiani e dei Paesi Med ( in particolare con Tunisia e Marocco nel settore del tessile-abbigliamento e delle calzature), che stanno organizzando nuove divisioni della produzione, integrando i relativi mercati del lavoro.
Recenti ricerche evidenziano l’importanza della transnazionalità dei migranti, i quali mantengono forti relazioni con le città e i villaggi di origine, che implicano anche scambi e investimenti[10]. A ciò si deve aggiungere una maggiore mobilità e circolarità dei flussi. I minori costi di trasporto e la disponibilità delle nuove tecnologie di comunicazione facilitano e rendono più densi i rapporti. Si incrementano i flussi di immigrazione temporanea[11], i movimenti pendolari di andata e ritorno, favoriti dalla prossimità geografica. Questa mobilità risponde alla maggiore domanda di flessibilità nel mercato del lavoro.
Attraverso questa maggiore facilità alla transazionalità aumentano le possibilità di un contributo positivo dei migranti allo sviluppo del proprio paese di origine. A questo proposito, una ricerca del CeSPI[12] ha messo in rilievo come in Tunisia su un campione di 4000 aziende più importanti in termini di capacità competitiva, ben 136 siano state create da emigrati con un’occupazione media di 61 addetti (su dati dell’Agenzia per la Promozione dell’Industria tunisina). Gli ex emigrati intervistati evidenziano l’importanza della loro esperienza lavorativa nei paesi europei e la persistenza delle relazioni con questi paesi (che spesso rappresentano i mercati per le loro produzioni). Questi migranti sono tra gli imprenditori più moderni: introducono innovazioni tecniche, comprendono e applicano gli strumenti del marketing, si mantengono aggiornati.
La forte caratteristica territoriale delle migrazioni e dell’internazionalizzazione dei distretti industriali chiama inoltre in causa il ruolo dei governi locali. Le Regioni, Province e Comuni italiani sono chiamati a co-gestire questi fenomeni pena una subalternità che li può portare ad una passiva amministrazione delle emergenze (i costi della delocalizzazione “selvaggia” e dell’insufficiente integrazione dei migranti) . Viceversa, i governi locali dovrebbero acquisire capacità di concertazione e sostegno delle dinamiche di co-sviluppo.
L’internazionalizzazione e la migrazione producono dunque una sub-regionalizzazione “naturale” che potrebbe costituite uno degli assi portanti dell’integrazione euro-mediterranea. Si è costituita una serie di partenariati “naturali” tra territori italiani-europei e dei paesi Med. Ma finora questo processo si è prodotto spontaneamente, al di là dei piani politici, e i partenariati naturali risultano comunque ancora pochi e deboli.
4. Dal Partenariato Euromediterraneo a una pluralità di Partenariati territoriali euromediterranei
Il ruolo più importante della politica di cooperazione consiste nel catalizzare e appoggiare le forze sociali e produttive verso dinamiche e su pratiche di forte impatto per l’integrazione sociale ed economica. E a questo proposito la cooperazione decentrata presenta un alto valore aggiunto.
Nel caso dei rapporti euro-mediterranei, la cooperazione decentrata può avere un ruolo molto importante nel promuovere, sostenere e moltiplicare i partenariati “naturali” suddetti. Un sostegno che deve trovare un quadro e un appoggio a livello della cooperazione governativa italiana e dell’Unione Europea. Non solo dal punto di vista finanziario, quanto soprattutto nella definizione di nuove politiche con i Paesi Med per un maggiore rafforzamento del tessuto delle micro e piccole imprese, del deconcentramento e decentramento politico, del ruolo dei migranti (si veda a tale proposito il documento di Fouzi Mourji sul caso del Marocco).
Si potrebbe quindi concepire il Partenariato EuroMediterraneo come una infrastruttura politica macro che potrebbe essere riempita da una pluralità di Partenariati territoriali euromediterranei. Facendo leva sulle risorse e capacità locali dei Paesi Med rafforzate dalle conoscenze e dalle capacità dei sistemi territoriali italiani ed europei. A tale riguardo si vedano le indicazioni di Fouzi Mourji e, ad esempio, le iniziative portate avanti dalla Regione Piemonte e Toscana presentate nel Dossier.
Questi partenariati dovrebbero essere tuttavia rafforzati dal livello centrale su iniziative di investimento locale in progetti produttivi, di creazione di reti di sicurezza sociale, di realizzazione di infrastrutture essenziali. Si dovrebbero mobilitare maggiore risorse finanziare per offrire non solo assistenza tecnica quanto veri e propri investimenti per lo sviluppo.
E’ in questo quadro che dovrebbero essere considerate le iniziative di valorizzazione delle risorse e delle capacità dei migranti, con una valutazione attenta delle condizioni di successo o di fallimento. Come è evidenziato nel documento di Thomas Straubhaar e di Phil Martin i questo Dossier, i risultati più positivi ai fini dello sviluppo dei paesi di origine dei migranti e della creazione di occupazione vengono dalle politiche commerciali e industriali. Molti dubbi sorgono invece sull’efficacia delle misure dirette a massimizzare le 3 R, ovvero gli effetti delle rimesse, dei ritorni e dei reclutamenti.
Le azioni sulle 3R possono avere maggiore se impatto se concepite dentro partenariati e programmi di cooperazione. Un progetto di ritorno a sé stante ha poche probabilità di successo. Se invece il ritorno volontario risulta essere parte di un processo più complessivo di co-sviluppo, integrato in altre azioni di investimento, allora i risultati possono essere positivi. Allo stesso modo, la valorizzazione delle rimesse può avere un maggiore impatto sullo sviluppo locale dei paesi di origine se integrata in programmi di rafforzamento delle iniziative di villaggio o in fondi di investimento.
Si avanza infine una proposta affinché la cooperazione italiana (Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo) definisca e sostenga una linea di appoggio alla creazione e moltiplicazione di partenariati territoriali euromediterranei. Un programma che può fare riferimento alle positive esperienze comunitarie tipo ASIA-URBS e AL-URBS (a cui peraltro partecipano numerose Autonomie Locali italiane), e che preveda cofinanziamenti di partenariati territoriali da parte di reti composte da 3-4 Autonomie locali italiane con 1-2 Autonomie locali dei Paesi Med su progetti di investimento sociali e produttivi. Si stabilirebbe in questo modo una metodologia comune nella quale ordinare e valorizzare la ricchezza e la varietà della cooperazione decentrata. Questa iniziativa dovrebbe inoltre stimolare la Commissione Europea a rilanciare il programma MED-URBS.
In conclusione, si ricorda che il co-sviluppo richiede una coerenza e complementarietà tra politica di cooperazione e politica sulle migrazioni. Se la politica di cooperazione intende sostenere il ruolo attivo dei migranti, la politica migratoria dovrebbe evitare eccessive rigidità e semmai prevedere percorsi per valorizzare la transnazionalità dei migranti, garantendo il rispetto dei diritti dei lavoratori e del diritto ad intraprendere.
Per questo il CeSPI sta avviando un nuovo programma di ricerca denominato “Migraction” che intende analizzare il processo di comunitarizzazione delle politiche migratorie europee e la loro complementarietà con le politiche di cooperazione rivolte alla valorizzazione delle risorse e capacità dei migranti. Una parte del programma prevede il monitoraggio della cooperazione decentrata su questi temi per l’individuazione di elementi di proposta.
BEST PRACTICES TO FOSTER
ECONOMIC GROWTH AND MANAGE MIGRATION
By Philip Martin and Thomas Straubhaar[13]
There are two broad approaches to
foster wanted migration and reduce unwanted migration in the 21st
century. Wanted migration can be fostered through immigration policies that are
transparent and widely advertised, and programs that facilitate selective
migration for everything from study abroad to selective migration to fill jobs
in particular sectors, from IT to nursing. More broadly, migration can be
encouraged by facilitating trade in services; encouraging contracting between
firms in different countries in which the poorer country supplies goods,
services, and workers; and by the harmonization of licenses and standards to
facilitate the movement of professionals.
Unwanted migration can be reduced by
accelerating economic and job growth so that people are not encouraged to
migrate across borders for economic reasons. There are two major approaches:
1.
Maximizing
Migration Payoffs: policies and programs that maximize the development
payoff of migration by ensuring that the 3 R’s of recruitment,
remittances, and returns create the maximum number of jobs, and
2.
Making
Emigration Unnecessary. trade,
investment and aid policies and programs that make emigration from a region
unnecessary.
In this memo, we outline both
approaches in order to contrast them with intervention, or using non-economic
means to prevent unwanted emigration.
1. Maximizing Migration
Payoffs: the 3 R’s
Exporting labor is a major source of
foreign exchange from Albania to Zimbabwe. Countries that export labor have
three major channels through which they can influence recruitment or who
emigrates, the amount and use of remittances, and the activities of returned
migrants.
There has been a revolution in how
researchers think about migration decision making. Most people live in family
units, and family considerations can play important roles in migration
decisions, an insight that is at the core of the so-called new economics of
labor migration (NELM). The "new economics of migration" recognizes a
variety of reasons for migration:
· migration may represent an effort to
“keep up with the neighbours”--if migrant families have better
homes and TVs, then non-migrant families may be motivated to send a migrant
abroad to earn money to overcome their
relative deprivation (Stark and Taylor, 1989, 1991).
· missing services and markets. Many
Mexican migrants to the US are from farm families that depend on the rain to
produce a crop. There is typically
no crop insurance available to provide an income if the rains do not come and
crops fail, so the US labor market can serve as a means of reducing the risk of
having no income when there is no rain in Mexico (Taylor, 1986).
· migration can overcome a local
credit obstacle to development, as when banks are reluctant to lend money to
farmers who own land communally rather than individually. In some cases, farmers who want to buy
new machines migrate to obtain the capital they need to purchase these items.
Labor markets in host or receiving
countries largely determine who migrates, whether professionals or unskilled
workers, but if labor migration is largely legal and done so that the sending
country government plays a role in migrant selection, the sending country can
influence who emigrates. Private
recruitment often selects the best workers from an area, that is, younger,
often employed, and ambitious workers, often from areas with the best access to
transportation abroad. Turkey tried to work against the incentives of German
employers to recruit in the western part of the country—the Turkish
government favored the emigration of workers from the center and eastern parts
of the country, and attempted to prevent Black Sea miners from emigrating.
Once a migration flow is
established, a network can be created that links cities or villages in the
sending nation to labor markets in the receiving nation. These networks can
become valuable assets for families and areas because they control access to
jobs abroad that pay 5 to 10 times prevailing local wages. As networks mature, the cost of
migration falls, and potential migrant workers often offer to pay for the
privilege of working abroad at these higher wages, which can lead to fees and
bribes.
If official recruitment is
centralized in major cities, recruitment offices may attract internal
migrants. There is typically a
surplus of migrant job seekers, and the presence of a foreign labor recruitment
office may generate a local day-labor market offering jobs to workers who are
waiting to become migrants. If recruitment is "unofficial," i.e., the
migration is private and often illegal, then the job network becomes a
semi-public asset of the village whose "pioneers" are or have been
working abroad. Such networks are semi-public in the sense that migration
information spreads throughout the village, so that villages in very similar
economic circumstances can send very different proportions of their able-bodied
male workers abroad because of their differential access to such a network.
There is no consensus on the optimal
migrant recruitment mechanism because there is little agreement on the proper
roles of the various parties: governments, employers, and migrants. At one extreme are those who argue that
international labor migration should be regulated by government-to-government
agreements, and that labor-receiving nations sensitive to the needs of sending
nations should permit the sending nations to regulate recruitment as it sees
fit.
At the other extreme are foreign
employers who prefer to hire the “best migrant workers,” even if
this means "creaming" the sending nation's work force and leaving
behind “shortages” of key personnel that lead to production
bottlenecks. Much of the
in-between discussion focuses on whether and how to regulate public and private
migrant recruitment agencies, what fees or taxes should be levied on migrants
and for what purpose the monies raised are used, and what selection mechanism
should be used to pick migrants (e.g., should the government use a point system
that favors an unemployed person from a poor area or take points away from
potential migrants with "critically needed" skills). In practice, few sending nations have
enough labor market information to operate a sophisticated migrant queuing
system.
Remittances are the raison
d’étre of temporary labor migration. At the macro level,
remittances are a source of hard currency for emigration countries than can be
used to purchase needed foreign components and supplies, spent locally to
generate jobs, or taxed by the sending country government. At the micro level, remittances improve
the economic welfare of individual migrants and their families, providing extra
money for daily living, the purchase of consumer durables, and investments in
better housing, farm land or machinery, and/or a small business. Remittance levels are often maintained
over time because the settlement abroad that encourages migrants to remit less
may be offset by higher earnings that enable migrants to remit more.
During the 1960s, it was often
assumed that remittances and the return of workers with skills acquired abroad
would turn emigration areas into boom areas that no longer exported
workers. Remittances and returns
rarely led to an economic take off, and the remittance-development literature
of the 1970s that hoped for such an outcome has a negative tone. There is, for example, discussion of
migrants spending remittances nonproductively, on imported consumer durables
and cars rather than local goods, so that the job-creation multiplier effect of
spending remittances was minimal. Remittances were sometimes used to speculate
on and thus inflate land and housing as well as bride prices, bride prices,
which critics said simply shuffled funds from one person to another without
creating jobs. Indeed, there was
much discussion of remittances unsettling previously non-migrant areas, as when
non-migrants became worse off because they could not afford to buy land or pay
bride prices.
The major lesson from the literature
is that remittances are not an external pump that primes an area for an
economic take-off. Indeed,
remittances flowing to emigration areas often wind up producing what John
Kenneth Galbraith called "private affluence and public squalor," or
new homes reachable only over dirt roads. What is clearly needed is some way of
harnessing some fraction of the remittances in order to develop the
infrastructure that can help a region develop economically.
Returns are the third major
parameter of labor migration. Many
sending and receiving governments expect "100 percent"
returns—the aim of guest worker programs is to add workers temporarily to
the labor force, not settlers to the population. Many migrants return as expected, and the question is how to
maximize the development impacts of returned migrants.
Migrants going abroad for the first
time are typically in the 18-35 age range, often with skills and often
employed. In the case of Turks
recruited to work in Germany, a typical migrant in 1970 was a 25 years old
skilled worker (carpenter etc) or a farmer with less than six years education,
but who was often more ambitious than farmers who did not migrate. Many of these Turkish migrants stayed
abroad only 1 to 3 years, but many stayed for 10 to 20 years, and returned with
savings of $10,000 to $30,000.
One expectation was that returned
migrants with experience in German factories would become highly productive
workers in Turkish factories. This
rarely happened, as returned Turkish workers reported that they were
“tired” after working 10 or more years in Germany, or returned
migrants opened retail shops or operated trucks or taxis with vehicles
purchased from earnings abroad. In
rural villages in the 1960s and early 1970s, emigration was a surer path to
upward mobility than education, which was often not readily available. If they
returned to their villages of origin, almost all returned migrants built modern
(concrete) houses; instead of returning to villages, some returned to nearby
cities, accelerating urbanization.
The overall impression left by
studies and interviews with returned migrants is that a person should work in
Germany and live or take leisure in Turkey, that is, many migrants were not
interested in jobs in Turkey that were similar to what they had in Germany.
2. Making Emigration Unnecessary: Trade, Investment and Aid
Immigration countries have three
major economic instruments available to cooperatively work with transit and
labor sending nations to reduce unwanted migration: trade, investment, and aid:
· Trade policies affect the
competitiveness of an emigration and immigration country products, and
employment in the export and import sectors of both sending and receiving countries.
· Foreign direct investment (FDI) can
provide the funds, technology, and management expertise that can increase the
number of jobs in emigration countries.
· Aid can enable transit emigration
countries to undertake economic and investment policies that would otherwise be
unattainable.
There is also a fourth policy--political and
military intervention --that helps to put the economic instruments in
perspective.
The policies with the best track record to
accelerate so-called stay-at-home economic and job growth involve freeing up
trade and facilitating FDI; aid has a very mixed track record. However, the actual effects of trade
and investment on emigration depend on several factors, including the size of
wage and job opportunity differences between the economies being integrated by
freer trade and investment, the dimensions of the pre-existing migration
relationship, and the extent to which economic integration restructures the
economy and displaces workers.
Thus, the size and duration of the migration hump will be larger:
· if the economies being integrated have income gaps of five or more, that
is, average per capita income in one country is four or five times higher than
in the other,
· if there are established migration networks between them, and
· if supply-push emigration pressures increase as a result of economic
restructuring.
In the worst case scenario, migration can
increase temporarily with closer economic integration, producing a migration
hump, that is, the same policies that reduce migration pressures in the
longer-term can increase migration in the short term. There was probably a migration hump between Mexico and the
US in the 1990s, a result of all three factors facilitating migration being
present:
· Mexico-US wage gaps were 1 to 8, and widened in
the mid-1990s
· Migration networks were strengthened in the
1980s and 1990s by legalization and the evolution of migrant smuggling infrastructure
· Economic restructuring increased displacement
from agriculture and layoffs
There is no generally agreed upon measure of
the “emigration pressure” or number of migrants from a particular
country. Efforts to measure
emigration pressure generally suggest it is higher in e.g. Dominican Republic
then Costa Rica, and higher in Turkey and Romania then Hungary.
Reducing emigration pressure depends on
policies adopted in emigration, transit and immigration countries, with the
most important actor being the emigration country—it s policies largely
determine how fast the country grows, and thus how quickly economic and job
growth reduce emigration pressures.
Policies of immigration countries can, at the margin, accelerate or
retard the adoption and effectiveness of "correct" economic policies,
but the solutions to emigration pressure lie mostly within emigration
countries.[14] In thinking about how to reduce emigration
pressures, it is important to remember:
· Establishing credibility--developing countries
that change their economic polices often have a credibility gap, so that simply
announcing new policies may not convince local and foreign investors that the
new trade and investment policies will continue to be followed.
· Establishing certainty--investors crave
certainty, which is why they want new trade and investment regimes such as
NAFTA locked into place with international agreements so they cannot easily be
undone.
· Patience—development is a slow process,
and economic policies that indirectly reduce emigration pressures need time to
work.
Governments trying to reduce
emigration pressures have four types of control instruments at their
disposal: trade, investment, aid,
and intervention. Trade and investment
tend to be undertaken by private actors rather than governments, and their
migration-reducing effects are sometimes not noticeable for decades. Aid and intervention, on the other
hand, are typically under the direct control of governments, and can have
significant short-term effects.
Trade is the production of a good in
one country for sale or use in another.
Trade is the closest thing to a free lunch in economics--if goods are
produced where it is cheapest to make them, and then traded for other goods
that can be produced cheaper in other locations, most people in both areas are
better off. Trade affects the
location and cost of producing goods-- trade policies affect the
competitiveness of an emigration country’s products, and employment in
the export and import sectors of both sending and receiving countries.
The world’s exports ($5.2
trillion) and imports ($5.4 trillion) of goods in 1998 totaled $11.5 trillion,
equivalent to over one-third of the world’s GDP. In addition, exports
($1.3 trillion) and imports ($1.3 trillion) of commercial services totaled $2.6
trillion. The US runs a deficit in
goods trade, exports were $943 billion in 1998, imports were $642 billion, leaving a goods deficit
of $261 billion, and a surplus in services trade, exports were $240 billion in
1998, imports were $166 billion,
leaving a surplus of $74 billion.
Turkey has a similar trade picture: the goods trade deficit is $19
billion, reflecting $46 billion in imports and $27 billion in exports. Turkey exported services worth $23 in
1998, and imported services worth $9 billion, for a $14 billion services
surplus.
Economically-motivated migration
should decrease in a free trade world because of factor price equalization, the
tendency of wages to equalize as workers move from poorer to richer
countries. In the terms of economic
theory, this means that trade and migration are substitutes--countries that
have relatively cheaper labor can export labor-intensive goods or workers. Over time, differences in the prices of goods and the wages
of workers should be reduced with freer trade, reducing emigration pressures.
The truth of this common sense
proposition has been borne out over the past 150 years on both sides of the
Atlantic. For over a century,
Europeans migrated to North America, until restrictive legislation in the 1920s
almost stopped the flow. When
European growth rates in the 1950s and 1960s rose above US growth rates, the
gaps in wages and incomes across the Atlantic narrowed, and migration across
the Atlantic slowed even when the United States reopened opportunities for
migration. A similar story of
narrowing wage and income gaps helps to explain why labor migration between
southern European nations such as Italy and Spain and northern Europe has
virtually stopped despite the right of Italians and Spaniards to live and work
anywhere in the European Union.
Trade theory emphasizes what
economists term comparative statics, before and after snapshots of the
economy. Economists typically
compare comparative static equilibria, and devote less attention to the processes
of adjustment, to studying what happens during the years or decades between
economic integration and the slowing or stopping of economically-motivated
migration stops. It is during this adjustment period that there can be a
migration hump, or a temporary increase in emigration. The migration hump
reflects the fact that economic restructuring often displaces workers and
promotes rural-urban migration, so that a country on the move economically may
also be awash with internal migrants, some of whom spill over its borders if
there is already an established international migration pattern exists.
Thus, comparative static or snapshot
analysis promises less migration after closer economic integration, despite the
possibility of a migration hump during the period of adjustment. Most analysts conclude that the promise
of less migration in the longer term offsets any short-term increase in
migration; they thus endorse freer trade policies. The final report of the Commission for the Study of
International Migration and Cooperative Economic Development reached the same
conclusion, arguing that "expanded trade between the sending
countries and the United States is the single most important remedy"
for unauthorized Mexico-to-US. migration” despite the likelihood that
"the economic development process itself tends in the short to medium term
to stimulate migration."
(1990, p. xv-xvi, emphasis added).
The migration hump can be relatively
smaller and shorter-lived if immigration and emigration countries cooperate to
accelerate the pace of job creation in emigration countries. However, this is rarely the case. Many immigration countries maintain
trade barriers to the products in which emigration countries have a comparative
advantage, including labor-intensive fruits and vegetables and garments and
footwear, leading to aphorisms such as “the EU makes it far easier for
Polish workers than for Polish pork to enter.” Many countries impose
tariff and non-tariff barriers on commodities that could employ many potential
migrants at home, from sugar and tobacco to fruits and vegetables, and from
clothing to footwear, in order to protect domestic industries that in many
cases cannot find local workers to fill often seasonal and low-wage jobs. Freeing up trade in such labor-intensive
commodities would simultaneously increase the demand for labor in
migrants’ areas of origin, and reduce the demand for labor in immigration
destinations.
An economy can grow faster if there
is investment in machinery, education, and infrastructure that makes workers
more productive; an investment is thus a commitment of monies today that are
expected to generate a return in the future. The monies for investment can come from domestic savings, or
from savers in other countries whose savings are invested abroad, i.e., foreign
investment. There are many types
of investments, but the investment most likely to spur economic and
productivity growth is “direct investment--the commitment of local
private savings to build factories and other enterprises in emigration
countries. The "East Asian
miracle" was built on largely on the investment of domestic savings;
foreign direct investment played a critical but only supporting role in the
Asian “miracle” of rapid economic growth.
There are two major types of private
investment in emigration countries: foreign direct investment (FDI) and
portfolio investment. FDI is a
private investment that usually results in the building of a factory or work
place in a country outside that that generated the savings; imported savings in
the form of FDI are often accompanies by the importation of both managers and
equipment. Foreign portfolio
investment, by contrast, is typically the use of savings in one country to
purchase stock in a company based in another country. Firms can use the proceeds of stock sales to modernize and
expand, thus creating jobs.
Private capital flows to developing
countries around the world became much more important in the 1990s, leading the
World Bank to conclude that they are “single-largest and most stable
source of long-term development finance for developing countries.” The
World Bank estimates that net private capital flows to low- and middle-income
countries rose from $43 billion in 1990 to $268 billion in 1998, with almost
half these private capital flows in 1998 going to Latin America. Most net
private capital flows were FDI—FDI was $171 billion world wide in 1998,
including $69 billion in Latin America.
FDI is driven by expected profits,
not reducing emigration pressure, and much of the world’s FDI goes to
countries that are net immigration rather than emigration areas, such as
Singapore and Malaysia. Indeed, if FDI as a percent of GDP is measured vertically
on the Y-axis, and per capita GDP is measured horizontally on the X-axis,
countries form a C-shaped distribution, with Singapore ($19,900 per capita GDP
in 1993) and Malaysia ($3,100) attracting FDI equivalent to 6 to 10 percent of
GDP,[15] while Sweden ($24,700 per capita
GDP in 1993) exports FDI equivalent to 6 percent of its GDP (Lucas, 1995, 21).[16] Countries such as Mozambique ($90 per person per year in
1993), Pakistan ($400), or the Philippines ($850) attracted relatively little
FDI as a percent of their GDPs in the early 1990s.
There is often a clustering or
economies of scale effect of FDI. Contrary to the usual analysis in which an
increase in the supply of something (capital) lowers its price, there may be
increasing returns to additional FDI, at least over a certain range. For example, the availability of a pool
of electronics engineers and assembly workers in a country such as Malaysia can
make the return on an electronics investment there higher than in Bangladesh,
which has much lower wages, but also fewer positive spill over effects from
past investments in electronics manufacture and fewer skilled workers. This is
the reason why many analysts conclude that FDI tends to flow to countries that
have or are turning the corner toward being net immigration areas rather than
emigration areas, e.g. the Czech Republic and Hungary in 2001.
Multinationals play a special role
in both FDI and trade. Two-thirds
of the world's trade is between affiliates of the world's 40,000 multinational
businesses, and half of the trade engaged in by multinationals is between
affiliates of the same company.
