Lavoro, previdenza e assistenza

 

 


Corte di cassazione - sez. lavoro

sentenza 2.4/11.7.2001 n. 9407 – rel. Toffoli

 

 

lavoratore extracomunitario – licenziamento senza preavviso motivato da intervenuta scadenza del permesso di soggiorno per lavoro – illegittimità

contratto di lavoro con lavoratore extracomunitario – dedotta inapplicabilità delle norme sui requisiti formali e sostanziali del contratto a tempo determinato – infondatezza – applicazione del principio di parità di trattamento e di piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani – necessità

pretesa automaticità della risoluzione per impossibilità sopravvenuta alla scadenza del permesso di soggiorno – infondatezza

scadenza del permesso di soggiorno – mancanza di requisito di efficacia ma non di validità del contratto - conseguente sospensione del rapporto di lavoro - necessità

scadenza del permesso di soggiorno – configurabilità di giustificato motivo oggettivo di licenziamento con preavviso – legittimità

svolgimento del rapporto di lavoro in carenza di permesso di soggiorno – applicazione del principio di cui all’art.2126 c.c. e conseguente obbligo retributivo- necessità 

 art.1 Conv. O.I.L. n.143/75; art.1 l. n.943/86; art.1, comma 3, l. n.230/62; art.3 l. n.604/66; art.2126 c.c.

 

 

Svolgimento del processo

Con ricorso al Pretore di Riva del Garda, A.K. esponeva di aver svolto attività lavorativa alle dipendenze della s.r.l. T. quale cameriera, con adibizione anche a compiti di lavanderia, dal 10.1.1993 al 2.2.1995, quando era stata licenziata in tronco; precisava anche che aveva osservato un orario di lavoro di 13 ore giornaliere per sei o sette giorni alla settimana, a seconda dei periodi, e che vi era stato un precedente fittizio licenziamento in corrispondenza del periodo di ferie dal 24 ottobre al 29 novembre 1993, nonché l’irrogazione di un provvedimento disciplinare e del licenziamento, con condanna della datrice di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento dei danni, oltre che al pagamento di differenze retributive, anche per il lavoro straordinario.

La convenuta si costituiva in giudizio e resisteva alle domande. In particolare deduceva che il primo rapporto si era concluso in data 24.10.1993, in considerazione della scadenza del visto di ingresso della lavoratrice straniera il successivo 31.10.1993, e che a decorrere dal 29.11.1993, era iniziato un nuovo rapporto di lavoro, dopo la sottoscrizione da parte della dipendente di una quietanza relativa al periodo di pregresso.

Il pretore, riconosciuta l’illegittimità del licenziamento, riconosceva al riguardo un risarcimento pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione e, in accoglimento delle altre domande, condannava la convenuta, in particolare, al pagamento di conguagli retributivi nella misura di L.64.442.230, oltre accessori, per il periodo dal gennaio 1993 al febbraio 1995.

A seguito di appello proposto dalla s.r.l. T., il Tribunale di Rovereto confermava la sentenza impugnata. Per quanto ancora rileva, il giudice d’appello escludeva che il contratto di lavoro stipulato inizialmente tra le parti potesse considerarsi a termine, in difetto di una specifica pattuizione negoziale in tal senso, risultante da un atto scritto anteriore o almeno contestuale all’inizio del rapporto di lavoro. Né in senso contrario, ad avviso di detto giudice, poteva darsi rilievo al tenore del provvedimento autorizzativo dell’ufficio provinciale del lavoro - peraltro posteriore all’effettivo inizio del rapporto - che riguardava il periodo aprile - ottobre 1993 e conteneva la prescrizione di rimpatrio della lavoratrice straniera al termine di detto periodo.

Quanto alla ricevuta sottoscritta dalla lavoratrice in data 29.11.1993, con riferimento ad un rapporto cessato il 24.10.1993, il giudice di secondo grado escludeva che la stessa - redatta su un modulo precompilato nelle parti essenziali - avesse effettiva efficacia di rinuncia a somme maggiori di quelle corrisposte, non potendosi ritenere che la dipendente, nonostante la - peraltro generica - elencazione di varie causali investite dalla pretesa rinuncia, l’avesse rilasciata con l’effettiva consapevolezza dell’esistenza di specifici diritti patrimoniali determinati o determinabili e con l’intento di abbandonarli.

Quanto all’orario di lavoro effettivamente osservato dalla lavoratrice, il Tribunale dava particolare rilievo alle deposizioni di due ex colleghe di lavoro, di cui aveva disposto la nuova audizione, rilevando che esse erano a diretta e personale conoscenza dei fatti e adeguatamente attendibili e non erano incorse in alcuna significativa contraddizione. Esse avevano adeguatamente illustrato quale era stata in concreto l’organizzazione del lavoro, in base alla quale la K. era dovuta rimanere a disposizione per un numero elevatissimo di ore giornaliere, senza potersi allontanare, ed era stata addetta anche a compiti estranei alla sua qualifica, comprese le pulizie in casa dei titolari della società.

Contro tale sentenza la S.T. ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi.

La K. ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso si deduce falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art.1, co.3, l. 18 aprile 1962 n.230 e gli artt.1256 e 1163 c.c.

Sostiene la ricorrente che il principio, secondo cui ogni contratto di lavoro si deve ritenere a tempo indeterminato in mancanza di iniziale pattuizione per iscritto di un termine, non è applicabile nei rapporti in cui la formazione della volontà o il consenso delle parti è limitato dall’intervento obbligatorio dell’autorità, come nel caso dei rapporti con lavoratori stranieri extracomunitari, per i quali la possibilità di stipulare un contratto di lavoro è subordinata al rilascio di visto di ingresso e soggiorno in Italia per motivi di lavoro e sussiste l’obbligo del lavoratore di rientrare nel paese d’origine, dopo la scadenza del periodo di validità del permesso. Tale fatto, del resto, fa configurare l’ipotesi dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la consequenziale risoluzione del contratto.

Nella specie, poi, anche in concreto, alla cessazione di validità del visto, la lavoratrice era tornata al suo paese ed era cessata ogni attuazione del rapporto. Né poteva ora invocarsi il principio secondo cui la perdita della capacità del lavoratore di fornire le prestazioni non comporta l’automatica risoluzione del rapporto, qualora le parti manifestino una volontà contraria, poiché l’accertamento di tale volontà può avvenire solo nel giudizio di merito, e nel caso in esame il giudice a quo aveva affrontato il problema della durata del contratto solo dal punto di vista formale, erroneamente disconoscendo che l’art.1, co.3, della l. n.230/1962 non opera nell’ipotesi di rapporti la cui durata è determinata ex lege, in base a norme di diritto pubblico.

Il motivo propone due diverse questioni. Si afferma innanzitutto, in sostanza, che, per i lavoratori stranieri soggetti alla disciplina sui permessi di soggiorno e di lavoro in Italia non trovano applicazione le regole della legge n.230/1962 sui requisiti formali e sostanziali per una valida apposizione del termine ai contratti di lavoro, e che il rapporto di lavoro deve automaticamente ritenersi limitato nel tempo, in relazione alla incidenza, nella conclusione del contratto, dell’intervento dell’autorità, in rapporto alla prefissata scadenza dei permessi di lavoro e di soggiorno (o del visto d’ingresso). In via subordinata si sostiene che, alla scadenza di tali permessi, il rapporto si risolve per impossibilità sopravvenuta a norma degli artt.1256 e 1463 c.c.

Ambedue le tesi non sono accoglibili.

La prima tende a introdurre una nuova ipotesi di contratto a termine, del tutto svincolata dalla disciplina imperativa e tassativa della legge n.230/1962 (e successive modifiche e integrazioni). L’infondatezza dell’ipotesi in esame è confermata da numerose considerazioni.

Può ricordarsi già che l’art.1 della l. 30 dicembre 1986 n.943 garantisce ai lavoratori extracomunitari legalmente residenti in Italia parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, in attuazione della convenzione OIL n.143 del 1975, ratificata con l. 10 aprile 1981 n.158, e che le sezioni unite di questa Corte, con la recente sentenza n.62/2000/S.U. hanno precisato che tale parità è estesa alla fase anteriore alla costituzione del rapporto. D’altra parte, è affermata da costante giurisprudenza l’idoneità degli atti relativi alla procedura di collocamento (quali la richiesta del datore di lavoro del provvedimento di avviamento del lavoratore) a surrogare il requisito della forma scritta relativo alla clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro, (cfr. Cass. n.1317/1986, n.832/1987, n.3019/1989, n.11173/1993).

Va poi rilevato che già la legge n.943/1986 disciplina il lavoro degli stranieri in Italia come un fenomeno in linea di fatto caratterizzato da una certa tendenza alla stabilità, nonostante la previsione di autorizzazioni al lavoro di durata biennale, come è evidenziato, per esempio, dalle norme sul ricongiungimento familiare (art.4) e da quelle sulle iniziative dirette a favorire l’integrazione nella comunità italiana dei lavoratori extracomunitari e delle loro famiglie (art.9, co.2). Non vi sarebbe ragione, quindi, di attribuire sistematicamente al rapporto di lavoro degli stranieri una precarietà che può essere in contrasto con il possibile futuro rinnovo dei permessi. Va anche rilevato che l’art.11 della stessa legge contiene norme dirette ad agevolare la rioccupazione del lavoratore che abbia subito un licenziamento individuale o collettivo nell’arco della durata del suo permesso. È evidente quindi che la legge non presuppone una generalizzata applicazione della disciplina del contratto a termine.

Se poi si volge l’attenzione alla disciplina attualmente vigente, è agevole rilevare che, nonostante la normale temporaneità dei permessi di soggiorno (cfr. art.3, co.3, d.lgs. 25 luglio 1998 n.286), peraltro in linea di massima rinnovabili (art. cit., co.4 e segg.; cfr. anche l’art.9 riguardo alla carta di soggiorno a tempo indeterminato), è previsto il rilascio di autorizzazioni al lavoro indifferentemente per la stipulazione di contratti a tempo determinato o indeterminato (art.22 d.lgs. cit.).

Appare quindi confermato, sotto vari profili, che vanno nettamente distinti i piani della disciplina della durata - a tempo determinato o indeterminato - del rapporto di lavoro e quelli della durata dei permessi di lavoro e soggiorno. E’ opportuno, tuttavia, rilevare ancora che una soluzione diversa lascerebbe esposto il lavoratore straniero ad una immotivata risoluzione del rapporto di lavoro, senza neanche il beneficio del preavviso, in coincidenza della scadenza dell’ipotizzato termine, anche nel caso in cui egli abbia conseguito il rinnovo dei permessi.