Official Development Assistance
(ODA) are monies granted by one country to assist the development of
another. In 1998, the OECD nations
that are members of the Development Assistance Committee provided $52 billion
in ODA, down from $59 billion in 1995, and $53 billion in 1990.[17] Almost 70 percent of ODA was provided by four countries in
1998: Japan ($11 billion), the US ($9 billion in 1993), Germany ($6 billion),
France ($6 billion), and UK ($4 billion).[18] The OPEC nations have sharply reduced their ODA--they
provided $6.9 billion in 1990, with Saudi Arabia providing over 2/3 of OPEC
aid, but less than $1.5 billion in 1993.
Many industrial democracies have
pledged to provide ODA equivalent to 0.7 percent of GDP, but in 2000, ODA was
0.24 percent of industrial countries’ GDP.
The ILO and UNHCR in 1992 undertook
a major project to investigate the capacity of ODA to minimize unwanted
emigration (Böhning and Schloeter-Paredes, 1993). The premise of the research was that donor
nations already condition ODA on recipient country behavior, encouraging
recipient nations to adopt the "right" policies in areas that range
from environmental protection to respect for human rights. The ILO-UNHCR thus asked this question:
if donor nations wanted to use ODA to reduce
unwanted emigration pressures, both refugees, and economically motivated
migrants, how should they change the volume, form, and aims of their aid?
The conclusions of experts consulted
by the ILO and UNHCR depended on whether they were studying refugees or
economic migrants. Those who
focused on the conflicts that produced refugees in the 1970s emphasized that
aid often intensified and sustained the conflict under review and thus led to
more rather than fewer refugees, that is, aid was as likely to increase as to
reduce refugee flows. These
contributors urged the expansion of policies to reduce the number of
refugees—in addition to relief and resettlement, they argued that
refugee policies should be expanded to reconstruct homelands in order to
encourage repatriation, and that a new emphasis be placed on policies
that reduce the root causes of refugee-producing conflicts.
Repatriation, in turn, is easier if homes and workplaces devastated by conflict
are made safe and reconstructed with international assistance.
The experts dealing with the role
that aid can play to reduce economically-motivated emigration were even more
explicit about the need for larger sums, for the need to tie ODA to economic
policy reforms in recipient countries, and for donor countries to recognize
that their choice is not aid or trade but aid and trade. Several lamented
the restrictions on trade in farm commodities and garments, and concluded that
perhaps the single most important "aid" that industrial countries
could provide to emigration nations is to implement freer trade in the types of
goods that emigration countries have a comparative advantage to produce.
Most of the economists in the early
1990s were pessimistic that development and trade regimes leading to export-led
development would in fact be launched and maintained in emigration countries
from the Philippines to Tunisia to El Salvador.
There was more agreement on how to
change the use of aid than on how to get more aid flowing from rich to poor
countries. Most experts endorse
the 1980s and 1990s change in the focus of aid, from funding mega
infrastructure projects to supporting basic human needs, such as education and
health care for women and girls.
Instead of simply building a dam to provide farmers with irrigation
water, donors began to realize that their aid will do more to accelerate
stay-at-home development if it is used to help get agricultural policies and
prices right.
There have been several efforts to
increase ODA. The UN's Social Summit in Copenhagen in March 1995 heard an
appeal from the Group of 77-- 130 developing nations--for more aid, and for the
aid to be used according to a 20-20 formula--20 percent of the aid provided by
donor countries would be earmarked for basic human needs such as schools and
hospitals, and recipient countries would also commit 20 percent of their own
governmental expenditures to basic human needs. However, implementing the 20-20
formula proved to be difficult, and the current plea is for debt relief—writing
off the debts run up by the most indebted developing nations.
Trade, investment, and aid policies
that seek to stimulate economic growth and reduce emigration pressures remind
one why economics is sometimes called the dismal science--it is very hard to
help emigration countries and leave no migration-increasing side effects. Freer trade may increase imports before
exports rise, producing a trade deficit that leads to devaluation’s and
contributing to a migration hump.
The multinationals associated with FDI tend to use imported components,
so that breaking up local monopolies and attracting FDI can increase imports,
encourage the use of capital-intensive production techniques, and stimulate
exports, all without increasing the net number of jobs. Finally, aid in the form of infrastructure can have the perverse
effect of stimulating emigration, as when better roads meant to help farmers to
market their crops permit cheap imported food to reach even the countryside,
destroying jobs and stimulating emigration.
This sobering picture should not
deter immigration countries from adopting, and cooperating with emigration
countries to adopt, economic policies that have the proven ability to speed up
economic growth. Immigration
countries should be comforted by how little--not how much--wage and job gaps
must be narrowed to deter migration.
Experience suggests that, after wage gaps are narrowed to 4 or 5, and
more rapid economic and job growth in the emigration area creates the
widespread expectation that economic differences will continue to narrow,
economically-motivated migration practically ceases.
Intervention
One alternative to slow but steady
economic progress is intervention. Intervention means that an immigration
country interjects itself, politically or militarily, into the affairs of an
emigration country to head off emigration. The US experience in Haiti since 1994 highlights the fact
that trade, investment, and aid are far cheaper and surer ways to reduce
emigration pressure than military intervention.
Haitians began leaving their country
in small boats for the United States in the 1970s. Beginning in 1981, Haiti allowed the US Coast Guard to stop
boats in Haitian and international waters to determine whether they were
carrying Haitians unlawfully to the United States. Under US policies in effect in summer 1994, boats determined
to be carrying Haitians unlawfully to the US were forced to return to Haiti
without the individuals on board having the opportunity to make an application
for asylum.
This policy of returning Haitians
who wanted to apply for asylum to Haiti without allowing them to file asylum
applications was widely criticized. On June 16, 1994, the US announced that
henceforth Haitians picked up at sea by US ships would be eligible to present
to US asylum officers on board US ships evidence that they face persecution in
Haiti. The number of Haitians
picked up at sea increased--some 11,627 Haitians were picked up by the US Coast
Guard during the next three weeks.
About 30 percent were found to have a credible fear of persecution and
were brought to the US to make formal claims; 70 percent were returned to
Haiti.
On July 5, 1994, US policy changed
again--now Haitians picked up at sea were sent to the US base at Guantanamo
Bay, Cuba to apply for asylum. If
they were deemed in need of safe haven, they were kept in safe haven in
Guantanamo or elsewhere, but not taken to the US. This
safe-haven-outside-the-US policy dramatically reduced the number of Haitians
picked up by the US Coast Guard—the number of Haitians intercepted at sea
fell from 1340 over one weekend to none a week later. By mid-July, 1994, there
were 16,500 Haitians at Guantanamo, and a few hundred began to trickle back to
Haiti after they learned that, even if they could prove they needed safe haven,
they would not be going to the US.
On July 31, 1994, the UN Security
Council approved the use of force to restore President Aristide to power. On September 18, 1994, with American
planes in the air as part of Operation Restore
Democracy, Haitian leaders resigned, and the US invasion of Haiti was called
off.
This intervention to stem migration
has been costly and ineffective. Some 21,000 Haitians were picked up at sea by
US ships between January and August 1994; 14,000 were being held in Guantanamo
in September 1994. The US military
presence in Haiti cost about $140 million a month—Haiti’s GDP was
only $1.5 billion in 1994, so 11 months intervention cost the equivalent of
Haiti’s GDP. Between 1994 and 2000, the US spent $2.4 billion in Haiti,
including $746 million since 1995. The State
Department's special Haiti coordinator, Donald Steinberg, in 2000 told a
US Senate committee that "the record has been decidedly mixed."
CREATION D’EMPLOIS ET FLUX MIGRATOIRES
ENTRE LE MAROC ET L’ITALIE : PLACE DE LA COOPERATION DECENTRALISEE
De Fouzi
Mourji[19]et Fatiha Bouharra[20]
La coopération décentralisée semble un mécanisme optimal, qui se situe dans la continuité des stratégies internes de décentralisation. Elle en constitue même une consolidation, avec « l’empowerment » des pouvoirs locaux, qu’elle suscite et favorise. C’est un moyen efficace de lutte contre la pauvreté avec l’implication des citoyens, ce que l’on convient désormais d’appeler « société civile » (Jean BOSSUYT (June 2001)).
La commission européenne (note n° 23 de décembre 1999) a
bien précisé en quoi la coopération
décentralisée contient les bases de réussite grâce
à : i) la transformation des bénéficiaires en acteurs
et/ou partenaires, capables de prendre en charge leur propres
développement, ii) la recherche de concertation et de
complémentarité entre les différents acteurs, iii) la
délégation de gestion, y compris financière, iv)
l’approche « processus » qui inscrit la
coopération dans la durée et v) à la priorité
donnée au renforcement des capacités institutionnelles.
Dans cette communication, l’objectif est de donner un aperçu
sur les axes qui pourraient guider la coopération entre des
collectivités locales italiennes et marocaines. En toile de fond, nous
privilégions ici les aspects création d’emplois et gestion
des flux migratoires.
C’est la raison pour laquelle, dans une première étape,
nous établissons un diagnostic de la situation de l’emploi au
Maroc, et des politiques adoptées (Section I). Dans une seconde
étape, nous faisons le
point sur la migration et les stratégies étatiques dans le
domaine (section II).
La dernière section présente les modalités et
opportunités de partenariat entre les pouvoirs locaux au Maroc et en
Italie. A la lumière des besoins ressentis localement et des
expériences ou orientations existantes, ce travail est effectué
dans une optique de suggérer les moyens d’accompagner les flux
migratoires en les optimisant, et dans la perspective d’encourager
l’emploi.
I. Diagnostic
de la situation du marché d’emploi au Maroc
I.1. Croissance démographique
et croissance économique: Evolutions non compatibles
Le Maroc compte une population de 30 millions d’habitants dont 56%
vivent en milieu urbain ou périurbain. D’un autre
côté 37% de la population a moins de 15 ans et 56% a un âge
compris entre 15 et 60 ans. Cela explique le nombre important ( plus de 300
000) de jeunes qui chaque année arrivent sur le marché de
l’emploi.
Le recensement de la population et de l'habitat de 1994 a
dénombré 8,3 millions de personnes actives0 , soit 32% de la population totale. Si
le rythme de croissance de cette
dernière a marqué une décélération
significative (le taux de croissance est passé de 2,4% selon le
recensement de 1982 à 1,9% selon celui de 1994), la population en
âge de travailler continue à croître fortement (3,02%) du
fait des acquis ( de la natalité) des précédentes
décennies.
Le taux d’activité1
fluctue sensiblement selon les données de la conjoncture. Il a ainsi
enregistré une baisse en l’année 2000 par rapport à
1999, passant de 54,4% à 52,9%. Cette baisse a concerné toutes
les catégories de la population, mais elle était plus
accentuée chez les femmes rurales et les jeunes des deux milieux,
âgés de 15 à 24 ans ( voir tableau 1).
Les caractéristiques actuelles de la population active
Tableau 1: Le
taux d’activité globale et par catégorie
|
1999 |
2000 |
||||
|
Urbain |
Rural |
Total |
Urbain |
Rural |
Total |
Taux d’activité |
48,1% |
63,1% |
54,4% |
47,0% |
61,4% |
52,9% |
-Selon le sexe Hommes Femmes |
74,6% 22,8% |
85,5% 40,9% |
79,3% 30,30% |
74,0% 21,3% |
85,4% 37,5% |
78,8% 27,9% |
- Selon l’âge 15-24 ans 25-34 ans 35-44 ans 45 ans et plus |
37,0% 62,2% 60,2% 36,8% |
60,4% 68,8% 71,1% 57,3% |
48,0% 64,7% 64,2% 45,7% |
34,9% 61,3% 59,3% 36,4% |
57,6% 67,2% 70,4% 56,3% |
45,6% 63,5% 63,3% 44,8% |
- Selon le diplôme Sans diplôme Avec diplôme |
43,1% 54,6% |
63,1% 63,1% |
53,7% 55,9% |
41,5% 53,9% |
61,3% 62,0% |
52,0% 55,1% |
Source: direction
de la statistique
Mais globalement, du fait de la croissance économique relativement modérée
(3,6% en moyenne sur les 20 dernières années) et de
l’augmentation soutenue de la population active, le taux de chômage2 a eu tendance à
s'accroître fortement. ainsi,
même pour les années marquées par un fort taux de
croissance du PIB (11% en terme réel en 1996), du fait d’une bonne
campagne agricole, ce taux étant resté élevé( 18,1%
pour la population active urbaine âgée de 15 ans et plus). Au
premier trimestre de l’année 2001, le taux de chômage a
été 13,5% ( réparti en 21,4% résidant en milieu
urbain et 5,1% en milieu rural).C’est dire que structurellement, le
chômage au Maroc, est en grande partie inhérent au fort
différentiel entre le rythme de croissance de la population active et
celui de l’économie.
c’est le cas dans beaucoup d’autres pays à structure
d’âge comparable. On notera que dans la cas du Maroc, étant
donné un taux de croissance de la population en âge de travailler
de 3,02% et des gains de productivité de 2% par an en moyenne, il
faudrait un taux de croissance de 5% ( 3% + 2%), pour absorber les flux annuels
des jeunes qui arrivent sur le marché de l’emploi. Si l’on
tient compte du stock de chômeurs accumulé dans le passé,
c’est estime-t-on, 7% de croissance économique (7%= 3% + 2% + 2%)
qui est nécessaire, pour commencer à réduire
significativement le taux de chômage. Autrement dit, les problèmes
de l’insertion ne relèvent pas seulement de la question de
« l’adéquation entre la formation et
l’emploi »( profil des diplômés et besoins du
marché).
D’un autre côté, les caractéristiques des
chômeurs restent différentes selon le milieu de résidence,
le sexe, le niveau d'instruction
et de qualification, l'âge, etc. Les données relatives aux
années 1999 et 2000 montrent que la population active âgée
de 15 ans et plus en chômage est passée, au niveau national, de 1
433 000 à 1 394 000 personnes entre l’année 1999 et 2000.
Le taux de chômage a, donc,
diminué de 0,3 point (passant de 13,9% à 13,6%). Cette
légère baisse a concerné aussi bien les villes que les
campagnes. Le taux de chômage est passé respectivement en milieu
urbain et en milieu rural de 22,0%
à 21,5% et de 5,4% à
5,0%. Cette évolution du taux de chômage en milieu rural peut
paraître paradoxale, face à une diminution nette du nombre
d’emplois créés, mais elle est due au comportement
spécifique de certaines catégories de populations rurales, en
période de récession. En effet, devant une conjoncture
défavorable, beaucoup de personnes quittent le marché du travail
et ne se portent donc pas, demandeurs d’emploi (voir tableau 2).
Les caractéristiques de la population au chômage
Tableau 2: Taux de
chômage global et par catégorie
|
1999 |
2000 |
||||
|
Urbain |
Rural |
Total |
Urbain |
Rural |
Total |
Taux de chômage |
22,0% |
5,4% |
13,9% |
21,5% |
5,0% |
13,6% |
-Selon le sexe Hommes Femmes |
20.3% 27.6% |
7.0% 2.1% |
14.2% 13.3% |
19.9% 26.7% |
6.5% 1.7% |
13.8% 13.0% |
- Selon l’âge 15-24 ans 25-34 ans 35-44 ans 45 ans et plus |
37.8% 30.2% 10.4% 5.0% |
8.6% 7.0% 3.0% 1.1% |
20.5% 20.9% 7.4% 2.9% |
37.6% 30.0% 10.4% 4.3% |
7.9% 6.7% 2.7% 1.1% |
19.9% 20.7% 7.3% 2.7% |
- Selon le diplôme Sans diplôme Avec diplôme |
15.2% 29.2% |
3.8% 18.0% |
8.1% 27.2% |
13.1% 29.7% |
3.5% 17.0% |
7.1% 27.5% |
Source: direction de la statistique
La question du chômage est devenu réellement
préoccupante au cours des dernières années du fait que le
chômage affecte surtout les jeunes diplômés universitaires
qui sont de plus en plus nombreux. Le taux de chômage et le niveau de
formation semblent évoluer dans le même sens. Il ne s'agit pas
d'un chômage transitoire, mais fondamentalement d'un chômage de
longue durée. On assiste également à l'apparition d'un
chômage d'exclusion chez une grande partie de la jeunesse qui
dépasse les 25 ans sans jamais avoir connu d'insertion stable sur le
marché du travail3 .
Il ressort donc que malgré les efforts consentis durant les
années 60 et 70 pour assurer le développement économique
et social du pays4 ,
malgré le programme d’ajustement structurel mis en œuvre
durant les années 80 et enfin malgré les politiques pour une
« croissance durable » adoptées pendant les
années 90, on observe non seulement l’aggravation du taux du
chômage, mais aussi la progression des poches de pauvreté au
Maroc.
En effet, le pourcentage de la population vivant en dessous du seuil de
pauvreté monétaire5 est
passé de 13% en 1991 à 19% en 1998/99. De ce fait, la population
pauvre dépasse actuellement les 5 millions.
Tableau 3: données globales sur la pauvreté au Maroc
Milieu de résidence et période Population pauvre Taux de
pauvreté en%
en milliers 1998/1999 Urbain
1
814
12,0 Rural
3 496
27,2 Ensemble
5 310
19,0 1990/1991 Urbain
912
7,6 Rural
2 448 18,0 Ensemble
3 360
13,1 |
Source: direction de la statistique- Ministère de la prévision économique
et du plan
enquêtes sur le niveau de vie des
ménages - rapport de synthèse Rabat 2000
I.2. Programmes et projets de soutien à la création
d’emplois au Maroc
Le Programme
d’Ajustement Structurel et les réformes macro- économiques
Le Programme d’Ajustement structurel
(PAS), a été adopté par le Maroc entre 1983 et 1992. Ce
programme visait à:
1- assainir les
Finances Publiques et réduire les déficits intérieurs et
extérieurs;
2- restructurer les
Entreprises Publiques en vue de réduire leur déficit de gestion
et par là, la contribution de l’Etat à leur financement,
pour d’autres entreprises publiques, il fallait les préparer
à être privatisées;
3- réformer le
système fiscal en vue de le rendre plus efficace et de
l’harmoniser avec les standards internationaux: introduction de la Taxe
à la Valeur Ajoutée (TVA), de l’Impôt sur les
sociétés (IS) et de l’Impôt Général sur
le Revenu (IGR). L’objectif était de simplifier le système
fiscal, de réduire les taux pour favoriser un élargissement de
l’assiette;
4- libéraliser
l’économie: prix intérieurs, échanges
extérieurs, mouvements des capitaux, par exemple.
La poursuite de la politique d’ajustement structurel passe, dans ses
phases avancées, par la mise en place d’un environnement favorable
au développement du secteur privé. A cet égard, on
évoque la réforme du marché financier, et la
réduction des distorsions entre les secteurs d’activité.
Le PAS a permis de réduire les déséquilibres aux
niveaux des finances publiques et de la balance des paiements; la croissance
des prix a été ralentie. Mais, il s’est traduit en outre
par une modification en profondeur du fonctionnement du marché du
travail caractérisé essentiellement par une nouvelle
définition du rôle de l'Etat sur ce marché. L'Eat minimise
ses interventions [t1]directes sur le marché du travail
en tant qu'employeur ( voir le tableau 4) en les recentrant sur des fonctions
indirectes telles que l'information et la formation. C'est ce qu'on peut
remarquer déjà dans le plan d'orientation de 88-92 qui
précisait que " l'Etat compte poursuivre la limitation des
créations d'emplois au strict minimum indispensable pour les secteurs
prioritaires et augmenter la productivité des personnels des administrations"6 .
Tableau 4:
Contribution du public à la création d’emplois
Années |
Personnel total de l'Etat |
recrutements annuels7 |
pop urbaine active8 |
Flux de la pop urbaine active |
Ratio des emplois créés par le
secteur public9
|
1987 |
332 627 |
9 400 |
3 286 585 |
74 631 |
12,60% |
1988 |
344 240 |
11 613 |
3 503 764 |
217 179 |
5,35% |
1989 |
355 886 |
11 646 |
3 641 617 |
137 853 |
8,45% |
1994 |
395 648 |
12 667 |
4 982 080 |
641 960 |
1,97% |
1997 |
423 664 |
8 262 |
5 068 485 |
163 485 |
5,05% |
1998 |
429 244 |
5 580 |
5 138 000 |
69 515 |
8,03% |
1999 |
438 917 |
9 673 |
5 336 218 |
268 034 |
3,61% |
Ce tableau indique la tendance à la baisse des emplois
créés dans le secteur public en nombres absolus et surtout en termes relatifs. Dans le milieu
urbain, le nombre de demandeurs augmente au rythme moyen de 5%10 ,
face à des emplois publics en baisse. Cela explique la chute de la
contribution des emplois créés dans le public pour faire face aux
demandes.
Le tableau est rempli pour les années pour lesquelles on dispose de
données. La lecture de la dernière colonne, permet de comparer
les flux de jeunes arrivant sur le marché du travail en milieu urbain
avec les créations d’emploi dans le secteur public. Le reste
devrait chercher des emplois dans le secteur privé ou
s’insérer professionnellement par ‘’l’auto-
emploi’’.
Même au niveau des
investissements publics, on enregistre une régression de la part de
l’Etat.
Tableau 5:
Contribution de L’Etat à l’investissement
Années |
Investissement public ( en millions de DH) |
Formation Brute de Capital
Fixe totale (en millions de DH) |
1 / 2 (en %) |
1980 |
8 604 |
14 811 |
58,10 |
1981 |
10 062 |
16 825 |
59,80 |
1982 |
12 412 |
21 091 |
58,85 |
1985 |
11 778 |
24 724 |
47,64 |
1986 |
13 482 |
32 991 |
40,87 |
1988 |
10 614 |
36 803 |
28,84 |
1990 |
12 325 |
51 035 |
24,15 |
1991 |
11 675 |
53 891 |
21,66 |
1993 |
15 515 |
55 675 |
27,87 |
1994 |
15 374 |
57 145 |
26,90 |
1995 |
15 828 |
60 387 |
26,21 |
1996 |
14 432 |
62 072 |
23,25 |
1997 |
14 658 |
66 066 |
22,20 |
1998 |
16 045 |
76 688 |
20,92 |
1999 |
22 894 |
83 489 |
27,42 |
Si sur le marché du travail, l’Etat intervient moins à
la fois en termes absolus et relatifs, dans le domaine de
l’investissement, la réduction de son intervention est relative.
L’Etat continue à investir significativement, mais sa part dans la Formation Brute de Capital fixe totale a sensiblement
diminué tout au long de la décennie.
Le rôle dévolu au secteur privé et l’ouverture
sur l’Europe
Outre dans l’emploi et l’investissement, le
désengagement de l’Etat s’est concrétisé aussi
pour les privatisations et pour augmenter le rôle progressif du secteur
privé, les reformes entreprises ont touché aussi le marché
financier:
* Déréglementation en matière monétaire:
libéralisation du crédit en volume (désencadrement) et en
coût (libéralisation des taux d’intérêt),
promotion du crédit bail...
* dynamisation de la bourse.
Des mesures pour encourager l’investissement ont été
annoncées, et touchent notamment la simplification des procédures
de création d’entreprises.
Pour lutter contre le chômage et promouvoir notamment l’auto-
emploi, des appuis sont apportés aux financement des micro- entreprises.
Ainsi 10 millions de dollars ont été injecté dans le
secteur de la micro- finance.
Ainsi le secteur privé est sollicité, encouragé dans
ses composantes à la fois formelles et informelles.
La politique d’ouverture
sur l’extérieur entamée avec les réformes
structurelles, a été poursuivies (adhésion au GATT –
OMC en 1994), et confirmée par la signature en 1996, de l’accord
de zone de libre échange avec l’Union Européenne, à
l’horizon 2010. Le démantèlement douanier vis à vis
de l’Europe est progressif.
II. La politique de gestion des flux migratoires
Ce paragraphe donne une bref historique et les tendances récentes
de la migration des marocains.
Du fait de sa localisation géographique ( proche à la fois de
l’Europe, du reste de l’Afrique et du moyen orient), le Maroc a
constitué un carrefour d’échanges migratoires depuis
l’antiquité. A partir des années 60, un nombre très
important de travailleurs marocains ont émigré, notamment en
France. Ce sont les besoins grandissants en main d’oeuvre qui vont
déclencher des départs massifs. L’intensification de
l’émigration est allée de pair avec la signature des
conventions officielles entre le Maroc et les principaux pays importateurs de
main d’oeuvre11 . Les autorités marocaines voyaient
dans l’émigration - qui s’inscrivait dans le cadre de leur
stratégie d’ouverture internationale- une bonne source de fonds
dont le Maroc avait besoin pour équilibrer sa balance des paiements et
financer ses investissements. L’émigration permettait aussi dans
leur esprit de former une main d’œuvre qualifiée qui devait
retourner au Maroc et constituer un vecteur de transfert du savoir faire. Mais
plus important encore, l’émigration agissait comme un
régulateur du marché du travail: devant une offre de main
d’œuvre qui ne cesse de s’accroître et une insuffisance
de la demande, les départs des travailleurs marocains en direction de
l’europe était
très appréciés.
Cette émigration va prendre une nouvelle ampleur, depuis les
années 70, en changeant de nature: d’une émigration
provisoire ( le migrant partait pour revenir) à une émigration
durable, pour prendre dans plusieurs cas un caractère définitif;
d’une émigration qui n’intéressait que les hommes
à une émigration qui
concerne de plus en plus les femmes et les enfants (regroupement
familial).
Tableau 6: Evolution de
la population marocaine résidente dans certains pays européens
( en milliers)
année |
France |
Belgique |
Pays - bas |
R.F.A |
Italie |
Pays scandinaves |
total |
1968 |
84,2 |
21,0 |
12,6 |
18,0 |
15 |
- |
150,8 |
1975 |
260,0 |
65,9 |
33,2 |
25,7 |
78 |
3,1 |
465,9 |
1982 |
431,1 |
110,0 |
93,2 |
42,6 |
- |
4,8 |
680,9 |
1984 |
500,0 |
119,0 |
106,4 |
46,0 |
- |
5,0 |
776,4 |
1990 |
653,0 |
138,4 |
184,0 |
61,9 |
- |
6,1 |
1043,4 |
1994 |
668,3 |
145,4 |
195,5 |
85,2 |
92,6 |
10,1 |
1197,1 |
1998 |
722,0 |
199,6 |
274,6 |
104,1 |
146,5 |
11,0 |
1457,8 |
source:- CERED (Centre d’etudes et de Recherche
Démographiques)
-
Statistiques du Ministère des Affaires Etrangères- Royaume du
Maroc12-
II.2. Profil
démographique et socio- économique de la population marocaine
résidente à l’étranger
Nous présentons ici, les résultats d’une étude
à base d’enquêtes sur les marocains résidents
à l’étranger, menée par l’INSEA ( Institut
National supérieur
d’Economie Appliquée) pour les années 1998-1999.
L’objectif de leur étude était de répondre
à plusieurs questions, parmi lesquelles:
- Les
caractéristiques socio- économiques des migrants;
- Les attitudes et aspirations et le niveau de satisfaction
des migrants dans différents domaines de la vie socioculturelle et
professionnelle en particulier;
- Les transferts des revenus et les projets
économiques.
Les migrants enquêtés (1239 interviewes) couvrent la quasi-
totalité des provinces et préfectures du royaume concernées par la migration
internationale (48 provinces et préfectures).
D’un autre côté, les enquêtés proviennent
de la quasi- totalité des pays européens d’immigration, dont
notamment la France (54%), l’Italie (19%), l’Espagne (10,7%).
Répartition des migrants par sexe
Restée pour longtemps masculine, la migration s’est
étendue aux femmes.
Pendant les années récentes, la part des femmes s’est
progressivement accrue, sous
l’effet des politiques du regroupement familial, entreprises par
plusieurs pays d’immigration en Europe et entamées dès la
fin de la décennie 70. De ce fait, on remarque que la proportion des
femmes dans la population migrante est passée de 10,8% à 51,4% au
cours de la décennie 80. En plus des femmes qui émigraient pour
rejoindre leur mari, beaucoup commencent à émigrer par elles
mêmes.
Répartition des migrants par âge
L’examen du tableau 7, montre d’importantes différences
entre les différentes cohortes de migrants; les
générations parties au cours de la décennie 90 sont
essentiellement jeunes. En effet, 26,2% des migrants ont un âge compris
entre 20 et 29 ans, ce qui représente une population en plein âge
d’activité. Les migrants des années 80, sont pour les 2/3
âgés de 35 ans et plus. Tandis que ceux des années 70 ont
pour la plupart, 40 ans et plus.
Tableau 7: Age selon l’année de la première
émigration
Age |
Année de la première immigration |
Total |
|||||
|
<1960 |
60-69 |
70-74 |
75-79 |
80-89 |
90 et + |
|
<20 ans |
|
|
|
|
|
0,9 |
0,2 |
20 |
|
|
|
|
0,3 |
0,9 |
0,2 |
21 |
|
|
|
|
0,9 |
1,8 |
0,6 |
22 |
|
|
|
|
0,3 |
- |
0,1 |
23 |
|
|
|
|
0,6 |
- |
0,2 |
24 |
|
|
|
0,8 |
- |
3,6 |
0,7 |
25 |
|
|
|
|
0,9 |
3,2 |
0,8 |
26-29 |
|
|
|
3,2 |
6,0 |
16,7 |
5,0 |
30-34 |
|
1,0 |
1,8 |
5,6 |
26,5 |
38,9 |
15,5 |
35-39 |
|
3,5 |
1,5 |
18,4 |
32,2 |
16,3 |
14,6 |
40 et + |
100,0 |
95,5 |
96,6 |
72,0 |
32,2 |
17,6 |
62,0 |
Total |
100,0 |
100,0 |
100,0 |
100,0 |
100,0 |
100,0 |
100,0 |
Répartition des migrants par région d’origine
La migration
concerne désormais tout l’espace national. Elle ne se concentre
plus sur les régions à haute densité démographique,
pauvres et enclavées. Le tableau suivant montre comment se
répartit l’ancienneté moyenne selon les régions:
Tableau 8:
Anciennetés moyennes de la migration selon les régions
économiques
Régions |
Sud |
Oriental |
Centre sud |
Centre nord |
Nord ouest |
Tensif |
Centre |
Total |
Durée moyenne (en années) |
24,4 |
22,6 |
22,3 |
21,5 |
17,8 |
17,2 |
16,1 |
19,5 |
Les différences de moyennes traduisent l’entrée
relativement tardive de certaines régions sur la scène de la
migration ( Nord ouest, tensift et le Centre).
Migration et niveau d’instruction
Ces données sont tirées de l’enquête du GERA
(1994) qui a touché 279 foyers de migrants ( urbains et ruraux), dont
129 dans la région de Nador et 150 dans la région de Tadla.
La question du rapport entre l’émigration et le niveau
d’instruction est abordée à travers la comparaison, entre
une population non migrante et une population migrante.
Tableau 9: Statut et niveau d’instruction
|
Entre 16 et 23 ans |
Entre 24 et 59 ans |
||||||||||
|
Non migrants |
Migrants |
Non migrants |
Migrants |
||||||||
|
Ens. |
Mas. |
Fem |
Ens. |
Mas. |
Fem |
Ens. |
Mas. |
Fem |
Ens. |
Mas. |
Fem |
Sans instruction |
33,7 |
19,3 |
48,1 |
10,1 |
7,2 |
16,7 |
79,1 |
54,4 |
92,7 |
62,3 |
55,0 |
83,5 |
Niveau primaire |
25,4 |
29,2 |
21,6 |
12,1 |
12,3 |
11,7 |
10,4 |
21,3 |
4,5 |
14,0 |
16,6 |
6,6 |
1er cycle second. |
31,0 |
36,0 |
25,9 |
44,9 |
48,6 |
36,7 |
5,2 |
11,8 |
1,6 |
14,7 |
17,8 |
5,8 |
2nd cycle second. |
6,5 |
9,9 |
3,1 |
27,3 |
26,8 |
28,3 |
1,6 |
3,7 |
0,4 |
4,0 |
4,9 |
1,7 |
Niveau supérieur |
2,5 |
5,0 |
1,2 |
5,6 |
5,1 |
6,7 |
3,4 |
8,8 |
0,4 |
4,9 |
5,7 |
2,5 |
Indeterminé |
0,9 |
0,6 |
|
|
|
|
0,3 |
0,4 |
|
|
|
|
Total |
100 |
100 |
100 |
100 |
100 |
100 |
100 |
100 |
100 |
100 |
100 |
100 |
On remarque qu’au sein de la classe des jeunes 16-23 ans, la
proportion des « sans instruction » est 3 fois plus
importante chez les non migrants, comparés aux migrants. Plus important
encore, chez les migrants, la proportion de personnes ayant le niveau du second
cycle est quatre fois supérieure à ce qu’elle est chez les non migrants. Pour les personnes
ayant un niveau supérieur, leur part dans la population des migrants est
le double comparée à la population des non migrants.
L’éducation
semble constituer un atout pour émigrer beaucoup plus chez les jeunes
que chez les personnes ayant émigré il y a longtemps. La demande
extérieure de main d’œuvre n’était pas exigeante
en formation et enfin les éduqués trouvaient relativement plus
d’emplois au niveau local.
Pour la tranche d’âge 24-59 ans, les écarts entre
migrants et non migrants sont moins importants, les proportions deviennent dans
l’ensemble assez comparables. Les migrants de la première
génération faisaient partie d’une population globalement
sous éduquée.
On remarque donc qu’à la migration des travailleurs sans
instruction va se substituer progressivement une migration de personnes
qualifiées, ayant reçu une formation coûteuse pour le
Maroc, et frappé soudainement par le chômage.
Pour compléter notre approche, on se réfère aux
données d'une enquête réalisée par le LASAREE[21] et financée par le projet PARADI[22].
Cette enquête a été administrée en Juillet et
Août 1994 à Algésiras en Espagne, auprès de 606
chefs de ménages marocains résidants à l'étranger.
Selon les données de cette enquête, la recherche de l'emploi
est la principale motivation déclarée par les migrants. Cette
observation vaut pour l'ensemble de la population enquêtée
(72,28%).
Si on prend en considération la variable "période
d'émigration", on remarque que le pourcentage des individus ayant
quitté le Maroc pour le motif travail est très
élevé au cours de la période 1940-1974 par rapport
à la période 1975 -1983. Ceci s'explique par les politiques
restrictives prises par les pays récepteurs et alors les départs
pour étudier prennent de l’importance. A partir de 1984 on
constate à nouveau une augmentation des flux migratoire pour la
recherche d'emploi passant de 64,62% durant la période 1984-87 à
86,07% de 1988 à 1994, cette tendance s'explique par l'encouragement de
l'émigration vers les nouveaux pays d'accueil tel que l'Italie et
l'Espagne (loi de Martelet en 1986 et 1990 en Italie).
La catégorie socioprofessionnelle avant l'émigration joue un
rôle important sur les raisons d'émigrer. Ainsi 86,83% des
individus qui émigrent pour la recherche d'un travail ou pour une
situation meilleure appartiennent aux catégories des agriculteurs et des
salariés. Parmi les individus qui n'ont pas d'emploi 20,45% ont
émigré pour terminer leurs études.
Les perspectives de retour au Maroc
82% des individus déclarent avoir l'intention de retourner au Maroc.
La perspective de retour est influencée par plusieurs facteurs dont
essentiellement la disponibilité d’un logement au Maroc.
Parmi les commerçants 60% déclarent vouloir retourner au
Maroc, ce pourcentage est de 90,91% pour les employés et les ouvriers.
Cela s'explique par le fait que les émigrés qui ont un fond de
commerce sont plus stables et n'ont pas la crainte d'être exclus. Alors
que les salariés sont plus exposés aux problèmes du
chômage.
Composition de la
population des chômeurs au Maroc par type de diplôme
(proxy du profil des
migrants potentiels)
Face au manque d’informations suffisamment détaillées
sur la population des migrants, nous proposons d’étudier le profil
de la population au chômage, pour donner un aperçu sur le profil
du potentiel des migrants marocains. On note qu’au cours des
années récentes, on assiste aussi à
l’émigration de cadres bien formés ( ingénieurs
notamment) ayant une activité salariée et qui partent pour
l’Amérique du Nord, et l’Europe (France, et Allemagne notamment)
à la recherche de salaires élevés. Les départs sur
l’Italie concernent des personnes relativement moins qualifiées.
Entre 1977 et 1997, la part des diplômés dans la population
active s’est accrue de 11,1% à 30,2% pour les
diplômés de niveau moyen et de 8,8% à 16,7% pour les
diplômés de niveau supérieur17 . Parmi ces derniers, les
diplômés de l’enseignement supérieur connaissent une
forte aggravation des difficultés d’insertion (le taux de
chômage est passé de 14 à 30% entre 1990 et 1998).
Plus significatif encore, c’est l’importance croissante des diplômés
dans la population en chômage. En effet, dans le milieu urbain, et
à partir de la mise en oeuvre du PAS, cette part est devenue plus
important que leur part dans la population employée.
En 1984, la part des diplômés dans la population en
chômage était de 33,8% contre 29,7% dans la population active
occupée. A partir de 1990, l’importance relative des
chômeurs d’un niveau d’études supérieures
surclasse celle des actifs occupés de même niveau
d’études. Ce renversement de la tendance va
s’accélérer. Ainsi, en 1997, la proportion des diplômés
parmi les chômeurs a atteint 68,7% ( 45,5% pour les diplômés
de niveau moyen et 23,2% pour les diplômés de niveau
supérieur) contre 41,2% parmi les actifs occupés (respectivement
26,6% et 14,6%).
L’importance relative des diplômés de niveau
d’études supérieures dans la population urbaine en
chômage, n’est devenue significative qu’à partir de
1985. Avant cette date, l’importance relative des chômeurs
diplômés de l’université ou des écoles
supérieures était de l’ordre de 4%. Par contre, la
proportion des chômeurs détenant un diplôme de niveau moyen
était déjà élevé en 1984 : 30,7% contre 3,1%
pour les diplômés supérieurs. Mais depuis cette date,
l’importance relative des diplômés de niveau moyen
s’est modérément développée en comparaison
avec les diplômés de niveau supérieur. En effet, en 1997,
la population en chômage se composait de 45,3% de diplômés
de niveau moyen et de 23,2% de diplômés de niveau supérieur
( contre 30,7% et 3,1% en 1984).
Tableau 10: Evolution de la structure de la population urbaine en
chômage selon le diplôme
Années |
Diplôme |
Total |
|||
|
Sans diplôme |
Niveau moyen |
Niveau supérieur |
Non déclaré |
|
1984 |
65,2 |
30,7 |
3,1 |
1 |
100,0 |
1985 |
58,0 |
35,8 |
5,6 |
0,6 |
100,0 |
1986 |
54,2 |
36,4 |
8,1 |
1,3 |
100,0 |
1987 |
52,0 |
38,0 |
10,0 |
0 |
100,0 |
1988 |
46,3 |
42,6 |
11,1 |
0 |
100,0 |
1990 |
43,1 |
42,9 |
14,0 |
0 |
100,0 |
1991 |
38,5 |
45,1 |
16,3 |
0 |
100,0 |
1992 |
39,2 |
45,5 |
15,3 |
0 |
100,0 |
1993 |
37,5 |
44,6 |
17,8 |
0 |
100,0 |
1995 |
37,6 |
45,0 |
17,4 |
- |
100,0 |
1996 |
33,8 |
44,6 |
21,4 |
0,2 |
100,0 |
1997 |
31,3 |
45,5 |
23,2 |
0 |
100,0 |
Source:
Direction de la statistiques,
rapports annuels détaillés de l’enquête sur
l’Emploi Urbain.
On observe que la part des sans diplôme dans la population en
chômage a fortement baissée: celle des diplômés, y
compris du supérieur est allé en augmentant.
Les sans diplômes s’insèrent relativement mieux car:
- ils appartiennent
souvent à des familles plus pauvres, ils sont dans des situations plus
précaire et donc ont plus besoin d’obtenir un emploi; ils sont
de ce fait moins exigeants;
-
ils ont des
salaires de réserve plus bas.
-
Les
diplômés sont à l’inverse plus exigeants à ces
niveaux. L’appartenance à des familles plus aisées et
grâce aux réseaux sociaux plus développés, contribue
aussi à en faire des candidats plus forts à
l’émigration.
II.3 les politiques en matière de migration
Il n’y a, à proprement parler, pas de politique de migration.
Mis à part les conventions mentionnées plus haut, actuellement on
a le sentiment que les autorités « suivent » le
mouvement de migration dont
l’ampleur s’explique par la situation du marché du
travail et les aspirations des jeunes[23]. Il n’y a pas de prévision
dans le domaine, pas de circuit officiel de prospection et d’organisation
de l’émigration. Pendant ce temps, on assiste à un
développement de l’émigration clandestine, avec les risques
humains qu’elle comporte, et les autorités s’en
inquiètent.
Ainsi, pour lutter contre l’émigration clandestine, le
programme de coopération entre le Maroc et l’Union
Européenne vise à mettre en place des structures susceptibles de
valoriser les potentialités économiques des régions
pauvres, en offrant aux populations locales des opportunités de
création d’entreprises et d’emplois. Par exemple,
création de zone franche et projet de construction du port Atlantique de
Tanger, conversion des cultures de « hachich » en culture
de thé vert…..L’Agence du nord a conclu une convention de
coopération avec le gouvernement de l’Andalousie ( en Espagne)
pour la création d’une école d’entreprise à
Tanger et à Tétouan destinée à dispenser une
formation pour les entrepreneurs en exercice et les entrepreneurs potentiels.
Et si l’expérience se révèle prometteuse, elle
envisage de généraliser ce type de coopération dans les
autres régions.
III. Les opportunités de
programmes de partenariat entre les « pouvoirs locaux »
au Maroc et en Italie.
III.1 Le
point sur l’état de la décentralisation au Maroc et les capacités
des collectivités locales
L'organisation
et la gestion territoriale marocaine frappe par son extrême
complexité. Héritant d’une administration
profondément marquée par la tendance centralisatrice
française, le Maroc indépendant y a superposé le système
traditionnel de l’administration chérifienne[24].
Aux termes de
l’article 100 de la Constitution « les collectivités
locales du royaume sont les régions, les préfectures, les
provinces et les communes », « Elles élisent des
assemblées chargées de gérer démocratiquement leurs
affaires dans les conditions fixées par la loi » (art. 101).
Faire le bilan de la situation actuelle de la décentralisation et de
la tutelle consiste à vérifier si l’équilibre
recherché entre le contrôle de l’Etat au non de
l’intérêt général et l’aspiration des
collectivités locales à jouir d’une liberté dans la
gestion des affaires locales telle que la leur reconnaît la loi, est
atteint. L’équilibre entre le pouvoir local et le pouvoir central
donne la mesure des pouvoirs réels détenus par les collectivités
locales, il se vérifie au niveau de d’objet du pouvoir de tutelle et son exercice.
Les collectivités locales demeurent sous tutelle
La décentralisation au Maroc se définit comme la
reconnaissance aux collectivités locales d’une personnalité
morale et d’une autonomie financière. Elles disposent de
compétences propres qu’elles exercent sous la direction
d’organes indépendants des pouvoirs d’Etat, dans les
conditions fixées par le constituant ou le législateur. Acte de
volonté de l’Etat, cela implique que les collectivités
décentralisées ne peuvent exercer que les compétences que
l’Etat leur concède, c’est aussi admettre, l’existence
et la nécessité d’un contrôle de l’Etat sur la
manière dont les collectivités locales assument les missions qui
leur sont attribuées par la loi. Si formellement, l’Etat (la
loi) charge le Conseil
régional, préfectoral, provincial et communal de « régler par ses
délibérations les affaires locales….. »,
l’absence de toute définition préalable de la notion « d’affaires
locales » suppose implicitement que son contenu soit défini
à posteriori par l’autorité de tutelle. Le maintien du pouvoir de tutelle sur les
collectivités locales exprime la volonté du législateur de
maintenir un contre poids à l’autonomie et aux compétences
locales.
Le pouvoir de tutelle trace donc les limites de l’autonomie locale et
définit le contenu du pouvoir local. Toute rupture de
l’équilibre dans l’aménagement du pouvoir de tutelle
vide de tous sens la décentralisation.
Le pouvoir de tutelle trace les limites de l’autonomie locale
Sur le plan de la gestion administrative, la décentralisation a le
mérite de rapprocher le centre de décision de l’objet de la
décision. Sous l’angle de la liberté,
l’élection est la technique par excellence qui assure
l’autonomie des organes chargés de la gestion des affaires locales
en questions. Liée à la démocratie, la
décentralisation rapproche l’administration des administrés
et les associe à la prise des décision qui les concernent directement.
Au Maroc, comme dans la plupart des pays en voie de développement, la
décentralisation peut favoriser l’éducation politique des
citoyens et des élus, en les initiant à la gestion publique
locale avant de briguer un mandat au niveau national.
Cependant, dans un Etat unitaire comme le Maroc, où le taux
d’analphabétisme atteint 49 % d’une population de 30
millions, et qui compte 19 partis politiques, la décentralisation ne
peut être que limitée. L’existence du pouvoir de tutelle au
Maroc trouve sa justification en ce qu’il limite les risques
qu’engendrerait une décentralisation absolue, notamment du fait de
l’incompétence des élus (le taux
d’analphabètes parmi eux est à peine inférieur
à la moyenne).
S’il est évident qu’une réelle
décentralisation suppose l’absence totale du pouvoir de tutelle,
une telle situation comporte pour l’Etat marocain le risque de
dislocation[25], et pour les citoyens le risque
d’être soumis à
l’arbitraire des élus (esprit de servage encore
présent chez les « notables ») et de voir les
inégalités économiques existantes entre les collectivités locales
transposées et aggravées au niveau des membres qui les composent.
L’existence du pouvoir de tutelle se manifeste encore si l’on
examine les réalités de la décentralisation marocaine.
Malgré les réformes entreprises en 1963 et poursuivies depuis
1977, la déconcentration au profit des gouverneurs n’a pu
résoudre les problèmes soulevés par la centralisation. Le
processus de déconcentration procède d’avantage d’une
volonté de soulager au coup par coup les administrations centrales que
d’une politique d’ensemble qui aurait supposé que les
compétences respectives des administrations centrales, de l’agent
local de l’Etat et des chefs des « services
extérieurs » des ministères, aient été
clairement définies. En effet, bien que le dahir du 15 février
1977 renforce les pouvoirs des gouverneurs, il s’avère que cette
déconcentration est une « décentralisation par
autorités hiérarchiques » et qu’elle est
récupérée par les ministères techniques et les
agents de leurs services extérieurs (article 6). Aujourd’hui
encore, la déconcentration passe mal au Maroc. Elle se heurte à
des obstacles majeurs d’ordre juridique (c’est le ministre de
l’intérieur et non le gouverneur qui, généralement
prend les décisions), mais elle se heurte aussi à des
résistances d’ordre politique, dans la mesure où les
administrations centrales qui ont une tendance naturelle à tout
accaparer, à vouloir tout régler, gardent le maximum de
prérogatives au niveau de la capital Rabat.
Tant que le pouvoir central n’aura pas admis que son rôle
essentiel est de développer la fonction de conception et
d’orientation générale et non de gestion quotidienne des
affaires locales, la politique de
décentralisation n’aura concrètement qu’une
portée relative.
Si la tutelle de l’Etat est
légitime en ce qu’elle lui permet de vérifier que
l’usage que font les collectivités locales des compétences
qu’il leur a léguées est conforme à la légalité,
elle est aussi légitime en ce qu’elle permet à l’Etat
de s’opposer lorsqu’il estime que leurs activités vont
à l’encontre de l’intérêt général
tel qu’il le définit, pour éventuellement se substituer
à elles lorsqu’elles méconnaissent leurs obligations ou
outrepassent leurs compétences.
L’objet du pouvoir de tutelle est double, en marquant les limites de
l’autonomie locale, il sert aussi à définir le contenu de
cette autonomie.
Le pouvoir de tutelle définit le contenu de la notion
d’affaire locale
Deux types de dispositions législatives déterminent les
compétences des collectivités locales. Les unes sont relatives
aux attributions des conseils, les autres sont relatives aux pouvoirs des présidents des conseil.
En ce qui concerne les attribution du conseil, la
généralité de la formule « le conseil
gère par ses délibération les affaires de la
collectivité…..et définit le plan de développement
économique et social conformément aux orientations et objectifs
retenus par le plan national », est tempérée par
d’autres dispositions législatives selon lesquelles, les
délibérations relatives à un certain nombre
« de décisions à caractère
économique» ne sont exécutoires qu’après
approbation de
l’autorité de tutelle. C’est le cas par exemple du choix des
modes de gestions de services publics locaux (c’est une
précaution, face au risque de rupture de ces services).
En ce qui concerne les attributions des présidents des
conseils :
i)
s’agissant
des communes, si la loi du 30 septembre 1976 précise que le président
du conseil exécute les délibérations du conseil communal,
en revanche la loi ne définit pas ses compétences, elle indique
seulement les pouvoirs juridiques dont dispose le président[26].
ii)
S’agissant
des autres collectivités locales, les articles 101 et 102 de la
Constitution disposent que « Les gouverneurs exécutent les
délibérations des assemblées provinciales,
préfectorales et régionales dans les conditions
déterminées par la loi . Ils représentent
l’Etat et sont responsables de l’application des décisions
du gouvernement ainsi que de la gestion des services locaux des administrations
centrales ».
On notera pour
finir que les besoins saillants des collectivités locales marocaines
concernent :
-
les
ressources humaines compétentes. C’est la raison pour laquelle, la
coopération franco-marocaine, qui pour des raisons historiques est la
plus développée dans le domaine de l’administration
territoriale, privilégie la dimension
« formation » des élus locaux et du personnel des
collectivités locale. Cet appui à la formation est
effectué en concertation entre les deux Ministères de
l’intérieur, donc à une échelle centralisée.
Mais les initiatives des collectivités locales sont autorisée,
elles peuvent procéder à des conventions dans le cadre de
coopération décentralisée.
-
les moyens
financiers. Actuellement, plus de 90 % du budget des collectivités
locales est dépensé pour le fonctionnement. Or les besoins sont
patents, non seulement en assainissement, infrastructures de transports
etc…, mais en aussi en zones aménagées, pour la
créations d’activités économiques, susceptibles de
promouvoir l’emploi[27].
-
les deux
aspects nous semblent grandement liés. En effet, des ressources humaines
compétentes contribueront en grande partie à atténuer la
contrainte financière, en optimisant la gestion : avec des
capacités d’établir des plans d’action dotés
d’une vision claire, de rationaliser les dépenses et de promouvoir
des actions capables d’engendrer des ressources, qui viendraient
compléter celles provenant des 30 % de TVA promises par
l’administration centrale
III.2 Le
cadre réglementaire de la coopération potentielle
Du point de
vue du Maroc
Au Maroc, les
communes sont actuellement régies par la loi du 30 Septembre 1976, les
préfectures et provinces par la loi du 12 Septembre 1963, et les
régions par la loi de Mars 1997.