La tesi di una risoluzione automatica del rapporto di lavoro, per impossibilità sopravvenuta alla scadenza del permesso di lavoro o di soggiorno, appare ugualmente da disattendere.

L’argomento di maggior rilievo a sostegno di una simile soluzione è rappresentato dall’esistenza per il datore di lavoro di un divieto penalmente sanzionato di occupare alle proprie dipendenze lavoratori extracomunitari sprovvisti di autorizzazione al lavoro (art.12, co.2, l. n.943/196), oppure privi del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato (art.22, co.10, d.lgs. n.286/1998).

Il divieto di occupare un lavoratore straniero privo dei permessi previsti dalle norme richiamate, sebbene non integri a rigore un’ipotesi di impossibilità della prestazione, è alla stessa assimilabile, poiché giustifica ed anzi rende doveroso il rifiuto della prestazione; conseguentemente può essere congruo il riferimento, in via analogica, alla disciplina degli effetti nel rapporto di lavoro dell’impossibilità della prestazione lavorativa, impossibilità che, se interviene dopo una fase di attuazione regolare del rapporto, deve qualificarsi come sopravvenuta. E’ tuttavia, integrata l’ipotesi dell’impossibilità in senso proprio quando il lavoratore straniero, per ottemperare alla normativa sul soggiorno o agli inerenti provvedimenti dell’autorità, sia costretto ad abbandonare il territorio nazionale o sia, comunque, impedito a rendere la prestazione lavorativa.

L’ipotesi dell’impossibilità sopravvenuta è presa frequentemente in esame dalla giurisprudenza, con riferimento principalmente alle evenienze della inabilità psicofisica del lavoratore (soprattutto preventiva o cautelare) del medesimo, della revoca di permessi o autorizzazioni amministrative necessari in relazione alla qualifica o alle mansioni del prestatore di lavoro. Dal complesso della giurisprudenza in materia emerge un comune orientamento quanto al riconoscimento che nel rapporto di lavoro subordinato l’impossibilità sopravvenuta della prestazione sia essa totale e definitiva, oppure, come frequentemente accade, parziale o temporanea, non produce effetti automaticamente, ma può costituire un giustificato motivo di licenziamento, a norma dell’art.3 della legge 15 luglio 1966 n.604 (cfr., per esempio, tra le assai numerose sentenze in materia, Cass. n.4849/1983; n.1970/1992; n.6106/1992; n.6409/1993; n.9067/1993; n.266/1995; n.603/1996; S.U. n.7755/1998; n.2719/1998; n.6154/1999; n.14065/ 1999).

Questo principio appare applicabile anche al caso di sopravvenuta scadenza o revoca del permesso di lavoro o di soggiorno, perché questi eventi non determinano necessariamente e di per se stessi una impossibilità definitiva di attuazione del rapporto. E’ ben possibile, al contrario, che sia ripristinata, anche in tempi brevi, la possibilità di esecuzione, a seguito di eventi quali il rinnovo del permesso, la concessione di uno nuovo, l’annullamento o la sospensione dell’atto di revoca, ecc., come del resto si è verificato nel caso in esame. Ed è evidente in simili casi sarebbe incongruamente penalizzante per il lavoratore straniero l’automatica e definitiva perdita del posto di lavoro, nel momento stesso della scadenza del permesso o della sua revoca.

D’altra parte, anche in queste situazioni, come negli altri casi di impossibilità, le caratteristiche di personalità del rapporto di lavoro e le esigenze di certezza sulla sua permanenza concorrono a far ritenere necessario un negozio risolutivo.

Tali considerazioni, rispettando l’applicazione di principi di carattere generale, sono riferibili anche ai permessi rilasciati per lavoro stagionale, quando il rapporto di lavoro non ha acquisito - o ha perso - la qualificabilità come rapporto di lavoro a tempo determinato. Del resto l’art.24 del d.lgs. n.286/1998 prevede espressamente che il lavoratore stagionale, oltre ad avere un diritto di precedenza per il rientro in Italia nell’anno successivo, “può [] convertire il permesso di lavoro stagionale in permesso di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato qualora se ne verifichino le condizioni”. D’altra parte, le sopra citate norme istituenti ipotesi di reati contravvenzionali usano dizioni (“il datore di lavoro che occupi alle sue dipendenze”, “il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze”) che sono piuttosto atecniche dal punto di vista giuslavoristico e che guardano al fenomeno da un punto di vista fattuale. Esse sono suscettibili perciò di essere interpretate, in ottica civilistica, nel senso che non ostano alla mera pendenza di un rapporto di lavoro, ove allo stesso non sia data alcuna esecuzione

Può quindi affermarsi che l’associazione di efficacia o di validità del permesso di lavoro o del permesso di soggiorno determina non la risoluzione del rapporto ma la sua sospensione totale, con riguardo ad ogni suo effetto economico e giuridico (ivi compresa, quindi, l’esclusione della maturazione delle quote di mensilità differite, del trattamento di fine rapporto, dell’anzianità, degli obblighi di contribuzione, ecc.). Tale interpretazione sembra coerente con quanto prevede l’art.30, co.3, lett.b), del d.p.r. 31 agosto 1999 n.394 (regolamento di attuazione del d.lgs. n.286/1998), secondo cui il datore di lavoro, nel presentare la richiesta di autorizzazione al lavoro dello straniero residente all’estero, deve allegare copia del contratto di lavoro stipulato con il medesimo, sottoposto alla sola condizione dell’effettivo rilascio del relativo permesse di soggiorno. Ne risulta confermato, infatti, che il permesso di lavoro è richiesto non ai fini della validità del contratto, ma solo ai fini della sua efficacia. Nell’ipotesi, poi, in cui il contratto riceva di fatto esecuzione anche durante un periodo di carenza del permesso, sembra ipotizzabile l’applicabilità in via estensiva dell’art.2126 c.c. (cfr. Cass. n.10128/1998).