Il nous semble
que les communes se situent au niveau auquel une coopération
décentralisée efficace peut être envisagée. La loi
qui les régit leur donne la possibilité de passer des conventions
avec des collectivités territoriales étrangères. Elle
n’exclut pas non plus la possibilité aux collectivités
étrangères de participer au capital de sociétés
d’économie mixte locales, à condition que ces conventions
ou participations, soient préalablement approuvées par
l’autorité de tutelle. Il en de même pour les
régions.
Du point de
vue Européen
La commission
européenne reconnaît comme acteurs de la coopération
décentralisée les pouvoirs publics locaux, mais aussi les
organisations non gouvernementales, les coopératives, les institutions
d’enseignement et de recherche… (c’est à partir de
cette réalité que des propositions sont faites plus loin).
La commission a
également prévu des outils financiers, comme le fonds
européen de développement, signé en Juin 2000 pour une
durée de 20 ans, avec une définition des termes de partenariat
entre les 15 pays de l’Union et 71 pays ACP (Afrique Caraïbes et
Pacifique). Il y a d’autres programmes comme
« l’URB-AL », le « MEDA », et
la ligne budgétaire B7-643 qui est spécifique à la
coopération décentralisée et est ouverte à
l’ensemble de ses acteurs.
III.3 Les
suggestions de partenariats entre des collectivités italiennes et marocaines
La
coopération décentralisée pourrait toucher plusieurs
domaines. Nous insistons ici sur les moyens de promotion de l’emploi et
de gestion efficace de la migration.
Appui au renforcement des capacités institutionnelles des
collectivités locales et de leurs partenaires locaux, les ONG notamment. Cet appui pourrait
prendre la forme de sessions de formation, de stage des fonctionnaires des
collectivités locales marocaines en Italie.
Quand la coopération entre collectivités locales fait
intervenir des ONG, qui souvent sont les mieux placées pour bien
définir les besoins des populations, la démarche consisterait
à conditionner les soutiens qui leur sont apportés par leur
travail avec des ONG italiennes expérimentées dans les domaines
ciblés. Par exemple, une ONG intervient dans le domaine de l’appui
aux micro et petites entreprises. Elle prend attache avec des ONG italiennes,
elles établissent ensemble un plan d’action et le soumettent
à la collectivité locale italienne (partenaire de la
collectivité locale marocaine où ils résident) pour
obtenir les soutiens financiers. La démarche complémentaire de
celle - ci consiste:
i.
à
définir les axes prioritaires par les deux collectivités locales,
italienne et marocaine partenaires. Par exemple la formation de marocains
candidats à l’émigration
ii.
à
suggérer à des ONG italiennes expérimentées de
venir investiguer les ONG marocaines susceptibles d’être leurs
partenaires. Elles établissent un plan d’action et demandent le
soutien aux collectivités qui coopèrent.
Dans ces deux cas, on réalise deux objectifs en même temps.
D’un côté une action jugée prioritaire par les deux
collectivités est menée à bien en coopération, et
parallèlement l’ONG locale ainsi que la collectivité
renforcent leurs capacités.
Toujours à propos de cet
exemple de formation des candidats à l’émigration, pour
qu’ils s’insèrent mieux dans la région
d’accueil, notons que les collectivités qui ont une convention de
coopération, peuvent servir d’agence pour l’emploi, assez
particulière :
i.
dans la
première étape, la Collectivité locale italienne, recense
les besoins des entreprises de leur région, en nombre de travailleurs et
en qualification
ii.
avec la
collectivité locale marocaine partenaire, elles peuvent mettre sur pied
des centres de formation adaptés, avec l’aide d’ONG
éventuellement. Y seront admis les personnes candidates à
l’émigration qui vérifient des critères
préalablement définis. Outre les cessions de formations
techniques, il y a aussi la formation en langue qui paraît fondamentale
Des échanges d’expériences seraient très utiles
pour les collectivités locales marocaines. Pourraient profiter des
actions menées dans ce cadre, non seulement les populations locales (ce
qui réduirait les pression sur les départs, avec notamment la
tentation de l’émigration clandestine), mais aussi les
émigrés candidats au retour, et que les démarches pour la
création d’une entreprise découragent. A ce niveau, la
coopération entre collectivité locale marocaine et italienne
pourrait consister en :
i.
le transfert
de savoir faire en matière de stratégie d’encouragement
à l’investissement, de simplification des procédures de
création d’entreprises, de fonctionnement des institutions de
soutien durant
l’activité des petites et microentreprises. Citons à
titre d’exemple, l’expérience italienne du système de
regroupement des PME.
ii.
des stages
au sein de collectivités italiennes, pour le personnel des
collectivités marocaines
iii.
un appui pour
la mise sur pied des cellules de conseils et d’information des
entrepreneurs
Pour accompagner et encourager le retour des émigrés, le
partenariat pourrait concerner aussi les stratégie
d’aménagement du territoire, et notamment de construction
d’ensembles d’habitation. La plupart des enquêtes
révèlent que les émigrés citent
l’accès au logement comme facteur déterminant leur retour.
Il pourrait concerner aussi la gestion des services publics, par la
création de sociétés mixtes, par exemple : le
transfert de savoir faire et des prêts avec intérêts,
pourraient aider à financer l’entretien ou la mise en place
d’infrastructures ; assainissement, distribution d’eau et
d’électricité, transport, préservation de
l’environnement…).
Bibliographie
Annuaires statistiques du Maroc; Direction de la statistique; Royaume du
Maroc- Ministère de la Prévision et du Plan ( plusieurs
années).
Jean Bossuyt; « Decentralisation
and poverty reduction: what role for european local authorities? »;
European Centre for Development Policy Management); for the CeSPI-ASCOD
Seminar; Rome, 1 June 2001.
CERED (’’Centre d’Etudes et de Recherche
Démographiques’’; « Migration
intenationale »; Royaume du Maroc- Ministère chargé de
la population; 1996.
Direction de la Statistique;
« Migration intenationale: profil de l’émigrant et
potentiel migratoire »; in ‘’ les cahiers de la
Direction de la Statistique’’; Royaume du Maroc - Ministère
de la population-; Février 1997.
Direction de la statistique;
‘’ Education, formation et opportunités
d’emploi’’;
Royaume du Maroc -
Ministère de la Prévision Economique et du Plan; 1997-1998.
Direction de la statistique;
‘’ Population active urbaine’’; Royaume du Maroc- -
Ministère de la prévision économique et du plan-(
plusieurs années).
Direction de la statistique;
‘’ Enquête nationale sur l’emploi’’;
Royaume du Maroc- - Ministère de la prévision économique
et du plan; 1999-2000.
El Mostafa Ben Salem, Patrick
Werquin, Aomar Ibourk; in actes du colloque ‘’ La relation
formation emploi dans les pays de la Méditerranée’’;
Marrakech les 24 et 25 Octobre 1996.
INSEA’’ Institut Nationale Supérieur d’Economie
Appliquée’’;
Séminaire:« Les mutations de
l’émigration internationale marocaine »; Rabat 28-29
Janvier 2000.
Fouzi Mourji; « Le développement des micro entreprises en
question »; Edition
REMALD; 1998.
OCDE; « Les effets
d’entraînement des échanges internationnaux et de la coopération »;
in ‘’ Migration et
développement: Un nouveau partenariat pour la
coopération’’; Paris 1994.
OCDE; « Politiques migratoires et coopération
internationale »; in ‘’ Migration et
développement: un nouveau partenariat pour la
coopération’’; Paris 1994.
Annexe 1
Le régime incitatif aux investissements étrangers au Maroc
est ouvert aux résidents marocains à l’étranger
L’Office des changes est l’organisme qui met en œuvre la
politique des changes au Maroc. Cette politique accorde aux résidents
marocains à l’étranger les mêmes avantages que ceux
accordés aux investisseurs étrangers.
En 1973, pour encourager les transferts, les pouvoirs publics ont
institué une primes de transfert au profit des personnes physiques
marocaines exerçant à l'étranger une activité
salariale, artisanale ou commerciale.
Cette prime s'appliquait uniquement aux sommes rapatriés par
virement bancaire ou mandats postaux par les personnes indiquées, au
titre des économies sur leurs revenus professionnels.
Mais en raison du coût devenu trop élevé de la prime
(5%) et des pressions exercées par le FMI qui déconseille la
pratique du taux de change multiple, cette prime a été
supprimée en 1981. De même, le glissement du Dirham à
partir de 1985 a joué un rôle moteur dans le processus de
canalisation de l'épargne des marocains résidents à
l’étranger vers le Maroc.
Pour atténuer l'aspect négatif de la suppression de la prime
de fidélité, sur les transferts des marocains résidents
à l’étranger pour toutes les devises par voie bancaire ou postale
et compte tenu de la décision royale prise en 1985 pour la
création d'un fond de solidarité des marocains résidents
à l’étranger , il a été
préconisé d'affecter la prime de fidélité pour
permettre aux marocains résidents à l’étranger d'en
profiter collectivement plutôt qu'individuellement.
De plus, pour les encouragements aux investisseurs, par investissements
étrangers, on entend au Maroc, les investissements
réalisés par les personnes physiques ou morales de
nationalité étrangère, non résidentes ou
résidentes, et les personnes physiques de nationalité marocaine
établies à l'étranger. C’est dire que les marocains
résidents à l’étranger bénéficient de
tous les avantages en matière de convertibilité.
Le régimes de convertibilité garantit aux investisseurs
concernés, sur le plan de la réglementation des changes,
l'entière liberté pour :
·
la
réalisation de leurs opérations d'investissements au Maroc;
·
le transfert
des revenus produits par ces investissements;
·
le
retransfert du produit de liquidation ou de cession de leurs investissements.
Sont assimilés à un investissement en devise :
·
les
consolidations de comptes courants d'associés, les incorporations des
réserves, de reports à nouveau ou de provision devenues
disponibles, dans la mesure où les montants correspondants
revêtent le caractère transférable;
·
les
consolidations de créances commerciales matérialisées par
l'importation de biens ou matériels régulièrement
effectuée et n'ayant pas donner lieu à règlement en
devises;
·
les
consolidations de créances, au titre de l'assistance technique
étrangère, (brevets, licences,...), dûment
considérés par des entreprises étrangères;
·
la part de
l'investissement financée par débit de compte convertible
à terme. Les investisseurs étranger peuvent acquérir
librement des comptes convertibles à terme en vue du financement
partiel, à hauteur de 50%, de leurs opérations d'investissement
au Maroc.
Les formes d'investissement :
L'investissement étranger peut revêtir les formes suivantes :
·
création
de sociétés;
·
prise de
participation au capital d'une société en cours de formation;
·
souscription
à l'augmentation de capital d'une société existante;
·
création
d'une succursale ou d'un bureau de liaison;
·
acquisition
de valeurs mobilières marocaines;
·
apport en
compte courant d'associés en numéraires ou en créances
commerciales;
·
concours
financiers à court termes non rémunérés;
·
prêts
en devises contractés conformément à la réglementation
des changes;
·
acquisition
de biens immeubles ou de droits de jouissance rattachés à ces
biens;
·
financement
sur fonds propres de travaux de construction;
·
création
ou acquisition d'une entreprise individuelle;
·
apport en
nature.
Les transferts des revenus d'investissement :
Les revenus produits par les investissements étranger au Maroc,
peuvent être transférés sans aucune autorisation
préalable, au profit des investisseurs concernés, sans limitation
dans le montant ou dans le temps. Ces revenus sont :
·
les dividendes ou parts de
bénéfices distribués par les sociétés
marocaines;
·
les jetons
de présence et tantièmes;
·
les
bénéfices réalisés par les succursales au Maroc des
sociétés étrangères;
·
les revenus
locatifs;
·
les
intérêts produits par les prêts contractés.
1) Les comptes en devises et comptes étrangers en dirhams
convertibles
Les comptes en devises et les comptes étrangers en dirhams
convertibles sont ouverts sans autorisation de l'office des changes au nom de
personnes physiques ou morales de nationalité étrangère
résidente ou non résidentes.
2) Fonctionnement des comptes en Devises
Au débit :
·
virements
à destination de l'étranger;
·
cession de
devises à Bank Al Maghrib;
·
règlement
de chèques libellés en monnaie étrangère;
·
montants
destinés à être placés sur le marché
international des capitaux;
·
virements
à destination d'un autre compte en devise.
Au crédit :
·
virement en
provenance de l'étranger;
·
encaissement
de chèques, travellers-chèques, ou tout autre moyen de paiement
libellé en devises;
·
versement de
billets de banque étrangères importés ou obtenus par
arbitrage;
·
prélèvement
de devises auprès de Bank Al Maghrib;
·
intérêts
servis au titre des placements sur le marché international des capitaux;
·
montant
précédemment débité en vue des opérations de
placement sur le marché international des capitaux;
·
virement en
provenance d'un autre compté en devises.
3 Fonctionnement des comptes étrangers en Dirhams convertibles
Au débit :
·
achat
auprès de Bank Al Maghrib de devises cotées par celle-ci;
·
virement
à destination d'un autre compte étranger en dirhams convertibles;
·
montants
destinés à être placés à terme.
Au crédit :
·
produits en
dirhams de la cession en devises à Bank Al Maghrib;
·
produit de
cession de devises billets de banques étrangères importés
ou obtenus par arbitrage;
·
sommes ayant
fait l'objet d'une autorisation de transfert;
·
sommes
provenant d'un comptes étranger en dirhams convertibles;
·
montant des intérêts
servis;
·
montant
initialement débité en vue de la constitution de
dépôts à terme;
·
montant en
dirhams prélevés par les titulaires étrangers non
résidents sur le compte étranger en dirhams convertibles et
n'ayant pas été utilisés.
Annexe 2
Septembre 2001- Liste établie sans
recoupage avec les données de la DGCL Maroc
LISTE
DES PROJETS DE COOPERATION DECENTRALISEE France/Maroc
Aix en
Provence OUJDA
1
Coopérations techniques dans le domaine de l’eau et de
l’assainissement, de l’environnement (parc municipal, schéma
directeur des espaces verts) et des déplacements
2
coopération universitaire
Belfort
MOHAMMEDIA
administration
locale (formation) / coopération universitaire / échanges
d’enseignants et d’élèves/ environnement
Clermont
Ferrand MARRAKECH
Requalification
des centres anciens
Collectivité
territoriale de Corse REGION DE MARRAKECH TENSIFT EL HAOUZ
Coopération
naissante
Communauté
urbaine de Bordeaux + ville de Bordeaux CASABLANCA (CU)
1
Requalification urbaine et projets
urbains (Projet prioritaire)
2 autres :
économie, éducation, culture, formation
Communauté
Urbaine de Lyon AGADIR(CU)+ coopération avec ONEP
eau et
assainissement,
déchets,
environnement (Formation)
Communauté
Urbaine de Nancy MARRAKECH (CU)
Services
urbains : SIG, Banque de Données Urbaines
Autres
partenaires : ONEP, NANCIE
Conseil
général de l'Allier TETOUAN
Coopération
naissante
Prise en compte
migrants (association)
Conseil
général des hauts
de seine RABAT (CU)
Culture
Conseil
général de l'Hérault
Insertion
des jeunes handicapés
sensoriels et auditifs (national)
Insertion
économique micro-entreprises féminines (ESPOD à
Casablanca)
Jusqu’à
il y a trois ans, coopération dans le domaine du développement
urbain (Mohammedia) et de l’assainissement (Rommani)
Conseil
général de Loire atlantique AGADIR (province)
Culture/développement
agricole/développement économique local / administration locale/
transports
Coopérations
mises en valeur pour les rencontres de Fès:
Aide à
l'implantation d'un tramway à Agadir
Développement
local à Alma
Conseil
général de Seine Saint Denis FIGUIG
Environnement,
santé/prévention, citoyenneté et participation
(associations, migrants, etc…), échanges scolaires
Conseil
général de la Vendée: RABAT
Formation de
techniciens supérieurs dans le domaine de l’assainissement
solide et liquide (eau et
déchets)
Conseil
régional Aquitaine (CASABLANCA (CU), EL JADIDA, RÉGION
SOUSS-MASSA-DRAA)
Coopérations
universitaires (Casablanca, El Jadida)
Schéma de
développement touristique durable (Souss Massa Draa)
Conseil
régional Champagne Ardennes REGION DE L’ORIENTAL,
Coopération
institutionnelle, appui à la régionalisation
Développement
économique local, insertion économique et micro-activités
(IRCOD)
Conseil
Régional de Franche Compté OUARZAZATE
Echanges/formation
tourisme/hôtellerie
Développement
agricole (en stand bye)
Conseil
régional de Lorraine IMMOUZER KANDAR, SEFROU(PROVINCE), REGION FES
BOULMANE
Eau et
assainissement, déchets (partenaire ONEP, NANCIE)
Formation en
entrepreneuriat et développement de PME
Conseil
régional PACA région TANGER TETOUAN Développement économique (
opérateurs : ADECI, IMED)
Recherche et
enseignement supérieur
Education,
formation, apprentissage (élus et cadres territoriaux, instituteurs,
formation professionnelle…)
jeunesse (AFVP,
échanges scolaires)
Environnement,
développement durable, agriculture (notamment parc naturel
régional)
Tourisme
Culture
Conseil
régional Rhône Alpes
REGION RABAT SALE ZEMMOUR ZAERS
Schéma
d'aménagement et de développement régional, implantation
d'un parc industriel, sauvegarde
et valorisation du parc naturel du
plateau central Khémisset-Oulmès, propreté des villes et protection de
l'environnement,
développement social des quartiers, sauvegarde de la forêt de Maamora.
Opérateur
IMTE (Projets avancés 2,5,6)
La Rochelle
ESSAOUIRA
Administration
locale/ tourisme/ culture/ maritime/ artisanat /patrimoine /économie
Mantes la
jolie – Agdal Riad
échanges
musicaux / coopération universitaire / formation (coopération
technique)
Marseille
CASABLANCA, RABAT, MEKNES , AGADIR
Coopération
/ Formation prévention santé et pollution , gestion des risques
naturels (sommet des villes de la méditerranée)
Ingéniérie
portuaire "port, cité, économie, les mutations réussies(
avec Casablanca)"
Colloque
"les assises de la méditerranée"
Maxéville
IMMOUZER DU KANDAR
Assainissement
solide , échanges de jeunes
(opérateur
:le NANCIE)
Poitiers
Echanges
culturels
Romans
TAROUDANT
Patrimoine:
remparts, activités traditionnelles (tannerie, artisanat),
création d'une bibliothèque municipale, échanges scolaires
et culturels
Saint Denis
AGADIR
Transports
urbains
Saint Germain
en Laye TEMARA
Echanges et
culture, NTIC, santé (hôpital) et social
Sète AL
JADIDA
Echanges et
culture, chantier de jeunes
Strasbourg FES
administration
locale (projet arrondissement pilote)/vie associative/nouvelles technologies de
la communication/services urbains : déplacements urbains / espaces
verts/pédagogie
Suresnes
Echanges, NTIC
Syndicat Sydom
du jura, Lons le Saunier KENITRA, TANGER
Assainissement
solide
AUTRES
OPERATEURS
NANCIE (eau)
Assainissement
liquide et solide (eau -déchets)
SIG,
services urbains
Accompagnement
PMI PME
Fondation 3 CI
Création
d'entreprises
MIGRATION ET
DEVELOPPEMENT
Formation au
développement local, tourisme rural, électrification rurale,
hydraulique, échanges et culture
AFVP
Echanges de
jeunes, coopérants
PACT ARIM
Habitat
requalification urbaine
IAURIF
Requalification
urbaine et développement urbain
ENDA MAGHREB
Environnement et
développement
Déchets
Economie
populaire
Implication des
populations
DATAR
Aménagement
du territoire
FSP
DIV
Formation de
chefs de projets DSU
Caisse des
dépôts
Fond pour le
développement urbain
CORAIL
Eau,
assainissement, entreprises
di Ferruccio Pastore - CeSPI
1. La gestione delle migrazioni nel Partenariato
Euromediterraneo
Il tentativo più ambizioso e prolungato di affrontare in chiave multilaterale i nodi politici connessi alle migrazioni transmediterranee è, a tutt'oggi, quello effettuato nel quadro del Partenariato euromediterraneo.
Nelle intenzioni degli strateghi di Bruxelles, il grandioso disegno di cooperazione interregionale lanciato a Barcellona nel 1995 doveva avere, tra i suoi principali obiettivi di lungo periodo, una gestione più armoniosa, concordata ed efficace dei flussi migratori. Nella Comunicazione della Commissione che sta all'origine del Partenariato si legge, per esempio, che "se le pressioni migratorie non saranno opportunamente gestite grazie ad una attenta cooperazione con i paesi interessati, è facile prevedere il rischio di attriti a scapito delle relazioni internazionali e delle popolazioni immigrate stesse"[29].
Ma, fin dall'inizio, gli intendimenti concreti dei due blocchi costitutivi del Partenariato - gli Stati membri e i dodici partner mediterranei (a cui si era aggiunta la Mauritania, in qualità di osservatore) - divergono drammaticamente. Per gli europei, l'unica vera priorità è di ottenere una maggiore cooperazione dagli Stati di origine e di transito nella lotta all'immigrazione clandestina; per i paesi extra-UE, invece, si tratta di tutelare le comunità emigrate e di preservare la vitale risorsa economica rappresentata dalle rimesse.
Le conclusioni della conferenza di Barcellona riflettono bene lo stato della discussione, disarticolata in due livelli poco comunicanti: uno piuttosto generico, focalizzato sugli aspetti positivi delle migrazioni transmediterranee; l'altro, tecnicamente più approfondito ma ugualmente improduttivo, incentrato sulla lotta all'immigrazione clandestina:
"I partecipanti […]
-
riconoscono
l'importante ruolo svolto dalle migrazioni nelle loro relazioni; convengono di
accrescere la loro cooperazione per ridurre le pressioni migratorie ricorrendo,
tra l'altro, a programmi di formazione professionale e di assistenza per la
creazione di posti di lavoro. Si impegnano a garantire la protezione di tutti i
diritti riconosciuti, ai sensi della legislazione vigente, ai migranti
legalmente residenti nei rispettivi territori;
-
nel settore
dell'immigrazione clandestina, decidono di instaurare una più stretta
cooperazione; in questo contesto le parti, consapevoli delle loro
responsabilità per quanto riguarda la riammissione, convengono di
adottare le pertinenti disposizioni e misure, mediante accordi o regimi
bilaterali, per riammettere i loro cittadini che si trovino in situazione
irregolare […]".
Il compromesso sintetizzato in queste righe si traduce in uno stallo che, per molti anni, le successive riunioni non valgono a superare. In occasione della Seconda Conferenza ministeriale euromediterranea (Malta, 15-16 aprile 1997) e, poi, di nuovo, della riunione ministeriale di medio termine di Palermo (3-4 giugno 1998), l'impegno a intensificare la cooperazione euromediterranea in materia migratoria viene regolarmente e ritualmente reiterato. Ma, la povertà della riflessione preparatoria e la mancanza di coraggio politico dalle due parti precludono progressi sostanziali. Anche il successivo vertice di Stoccarda (15-16 aprile 1999), nonostante le sollecitazioni provenienti da più parti[30], si chiude senza risultati apprezzabili.
2. Lo stallo del processo di Barcellona e
il bilateralismo rinnovato
Lo stallo del volet migratorio del partenariato euromediterraneo si spiega, indubbiamente, con l'estrema delicatezza della tematica e con la rilevanza degli interessi politici ed economici coinvolti. Tuttavia, i fallimenti di questi anni sembrano dipendere anche, almeno in parte, da un difetto di impostazione, da parte europea, di questa componente del processo di Barcellona.
Gli Stati membri e l'Unione hanno infatti concepito il cosiddetto "terzo pilastro" del partenariato - cioè quello dedicato alle questioni sociali e culturali, all'interno del quale sono state collocate le migrazioni (per evitare di dover scegliere se considerarle problema di sicurezza o fenomeno economico) - come un'appendice, utile ma non strettamente necessaria, di un processo il cui fulcro si identificava, invece, con la cooperazione in materia economica e di sicurezza.
Il presupposto culturale di questa impostazione, riflessa puntualmente nella struttura organizzativa e finanziaria del partenariato, è costituito da un rigido credo economicistico, secondo cui la finalità preminente della cooperazione euromediterranea coincide con una maggiore integrazione economica (l'obiettivo concordato è di creare una zona di libero scambio entro il 2010). L'integrazione dei mercati dovrebbe poi creare, quasi spontaneamente, le condizioni abilitanti (o addirittura necessitanti) per l'armonizzazione e l'integrazione in altri settori, da quello politico-militare a quello socio-culturale.
Un simile approccio concettuale sembra fondato su una generalizzazione eccessivamente astratta e ottimistica della lezione derivante dalla storia dell'integrazione europea e trascura alcuni dati fondamentali, tra cui la debolezza e le asimmetrie dell'interdipendenza economica euromediterranea (sia nel campo commerciale, sia in quello finanziario). Tale approccio sottostima, invece, l'importanza delle interdipendenze, culturali politiche ed economiche, generate dalle migrazioni. Basti ricordare, a titolo d'esempio, che secondo l'Ufficio Italiano Cambi, nel 1997, le rimesse inviate per canali ufficiali da immigrati presenti in Italia verso i paesi del Nord Africa (40 miliardi di lire; ma la cifra andrebbe perlomeno raddoppiata se si volesse tenere conto delle rimesse inviate attraverso circuiti finanziari informali) hanno, per la prima volta, superato gli investimenti diretti netti italiani verso la stessa area (30 miliardi).