Quanto ai presupposti per l’eventuale intimazione del licenziamento - sempre che non siano intervenute le dimissioni o una risoluzione consensuale (il lavoratore sarà ben interessato a definire il rapporto, al fine di percepire le conseguenti spettanze, ove non si prospetti come realistica una sua riattivazione) - appare logico il riferimento ai principi elaborati dalla giurisprudenza riguardo ai vari casi di impossibilità della prestazione. Sembra inoltre potersi ipotizzare che, se - e nei limiti in cui - durante il periodo di preavviso permanga la carenza del permesso, il preavviso stesso continui a decorrere (in caso contrario l’estinzione del rapporto potrebbe rimanere sospesa sine die), ma non maturi alcun diritto alla retribuzione, stante la mancanza della prestazione e il totale, inderogabile, divieto di attuazione del rapporto.

Con il secondo motivo si deduce falsa applicazione dell’art.2113 c.c. e omessa motivazione su un punto decisivo.

Premesso che l’atto di quietanza e rinuncia sottoscritto dalla lavoratrice conteneva espressa formulazione di rinuncia a diritti specificati quali l’indennità di anzianità, emolumenti arretrati e compensi di varia natura, premi di produzione, straordinari, ecc., si sostiene che la sentenza impugnata deve ritenersi non fornita di adeguata motivazione nella parte in cui ha escluso la chiara consapevolezza dell’interessata circa determinati diritti e l'esistenza di una sua volontà di rinunciarvi, a meno di non ritenere impossibile rinunciare a diritti non ancora accertati e quantificati.

Il motivo è infondato perché il giudice di merito, con adeguata e incensurabile motivazione sui rilevanti aspetti di fatto, ha compiuto un’esatta applicazione dei principi rilevanti in materia. Questa Corte ha in più occasioni precisato che le quietanze a saldo sottoscritte dal lavoratore possono, ai sensi ed agli effetti dell’art.2113 c.c., assumere il valore di rinuncia o di transazione, alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che esse siano state rilasciate con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi, e che tale accertamento è riservato al giudice del merito, implicando un apprezzamento di fatto censurabile, in sede di legittimità, nella sola ipotesi di violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale o di vizi di motivazione (in questi termini, di recente, Cass. n.7306/1998; cfr. anche Cass. n.7019/1982 e Cass. n.2627/1985). Può precisarsi che nell’ambito delle cosiddette quietanze a saldo devono essere ricomprese, ai fini in esame, anche quelle in cui la dichiarazione di rinuncia a maggiori somme, predisposta dal datore di lavoro, contenga un’elencazione, in termini generici, di una serie di quei titoli di pretese che sono in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto. Infatti una simile elencazione non si distingue sostanzialmente dalle clausole di stile e non è sufficiente, di per sé, a dimostrare che il lavoratore abbia avuto la chiara consapevolezza dell'esistenza di determinati diritti e l’intento di abdicarvi (cfr. Cass. n.6391/1992, che parlò della necessità che si dimostri, da un lato, il riferimento della dichiarazione ad uno specifico diritto preteso dal lavoratore e, dall’altro, l’elemento soggettivo, consistente nella volontà di rinunciare o transigere sul diritto preteso). [¼]

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alla controparte le spese del giudizio.

 

 

Scheda

 

di Marco Paggi

 

La sentenza in esame rappresenta una chiara e pacifica applicazione del principio di parità di trattamento e di piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori nazionali, principio che deve necessariamente costituire un canone interpretativo fondamentale delle norme in materia di lavoro e che, addirittura,  non potrebbe essere disatteso nemmeno da espresse disposizioni in senso difforme, attesa la particolare tutela costituzionale di cui gode --in forza dell’art.10, comma 2, della Costituzione--  l’art.1 della Conv. O.I.L. n.143/75 (concretamente recepito nell’ordinamento dapprima dall’art.1 della legge n.943/86 e, quindi, dall’art.2, comma 1, del d.lgs 286/98).

Dunque, pure se si volesse  prescindere dalla natura  inderogabile e dal principio di territorialità che generalmente caratterizza le norme in materia di lavoro e di assicurazioni obbligatorie, ne  consegue l’applicazione ai rapporti di lavoro instaurati con lavoratori extracomunitari delle  norme disciplinanti il contratto a tempo determinato e dei relativi requisiti formali e sostanziali, senza alcuna diretta influenza dei termini di scadenza del permesso di soggiorno.
Per gli stessi principi, anche sotto il profilo della impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, non possono che applicarsi alla fattispecie della scadenza del permesso di soggiorno i medesimi criteri che la giurisprudenza costante applica in relazione ai fatti oggettivi, collegati alla persona del lavoratore, che determinano la sopravvenuta impossibilità parziale o temporanea della prestazione lavorativa e che giustificano la risoluzione del rapporto, comunque con preavviso, solo ove il datore di lavoro non abbia più un interesse apprezzabile alle  future prestazioni lavorative (si pensi, ad esempio, oltre alle pronunce citate nella sentenza in epigrafe, alla copiosa giurisprudenza in tema di sopravvenuta carcerazione, preventiva e non, del lavoratore), in quanto esse risultino astrattamente e generalmente possibili.
Infatti, la Corte di Cassazione non manca di considerare nello specifico l’ipotesi in cui vi è comunque la  possibilità --oltre al normale rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro ex art.5, comma 3 lett.d)--  di acquisire un nuovo permesso di soggiorno o di rinnovarlo, ed è appena il caso di osservare che ciò vale non solo in caso di conversione ex art.24, comma 4, del d.lgs. n.286/98, ma anche in relazione ad alcune ipotesi di divieto di espulsione di cui all’art.19 del T.U., all’eventuale rilascio di un p.s. per motivi di protezione sociale, all’autorizzazione alla permanenza in deroga alle altre norme vigenti in materia emanata dal Tribunale per i minorenni ex art.31, comma 3, del T.U., nonché, più in generale, alle conseguenze dei provvedimenti giudiziari che sospendano o annullino la determinazione sfavorevole della competente autorità amministrativa.