L'impostazione mercatocentrica del partenariato ha fatto sì che, sino a un'epoca recentissima, si siano investite ben poche risorse - intellettuali e politiche, prima ancora che finanziarie - nella ricerca di una strategia negoziata di regolamentazione dei flussi migratori transmediterranei. Solo negli ultimi mesi, in Europa, è venuta maturando - in diversi ambienti e a diversi livelli - la consapevolezza che l'integrazione euro-mediterranea "richiede che sia rivisto l'approccio concettuale - finora fallimentare - basato sulla sostituibilità dei fattori [investimenti diretti e flussi commerciali invece di flussi migratori] a favore di una politica più pragmatica e di maggiore apertura ai flussi migratori"[31].
Di fronte alla sostanziale paralisi del processo di Barcellona e alla persistente necessità di rafforzare la cooperazione con i principali paesi di emigrazione e di transito del bacino mediterraneo, gli Stati membri (soprattutto quelli dell'Europa meridionale) e le istituzioni europee hanno esplorato vie alternative.
Nel quadro di una più generale tendenza alla moltiplicazione degli accordi bilaterali in materia di riammissione con i maggiori paesi di emigrazione e di transito[32], le autorità di governo di diversi Stati europei hanno raggiunto intese (a partire dal già citato trattato ispano-marocchino del febbraio 1992) o avviato negoziati in materia con gli omologhi mediterranei.
Le istituzioni comunitarie hanno sostenuto questa linea di azione diplomatica, inserendo negli accordi euromediterranei di associazione clausole che impegnano le parti a un dialogo mirato in materia di riammissione. Per esempio, l'accordo con la Tunisia (fatto a Bruxelles il 17 luglio 1995, entrato in vigore il 1° marzo 1998) prevede che tra le Parti si instauri un "dialogo periodico [sui] problemi relativi […] all'immigrazione clandestina e alle condizioni di rimpatrio delle persone la cui situazione è irregolare rispetto alla legislazione in materia di soggiorno e di stabilimento in applicazione nel paese ospite" (art. 69, 3° comma, lett. d); lo stesso accordo colloca, inoltre, tra le "azioni di cooperazione in campo sociale" aventi "carattere prioritario", il reinserimento delle persone rimpatriate a causa del carattere illegale della loro situazione rispetto alla legislazione dello Stato in questione" (art. 71, 1° comma, lett. b). Una formulazione pressoché identica è contenuta nell’accordo con il Marocco (fatto a Bruxelles il 26 febbraio 1996, entrato in vigore nel marzo 2000)[33].
Ma, negli ultimi anni (e nonostante i progressi appena descritti), un certo approccio europeo alla gestione delle migrazioni transmediterranee, imperniato sugli aspetti repressivi e, in particolare, sulla riammissione, ha dimostrato tutti i suoi limiti. E' evidente, infatti, che l'atto di riprendersi i propri cittadini emigrati irregolarmente è sommamente impopolare per i governanti di qualsiasi paese a forte pressione migratoria. E' del tutto comprensibile, quindi, la tendenza di tali Stati a non pubblicizzare l'eventuale stipulazione di accordi di riammissione e a non applicarli con particolare costanza e diligenza.
Per superare tali ostacoli, alcuni paesi europei hanno tentato, ultimamente, di affiancare alle semplici pressioni diplomatiche l'uso di incentivi specifici di vario tipo. Da questo punto di vista, l'esperienza italiana è particolarmente varia e interessante, in quanto abbina a benefici di natura finanziaria e sostegni di natura tecnica[34], delle contropartite di natura diversa, rappresentate da quote privilegiate di visti d'ingresso a fini di lavoro, nell'ambito della programmazione annuale degli ingressi, che l'Italia effettua a partire dal 1998. In questo quadro, tra i paesi che hanno beneficiato di un trattamento preferenziale, spiccano - oltre all'Albania - la Tunisia e il Marocco, a cui sono stati concessi contingenti garantiti di visti sia nel 1998, sia nel 2000[35]. La bozza del decreto di programmazione dei flussi per il 2001, attualmente (gennaio 2001) sottoposta all'esame consultivo delle parti sociali e del Parlamento in vista dell'approvazione definitiva, conferma una quota di 3.000 visti a favore di lavoratori tunisini, mentre riduce a 1.500 il contingente riservato a cittadini marocchini. Questa revisione verso il basso riflette l'insoddisfazione delle autorità italiane per il grado di collaborazione del Marocco in materia di riammissione, e rende evidente il persistere di tensioni e sostanziali divergenze di interessi in questo campo[36].
3. L’azione del Gruppo ad alto
livello su asilo e migrazioni
Ma il mancato decollo della componente migratoria del partenariato Euromed, oltre a rilanciare l'attivismo bilaterale degli Stati UE più direttamente interessati dal fenomeno, ha incoraggiato la ricerca di soluzioni innovative anche a livello europeo, tra le quali spicca l'esperimento in corso di realizzazione, a partire dalla fine del 1998, ad opera del Gruppo ad alto livello su asilo e migrazioni (High-Level Working Group on Asylum and Migration, noto con l'acronimo inglese HLWG)[37].
L'attività del HLWG ha uno stretto legame, diretto e indiretto, con la politica europea nei confronti delle migrazioni transmediterranee. Tra i sei paesi su cui si è concentrato l'esercizio di analisi interdisciplinare delle cause dei flussi migratori e di pianificazione interpilastro delle politiche di controllo e prevenzione svolto da quest'organismo, vi sono infatti due Stati rivieraschi del Mediterraneo (Albania, con la regione circostante, e Marocco), che rappresentano rispettivamente il più importante paese di emigrazione della regione (in termini relativi, cioè di proporzione degli emigrati sulla popolazione totale) e il paese mediterraneo con il più alto numero di cittadini residenti all'estero (dopo la Turchia), nonché quello con il più forte potenziale di emigrazione ulteriore, in termini assoluti. D'altra parte, anche gli altri quattro paesi esaminati dal Gruppo ad alto livello (Afghanistan, con la regione circostante; Iraq, con una forte attenzione non ufficialmente dichiarata per la Turchia; Somalia; Sri Lanka) sono emissari di flussi migratori che transitano in gran parte per il bacino mediterraneo.
Non è questa la sede per illustrare la portata innovativa dell'attività svolta dal HLWG (che deriva essenzialmente dal suo approccio interdisciplinare all'analisi dei fenomeni migratori e dalla sua forte attenzione a misure di carattere preventivo, oltre che repressivo, nei confronti dei movimenti illegali[38]), né per riflettere sui limiti (di natura finanziaria e organizzativa) dell'esercizio stesso. Ciò che interessa qui sono, invece, i riflessi, parzialmente negativi, che questa iniziativa ha prodotto sulle relazioni euromediterranee in campo migratorio.
Nei suoi primi dieci mesi di attività, il Gruppo ad alto livello ha prodotto cinque Piani d'azione (approvati dal Consiglio Affari Generali dell'11 ottobre 1999, e successivamente adottati dal Consiglio europeo di Tampere), a cui si è aggiunto, alcuni mesi più tardi, il Piano per l'Albania e la regione circostante (approvato dal CAG del 13 e 14 giugno 2000), la cui elaborazione era stata ritardata dalla crisi kosovara. Questi Piani - che, sebbene privi di efficacia vincolante, intendono orientare e armonizzare l'azione esterna delle istituzioni UE e degli Stati membri in materia migratoria nei confronti dei paesi esaminati - sono stati predisposti unilateralmente, in assenza cioè di qualsiasi consultazione con le autorità dei sei paesi considerati. Un tale modo di procedere - comprensibile nel caso di Stati in cui manca un governo internazionalmente riconosciuto (Afghanistan, Iraq, Somalia) - è difficilmente spiegabile per gli altri paesi. Nel caso specifico del Marocco - paese di cui è noto l'attaccamento alla dimensione simbolica, oltreché pratica, della sovranità - l'approccio unilateralistico del HLWG ha generato una reazione di disappunto e di temporanea chiusura, non del tutto ingiustificata, se si considerano le attese suscitate dalla firma dell'accordo euromediterraneo di associazione.
Dopo aver preso atto, con un certo ritardo, dell'errore compiuto, il Gruppo ad alto livello ha annunciato l'intenzione di rimediare:
"L'esercizio avviato dal HLWG deve
superare la riluttanza dei paesi presi in esame ad accettare una messa in opera
(implementation) unilaterale
[dei Piani d'azione].
L'implementazione richiede pertanto una sincera partnership tra l'Unione europea e i paesi oggetto dei
Piani stessi (target countries). Sussiste il pericolo che l'impressione di una mancanza di
consultazione tra l'Unione europea e tali paesi produca il netto rifiuto da
parte di questi ultimi di cooperare nella messa in opera dei Piani. Per questa
ragione, una cooperazione tra l'Unione europea e i paesi in questione è
indispensabile affinché i Piani conseguano i loro obiettivi. I Piani
devono contenere un'enfasi particolare sull'aspirazione a costruire una partnership tra l'Unione europea e i paesi che ne sono
l'oggetto. La messa in opera dei Piani deve comportare la definizione di
impegni reciproci definiti di comune accordo"[39].
Nel caso particolare del Marocco, che ci interessa più direttamente qui, questo nuovo orientamento si è tradotto nella proposta di creare, all'interno del quadro istituzionale posto in essere dall'accordo di associazione UE-Marocco, un "Sottocomitato su Immigrazione e Affari Sociali", il cui compito iniziale dovrebbe essere proprio quello di riformulare il Piano d'azione del HLWG alla luce delle obiezioni di merito marocchine, facendone la base di una cooperazione articolata e duratura.
E' ugualmente importante notare che, nel frattempo, diverse misure previste dal Piano d'azione per il Marocco sono già state finanziate con fondi MEDA e che la stessa opportunità dovrebbe essere garantita nell'ambito del quadro finanziario MEDA II (2000-2006)[40].
Occorre sottolineare, peraltro, che gli sviluppi appena illustrati nelle relazioni euro-marocchine, per quanto rilevanti, non hanno certamente eliminato ogni divergenza. E' significativo, in proposito, che, in occasione della conferenza convocata dalle Nazioni Unite a Palermo (12-15 dicembre 2000) per la firma della Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale, il Marocco (come altri importanti paesi di emigrazione, tra cui, in ambito mediterraneo, Algeria, Egitto e, per ragioni diverse, Israele) ha rifiutato di sottoscrivere il Protocollo allegato per la lotta contro il traffico di migranti clandestini.
Scheda - Il primo Bando di Gara della
Commissione Europea su “Cooperazione con i paesi terzi nell’area
migrazioni”
A cura di Andrea Stocchiero
La Commissione Europea ha recentemente creato una
nuova linea di finanziamento, B7-667, chiamata “cooperazione con i paesi
terzi nell’area delle migrazioni”. Questa linea si inquadra nelle
attività del High Level Working Group on Asylum and Immigration creato
dalla Commissione per studiare e proporre nuove politiche di gestione dei
flussi secondo un approccio comprensivo, che tenga cioè conto dello
sviluppo dei paesi di origine e degli accordi di partenariato che legano
l’Unione Europea a questi paesi. Le azioni sostenute dalla Commissione
riguardano infatti paesi che sono stati finora oggetto dell’analisi del
High Level Working Group e che sono: Afghanistan e regioni vicine, Iraq,
Marocco, Somalia, Sri Lanka, Albania e regioni vicine.
L’obiettivo è quello di influenzare i
movimenti migratori attraverso la realizzazione di azioni in tre campi prioritari:
-
il sostegno alla
gestione delle migrazioni e a sistemi di asilo
-
il sostegno a
ritorni volontari nei paesi di origine e al rafforzamento della capacità
di questi paesi a far fronte
agli impegni di riammissione presi con l’UE e i suoi paesi membri
-
il sostegno alla
lotta al traffico e all’immigrazione illegale aiutando i paesi terzi a
elaborare una politica attiva per la riduzione dell’immigrazione
clandestina.
Sono indicate alcune misure concrete:
- la cooperazione istituzionale e legislativa per la determinazione e l’amministrazione dello status di rifugiati
- il rafforzamento di sistemi di informazione nei paesi di origine
- la prevenzione e lotta dell’immigrazione illegale di gruppi vulnerabili come i minori
- campagne di informazione sulle opportunità di emigrazione legale
- la cooperazione per favorire le relazioni e gli scambi di esperienze dei migranti con i loro paesi di origine
- il ritorno di migranti con qualificazioni richieste nel mercato del lavoro dei paesi di origine
- formazione e trasferimento di conoscenze, fornitura di materiale e altro per rafforzare i controlli di frontiera
- sviluppo di reti di uffici che gestiscono i flussi migratori.
- Rafforzamento della capacità di controllo e rilevamento di documenti falsificati.
Il finanziamento della Commissione è pari a 10 milioni di euro e il primo bando è scaduto a fine luglio 2001.
Sito web: http://europa.eu.int/comm/justice_home/
4. Conclusione
Per concludere, occorre dire che vi sono ragioni specifiche, inerenti alla natura dei flussi transmediterranei contemporanei, che inducono a insistere sulla cooperazione regionale.
In quest'epoca di globalizzazione accelerata e di "precarizzazione" del lavoro, le migrazioni internazionali - nel Mediterraneo, ma non solo - si presentano sempre più chiaramente sotto forma di percorsi geografici ed esistenziali complessi, articolati in più tappe reversibili, in cui l'ipotesi del ritorno (o di una nuova partenza) non è mai esclusa definitivamente. In questo contesto, il migrante non è più colui che, nel corso dell'esistenza, ricomincia altrove una "nuova vita", mutando la sua appartenenza, da uno spazio nazionale all'altro; sempre più spesso, si tratta di un individuo che, scegliendo la mobilità (è sempre una scelta fortemente condizionata, beninteso), allarga i suoi orizzonti sociali, culturali ed economici, collocandosi in una sfera transnazionale, che sempre più spesso diventa la sua unica, vera "patria".
E' solo in un'epoca assai recente che gli studiosi, gli analisti e (in un secondo tempo) i policy-makers hanno cominciato a prendere atto di questa radicale trasformazione dei fenomeni migratori, con esiti divergenti sul terreno propriamente politico. Per alcuni, la transnazionalità insita nelle migrazioni contemporanee è diventata un pretesto per opporsi a dinamiche di integrazione stabile, basate sull'accesso pieno, seppur graduale, ai diritti di cittadinanza tipici delle democrazie occidentali. Per altri, invece, la crescita di importanza della dimensione transnazionale è una tendenza che la politica deve assecondare, sostenere e dirigere per ragioni più generali; essa rappresenta infatti una straordinaria occasione per massimizzare la ricaduta positiva delle migrazioni, sia per i paesi di destinazione sia per quelli di origine.
La parola-chiave di questo nuovo paradigma culturale e politico è "co-développement" - neologismo introdotto inizialmente in Francia [41] - che designa uno sviluppo parallelo e sinergico del paese di origine e di quello di destinazione, in cui il migrante funge da scintilla iniziale e da fattore trainante. Incidentalmente, va detto che, sebbene si tratti di una prospettiva interessante e suggestiva, essa deve liberarsi di un'ambiguità intrinseca, che la espone a strumentalizzazioni:
"Non si tratta […] di riflettere
sull'integrazione circolare come sostituto ad una impossibile integrazione
lineare e di mettere d'accordo orientamenti progressisti e orientamenti
anti-immigrati su un equivoco [quello spesso sintetizzato nel luogo comune:
«aiutiamoli a casa loro»]. Si tratta
bensì di affermare che se le tradizionali politiche di integrazione
basate sulla progressiva acquisizione di diritti politici, economici e sociali
e sul raggiungimento dell'eguaglianza e delle pari opportunità tra
immigrati e cittadini restano imprescindibili (anche se, nell'esperienza dei
paesi di vecchia immigrazione, non sempre hanno avuto successo), è
urgente affiancare a queste politiche iniziative che favoriscano la
«integrazione circolare» e valorizzino a questo fine le potenzialità
degli attori immigrati"[42].
Tracce di questo dibattito cominciano ad affiorare anche in ambito istituzionale europeo. In un recente intervento, per esempio, il Presidente della Commissione europea ha parlato delle migrazioni transmediterranee e delle politiche relative in termini fortemente innovativi:
"La sfida più grande che dovremo
affrontare sarà probabilmente quella di trasformare le disparità
economiche e demografiche dell'area - che spesso hanno costituito una fonte di
incomprensioni e di tensione - in un'opportunità di ulteriore crescita. L'immigrazione
deve diventare un mezzo per promuovere lo sviluppo. Negli anni a venire, il fabbisogno europeo di nuovi
lavoratori è destinato a crescere, insieme ai flussi migratori. Soltanto
attraverso uno sforzo congiunto da entrambi i lati del Mediterraneo sarà
possibile gestire questa situazione, godendone i benefici potenziali. Le politiche
in materia di immigrazione non devono essere puramente reattive, ma orientate
al lungo periodo e finalizzate alla creazione, nell'arco dei prossimi
trent'anni, di un'area integrata di circa novecento milioni di persone"[43].
Alcuni importanti impegni in questa direzione sono contenuti nella Strategia comune dell'Unione europea per la regione mediterranea, adottata dal Consiglio europeo di Feira, nel giugno 2000:
"Lavorando a partire dall'acquis del processo di Barcellona e dalle
Conclusioni del Consiglio europeo di Tampere, l'UE si impegna a: […]
-
promuovere la
trasparenza e l'affidabilità dei sistemi normativi dei paesi partner al fine di incoraggiare gli investimenti
stranieri e di incoraggiare i migranti regolari ad avviare attività
in favore del co-sviluppo dei paesi d'origine;
-
assicurare che
le norme in materia di trasferimento dei profitti siano liberalizzate e trovare
soluzioni per evitare la doppia tassazione, specialmente nei confronti dei
migranti regolari e dei doppi
cittadini; […]
-
lavorare con i partner mediterranei per affrontare la questione
migratoria prendendo pienamente in considerazione le realtà economiche,
sociali e culturali che questi ultimi hanno di fronte. Un tale approccio
richiede la lotta alla povertà, il miglioramento delle condizioni di
vita e delle opportunità d'impiego, la prevenzione dei conflitti, il
consolidamento delle istituzioni democratiche e la garanzia del rispetto dei
diritti umani;
-
sviluppare un
approccio comune per garantire l'integrazione sociale dei cittadini degli Stati
partner mediterranei che
abbiano soggiornato legalmente in uno Stato membro per un certo periodo e siano
titolari di un titolo di soggiorno di lunga durata, con l'obiettivo di dotarli
di uno status giuridico
paragonabile a quello dei cittadini europei"[44].
E' evidente che una prospettiva strategica di questo tipo, che voglia fare delle migrazioni un fattore di co-sviluppo e di integrazione tra le due rive del Mediterraneo, quali esse sono state in passato - esige che le diverse iniziative bilaterali di cooperazione siano integrate da programmi ambiziosi di portata regionale[45]. Solo questi, infatti, potranno contribuire a creare un sistema di governo delle migrazioni adeguato a una realtà in cui i flussi lineari e unidirezionali di matrice fordista e post-coloniale sono definitivamente esauriti, e il Mediterraneo si configura sempre più nettamente quale spazio di mobilità transnazionale e crocevia migratorio globale.
A cura di Lorenzo Coslovi – CeSPI[46]
La missione dell’International Organization on Migration (IOM) in Italia ricopre la funzione di coordinatrice per lo sviluppo e la promozione delle attività di cooperazione nella Regione Mediterranea
Secondo il World Migration Report dell’ IOM, al giorno d’oggi il numero di migranti supera il numero di 150 milioni di persone. Lo scenario Euro-Mediterraneo assume una rilevanza sempre maggiore per le dinamiche migratorie, e la complessità della situazione regionale rappresenta una sfida per le molte entità implicate, governative, non governative, locali, regionali e internazionali.
Creato nel 1951
come Organizzazione
Intergovernativa per assistere il rientro dei profughi europei,
rifugiati e migranti, l’IOM è cresciuto fino a comprendere una
varietà di attività legate alla gestione dei fenomeni migratori
nel mondo. L’IOM, con più di 125 Stati
membri ed osservatori, la sede centrale a Ginevra, più di 100 uffici in
80 paesi, e legami con le Nazioni Unite ed altre Organizzazioni Internazionali,
è in questo momento l'
organizzazione internazionale principale per espansione, impegnata nel
principio che una migrazione umanitaria ed ordinata avvantaggia i migranti e le
società
Nei 50 anni trascorsi dalla sua creazione, l’IOM ha assistito ed aiutato più di 11 milioni di migranti e rifugiati nella ricerca di nuove possibilità di vita, nello stabilirsi nei paesi di destinazione, nel ricongiungersi con i membri della famiglia, nel ritorno volontario e nel loro reintegro nelle aree di origine. Le attività ed i programmi dell’IOM cambiano in funzione dei bisogni nazionali ed internazionali e comprendono ora la assistenza diretta ai migranti, la cooperazione tecnica, l’incremento delle capacità di gestione della Migrazione, la facilitazione della Migrazione lavorativa, risposte umanitarie veloci agli improvvisi flussi migratori, contromisure al traffico dei migranti, campagne di informazioni, programmi medici e per la salute dei Migranti, politiche e ricerche su temi relativi alla Migrazione e altro.
Nell’ultima decade, il panorama migratorio, e di conseguenza l’attività dell’IOM, è cambiato notevolmente. I paesi dell’Europa orientale si sono uniti all’IOM. L’organizzazione è stata fortemente coinvolta nelle attività umanitarie e di ricostruzione nell’area della ex-Yugoslavia, sia nella cooperazione tecnica per la gestione delle migrazioni, sia nei programmi contro il traffico dei migranti nell’Europa dell’est e nei Balcani. Le comunità locali e i meccanismi di cooperazione decentrata hanno avuto, e continuano ad avere, un importante ruolo in molti dei programmi IOM
Alcune recenti attività chiave sviluppate dalla Missione dell’IOM a Roma, in stretta collaborazione con il Governo Italiano, vertono sulla Migrazione dei lavoratori e l’integrazione dei lavoratori migranti. A questo proposito vengono qui di seguito presentati alcuni dettagli riguardanti l’esperienza pilota per l’ Albania che merita alcune considerazioni rappresentando una prova pratica atta a facilitare la migrazione regolare verso l’Italia e contrastare il traffico dei migranti
In stretta collaborazione con le autorità italiane ed albanesi, e conformemente a quelle che sono state identificate come necessità di lavoratori stranieri in specifici settori dell’economia italiana, la IOM ha lanciato in Albania nel 2000 un programma per registrare i potenziali lavoratori migranti che rispondessero ai principali requisiti del mercato del lavoro italiano. Con i Ministeri del Lavoro di ambedue i paesi, sono stati stabiliti ed accordati i criteri per una campagna di informazione attraverso i Media e la rete di uffici di collocamento, per la elaborazione delle domande (quasi 30.000), per le interviste personali (11.000 finora), per la valutazione della conoscenza della lingua italiana e delle capacità professionali, per la registrazione (più di 5.000). Il database dei potenziali migranti è stato gradualmente trasferito/aggiornato al database centrale, del Ministero del Lavoro Italiano, dei potenziali lavoratori migranti ancora all’estero perché fosse distribuito fra i datori di lavoro italiani.
Questo database centrale include anche i potenziali migranti, verso l’Italia, in Tunisia, dove è stata sviluppata una strategia simile, su base bilaterale, in cui i meccanismi di registrazione sono stati effettuati dalle autorità tunisine. Per il completo funzionamento di questo processo, parecchi passi devono ancora essere fatti, in particolar modo sul versante italiano. Si stanno sviluppando nuove misure per promuovere questo sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro, come, ad esempio, indirizzare i datori di lavoro italiani verso il database centrale per precisare le domande di lavoro e assumere i potenziali lavoratori migranti registrati.
La gestione della migrazione, però, può essere arricchita ulteriormente attraverso molte altre componenti. In Italia, con il supporto finanziario del Fondo Sociale Europeo, l’IOM ha sviluppato strumenti e strategie di orientamento linguistico e culturale, ha formato formatori e mediatori culturali per indirizzare alcuni bisogni e richieste dei migranti, ha costituito una rete con le autorità locali, associazioni di imprenditori e centri di formazione per effettuare sia l’orientamento che i corsi di formazione professionale mirati alla integrazione lavorativa e sociale degli immigrati. L’iniziativa pilota è stata testata attraverso 34 corsi in differenti Regioni cui hanno preso parte più di 600 migranti, provenienti dall’Albania e dalla Regione Balcanica, alla ricerca di opportunità di lavoro in Italia: il 75 – 80% dei partecipanti sono stati assunti. Con il fine di promuovere questo meccanismo e facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, l’IOM ha anche aiutato alcuni imprenditori a incontrare/intervistare in Albania potenziali lavoratori migranti registrati nel database IOM
Le attività di orientamento e formazione in questo progetto dovettero avvenire in Italia a causa delle linee guida della fonte di finanziamento: in principio, le sessioni di formazione avrebbero dovuto essere organizzate nei paesi di origine dei migranti, essendo d’altronde questa una delle priorità dell’IOM per lo sviluppo di nuovi progetti. Tuttavia, è necessario fare molta attenzione in questa esercitazione: l’attività di orientamento nel paese di origine dovrebbe essere strettamente collegata al reclutamento ed al processo migratorio. Essere registrati per una possibile migrazione verso un paese europeo è già quasi una promessa di una opportunità di una nuova vita, essere orientati/formati per andare all’estero deve condurre alla migrazione e al lavoro nel paese di destinazione, altrimenti molte aspettative non verrebbero realizzate e la credibilità del meccanismo di gestione della Migrazione potrebbe risultare compromessa
Correttamente gestita, la migrazione può essere un potente strumento per il co-sviluppo
Le economie dell’Italia e di altri paesi dell’UE, per motivi demografici ed economici, richiedono lavoratori in alcuni settori, e le necessità di lavoratori stranieri espresse dal mercato interessano le politiche di migrazione.
D’altra parte, alcuni paesi vicini dispongono di una forza lavoro in eccesso e sono, tradizionalmente, “sending countries” che traggono beneficio dalle rimesse o dagli investimenti di molti dei loro lavoratori nazionali all’estero così come dalla circolazione stessa del capitale umano. Questi approcci nazionali possono costituire il terreno adeguato, per i paesi “sending” e “receiving”, su cui costruire e condividere le politiche migratorie.
2. L’impegno nel Nord Africa
E’ ora il caso di focalizzare l’attenzione sul Nord Africa. Fino all’anno 2000, l’IOM del Cairo era la sola struttura operante dell’organizzazione in quest’area geografica. La sede dell’IOM in Egitto, assieme al “Ministero del Lavoro e dell’ Immigrazione” e alla cooperazione italiana ha elaborato un progetto (Integrated Migration Information System for Egypt) per aumentare la capacità tecnica e istituzionale del Ministero al fine di utilizzare i proventi della migrazione per lo sviluppo sociale ed economico del paese.
A partire dal 1999, un Gruppo di Lavoro del Mediterraneo Occidentale ha sviluppato una strategia ed un piano di azione che può essere sintetizzato in tre punti principali:
Ø Migliorare la conoscenza delle dinamiche migratorie nella regione
Ø Svilupprea un concreto progetto di proposte a beneficio dei migranti e degli Stati
Ø Proporre un processo regionale per la discussione e la cooperazione sulla migrazione nel Mediterraneo Occidentale
Negli ultimi due anni, importanti passi avanti sono stati fatti con l’aggregazione all’IOM, in qualità di Stati membri, dell’Algeria, del Marocco, e della Tunisia, (mentre contatti concreti sono al momento in corso con Libia e Mauritania) e con la recente richiesta del Segretariato della Unione Maghrebina Araba di aver lo Status di Osservatore al Consiglio IOM. In seguito alle consultazioni fra l’IOM ed i tre nuovi Stati Membri, sono stati identificati alcuni aspetti delle sfide migratorie relative ad Algeria, Marocco e Tunisia:
Ø Rafforzamento delle capacità nella gestione della Migrazione
Ø Co-sviluppo e integrazione dei migranti nelle società ospitanti
Ø Sistemi di informazione migratoria e diritti dei migranti
Ø Migrazione lavorale (selettiva)
Ø Salute e migrazione (Tunisia e Algeria)
Ø Migrazione di transito (Marocco e Algeria)
Conseguentemente, hanno avuto inizio diverse iniziative:
- In Algeria, lo sviluppo e l’approvazione di un progetto pilota su Migrazione e salute e le consultazioni per aprire un ufficio IOM ad Algeri nel 2002
- In Marocco, tramite l’implementazione di un progetto di cooperazione tecnica con la Fondazione Hassan II per la costituzione di un Osservatorio sulla comunità marocchina che vive all’estero, e l’approvazione di un progetto per un Centro di Ricerca per i Diritti dei Migranti
- In Tunisia, attraverso un intenso dialogo e un lavoro di valutazione con le autorità di riferimento e la presenza stabile dell’IOM dal Marzo 2001
Il primo frutto visibile dell’IOM Tunisi è stato il recente seminario, pienamente riuscito, organizzato assieme al Ministero degli Affari Sociali e con il supporto della Cooperazione Italiana, sulle politiche migratorie di 5 paesi dell’U.E. che ricevono un alto numero di migranti dalla Tunisia.
In questa occasione, i partecipanti e gli esperti invitati hanno sottolineato l’importanza delle azioni di Co-sviluppo intraprese a livello nazionale, regionale, e locale, nei paesi di origine come in quelli di destinazione. Il ruolo delle entità locali (municipalità, province e regioni), è stato portato come esempio di migliore pratica a questo rispetto, essendo queste in prima linea quando trattano con i bisogni dei migranti, trovandosi nei paesi “sending” o “receiving”. L’IOM è già impegnato per un aumento del ruolo della cooperazione decentrata nei suoi progetti in Tunisia, e crede che la costruzione di sinergie fra entità locali, agenzie internazionali e altri partners, nel settore pubblico e privato, risponda effettivamente ad un tema trasversale quale è la migrazione. La creazione di opportunità di impiego nelle aree di provenienza della migrazione, il rafforzamento del ruolo dei migranti ed il loro coinvolgimento nello sviluppo dei paesi di origine, stabilire delle interrelazioni fra differenti istituzioni per condividere le migliori esperienze, sono solo alcuni esempi di esperienze riuscite di co-sviluppo
Quanto sopra menzionato rientra nell’ottica di una condivisione di responsabilità nella gestione della migrazione, una attitudine che riduce le migrazioni irregolari e migliora la percezione della migrazione come un tutto. Si riconosce cioè che la gestione della migrazione non è semplicemente una questione bilaterale, e che una “visione regionale mediterranea” potrebbe completare ed aumentare le esperienze portate avanti dalle entità nazionali e locali.
L’IOM infatti concentra le proprie forze per lo sviluppo di un dialogo regionale fra i governi della regione del Mediterraneo occidentale incoraggiando le consultazioni multilaterali e rafforzando lo sviluppo di un meccanismi e processi regionali attraverso l’organizzazione di forum di discussione.
LA REGIONE PIEMONTE NEL MAGHREB – MAROCCO E
TUNISIA
A cura
del Settore Affari Internazionali e Comunitari della Regione Piemonte
1. Le ragioni dell’intervento
Le ragioni generali:
ü ragioni geografiche e culturali
ü attenzione crescente dell'Europa verso l'area
mediterranea
ü rilevante presenza di istituzioni ed enti
piemontesi sul territorio
ücreare le condizioni per trarre i maggiori vantaggi dalla liberalizzazione degli
scambi commerciali con la sponda sud del Mediterraneo (2010)
Le ragioni specifiche:
Il Marocco è un paese da cui proviene un ingente flusso migratorio verso il Piemonte
Creare condizioni per lo sviluppo di impresa e assicurare appoggio
istituzionale ad imprenditori piemontesi interessati ad operare in tale Paese
In Tunisia
stabilire legami con il mercato più avanzato della regione (porta di
ingresso economico al Maghreb)
2. Il percorso
1998 – Studio preliminare per l’individuazione delle opportunità e delle priorità
Primi contatti con le autorità locali
1999 – 2000 Definizione degli obiettivi, delle aree e delle ipotesi di intervento
Obiettivi generali:
üpromozione e sostegno ai soggetti piemontesi che propongano iniziative di cooperazione con il Marocco;
ücreazione di rapporti di reciproco rafforzamento tra soggetti omologhi delle due parti;
üofferta di risposte concrete ai problemi locali;
üsostegno ai processi di decentramento del Marocco;
üofferta alla regione marocchina di maggiori opportunità di relazione con il Nord e con l'UE.
Area individuata:
Regione Chaouia Ourdigha
Ambito specifico di intervento: promozione e creazione d’impiego e d’impresa
Ø
2001, luglio - Protocollo di collaborazione e partenariato con la Regione
di Rabat
2001, ottobre - Protocollo di collaborazione e partenariato con la Regione di Chaouia Ourdigha
3. I protocolli di collaborazione e
partenariato
Protocollo di collaborazione e
partenariato tra la Regione Piemonte e la Regione di
Rabat-Salé-Zemmour-Zaer del Regno del Marocco.
Nell'ambito della politica regionale volta a creare opportunità di collaborazione e scambio nell'area del Maghreb, il 13 luglio 2001 è stato siglato il Protocollo di cooperazione e partenariato tra la Regione Piemonte e la Regione di Rabat-Salé-Zemmour-Zaer del Regno del Marocco, in occasione della visita in Piemonte di una delegazione in rappresentanza di tale regione, guidata dal Presidente del Consiglio Regionale Abdlkébir Berkia.
La firma del Protocolllo costituisce la formalizzazione di una alleanza che permetterà di collaborare attivamente per essere protagonisti a livello internazionale e cogliere insieme ogni opportunità di sviluppo.
L'accordo
avviene nel quadro di una visione strategica della Regione Piemonte, che si rende
disponibile ad attivarsi successivamente per estendere il rapporto di
partenariato con la Regione francese di Rhone Alpes, con la quale già
collabora la Regione di Rabat.
Con questa iniziativa la Regione Piemonte intende raggiungere diversi obiettivi:
trovare un appoggio concreto per dare supporto istituzionale alla presenza cittadini ed operatori piemontesi in quell’area;
cogliere insieme alla Regione di Rabat le opportunità che la comunità internazionale riserva alle istituzioni che collaborano in forma di partenariato;
rappresentare insieme, in modo forte e proficuo, gli interessi delle nostre due Regioni nei confronti delle rispettive amministrazioni centrali.
In particolare, si prevede lo sviluppo di progetti di cooperazione nei seguenti settori: lo sviluppo economico, attraverso l’incoraggiamento di partenariati tra imprese, la creazione di piccole e medie imprese, la creazione di parchi industriali regionali, di zone industriali e di aree di attività economica; la formazione professionale, l’educazione e l’apprendistato; le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione; l’ambiente e lo sviluppo compatibile; la cultura, lo sport e la gioventù; l’attività associativa; l’urbanistica e la gestione del territori regionale; le azioni di solidarietà; l’attività di creazione d’impiego; le azioni relative alla realizzazione e la gestione delle risorse idriche; la promozione di azioni di aiuto allo sviluppo con il concorso delle organizzazioni di solidarietà internazionali delle rispettive Regioni nel campo della sanità, della formazione, degli handicappati, dello sviluppo sociale e sportivo.
Un analogo Protocollo verrà siglato con la Regione di Chaouia – Ourdigha, ove la presenza della Regione Piemonte è già consistente.
4.
Metodologia dell’intervento nella Regione di Chaouia – Ourdigha
L’impegno
della Regione si sostanzia in due percorsi: un percorso di progettazione
regionale e uno di sostegno alla progettualità di altri soggetti. A
questi percorsi si affianca un’attività di accompagnamento e
regia.
4.1
Il primo percorso, la progettazione regionale
Rafforzamento istituzionale: Progetto di Cooperazione con la Regione di CHAOUIA-OURDIGHA nel campo dello sviluppo locale. Il progetto opererà in due Province di tale Regione - Khouribga e Benslimane – attraverso azioni di sostegno alla creazione d’impiego e creazione d’impresa (sono coinvolti operativamente la Provincia e il Comune di Alessandria)
Obiettivi: potenziare l'offerta di servizi di assistenza e formazione allo sviluppo di nuove PMI; sviluppare direttamente specifiche azioni finalizzate alla creazione di nuove piccole e micro imprese; rafforzare e sviluppare l'offerta locale di attività di servizio d assistenza alle PMI già esistenti.
Ø fase 1 identificare la cellula operativa locale del progetto , fornirle una fase di formazione; progettazione di dettaglio
Ø fase 2 gestione sul campo di azioni di promozione dello sviluppo locale attraverso la creazione di nuove imprese ed il rafforzamento delle imprese locali.
Somma impegnata per il 2000: £. 93.400.000 (€ 48.237, 07 )
Valore progetto: £. 118.400.000 (€ 61.148, 50 )
4.2 Il secondo
percorso, sostegno alla progettualità di altri soggetti
Attività di “Promozione e regia”
che la Regione Piemonte intende sostenere nei confronti di altri progetti ed
iniziative di Cooperazione Decentrata con il Marocco ad opera di Organismi
Piemontesi (Enti Locali, Associazioni, Università, ONG, Camere di
Commercio, imprese private, etc…).
Strumento: bando di concorso rivolto d enti,
associazioni, imprese ed organismi piemontesi
Finalità: consentire ai soggetti interessati
di presentare proposte di progetto finalizzate alla promozione ed alla
creazione d'impiego e creazione d'impresa.
Obiettivi: valutare l'interesse della
società civile piemontese ad avviare rapporti di collaborazione con
realtà omologhe del Marocco, in un'ottica di cooperazione decentrata
Progetti ammessi: progetti volti ad affrontare le
problematiche relative alla creazione d'impiego e d'impresa mediante azioni di
sensibilizzazione,scambio culturale, progetti di rientro, rafforzamento
istituzionale, trasferimento di know-how, formazione, assistenza tecnica.
Risorse disponibili: 330.000.000 ( € 170.430, 78 ) Contributo: max 60% del
costo del progetto
Progetti
approvati: 14
Valore
dei progetti approvati: £. 593.110.000 ( € 303.315, 75 )
Contributi
erogati: £. 330.000.000 (
€ 170.430, 78 )
Titoli dei progetti:
Ø Riduzione dell’impiego di fitofarmaci nella
difesa delle produzioni orticole in Marocco
La scuola e l’impresa: scambi scolastici e universitari tra Piemonte e Marocco
FOR.S.IMP.
Formazione integrata per lo sviluppo d’ impresa in Marocco
Pepiniere – Incubatore d’impresa
Scambio di esperienze tra Piemonte e Marocco sul restauro di materiali architettonici antichi in terracotta. Predisposizione di cantieri sperimentali per l'attuazione di operazioni concrete con operatori delle due aree geografiche.
Centro polivalente per giovani in difficoltà finalizzato al reinserimento sociale attraverso l'offerta di servizi di socializzazione, di ascolto, di accompagnamento all'apprendistato e all'inserimento lavorativo
Progetto pilota per il sostegno e la
riqualificazione delle tradizioni artigianali in Marocco
New business community – Impresa di servizi della nuova economia
Progetto per la creazione di impresa sociale nella regione di Chaouia-Ourdigha
Fiera di Khouribga
Mediterraneo: convivenza e mediazioni
Ø Progetto di cooperazione per lo sviluppo di un centro tecnologico sulle materie
plastiche
Ø Zarbia Maghrebia: progetto per la valorizzazione
della produzione artigianale nella provincia di Khouribga
Ø Creazione di una cooperativa casearia nella
Provincia di Tetouan
4.3
Attività di accompagnamento, coordinamento e regia
Progetto: attività di accompagnamento,
coordinamento e regia
Ente
proponente: Provincia di Alessandria, ICS
Obiettivi:
Ø sensibilizzare i potenziali attori della cooperazione
decentrata (enti locali, ONG e organismi no profit, Università, imprese
e loro strutture associative, associazioni di immigrati, etc) sulle
opportunità esistenti in Marocco e Tunisia
Ø offrire ai soggetti interessati strumenti di
servizio e assistenza necessari ad accompagnare la costruzione di progetti di
cooperazione.
Azioni rivolte a sensibilizzare nuovi soggetti
piemontesi: promozione e animazione territoriale finalizzate ad identificare ed
a suscitare interessi di Organismi Piemontesi verso la cooperazione decentrata
con il Marocco e la Tunisia
Azioni di assistenza e coordinamento. I soggetti
interessati ad avviare (o a verificare) progetti di cooperazione possono
trovare un riferimento di assistenza e accompagnamento lungo tutte le
principali fasi di costruzione e lancio di progetti di cooperazione
Redazione di una Newsletter. Sviluppo di uno
strumento informativo periodico che abbia una diffusione attraverso il sito web
della Regione piemonte ed una versione stampata da diffondere con un mailing
mirato
Costo Progetto : L. 199 milioni
Contributo
regionale: L. 75 milioni
5.
Attività della Regione Piemonte in Tunisia
Intervento secondo modalità di cooperazione
decentrata: sostegno e sviluppo
delle esperienze già maturate dalle Province di Torino e Alessandria, in
particolare nel settore dell’habitat
Progetto studio finalizzato ad iniziative di
cooperazione decentrata con i paesi Tunisia e Marocco 2000. L'iniziativa ha
portato alla stipulazione di una convenzione tra la Regione Piemonte, l'ICS, la
Provincia di Alessandria e il Comune di Alessandria.
Contributo
regionale: £. 70.000.000 ( € 36.151, 98)
Progetto dell’Istituto per la Cooperazione
allo Sviluppo di Alessandria con la Città di Gafsa, per favorire lo
sviluppo di tecnologie e strategie per l’habitat storico ed il
coinvolgimento delle PMI locali e piemontesi
Costo previsto: 142 milioni.
Contributo
regionale: £. 100.000.000 ( € 51.645, 69)
A cura del Servizio Attività Internazionali
della Regione Toscana
Il processo di cooperazione euro-mediterraneo avviato in occasione della Conferenza di Barcellona (1996) richiede un grande impegno a tutti i livelli per accelerare lo sviluppo delle attività di partenariato fra i diversi Paesi. Si sta fra l’altro avvicinando a grandi passi la prospettiva di creare, a partire dal 2010, un’area di libero scambio nel bacino del Mediterraneo. A questo riguardo saranno decisivi gli esiti dei negoziati con i quali l’Unione Europea si accinge a definire gli obiettivi, gli strumenti e le risorse per la seconda fase di sviluppo del partenariato euromediterraneo E’ largamente avvertita l’esigenza di dare forte impulso alla cooperazione di area vasta in quest’area per mettere a disposizione dei partner delle sponde meridionale e orientale l’esperienza e le conoscenze acquisite dall’Europa in quasi 50 anni di integrazione.
Occorre dare un forte impulso, da un lato alle azioni mirate al consolidamento di un contesto di pace e sicurezza comune (Israele, Palestina, Libano, Siria e Algeria), dall’altro sviluppare attività di partenariato capaci di coinvolgere più direttamente la società civile attraverso iniziative dal basso. Del resto la stessa dichiarazione di Barcellona prevedeva espressamente che i Governi regionali e Locali fossero “strettamente coinvolti nel funzionamento del partenariato euro-mediterraneo”.
Con specifiche e diversificate modalità d’intervento la Regione e gli Enti locali possono quindi mettersi al servizio del partenariato, promuovere la partecipazione dal basso, per far crescere la conoscenza e la coscienza del processo unitario che dovrà aver luogo nel Mediterraneo. Essi possono contribuire alla creazione di un clima di maggiore fiducia reciproca in un contesto di pace, sicurezza e collaborazione, a partire da quella interistituzionale. Tale cooperazione può costituire un’importante risorsa strategica per radicare nel territorio un nuovo clima più attento alla piccola e media impresa, alla valorizzazione dell’artigianato ed all’associazionismo tra imprenditori, nonché per favorire lo sviluppo delle infrastrutture, dei trasporti, della tutela ambientale, delle attività produttive (industria, agricoltura, allevamento, pesca), della ricerca scientifica e tecnologica. Regione e Enti locali possono offrire contributi efficaci nella formazione delle risorse umane, nella valorizzazione del patrimonio storico e culturale, nel turismo; in campo sociale.
E’ in questo quadro che la Regione Toscana ha indicato l’Area Mediterranea come prioritaria all’interno del pluriennale “Piano regionale della cooperazione internazionale e delle attività di partenariato 2001-2005” approvato con delibera di Consiglio Regionale n. 279 del 28/12/2000.
I programmi
dell’Unione Europea possono dare importanti opportunità e risorse
per lo sviluppo dei partenariati. La Regione Toscana intende proseguire
l’esperienza del Progetto Med Co-operation ed analoga azione di raccordo
e di promozione di partenariati su tematiche di comune interesse, a partire da
quella ambientale, dovrà essere svolta nei riguardi degli altri Paesi
del Mediterraneo in stretto raccordo con le altre Regioni dell’Europa ed
i Governi Locali della sponda sud del Mediterraneo.
1.
I progetti promossi dalla
regione toscana sui programmi e sulle linee finanziarie comunitarie
MED COOPERATION Progetto di Cooperazione Decentrata fra Toscana, Israele e Palestina –Linea di Bilancio B7-6430
Questo progetto di cooperazione decentrata intende recuperare, valorizzare e massimizzare le esperienze di cooperazione e di relazioni istituzionali tra, da un lato, la Toscana e, dall'altro, Palestina ed Israele.
A livello istituzionale il progetto vede la costituzione di una rete di Enti Locali toscani, palestinesi, israeliani per il rafforzamento della cooperazione tra di essi, anche con l'intervento di altri soggetti a rappresentanza del mondo imprenditoriale, della ricerca e dell'associazionismo; la costituzione della rete, oltre che a rafforzare i legami istituzionali, è stata indirizzata operativamente verso lo svolgimento di un'analisi di fattibilità per almeno due progetti per ognuno dei 5 settori identificati come di interesse generale per i partner: Sviluppo economico e dell'imprenditoria; Valorizzazione e conservazione delle risorse culturali; Assistenza sociale e salute; Sviluppo del settore turistico; Programmazione urbana e territoriale e salvaguardia dell'ambiente.
Il progetto Toscana, Israele, Palestina, che i partner, dal momento della firma del Network Agreement, svoltasi a San Rossore (Pisa) il 5 aprile 2000, hanno iniziato a riferirvisi usando la sigla Med Cooperation , trova il suo fondamento in rapporti di cooperazione bilaterale (Toscana-Israele e Toscana-Palestina) che, attraverso un lungo processo di concertazione è stato trasformato in una rete trilaterale che vede l'adesione di 21 partner.
Nel settembre 2000 (17-19) si è svolto il primo incontro in Medio Oriente tra i partner della rete del progetto Med Cooperation attraverso dei Gruppi di Lavoro misti che hanno visto la presenza di rappresentanti delle istituzioni e di esperti locali dei settori. Questo primo incontro ha permesso di approfondire il lavoro tecnico relativo a due aree tematiche che sono "Valorizzazione e conservazione delle risorse culturali" e "Sviluppo del settore turistico" oltre che ad avviare un confronto sulle altre tematiche previste dal progetto.
In questi mesi di grave crisi, il proponente (Regione Toscana), ed il Segretariato (Associazione Co.opera), hanno mantenuto contatti bilaterali con i partner della rete al fine di raccogliere le loro posizioni circa le possibilità esistenti per proseguire il progetto e le eventuali modifiche da apportare allo stesso per tenere conto del mutato contesto.
Il progetto, volto a stabilire in primo luogo una rete di collegamento tra i diversi partner, risulta ancora oggi avere una validità politica molto forte. Tuttavia, esso risulta impraticabile così come esso era stato impostato e come è stato condotto fino agli incontri dei primi gruppi di lavoro, svoltesi a Nablus nel settembre 2000.
La riformulazione del progetto, risultato di
consultazioni con i vari partner, si fonda sui seguenti elementi:
· Divisione del lavoro tra partner palestinesi ed israeliani attraverso l'organizzazione di Gruppi di Lavoro tematici bilaterali (partner israeliani e toscani e partner palestinesi e toscani) che svilupperanno i temi prescelti con il supporto di tecnici locali da selezionare in relazione al tema trattato ed il coordinamento del Segretariato.
· Messa in comune del lavoro svolto dai Gruppi di Lavoro tematici bilaterali in occasione di seminari congiunti da organizzare in Italia. La tenuta di tali seminari in Italia supera le difficoltà che al momento esistono quanto alla loro tenuta alternata in Palestina ed Israele. La Toscana, con le sue istituzioni, gioca, in tal modo, il ruolo di mediazione e garanzia istituzionale internazionale che tende a lasciare spazi di confronto, anche se mediato, tra i rappresentanti di istituzioni locali dei due paesi mediorientali.
Stante quanto sopra descritto, i risultati sono riformulati come segue:
· Istituzione della rete tra soggetti toscani, palestinesi ed israeliani, che mantenga aperti spazi di confronto indiretto e su tematiche tecniche di interesse dei partner medio orientali, con una funzione di mediazione e garanzia svolta dai partner toscani.;
· Realizzazione di tre studi di settore adottando metodologie comuni.
· Formazione del personale dei partner palestinesi ed israeliani in collegamento con strutture tecniche della Regione Toscana e dei partner italiani.
· Realizzazione di un progetto pilota secondo le nuove modalità di lavoro concordate.
· Confronto dei risultati raggiunti e diffusione degli stessi fra tutti i partner.
PROGETTO MEDFORT - Programma
Euromed Heritage II - Linea di
Bilancio Comunitario B7 - 4100
Fortezze e fortificazioni: Valorizzazione, conservazione e sviluppo integrato del patrimonio culturale comune.
La Regione Toscana intende valorizzare con il presente progetto sia le precedenti esperienze nell’ambito della cooperazione decentrata, ed il proprio impegno nella promozione di reti di collaborazione fra le due sponde del Mediterraneo, in Medio Oriente, nei Balcani, in rapporto con le Organizzazioni non governative di tali aree, che il ruolo di eccellenza raggiunto nei settori della ricerca culturale e scientifica in materia di tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio storico artistico, della conoscenza e della catalogazione, della diagnostica e del restauro, della sperimentazione e dello sviluppo di attività economiche connesse con il recupero e la rivitalizzazione degli insediamenti storici.