In buona sostanza, pure tenendo conto della specifica sanzione penale di cui all’art.22, comma 10, del T.U.,  in occasione della scadenza (come pure della revoca o dell’annullamento) del permesso di soggiorno la pronuncia in esame prospetta al datore di lavoro un’alternativa: o si applica il licenziamento con preavviso per giustificato motivo oggettivo, ovvero si opera una sospensione totale del rapporto di lavoro e di tutte le connesse obbligazioni, confidando nella possibilità di ripristino dei presupposti legittimanti la sua prosecuzione, vale a dire di un idoneo permesso di soggiorno.

La Suprema Corte afferma i suddetti principi pur dovendosi attenere alle questioni ed ai motivi di diritto sottoposti al suo vaglio, sicché non si può certo dire che sfugga dalla trattazione di ulteriori questioni interpretative, che tuttavia appaiono di essenziale importanza e non mancheranno di essere necessariamente sottoposte alla magistratura.

Per l’appunto, resta da chiarire “quando” possa ritenersi giuridicamente scaduto o revocato o annullato il permesso di soggiorno, e ciò non solo in relazione all’individuazione del momento di consumazione del reato  di cui all’art.22, comma 10, citato, ma anche con specifico riguardo alla validità ed efficacia del rapporto di lavoro in atto ed alle conseguenze in tema di legittimità del licenziamento.

Come è purtroppo noto, la prassi operativa delle questure impone tempi di rinnovo del permesso generalmente di gran lunga superiori ai termini di legge, che rispettivamente espongono una quantità enorme di datori di lavoro e di lavoratori al rischio non certo teorico di procedimenti penali e di licenziamenti connessi alla scadenza e alla mancanza di rinnovo del permesso di soggiorno,  al punto che, il Ministero del Lavoro, “ritenuta la necessità ed opportunità di tenere nella dovuta considerazione particolari situazioni verificatesi in via di fatto e non legate ad una situazione di inadempienza del datore di lavoro e del lavoratore extracomunitario in attesa di rilascio ovvero di rinnovo del permesso di soggiorno”, ha finalmente ritenuto di chiarire, con le circolari n.66 e 67 del 29.9.00 e n.20 del 5.2.01 (v. in questa Rivista, n.1/01, 231), che quantomeno si debba evidenziare, in sede di ispezione e di correlativa informativa all’Autorità Giudiziaria, “l’esistenza del cedolino comprovante la richiesta di rinnovo…la situazione di attesa del rinnovo ed i tempi lunghi di evasione delle pratiche, al fine di evitare che il fatto denunciato sia parificato a quello in cui il lavoratore stesso sia privo del permesso di soggiorno e non possieda i requisiti formali per ottenerlo”.

Come si vede, pur suggerendo “una interpretazione delle fattispecie secondo quel principio superiore di ragionevolezza che deve informare qualsiasi tipo di azione della pubblica amministrazione” (v. circolare n.20 cit.), il Ministero del Lavoro manifesta ancora  il dubbio se nelle more del rinnovo possa legittimamente avere prosecuzione il rapporto di lavoro, come pure se possa instaurarsi validamente un nuovo rapporto, rimettendo all’Autorità Giudiziaria la questione interpretativa . Certo, non sembra affatto un caso che sino ad oggi non si sia avuta notizia di alcun procedimento penale avviato in casi simili per violazione dell’art.22, comma 10, ed un tale silenzio appare di per sé eloquente.     

Ma a ben guardare, altra giurisprudenza non ha mancato di rilevare il carattere meramente ordinatorio, ovvero non vincolante, del termine dei trenta giorni precedenti la scadenza del soggiorno, fissato dall’art.5, comma 4, del T.U. per la proposizione della domanda di rinnovo, come pure –ciò che  è ancor più importante--  il carattere non assolutamente perentorio del termine dei sessanta giorni successivi alla scadenza, fissato dall’art.13, comma 2 lett.b), del T.U., quand’anche non sia stato chiesto tempestivamente il rinnovo (v. in questa Rivista: Cass., I^Sez., 6374/99, n.2/99, 177; Pret. Monza 26.10.98, n.2/99, 172; Trib. Milano 28.1.99, n.2/99, 177; Trib. Parma 1.3.00, n.3/00, 94).