Il programma vuole promuovere nella regione mediterranea un insieme di attività parallele, di livello subregionale, fra loro confrontabili ed integrabili in momenti di attività comune per l’intera rete, e con esiti finali condivisibili, per lo sviluppo di interventi tecnologicamente e tipologicamente appropriati a valorizzare la peculiarità delle specificità e degli approcci locali al tema della valorizzazione e della gestione del patrimonio storico artistico. Le aree subregionali individuate sono quelle dell’alto tirreno (Italia e Francia), del golfo del Leone e delle Baleari (Francia, Spagna e Marocco), dello stretto di Gibilterra e della costa dei mauri ( Spagna, Marocco), del mare Ionio (Malta, Tunisia), del mare Egeo (Grecia) e del Mediterraneo orientale (Israele, Palestina, Libano, Giordania, Siria e Cipro).
Il progetto “Med-fort” si configura come un programma di scambi ed integrazione di metodologie conoscitive, di tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio storico e delle società della sicurezza dell’esistere.
La visione generale di riferimento entro la quale si muove l’iniziativa è quella dello Sviluppo locale Autosostenibile, nel quale i soggetti primari siano le istituzioni decentrate di governo del territorio, le espressioni organizzate della società civile, i centri di produzione e diffusione della cultura e il mondo della produzione, con le sue specificità tecnologico produttive ed organizzative.
Oggetto specifico del progetto è quello della diffusione della conoscenza dei valori propri di ogni realtà locale, partendo dal presupposto che detti valori debbano essere conosciuti, tutelati, valorizzati e gestiti, producendo nuova ricchezza, per quanto ciò è possibile e compatibile con le esigenze di tutela.
Le attività previste sono: Institution building, Formazione di Piccole e Medie Imprese locali, Innovazione tecnologica.
2. Il piano regionale della cooperazione
internazionale e delle attivita’ di partenariato 2001-2005
Il Piano della cooperazione internazionale 2001-2005 è il primo atto pluriennale dall’approvazione della L.R. 17/99.
Il Piano esprime la forte volontà della Toscana di essere protagonista nella cooperazione internazionale, individuando allo stesso tempo la propria specifica missione quale collettività territoriale regionale, nel sostegno allo sviluppo locale integrato, sociale e sostenibile. Lo sviluppo locale infatti, inteso nel senso più ampio, e il rafforzamento della società civile locale, costituiscono il riferimento permanente per l’azione di cooperazione internazionale delle collettività territoriali.
Lo sviluppo locale viene in tal modo collocato nel grande quadro della globalizzazione, che costituisce, allo stesso tempo, un limite, quanto al rischio di una omologazione senza la valorizzazione delle differenze, e una opportunità, quanto alla possibilità del nuovo ingresso nel quadro globale di molti soggetti locali oggi ancora esclusi.
Il piano pertanto si pone in stretta continuità con gli obiettivi definiti a livello internazionale, nazionale e nel piano per l’anno 2000.
Alcuni dei progetti più significativi presentati alla prima scadenza del Piano sono:
· CREAZIONE DELLA COMUNITA’ PORTUALE DEL MEDITERRANEO - TUNISIA – presentato dall’Autorità Portuale di Livorno in collaborazione con l’omologa Autorità Tunisina;
· PROMOZIONE ATTIVITA’ ECONOMICA E SVILUPPO NUOVI PRODOTTI FINANZIARI - MAROCCO – presentato dall’ONG COSPE, dalla città di Livorno e dalla comunità marocchina presente a Livorno.
Inoltre la Regione Toscana ha attivato
specifici strumenti di lavoro per meglio organizzare le risorse ed i soggetti
della cooperazione toscana quali:
Ø Sito internet relativo al Sistema Informativo
della Cooperazione Decentrata Toscana all’indirizzo
“www.rete.toscana.it/toscanamondo”;
Ø I tavoli di coordinamento per area
geografica come momento
di integrazione tra i diversi soggetti regionali interessati.
La Tunisia è un paese che guarda con grande attenzione all’Italia e la collaborazione con il nostro Paese è sviluppata in tutti i campi grazie anche alla attività della Ambasciata d’Italia guidata dall’Ambasciatore Armando Sanguini, un rapporto, in special modo con la Regione Toscana, che si è ulteriormente rafforzato in questi ultimi anni anche per la accresciuta presenza industriale e la attività del Monte dei Paschi che ha una partecipazione nella tunisina Banque du Sud.
Sistema Produttivo
L’esperienza della Toscana nel campo dello sviluppo locale, legata alla cooperazione con la Tunisia, fa si che il tema più importante sia rappresentato dall’industria leggera, per mezzo dalla conoscenza del modello toscano dei distretto industriali e dei relativi centri servizi. A questo corrisponde la volontà di modernizzazione del tessuto industriale tunisino. Su questo tema vi sono state le seguenti iniziative:
· seminario, svoltosi con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia, che ha offerto un quadro delle potenzialità di scambio sulle esperienze dei sistemi produttivi locali e sui centri di servizi necessari per assicurare una adeguata crescita del tessuto locale soprattutto di piccole e medie imprese. Il Seminario è stato promosso da APET (Agenzia Promozione Economica Toscana), Banque du Sud ed organizzato da ICE Tunisi e Toscana Progetti. Il Seminario ha visto la partecipazione di oltre 130 rappresentanti tunisini e la presenza di numerosi soggetti imprenditoriali toscani. All’incontro ha preso parte anche il Presidente della Banque du Sud, Sig. Laroussi Bayoudh.
Viste le richieste, da parte dei rappresentanti di altre aree della Tunisia e, in particolare, di quelli della zona del Sud della Tunisia, il seminario sarà ripetuto nei prossimi mesi. Numerosi sono stati anche gli incontri diretti fra i rappresentanti toscani e aziende tunisine.
· il Progetto Euromedsys, destinato ad istituzioni locali ed imprese, che si colloca nel Programma d’iniziativa Comunitaria Interreg IIIB periodo 2000-2006. Il Progetto, riguarda un partenariato di Regioni e degli Stati di Italia, Francia, Spagna, Tunisia e Marocco, fa riferimento allo sviluppo della cooperazione fra sistemi economici locali delle due sponde del Mediterraneo in particolare nei settori della alimentazione (alimentazione tradizionale, agricoltura biologica, agro-alimentare, etc.), dell’abitare mediterraneo (artigianato di qualità, mobili, ceramica, tessile, illuminazione, etc.) e dei servizi alle imprese. I partners tunisini hanno concordato di affidare il coordinamento nazionale al Governatorato di Sousse. Il Governo tunisino è interessato ad approfondire il tema dei distretti industriali e dei sistemi di piccole e medie imprese poiché la Tunisia nel prossimo piano pluriennale di sviluppo 2002-2006 proporrà, come uno dei propri obiettivi, la mise a niveau della PMI.
Agricoltura
si sta elaborando una proposta di collaborazione nei seguenti campi:
1. valorizzazione della olivicoltura attivando forme di collaborazione che interessino la formazione degli agricoltori, la qualificazione del ciclo produttivo, la promozione e la commercializzazione dei prodotti;
2. proposta dell’avvio di idonee forme di agriturismo con la possibilità far conoscere agli operatori tunisini il modello che sta avendo un successo tale da risultare un’importante forma di integrazione del reddito agrario;
3. collaborazione per avviare e sostenere un processo di valorizzazione e certificazione della qualità dei prodotti agroalimentari, campo nel quale la Regione Toscana ha acquisito notevole esperienza e che costituisce lo strumento principale per dare valore aggiunto alle produzioni agricole e sicurezza alimentare ai consumatori.
Formazione post
universitaria
Sempre nell’ambito del citato Programma Interreg III B di cooperazione interregionale transnazionale, la Regione Toscana ha preparato, in collaborazione con l’Istituto Universitario Europeo, un progetto di Master Euromediterranei. L’obiettivo del Progetto è quello di costituire un Consorzio di Università delle due sponde del Mediterraneo che, utilizzando le moderne tecnologie per l’insegnamento a distanza, propongano master in studi euromediterranei. Il master, nella necessità di superare il divario di conoscenza fra le due sponde del Mediterraneo, oltre ad una sezione generale potrà includere percorsi specifici (ambiente, economia, legge, sociologia, demografia, relazioni internazionali, etc.) con settori anche specialistici: il sistema bancario, le leggi sulla concorrenza, la legislazione sociale etc.
Trasporti
E’ in corso di realizzazione un progetto di collaborazione fra il Porto di Livorno e OMMP (Office de la Marine Marchande et des Portes), co-finanziato dalla Regione Toscana. Si tratta di attività formative mirate all’impiego di nuove tecnologie in forma integrata fra i Porti. E’ stata siglata con il Porto di Sousse un’intesa per coinvolgere pienamente tale porto nell’iniziativa anche nella prospettiva della costruzione del nuovo porto commerciale di Sousse. E’ stato concordato di verificare la possibilità di intensificare gli scambi fra Livorno e Sousse rafforzando le linee già esistenti con la Tunisia.
Ambiente
Il nucleo di ricerca toscano che si occupa
di ambiente e meteorologia e che fa capo alle istituzioni IATA-CNR,
CeSIA-Accadema dei Georgofili, FMA (Fondazione Meteorologia Applicata) ed il
LaMMA (Laboratorio per la Meteorologia e la Modellistica Ambientale), con il
coinvolgimento di altre istituzioni scientifiche e tecniche toscane, da oltre
un decennio opera in maniera sinergica al fine di rafforzare la cooperazione
nel campo della ricerca applicata agli ecosistemi aridi e sub-umidi. In
particolare con la Tunisia si è andato consolidando un rapporto di
collaborazione con il Ministero dell’Ambiente e con le istituzioni da
esso dipendenti grazie alla realizzazione di programmi sia scientifici che
operativi finanziati dalla Unione Europea e dalla Cooperazione Italiana.
La lotta alla desertificazione e
l’informazione sono stati finora i temi prioritari di tale
collaborazione con il coinvolgimento diretto delle istituzioni o dei suoi
ricercatori come evidenziato dai programmi attualmente in corso:
- DISMED: creazione di un sistema informativo regionale sulla desertificazione che coinvolga i paesi del Nord Africa (Tunisia, Algeria, Marocco ed Egitto) e dell’Europa (Italia, Spagna, Francia, Portogallo e Grecia). Il programma triennale è eseguito in collaborazione con l’Agenzia Europea dell’Ambiente ed il Segretariato Permanente della UNCCD su contributo finanziario della Cooperazione Italiana . IL primo seminario tecnico si è tenuto a Firenze nel luglio scorso.
- CAMALEO: sviluppo di metodologie di analisi per la classificazione agro-ecologica delle zone aride e per il monitoraggio delle zone desertiche. Il progetto è realizzato su finanziamento della Unione Europea
- Sistema Informativo per il Piano d’Azione Nazionale di Lotta alla Desertificazione: il programma dovrebbe permettere di realizzare un sistema d’indicatori volti a misurare la messa in opera ed i risultati delle azioni realizzate nell’ambito del piano. Il progetto realizzato, su finanziamento della Cooperazione Italiana, dal Ministero dell’Ambiente Tunisino in collaborazione con l’Osservatorio del Sahara e del Sahel (OSS) è stato avviato nel mese di giugno con un primo seminario di programmazione a cui ha partecipato un ricercatore del CeSIA, unico italiano, di riconosciuta esperienza internazionale della materia ed iscritto nel roaster di esperti internazionali della Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Desertificazione
Il lavoro si sta sviluppando, secondo gli accordi di collaborazione, sui seguenti temi:
· la individuazione di due città toscane che possano impegnarsi sul tema dello sviluppo sostenibile e sulla Agenda 21 locale in modo da poter presentare un comune progetto a valere sul Programma Life dell’Unione Europea la cui scadenza è prevista per il 5 novembre prossimo;
· un confronto sulle attività di educazione ambientale mirato allo sviluppo di questo tema in Tunisia;
· verifica di una possibile collaborazione fra Ong ed Associazioni impegnate nel settore ambientale per rafforzare le capacità operative delle Ong tunisine;
una collaborazione sui temi della gestione delle zone costiere e delle aree protette.
IL CASO DEL PROGETTO DI RIENTRO ASSISTITO DI
MAROCCHINI RESIDENTI NELLA PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO
A cura dell’Ufficio Affari del Gabinetto
della Provincia Autonoma di Bolzano
L’ Amministrazione Provinciale, recependo una proposta da parte di un gruppo di marocchini, ha deciso di dare vita ad un progetto di rientro di immigrati marocchini attivando una serie di iniziative che, a partire dalla formazione, si concretizzino nella creazione di attività economico- imprenditoriali in Marocco, nella Regione di Rabat.
Il presente progetto è volto a sperimentare una metodologia di lavoro per governare i flussi migratori. In particolare, definisce e testa un percorso a sostegno di migranti o richiedenti asilo marocchini che vogliono rientrare nel paese d'origine.
Il progetto
si inserisce nella politica comunitaria di gestione dei flussi migratori, con
particolare riguardo ai cittadini extracomunitari richiedenti asilo, e di
sviluppo della cooperazione con i paesi d'origine dei migranti stessi. Le
finalità e la metodologia di lavoro si ispirano ai contenuti e ai metodi
di lavoro adottati dall' High Level Working Group. In particolare, si fa
riferimento a:
§ High Level Working Group report to
the Council of Nice[47]
§ Action Plan for Morocco[48]
Nel rapporto si evidenzia la necessità di integrare le politiche di gestione dei flussi migratori con specifiche azioni di cooperazione transnazionale e sviluppo sociale ed economico dei paesi d’origine, per combattere alla radice gli squilibri tra il Nord e il Sud del mondo che alimentano massicci esodi dai paesi in via di sviluppo[49].
Nell’Action Plan for Morocco si sottolinea l’esigenza di incentivare finanziariamente i progetti di rientro per garantire il pieno reinserimento degli stessi nella vita sociale ed economica dei paesi d’origine[50]. Il presente progetto intende rispondere alle esigenze sottolineate in questi documenti di lavoro e prevede una divulgazione dei risultati ottenuti una volta concluso il suo percorso.
In una prima fase si procederà alla individuazione e promozione del partenariato locale a Bolzano per coinvolgere, oltre alla Provincia Autonoma di Bolzano, alcuni comuni interessati, la Camera di Commercio, le associazioni imprenditoriali, l’Università e la Comunità marocchina. Compito del partenariato é quello di diventare, sotto la guida della Provincia, il soggetto attivo di tutto il percorso progettuale: creazione di gemellaggi con la Regione di Rabat, avvio di scambi economici e culturali, realizzazione del progetto di rientro.
Nella seconda fase, che può essere avviata contestualmente alla prima, l’Amministrazione predisporrà una documentazione sulle caratteristiche/opportunità del territorio della Provincia (economia, servizi, istituzioni, cultura, etc.). Questo “istituzional profile”, servirà come presentazione della Provincia di Bolzano agli interlocutori istituzionali della Regione di Rabat.
Nella terza fase si procederà alla preparazione e all’organizzazione di una missione in Marocco di una delegazione tecnica dell’Amministrazione. L’organizzazione verrà realizzata con la collaborazione del Consolato marocchino di Milano, della Camera di Commercio italo-marocchina di Casablanca, delle autorità consolari italiane in Marocco e con un rapporto diretto con le autorità locali.
La quarta fase sarà impegnata nella missione a Rabat. Obiettivi della missione saranno quelli di creare le condizioni per promuovere gemellaggi tra le istituzioni, avviare scambi tra enti camerali, individuare le fattibilità e potenzialità del progetto di rientro, promuovere su questo il partenariato locale. Verranno realizzati incontri con la Regione e la Comunità Urbana di Rabat, la Camera di Commercio locale, la Camera di Commercio italo-marocchina, l’Ambasciata Italiana, l’università, associazioni imprenditoriali, le imprese, etc. La missione vedrà la partecipazione di funzionari della Amministrazione Provinciale, di consulenti esperti di cooperazione internazionale e di programmi di rientro e di rappresentanti della comunità marocchina.
Un report di missione conterrà i risultati, le opportunità, gli scenari e le attività che sono state individuate ed avrà il compito di indicare i fattori critici e di successo della operazione e gli elementi di prefattibilità del progetto di rientro.
In particolare:
a. settori economici di inserimento e loro potenzialità di mercato
b. aree territoriali di insediamento
c. qualificazione professionale necessaria e stime quantitative di manodopera
d. entità degli investimenti
e. potenziali partner
f. tipologie di impresa (società privata, cooperativa, etc.)
Il report si concluderà con l’indicazione delle fasi successive necessarie al proseguimento delle attività. In seguito saranno selezionati, in collaborazione con la comunità marocchina, i progetti che presentano maggiori potenzialità di successo e verranno verificate le possibilità di coinvolgimento di operatori economici di Bolzano nella realizzazione di joint venture in queste attività. A seguito della selezione dei progetti si procederà alla individuazione di percorsi formativi per il personale della comunità marocchina disponibile per la realizzazione delle attività economiche in patria.
Contemporaneamente
l’Amministrazione provinciale avvierà le iniziative necessarie
(missioni in Marocco, accoglienza di delegazioni marocchine, accordi di
cooperazione, etc.) per realizzare, unitamente ad altre istituzioni locali
(Comuni, CCIAA, etc.), i gemellaggi promossi.
IL CASO DEL PROGETTO CHIRONE IN ALBANIA
A cura di
Marcello Goletti e Roberto Barbagli – Movimondo
Il progetto Chirone, co-finanziato dal Dipartimento per le Politiche Sociali e Previdenziali del Ministero del Lavoro - ex Dipartimento Affari Sociali della Presidenza del Consiglio -, punta alla riqualificazione del sistema formativo-produttivo albanese, rafforzando il ruolo e le competenze dei servizi di sostegno al mercato del lavoro. Le attività, avviate nel settembre 2000 e la cui conclusione é prevista per il giugno 2002, sono condotte da MOVIMONDO in collaborazione con l’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali e con l’Agenzia del Lavoro della Regione Lazio.
L’impianto progettuale ha subìto, in corso d’opera, alcuni cambiamenti nella strategia d’intervento: nella stesura originale, infatti, il perno delle attività era la costituzione di due esperienze pilota, all’interno degli Uffici del Lavoro di Tirana e Valona, funzionanti come centri per l’impiego e connotati come servizi di orientamento al lavoro. La scelta di questa strategia, che mirava quindi al rafforzamento istituzionale, era dettata dalle priorità segnalate dal Ministero del Lavoro albanese al C.I.A.U. (Coordinamento Italiano Aiuti Umanitari), organizzato dall’allora Dipartimento degli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio italiana. I due centri per l’impiego albanesi avrebbero dovuto lavorare in stretta collaborazione con il loro omologo romano, ossia l’Agenzia per il Lavoro della Regione Lazio, che li avrebbe accompagnati in una sorta di tirocinio. Da questa relazione si sarebbe dovuta costituire una banca dati, strumento chiave per cominciare ad osservare e valutare senza giudizi precostituiti l’effettiva fisionomia della forza lavoro albanese, anche al fine di poter mettere in relazione i mercati del lavoro delle due sponde dell’Adriatico.
La costituzione dei due centri per l’impiego, ed il suo sostegno per tre trimestri, aveva anche la funzione di offrire alle istituzioni albanesi un’esperienza pilota, che potesse servire come parametro per valutare i differenti modelli di servizi pubblici di sostegno al mercato del lavoro.
Il conflitto di competenze interno al Ministero albanese, l’istituzione di una struttura responsabile dei servizi al lavoro, pubblica ma autonoma rispetto al Ministero stesso ed il prevalere di interessi particolari hanno segnato il progressivo disinteresse del partner istituzionale di riferimento; oltre a ciò, l’eccessivo protrarsi delle trattative per la definizione di alcuni accordi operativi hanno alla fine spinto, sia il finanziatore che il soggetto esecutore a ripensare la strategia di intervento.
Fermo restando l’obiettivo generale e constatata l’impossibilità di procedere oltre, il progetto è stato ripensato puntando al rafforzamento della rete degli Informalavoro, recentemente costituiti all’interno dei Centri di Aggregazione Giovanile (CAG) già finanziati dal Dipartimento Affari Sociali italiano e presenti in undici città albanesi.
Il progetto estende le attività di formazione degli operatori, e di sostegno alla conduzione del servizio, agli undici CAG, ma concentra una parte delle risorse su due punti focali, Valona e Fier, ai quali offre un sostegno più consistente in termini di attrezzature, competenze e know how.
Le attività godranno di una proroga non onerosa che prolunga il periodo di sostegno fino al giugno 2002.
Sono rimaste pressoché invariate le attività di ricerca, sia in Italia che in Albania, finalizzate all’acquisizione di elementi per la decostruzione dell’immaginario negativo, che negli ultimi anni si è costituito in Europa, ed in particolare in Italia, sulle competenze professionali e metaprofessionali dei lavoratori albanesi.
Dall’esperienza, tuttora in corso, del progetto Chirone emergono già oggi alcuni elementi significativi, sulle caratteristiche del sistema formativo-produttivo albanese e sul ruolo delle istituzioni pubbliche locali.
Anzitutto l’assenza di un servizio di orientamento: gli Uffici del Lavoro assolvono prevalentemente, salvo rarissime eccezioni, una funzione di controllo nella gestione dell’indennità di disoccupazione. Raramente incrociano domanda e offerta di lavoro, ancora più raramente aiutano l’utente ad inserirsi in un percorso di inserimento lavorativo aiutandolo a definire le sue effettive competenze ed indirizzandolo verso percorsi formativi complementari. L’offerta formativa resta generalmente scollegata dai bisogni effettivi del sistema produttivo, men che meno tiene conto del flusso, e del potenziale circuito, migratorio che negli anni ha assunto, specialmente verso la Grecia e l’Italia, dimensioni più che rilevanti.
In questo generale clima di “disorientamento” il progetto migratorio non tiene conto dei saperi già acquisiti, né tanto meno del possibile reinserimento lavorativo in Albania al termine dell’esperienza migratoria; esperienza che normalmente é pensata come temporanea e finalizzata prevalentemente all’accumulo di un risparmio da investire per la casa, in primo luogo, e successivamente per l’avvio di un’attività commerciale.
di JosepMaria
Pallàs – Segreteria per l’immigrazione della Generalitat de
Catalunya
La Catalogna (32.000 Km2) è una delle 17 regioni autonome spagnole. La politica di immigrazione del governo della Catalogna è basata su due colonne: la prima è relativa all’impegno per aumentare l’autonomia e l’auto-governo, riflettendo in questo modo il desiderio di acquisire maggiore responsabilità sulle questioni migratorie, cosa che è stata espressa in parecchie trattative con l'amministrazione centrale. La responsabilità a livello di governo regionale comincia ad essere riconosciuta apertamente dall'Unione Europea.
La seconda
colonna è la volontà del governo della Catalogna di conservare la
coesione necessaria per dare il benvenuto che la società catalana ha
offerto sempre, lungo la sua storia, agli stranieri. Ciò si è riflesso nello sviluppo costante
delle politiche pubbliche per l’integrazione degli immigranti, almeno dal
1986. Dovrebbe essere notato che l'immigrazione comincia ad essere un fenomeno
visibile in Spagna soltanto nel 1989. Di conseguenza, possiamo dire che la
Catalogna ha in qualche modo anticipato il fenomeno migratorio.
In relazione al totale della Spagna, la Catalogna ha la più alta percentuale di immigranti. Le statistiche del Ministero dell’Interno dicono che, nel gennaio del 2000, la popolazione della Catalogna era di 6.261.999 abitanti mentre la popolazione totale spagnola era di 40.499.791 abitanti. La popolazione della Catalogna rappresenta dunque il 15,44% della popolazione di tutta la Spagna.
A quella stessa data il censimento ufficiale dei residenti stranieri era di 953.074 in Spagna e 232.564 in Catalogna. I residenti stranieri rappresentano il 3,71% della popolazione totale di catalani e i residenti stranieri in Catalogna rappresentano il 31,13% del totale di questi in Spagna.
Le proiezioni demografiche ufficiali dicono che in Catalogna si arriverà ad un tasso del 7-8% di immigrati sulla popolazione totale nell’arco di un periodo di 4 o 5 anni.
L'azione della Generalitat de Catalunya (governo della Catalogna) riguardo l'immigrazione straniera è cominciata intorno al 1986 e 1987 con le iniziative prese da un certo numero di dipartimenti, e in particolare dal Dipartimento della Sanità e della Sicurezza Sociale e da quello della Pubblica Istruzione.
Il primo programma interdipartimentale di immigrazione, elaborato nel 1993, il primo del genere in Spagna, è stato definito nel momento in cui il numero di immigranti stranieri presenti in Catalogna stava cominciando a raggiungere livelli significativi. I programmi ed i servizi sono stati inseriti virtualmente in tutti gli 0rganismi della Generalitat, il che vuole dire in quasi tutte le aree di vita della società. Alcuni di questi programmi e servizi sono stati sviluppati in collaborazione con le organizzazioni private. Per ulteriori informazioni, si consulti –in lingua catalana-
www.gencat.es/benestar/immigra/pii93-2000.pdf
Nel 1993 il governo ha creato una commissione
interdipartimentale per l'immigrazione, per coordinare tutte le attività
della pubblica amministrazione catalana. La Generalitat de Catalunya ha provato
sempre a comportarsi in modo coordinato con tutti gli attori sociali e politici
che si occupano dell'immigrazione.
Per questo motivo, un Consiglio consultivo è stato creato per
affrontare i diversi problemi dell’immigrazione assieme alle associazioni
degli immigranti, dei sindacati, delle organizzazioni non governative, delle
autorità locali, ecc.
La Segretaria per l'Immigrazione è la creazione più recente del governo nella politica di immigrazione. È stata stabilita per rafforzare il coordinamento fra i dipartimenti della Generalitat e dare una dimensione politica a queste competenze. Si tratta di un'unità di livello elevato all'interno del governo autonomo (nel Dipartimento della Presidenza). Alcune unità simili esistono in altre Comunità autonome, ma non sono situate nella presidenza del governo, ma in altri livelli (in Andalusia, per esempio, l'unità di immigrazione è posizionata nel Dipartimento per gli affari interni, mentre a Madrid è nel Dipartimento per il benessere sociale).
Il 18 Luglio 2001, il governo della Catalogna ha approvato il secondo programma interdipartimentale sull'immigrazione, per il periodo 2001 – 2004. Questo programma include 133 progetti dedicati all’integrazione degli immigranti. Ora si sta traducendo in spagnolo e in arabo.
Questo programma è un impegno verso la continuazione delle politiche che sono state intraprese per oltre otto anni per quanto riguarda l'integrazione sociale degli immigranti. La dispersione delle iniziative pubbliche è stata evitata. Inoltre, esiste un alto grado di consenso su questo programma poichè è stato argomento di consultazione con i partiti e le organizzazioni politiche della comunità ed ha compreso un buon numero di suggerimenti da loro formulati (correzioni e nuovi progetti). Tentativi dovrebbero quindi essere fatti per accertarsi che l'azione amministrativa intrapresa dai governi sia continuata e migliorata. I problemi non dovrebbero essere affrontati dalla società civile o dalle autorità come se fossero sempre nuovi. Per ulteriori informazioni, si consulti –in lingua catalana-
www.gencat.es/presidencia/plaimmig.pdf
Una delle nuove caratteristiche nel programma interdipartimentale di immigrazione 2001-2004 è la relativa insistenza su un “modo catalano per l’integrazione”, un metodo volto a realizzare un equilibrio massimo fra il rispetto per la diversità e il senso di appartenenza ad una singola comunità. Il principale scopo è conseguire che gli immigranti accettino l'importanza del rispetto, della coesistenza democratica, della cultura e del linguaggio della Catalogna. Allo stesso tempo, il nostro obiettivo con questo programma è offrire, da parte di tutte le amministrazioni, le prestazioni essenziali in salute, formazione, servizi sociali ed alloggi.
Recentemente la Spagna sta cercando di adottare misure che altri paesi occidentali stanno affrontando. Parliamo ad esempio della diminuzione demografica in Europa, delle rimesse, del rapporto con l’Islam, della selezione di migranti nei paesi di origine.
La Catalogna è una regione importante nell'Unione Europea. Una Comunicazione recente dalla Commissione al Consiglio ed al Parlamento Europeo (Bruxelles, 22 novembre, 2000 – COM(2000) 757) ha riconosciuto in modo molto chiaro ed in parecchie occasioni il ruolo delle “regional authorities” nei processi decisionali sulle migrazioni.
Dobbiamo dire che le regioni ed i comuni sono territori dove gli immigranti rimangono e vivono. Di conseguenza, i programmi specifici di lunga durata di integrazione dovrebbero essere effettuati ai livelli locali e regionali. Ancora, un rapporto indivisibile è riconosciuto fra le misure orientate verso l'integrazione degli immigranti (messe in pratica regionalmente) e le misure di ammissione (controllo delle frontiere, visti, schede verdi, permessi, realizzati a livello dello Stato).
Durante l'ultimo dibattito sulla politica generale del governo regionale, il Parlamento della Catalogna ha discusso l’adozione di una politica di cooperazione per fornire contributi finanziari ai paesi limitrofi della Unione europea nel Mediterraneo. Il governo della Catalogna ha proposto all'amministrazione centrale dello Stato di dedicare preferibilmente l’aiuto finanziario a quei paesi del sud con una emigrazione forte verso la Spagna. Ciò può essere compiuto con tre metodi differenti:
· progetti di cooperazione,
· investimenti nelle infrastrutture ed
· incoraggiamento degli investimenti delle aziende o imprese catalane in questi paesi per creare impiego e co-sviluppo.
Tutte queste misure puntano a garantire il diritto
delle popolazioni a vivere nei propri paesi.
Nel primo programma interdipartimentale di immigrazione, elaborato nel 1993, erano previste diverse attività concrete riguardo al co-sviluppo e alla cooperazione. Nell’estate del 1995 è stato creato il Consiglio per la cooperazione allo sviluppo. Ora è in Parlamento un nuovo progetto di legge di cooperazione allo sviluppo.
Anche nel quadro del programma interdipartimentale del 1999 sono stati inseriti diversi corsi e seminari per professionisti che lavorano nelle amministrazioni pubbliche e che hanno relazioni con gli immigrati:
· riflessioni sulla interculturalità della Catalogna
· corso : “Magrebini in scuola”
· Incontri sul futuro del Mediterraneo
· Legislazione sull’immigrazione.
In collaborazione con l’Istituto catalano del Mediterraneo è stato creato un gruppo de riflessione che lavora su diversi temi: mondo arabo, problemi di genere, istruzione, interculturalità, diritti umani, etica, valori per la convivenza,… Per ulteriori informazioni, si consulti – in lingua catalana, spagnola, inglese e francese - (www.gencat.es/icm)
Si lavora allo stesso tempo nel sostegno ai docenti (aiuto agli insegnanti).
Riguardo la programmazione dell’entrata di immigranti per motivi di lavoro, ci sono tre convenzioni siglate fra lo Stato spagnolo con Colombia, Ecuador e Marocco. Altre sono allo studio con Ucraïna, Cuba, Romania, Argentina. L’applicazione è difficile e complessa. In generale, la gestione centrale amministra troppo lentamente le procedure. E in forma diversa che in Italia, lo Stato spagnolo non lascia esprimere alle regioni il loro parere alla commissione competente per fissare le quote d’ingresso degli extracomunitari.
Nella pratica, la Generalitat intrattiene relazioni con i sindacati e con le organizzazioni patronali per sostenere la selezione di immigrati con profili professionali adatti, collaborando nel processo di documentazione e nella ricerca dell'alloggio degli immigrati una volta che sono in Catalogna.
La Catalogna ha bisogno di una forza di lavoro stagionale a causa della sua specifica struttura economica. L'agricoltura è basata sulla raccolta intensiva di frutta (uva, olive, pere, mele, mandorle, ecc.). I sindacati agricoli partecipano ai programmi annuali coordinati dalla pubblica amministrazione che consentono una entrata della forza di lavoro consona ai bisogni del settore. Gli operai stagionali vengono principalmente dai paesi del Subsahara e dal Marocco. Quest’anno, il governo della Catalogna ha assegnato 150 milioni di pesetas (poco più di 900.000 euro) come sovvenzioni per organizzare le ripartizioni degli operai stagionali. Nel corso dell'ultima estate, 1.100 operai provvisori sono stati reclutati in Catalogna sotto questo sistema.
Tra i 133 progetti dedicati all’integrazione degli immigranti previsti nel secondo programma interdipartimentale sull'immigrazione, per il periodo 2001 – 2004, ve ne sono alcuni che hanno una forte relazione con il cosviluppo:
· ENERBUS – America Latina
· Progetto Maghreb di sostegno alle imprese catalane nell’area
· Progetto di formazione di esperti tunisini in gestione energetica e ambientale nel settore del trasporto
·
Programma di ritorno volontario degli
immigranti, consistente nel fornire sussidi finanziari agli individui.
·
XILA (rete de selezione nel paese di
origine di immigrati richiesti nel mercato del lavoro).
Si ricorda infine che esiste da più di vent’anni un Fondo catalano di cooperazione allo sviluppo.
[1] Solitamente si fa riferimento al teorema di equalizzazione dei prezzi dei fattori di Heckscher-Ohlin-Samuelson.
[2] Si vedano a tale riguardo le critiche di Harris all’ipotesi di perfetta sostituibilità (Harris N. (2000), I nuovi intoccabili. Perché abbiamo bisogno degli immigrati, Il Saggiatore, Milano.
[3] Giubilaro D. (1997), “L’immigrazione dai Paesi del Maghreb in Europa” in ILO, I lavoratori immigrati e il loro effetto sul mercato del lavoro in Italia, Roma.
[4] OECD (2000), Globalisation, Migration and Development, Social Issues/Employment, Paris.
[5] Dei 12 Paesi del Mediterraneo meridionale che fanno parte del Partenariato Euro-mediterraneo, sottoscritto nel novembre del 1995, fino alla fine del 2000 solamente 4 hanno sottoscritto Accordi di Associazione per la creazione dell’area di libero scambio (Egitto, Giordania, Marocco e Tunisia).
[6] Tapinos G. (1996), Développement, coopération et migrations internationales: l’Union Européenne et le Maghreb, Strasbourg, Conseil de l’Europe.
[7] CeSPI (1998), La valorizzazione delle risorse e delle capacità degli immigrati nella promozione di aree sistema di piccole imprese in Egitto, Marocco e Tunisia. Il contributo dell’Italia, mimeo, Roma.
[8] CeSPI (1999), Promozione di sistemi di piccole imprese nel Mediterraneo e valorizzazione dell’immigrazione nord africana in Italia, mimeo, Roma.
[9] CeSPI (2000), Immigrazione e processi di internazionalizzazione dei sistemi produttivi locali italiani, Commissione per l’integrazione e Compagnia di San Paolo, Working Paper n.9, Roma.
[10] Grillo Ralph D. (2000), “Riflessioni sull’approccio transnazionale alle migrazioni”, in Afriche e orienti, rivista di stui ai confini tra africa mediterraneo e medio oriente, anno II, n.3/4, Bologna.
[11] Si veda ad esempio Badie B. e Wihtol de Wenden C. (1993), Le défi migratoire, Presses de la Fondation Nazionale de Sciences Politiques, Paris.
[12] CeSPI (1999), op. cit.
[13] Phil Martin e Thomas Straubhaar sono tra i principali organizzatori del programma di ricerca Cooperative Efforts to Manage Emigration (CEME) a cui il CeSPI collabora: questo breve documento è un estratto del documento omonimo pubblicato nel sito http://migration.ucdavis.edu/
[14] There is no consensus definition of emigration pressure. Emigration pressure is often defined as the number or proportion of people wishing to leave a country temporarily or permanently during a given time period. Beginning from a situation with no migration, personal factors (marriage, schooling etc.), family decisions, such as to keep rural Mexican girls close to home as maids in cities, and to send boys to the US to do farm work, or economic or political changes external to the individual or family can encourage migration.
[15] Capital inflows rose from 3 percent
of GDP in 1989 to 21 percent of GDP in 1993. In 1989-90, over half of the capital inflows were in the
form of FDI; more recently, Malaysian companies have been able to attract
foreign funds by borrowing through Malaysian banks.
Malaysia requires most employers and workers to contribute to an Employee Provident Fund, which then provides pensions to retired workers. The EPF in Malaysia holds 20 percent of the country's financial assets.
[16] Between 1950 and 1993, both the US and Japan invested 14 times more abroad than they received in FDI, while Western European nations invested 10 times more abroad than they received in FDI. However, in recent years, the US has become a net recipient of FDI--in 1994, for example, foreigners invested $57 billion in the US, versus $2 billion in Japan.
[17] Four of the 21 OECD countries providing aid reached the UN target of contributing 0.7 percent of GDP in 1994--Norway, Denmark, Sweden, and the Netherlands. OECD nations collectively provided aid equivalent to 0.3 of their GDP in 1993, down from 0.4 percent in 1983.
[18] Italy provided $3 billion in ODA in 1993, the UK $2.9 billion, and Canada $2.4 billion.
[19] Professeur à la Faculté des sciences juridiques économiques et sociales – Casablanca et Directeur du LASAARE
[20] Doctorante et assistante de recherche au LASAARE (Laboratoire de Statistique Appliquée à l’Analyse et la Recherche en Economie)
0 La population active est
constituée des personnes
appartenant à l’une des deux catégories suivantes:
- personnes ayant déclaré
spontanément exercer une activité ou être en chômage;
- personnes ayant affirmé spontanément être inactives, mais qui, au niveau d’autres questions subsidiaires, ont déclaré exercer, ne serait-ce que partiellement, une activité économique ou être passivement à la recherche d’un emploi.
1 Le taux d’activité est égal au rapport entre la population active âgée de 15 ans et plus et l’ensemble de la population âgée de 15 ans et plus.
2 Le taux de chômage est égal au rapport entre la population en chômage et la population âgée de 15 ans et plus.
3 El Mostafa Ben Salem, Patrick Werquin, Aomar Ibourk; in actes du colloque ‘’ La relation formation emploi dans les pays de la mediterranée’’; Marrakech les 24 et 25 Octobre 1996.
4 Ces années étaient caractérisées par une prépondérance du rôle de l’Etat autant au niveau des réglementations que de l’appareil productif. Les réformes macro économiques des années 80 et 90 ont été axées sur le rôle accru qui doit être dévolu au secteur privé pour la promotion de la croissance et du développement.
5 Le seuil de pauvreté correspond à une dépense de 10,90 DH par personne et par jour en milieu urbain et 8,40 DH en milieu rural. Le taux de change dirham oscille entre 10 et 11 DH pour un dollar américain
6 El Mostafa Ben Salem, Patrick Werquin et Aomar Ibourk;
«Les déterminants individuels de la durée de chômage
des jeunes diplômés de Marrakech: une application des
modèles de durée à des données longitudinales »;
in actes du colloque "La relation formation emploi dans les pays de la
méditerranée" ;
Marrakech les 24 et 25 octobre 1996.
7 On a estimé que le nombre de recrutements est égale à la différence entre le nombre de fonctionnaires de l'année(n+1) et ceux de l'année (n) en supposant que les sorties ( décés, retraites, démissions....) de la fonction publique sont stables et se neutralisent d’une année à l’autre. On obtient ainsi une tendance.
8 On a choisi la population urbaine active, par manque de séries sur la population rurale. De plus, la population urbaine est la population qui bénéficie le plus des emplois créés par le secteur public.
9 C’est le ratio des emplois créés chaque année par le secteur public, par rapport aux flux de population active urbaine arrivant sur le marché de travail chaque année. Cette colonne est obtenu en divisant les données de la colonne 3 par celles de la colonne 5.
10 Cette forte augmentation s’explique
à la fois par la croissance naturelle ( taux de natalité) et par
l’exode rural.
11 Le Maroc avait signé deux conventions de mains d’oeuvre. La première avec la République Fédérale d’Allemagne, le 28 Mai 1963, avait prévu la régularisation de la situation des travailleurs marocains en RFA et le recrutement de main d’œuvre. Et la deuxième , entre le Maroc et la France le 1er Juin 1963, avait prévu toutes les modalités de recrutement des travailleurs permanents et saisonniers pour l’ensemble des secteurs économiques.
12 Il faut signaler qu’il y a globalement dans ce domaine, un manque de données et aussi un problème d’hétérogénéité des données disponibles. Ce qui constitue un véritable obstacle à l’étude des comportements dans ce domaine. Les diverses sources utilisées proviennent principalement des recensements effectués dans les pays d’accueil.
[21] LASAREE : Laboratoire de Statistique Appliquée à l’Analyse et la Recherche en Économie
[22] PARADI : Programme d'Analyse et de Recherche Appliquée au Développement International relevant de l'ACDI.
17 Le niveau moyen regroupe les diplômes de
l’enseignement fondamental, et les diplômes en qualification ou en
spécialisation professionnelle.
Le niveau supérieur regroupe les diplômes du baccalauréat, diplômes de techniciens et de cadres moyens et diplômes de formation supérieure ( facultés, grandes écoles et instituts).
[23] Bien qu’insérés Certains, notamment des femmes, préfèrent émigré pour un statut meilleur : élévation du revenu et épanouissement et reconnaissance dans leur travail ; il s’agit autant de salariés du privé que du public.
[24] D'une part, si le dahir du 23 juin 1960 unifie le
régime juridique des collectivités et atténue les
disparités entre les communes rurales et les communes urbaines, il a
maintenu l’autorité de l’Etat sans trop bouleverser le
centralisme du protectorat. D'autre part, si l’autonomie communale a
valeur constitutionnelle depuis 1962, tout laisse penser que la philosophie de
la charte de 1960 n’est qu’une ébauche de
décentralisation, instituant dans les faits des assemblées
plutôt consultatives que délibératives placées sous
l’autorité du Pacha pour les municipalités et du Caïd
pour les communes rurales. Ce contrôle qui s’exprime juridiquement
par la tutelle, fut jugé excessif ou considéré comme une
co-administration locale par les autorités décentralisées
et par l’Etat. Il montre en tout cas à travers les critiques dont
il a fait l’objet que les relations entre l’Etat et les
collectivités locales n’étaient pas souples comme en
témoignait cette période d’exercice d’un pouvoir
autoritaire.
[25] En raison des composantes ethniques aussi.
[26] L’article 44 dispose « Les pouvoirs reconnus aux pachas et caïds en matière de police administrative communale sont transférés aux présidents des conseils communaux ».
[27] Mourji (1998) signale que la disponibilité de locaux constitue l’un des principaux obstacles mentionnés par les micro-entrepreneurs, lors du démarrage de leur activité.
[28] Estratto dal paper “La Rotta di Enea. Relazioni euromediterranee e migrazioni”. Una versione abbreviata del paper è stata pubblicata sulla rivista bimestrale di studi europei “EuropaEurope”, n° 1/2001
[29] Commissione delle Comunità europee, Una politica mediterranea più incisiva per l'Unione europea: l'instaurazione di un nuovo partenariato euro-mediterraneo, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, COM(94)427 def., Bruxelles 19 ottobre 1994, p. 6.
[30] Si vedano, a titolo di esempio, le sollecitazioni, peraltro assai generiche, contenute nella "Raccomandazione sulla politica mediterranea dell'Unione" (11 marzo 1999), adottata dal Parlamento europeo in vista della Conferenza di Stoccarda; in essa, l'assemblea raccomanda al Consiglio di "concordare una regolamentazione comune per tutti i problemi concernenti l'immigrazione, che dovrebbe comprendere anche una Carta dei diritti degli immigrati, […] e di dare impulso alla cooperazione tra i paesi mediterranei per la gestione del problema immigrazione".
[31] J.L. Rhi-Sausi, Le migrazioni e lo spazio economico euro-mediterraneo, relazione presentata al convegno «Migrazioni. Scenari per il XXI secolo», Agenzia Romana per la Preparazione del Giubileo, Roma, 12-14 luglio 2000, mimeo, p. 8.
[32] Per un'analisi dei numerosi accordi conclusi, a partire dal 1997, dall'Italia, cfr. F. Pastore, L'obbligo di riammissione in diritto internazionale: sviluppi recenti, in «Rivista di diritto internazionale», 4/1998. In una prospettiva comparativa, vd. K. Hailbronner, Readmission Agreements and the Obligation on States under Public International Law to Readmit their Own and Foreign Nationals, in «Zeitschrift für ausländisches öffentliches Recht und Völkerrecht», 1/1997.
[33] E' importante rilevare che, con l'entrata in vigore del trattato di Amsterdam e l'avvio del processo di "comunitarizzazione" delle politiche in materia di immigrazione e di asilo, come è stato opportunamente chiarito dal Consiglio europeo a Tampere (15-16 ottobre 1999, punto 27 delle Conclusioni della Presidenza), le istituzioni comunitarie hanno acquisito competenza a concludere direttamente accordi di riammissione. Questa competenza - che dovrebbe sommarsi e non escludere quella degli Stati membri - sembra in procinto di essere esercitata. In occasione del Consiglio GAI del 29 maggio 2000, infatti, i ministri europei hanno raggiunto un accordo di massima (ancorché parziale) sul testo di una decisione che conferirebbe alla Commissione il mandato a negoziare un accordo di riammissione comunitario con il Marocco e fornirebbe un modello per negoziati da aprire quanto prima anche con Pakistan, Russia e Sri Lanka.
[34] Con lo scambio di note con la Tunisia in materia di riammissione (6 agosto 1998), per esempio, l'Italia si è impegnata a contribuire con 15 miliardi di lire all'ammodernamento tecnologico degli apparati tunisini preposti al controllo delle frontiere e con ulteriori 500 milioni alla costruzione di centri di accoglienza per i cittadini di paesi terzi riammessi dalla Tunisia in vista dell'allontanamento verso il paese d'origine. Il negoziato italo-tunisino sulla riammissione si è svolto in parallelo con la riunione della Grande Commissione Mista italo-tunisina sulla cooperazione tra i due paesi, che ha deciso lo stanziamento da parte dell'Italia di 150 miliardi in tre anni (a cui si aggiungono 100 miliardi per opere già programmata) a favore di progetti di sviluppo in Tunisia. La concomitanza dei due negoziati ha indubbiamente facilitato l'intesa, ma ha anche favorito letture giornalistiche eccessivamente semplificate (cfr., per es., G. Fregonara, Italia-Tunisia, 250 miliardi per l'intesa-clandestini, Il Corriere della Sera, 7 agosto 1998, p. 9).
[35] Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 ottobre 1998, contemplava quote massime privilegiate di 1.500 cittadini marocchini e 1.500 tunisini. Il decreto per il 2000 (8 febbraio 2000) ha raddoppiato tali cifre, per entrambi i paesi. Nel 1999, è mancato un vero e proprio decreto di programmazione e il Presidente del Consiglio si è limitato a reiterare, mediante direttiva (4 agosto 1999), le scelte effettuate nell'anno precedente. In assenza di dati disaggregati, si deve supporre, tuttavia, che anche nel 1999, i cittadini marocchini e tunisini abbiano goduto di un trattamento preferenziale ai fini dell'ingresso in Italia per motivi di lavoro.
[36] Per un'analisi della politica italiana in materia di ammissione, inserita nel quadro di una ricostruzione critica della politica migratoria nazionale, cfr. F. Pastore, La politica migratoria, in R. Aliboni - F. Bruni - A. Colombo - E. Greco, a cura di, «L'Italia e la politica internazionale», Il Mulino, 2000; e F. Pastore, La politica migratoria, in IAI-ISPI, a cura di, «L'Italia e la politica internazionale», Il Mulino, 2001, in corso di pubblicazione.
[37] Sulla genesi del HLWG, vd. F. Pastore, La rivoluzione (incompiuta) della politica migratoria europea, in «EuropaEurope», 6/2000.
[38] In proposito, vd. l'articolo citato alla nota precedente.
[39] Si tratta del punto 55 del Rapporto presentato dal HLWG al Consiglio europeo di Nizza (7-9 dicembre 2000), allegato alle Conclusioni della Presidenza (traduzione non ufficiale). Il Rapporto - che era stato precedentemente approvato dal Consiglio Affari Generali del 4 dicembre 2000 - fornisce un bilancio sufficientemente franco e lucido dell'attività dell'organismo nei suoi primi due anni di vita.
[40] La possibilità di utilizzare fondi MEDA per misure in materia migratoria è suggerita dal HLWG anche per la Turchia:
"Sono stati compiuti dei progressi nello scambio di informazioni in materia di immigrazione e di asilo tra la UE e la Turchia e il tema delle migrazioni è stato inserito nella bozza di accordo di pre-adesione. Le autorità turche hanno manifestato la loro volontà di sviluppare una più stretta cooperazione con l’Unione europea su queste materie. Nel quadro del programma MEDA, si potrebbe valutare l’opportunità di finanziare progetti in materia di asilo e immigrazione, aventi per oggetto attività di cooperazione tecnica, formazione, scambio di esperti, seminari, etc.” (High Level Working Group on Asylum and Migration, Report to the European Council in Nice, punto 34).
[41] S. Naïr, Rapport de bilan et d'orientation sur la politique de co-développement liée aux flux migratoires, Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, 1997.
[42] G. Danese - A. Stocchiero, Una politica di "integrazione circolare" degli immigrati, in CeSPI, «Immigrazione e processi di internazionalizzazione dei sistemi produttivi locali italiani», Working Paper n. 9, giugno 2000, Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Dipartimento per gli Affari Sociali, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, p. 38.
[43] R. Prodi, The growth of Euro-Mediterranean Cooperation, in «Euromed Report», n° 14, 29 agosto 2000, p. 2, corsivo aggiunto, traduzione nostra.
[44] Estratti dal punto 22 della "Common Strategy of the European Union on the Mediterranean Region", adottata dal Consiglio europeo di Feira (19-20 giugno 2000), corsivi aggiunti, traduzione non ufficiale.
[45] Anche da questo punto di vista, in ambito UE si registrano sviluppi incoraggianti. Dopo l'importante riunione di alti funzionari euromediterranei su "Migrations et échanges humains" (6 ottobre 2000), che aveva avuto precedenti solo a livello di esperti (L'Aia, 1-2 marzo 1999), la IVa Conferenza Euromed, svoltasi a Marsiglia il 15 e 16 novembre 2000, sembra aver segnato un punto di svolta. Oltre ad aver accolto con favore le conclusioni del meeting ad alto livello di ottobre 2000 e ad avere incoraggiato il proseguimento di tale forma di dialogo, il vertice di Marsiglia ha concordato la creazione di un programma regionale in materia di giustizia e affari interni. Quando questo programma diverrà operativo, si disporrà finalmente di uno strumento per promuovere e finanziare progetti in materie quali la lotta all'immigrazione illegale, ma anche la promozione del ruolo dei migranti a favore del co-sviluppo e il sostegno all'integrazione.
[46] Si ringrazia Barbara Fridel dell’IOM di Roma per la documentazione e le informazioni gentilmente offerte.
[47] High Level Working
Group on Asylum and Migration report to the Council in Nice 13993/00 JAI
152 AG 76.
[48] Action Plan for Morocco 11426/99 JAI 75 AG 30.
[49] Cfr. High Level Working Group report to the Conucil of Nice, Cap. II, III, IV, V.
[50] Cfr. Action Plan for Morocco, Cap. E..II.67.
4 [t1]