Inoltre, non si può trascurare l’ampia casistica del contenzioso in materia di diniego di rinnovo, revoca o annullamento del permesso di soggiorno, cui pure si riferisce la giurisprudenza sopra citata, laddove sembra parimenti da escludere che il rapporto di lavoro assuma connotazioni illecite nelle more della tutela in sede giudiziaria, in quanto indubbiamente rivolta ad assicurare la conservazione ed il ripristino della situazione giuridica “quo ante”, vale a dire del permesso di soggiorno idoneo allo svolgimento di regolare attività lavorativa.

In definitiva, sia pure col beneficio del dubbio sino a quando non si sarà formato un orientamento interpretativo univoco e coerente, sembra che un’interpretazione sistematica non possa lasciare spazio alla configurazione di una serie incalcolabile di rapporti di lavoro la cui liceità e stabilità (senza voler contare i licenziamenti attuabili per tutt’altri motivi e surrettiziamente giustificabili in base alla “provvidenziale” scadenza del permesso di soggiorno, come nella fattispecie oggetto della pronuncia in esame) debba soffrire una perenne intermittenza, che, si badi bene, deriverebbe unicamente dalla pendenza quasi sempre incolpevole di controversie o semplici procedure riguardanti meri adempimenti amministrativi. Sembra piuttosto coerente, e soprattutto rispondente alla necessaria effettività del principio di parità di trattamento e di piena uguaglianza, un’interpretazione che riconosca legittimazione all’instaurazione ed allo svolgimento dei rapporti di lavoro fino alla definitiva conclusione del procedimento relativo all’ottenimento del permesso di soggiorno, ivi inclusa l’eventuale fase giudiziaria, la qual cosa consentirebbe, peraltro, di assicurare corrispondenza delle fattispecie in cui vi è  il diritto di soggiornare con  il diritto di lavorare.     

 

     

 

      

 

 

 

 

 

Tribunale di Parma

sentenza 13/28.9.2000 - est ?

straniero lavoratore subordinato – mancanza di permesso di soggiorno – nullità del contratto di lavoro per violazione di norme imperative – insussistenza del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro

 dpcm 16.10. 1998; art.2126 c.c.;

 

Nella causa promossa da Fanidi Nourreddine, [¼] contro C.T.S. Centro Tecnico di Saldatura di Torta & Campanini s.n.c., [¼]

Svolgimento del processo

Con ricorso al Giudice del Lavoro di Parma Fanidi Nourreddine esponeva di aver lavorato alle dipendenze della C.T.S. snc di Torta e Campanini, con sede in Medesano loc. Felegara (PR) dal giorno 12.2.1999 al giorno 31.3.1999, adibito alla effettuazione di saldature e lavori di assemblaggio.

[] Aggiungeva che in data 31.3.1999 era stato licenziato oralmente da parte convenuta. Tutto ciò premesso, chiedeva la condanna di parte convenuta al pagamento di L. 1.690.751 per differenze retributive. In ordine al licenziamento orale intimatogli il 31.3.1999 chiedeva la condanna di controparte a reintegrarlo nel posto di lavoro o in via alternativa alla corresponsione della somma di L. 31.804.365 pari a 15 mensilità, in ogni caso con condanna di tale parte alla corresponsione di una indennità non inferiore a cinque mensilità di fatto. Chiedeva altresì la condanna di parte di parte convenuta alla corresponsione di L. 507.024 a titolo di indennità di mancato preavviso ed a regolarizzare la posizione contributiva di esso ricorrente; vinte le spese.

Si costituiva in giudizio parte convenuta la quale riconosceva di aver avviato al lavoro dal giorno 11.2.1999 il ricorrente dopo aver ottenuto dalla stessa assicurazione in ordine all’imminente rilascio del permesso di soggiorno richiesto presso l’Ufficio stranieri della questura di Verona.

Aggiungeva che successivamente il ricorrente si era poi più volte assentato dal lavoro per verificare e sollecitare il disbrigo della predetta pratica.

Aggiungeva che in data 31.3.1999 aveva comunicato al ricorrente la sua decisione di rinunciare e non accettare le sue prestazioni non avendo ancora lo stesso ottenuto il rilascio di tale permesso di soggiorno.

In ordine alla attività di fatto svolta dal ricorrente offriva la somma di L. 848.168 poiché dal raffronto fra le somme che il ricorrente dava atto di avere ricevuto e l’importo della somma dei netti delle buste paga risultava il predetto credito a favore del ricorrente. La causa veniva istruita con produzioni documentali e richiesta di informazioni presso la questura di Verona. È stata poi decisa all’udienza del giorno 13 settembre 2000 come da dispositivo in atti.

Motivi della decisione

Il ricorso non pare essere fondato.

[]. In ordine all’ulteriore e principale domanda proposta al ricorrente pare essere dato incontestato tra le parti che il ricorrente in data 11.2.1999 (vale a dire nel momento in cui ha iniziato a lavorare effettivamente per la società convenuta) non era in possesso di alcun permesso di soggiorno.

Dagli atti (v. informazioni richieste alla questura di Verona ufficio stranieri) risulta che il ricorrente in data 18.3.1999 ha presentato istanza di regolarizzazione ai sensi del d.p.c.m. del 16.10.1998 per ottenere il permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo, allegando relativa documentazione.

In data 23.9.1999 il predetto ufficio ha rilasciato il permesso di soggiorno E 147285 per motivi di lavoro autonomo valido fino al 22.9.2000.

Appare, quindi, condivisibile la difesa della società convenuta (che su tale specifico punto per altro neppure risulta essere stata nella sostanza contestata dalla difesa del ricorrente) quando ha messo in risalto la circostanza che al momento dell’inizio della prestazione lavorativa il ricorrente era presente “in modo non legale sul territorio dello Stato italiano” con conseguente ricorrenza della fattispecie della c.d. prestazione lavorativa di fatto per violazione di norme imperative, con ulteriore conseguente applicazione dell’art.2126 cod. civ. (cfr. al riguardo per una fattispecie sostanzialmente identica a quella oggetto del presente giudizio Pret. Milano 8.12.1996; cfr. anche Pret. Firenze 3.5.1993).

Pare quindi ulteriormente condivisibile l’ulteriore affermazione difensiva di parte convenuta quando sostanzialmente deduce che, stante la nullità del contratto di lavoro instaurato tra le parti per la situazione di fatto sopra esposta, il lavoratore non può vantare il diritto alla stabile assunzione alle dipendenze dell’imprenditore per il periodo successivo alla cessazione della prestazione, con conseguente rigetto della domanda di declaratoria di illegittimità del licenziamento e la conseguente domanda alla reintegrazione nel posto di lavoro (v. espressamente Trib. Roma 13.11.1995).

Né sembra essere condivisibile la difesa di parte ricorrente la quale sostanzialmente pare essersi sviluppata attorno alla circostanza che il ricorrente non poteva considerarsi “clandestino” al momento dello svolgimento del rapporto di lavoro.

A tale riguardo - se non si è male inteso - ha fatto riferimento alla esistenza di un c.d. biglietto di prenotazione rilasciato evidentemente dalla questura di Verona al ricorrente al momento del suo primo accesso presso tale ufficio. Tale biglietto di prenotazione gli avrebbe poi consentito, una volta arrivato il proprio turno, di accedere nuovamente all’ufficio ove materialmente depositare l’istanza di regolarizzazione, cosa che nel caso in esame sarebbe avvenuta in data 18.3.1999.

All’atto di tale deposito veniva rilasciato - sempre secondo tale prospettazione difensiva - un tagliando di ricevuta attestante l’avvenuto deposito della domanda di regolarizzazione con contemporaneo ritiro della c.d. prenotazione per evitare che la stessa potesse essere fraudolentemente utilizzata da altri.

Ritiene questo giudice che di tale situazione di fatto così come esposta dalla difesa del ricorrente non vi sia - con riferimento ovviamente alla c.d. prenotazione - alcun riscontro probatorio in atti non vedendosi come tale situazione di fatto possa emergere dai documenti prodotti e dalle stesse dichiarazioni rese dai legali rappresentanti della società convenuta.

In ordine ai documenti prodotti (v. in particolare modo le sopra ricordate informazioni assunte presso la questura di Verona) emerge solamente che in data 18.3.1999 il ricorrente ha presentato istanza di regolarizzazione ai sensi del d.p.c.m. 16.10.1998 per ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo.

Non vi è in tale informativa il benché minimo riferimento alla procedura della c.d. prenotazione così come esposta dalla difesa del ricorrente.

Né è dato capire come dalle affermazioni dei legali rappresentanti della società convenuta possano desumersi elementi di riscontro a quanto affermato sul punto di fatto in esame dalla difesa del ricorrente.

Non solo ma di tale circostanza di fatto non pare esservi alcun riferimento neppure nelle stesse dichiarazioni del ricorrente il quale, dopo aver riconosciuto che nel mese di febbraio 1999 era presente in maniera non legale sul territorio italiano, ha specificato di essersi recato in data 18.3.1999 alla questura di Verona per presentare domanda volta ad ottenere la regolarizzazione ulteriormente aggiungendo che “durante il periodo oggetto del ricorso mi sono recato solo una volta a Verona il 18.3.1999”, il che sembra integrare affermazioni che di per se stessa smentisce la tesi di un precedente accesso al predetto ufficio nel corso del quale gli venne solo rilasciato un c.d. foglio di prenotazione.

Né pare condivisibile la difesa del ricorrente quando invoca la circolare 25.11.1999 n.78 del Ministero del lavoro e ciò in quanto tale circolare sembra afferire alla instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato come testimoniato dal riferimento alla categoria dei datori di lavori e dei lavoratori immigrati nonché alla richiesta che il datore di lavoro “potrà richiedere alla competente direzione provinciale del lavoro di poter provvedere alla costituzione del rapporto di lavoro, previa esibizione del cedolino comprovante l’avvenuta presentazione della domanda in attesa di esibire, successivamente, il permesso di soggiorno”.

Quanto affermato in tale circolare (che in buona sostanza ha attribuito al c.d. cedolino il carattere di una sorta di permesso di soggiorno temporaneo) pare comunque presupporre la richiesta e l’ottenimento di un permesso di soggiorno per lavoro dipendente. Il che non sembra proprio essere avvenuto nel caso in esame dal momento che il ricorrente in data 18.3.1999 (e quindi dopo che da oltre un mese aveva instaurato sia pure di fatto un rapporto di lavoro subordinato) ha presentato alla questura di Verona richiesta di regolarizzazione “per ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo”.

Né è dato capire come la richiesta ed il successivo rilascio di permesso di soggiorno per lavoro autonomo possano essersi considerati (come finisce con il fare la difesa del ricorrente) del tutto fungibili ed equipollenti alla richiesta ed al rilascio di permesso di soggiorno per lavoro dipendente.

Le spese di lite si ritiene equo compensarle integralmente tra le parti alla luce della indubbia peculiarità della vicenda.

Occorre disporre la trasmissione di copia degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Parma per quanto riterrà di eventuale competenza in ordine alla fattispecie di cui all’art.22 d.lgs. n.286/1998.

P.Q.M.

Il giudice del lavoro di Parma definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza disattesa, così provvede:

a) respinge le domande proposte dal ricorrente;

b) compensa integralmente tra le parti le spese di causa;

c) dispone della trasmissione di copia degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Parma per quanto riterrà di eventuale competenza.

 

 

Commissione Centrale per gli esercenti le professioni sanitarie –

 Ministero della Sanità

decisione 2.4/2.5.2001 n. 78 - rel. Morini

 

straniero in possesso di titolo di studio ottenuto all’estero  – riconoscimento in Italia  - esistenza di norma internazionale di reciprocità  - necessità di previa delibazione secondo la normativa nazionale vigente – insussistenza

straniero in possesso di laurea in odontoiatria – professione di natura sanitaria – rifiuto di iscrizione nel relativo Albo - illegittimità

d.p.r n.221\50;  d.lgs n.286\98; artt.35,41 42, 2,10 co.2, Cost.; art.9 d.lgs. n.233\46; art.16 co.1 preleggi; d.lgs. n.416\89 conv. in l.28.2.90 n.39, art.4 e 10 co.7; accordo di reciprocità Italia-Siria 30.1/28.6 .

 

 

Decisione

Sul ricorso proposto dal dott. Akram Kanawati [¼], avverso la delibera dell’8.4.1997 con cui l’ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della Provincia di Varese ha annullato la sua iscrizione all’albo degli odontoiatri.

Ritenuto

In fatto

Con delibera del 2 aprile 1991, l’ordine di Varese disponeva l’iscrizione all’albo degli odontoiatri del dott. Kanawati, cittadino siriano in possesso di laurea in stomatologia, conseguita presso l’università di Iasi (Romania) ed equiparata dal Ministero della sanità della Siria al diploma di medico dentista.

In data 26.11.1996, l’ordine chiedeva alla F.N.O.M.C..e O. un parere in merito alla legittimità della predetta iscrizione. Con nota del 21.1.1997, la F.N.O.M.C. e O. comunicava che l’iscrizione era da ritenersi non conforme alle norme vigenti, in quanto i diplomi di laurea conseguiti in uno Stato non appartenente alla comunità europea non hanno valore legale in Italia, se non sono debitamente convalidati.

L’ordine decideva pertanto, nell’esercizio del potere di autotutela, di annullare la propria precedente delibera, disponendo di conseguenza la cancellazione del dott. Kanawati dall’albo professionale.

Il provvedimento si fondava sulla inesistenza di un rapporto speciale di reciprocità tra Italia e Siria ai sensi dell’art.9, co.2, del d.lgs. c.p.s. 13 settembre 1946, n.233, non rivestendo tale carattere lo scambio di note italo-siriano del 1958, in quanto privo di norme di esecuzione. Inoltre, l’ente convenuto constatava che il ricorrente era sprovvisto del titolo di abilitazione necessario a mente dell’art.10, co.7, della legge 28 febbraio 1990, n.39, essendo egli in possesso di diploma non riconosciuto ai sensi degli artt.170 del Testo unico e delle leggi sull’istituzione superiore e 49 del R.D. n.1269/38.

Infine, l’ordine riteneva che fosse preminente, rispetto all’interesse del ricorrente alla conservazione della propria posizione professionale ed economico-sociale, l’interesse pubblico a che gli esercenti le professioni sanitarie siano in possesso dei requisiti previsti dalle leggi vigenti in materia di formazione professionale, ivi compresa quella comunitaria.

Con il gravame in epigrafe, il dott. Kanawati impugnava la delibera dell’8.4.1997.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art.9 del d.lgs. c.p.s. n.233/46 e dello scambio di note italo-siriano del 1958, anche in relazione dell’art.10, co.2, della Costituzione, poiché il predetto scambio di note, appartenendo alla categoria dei c.d. trattati internazionali in forma semplificata, rientra nel novero degli accordi previsti dal citato art.9.

Quest’ultimo, infatti, autorizzando il Governo a stipulare accordi speciali di reciprocità, soddisfa la riserva di legge prevista dalla citata norma costituzionale, ratificando implicitamente e in via preventiva gli accordi stessi.

L’ordine avrebbe potuto disporre l’annullamento dell’iscrizione solo in casi di cessazione dello scambio di note italo-siriano, che però è ancora in vigore.

Con il secondo motivo, il dott. Kanawati deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art.9 del d.lgs. c.p.s. n.233/46 in relazione alle norme comunitarie, in quanto la condizione di reciprocità riguarderebbe l’esercizio professionale e non il riconoscimento dei titoli: infatti, acconsentendo all’esercizio della professione medica, gli Stati parti agli accordi di reciprocità riconoscono implicitamente che la formazione dei richiedenti l’iscrizione è adeguata in base agli standard vigenti.

Il riconoscimento del titolo abilitativo, pertanto, sarebbe necessario solo ove mancasse una norma internazionale di reciprocità, quale è l’accordo del 1958.

Con il terzo motivo, il dott. Kanawati deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art.10, co.7, della legge 28 febbraio 1990, n.39, in quanto tale norma derogherebbe all’art.9 del d.lgs. c.p.s. n.233/46, consentendo di superare il requisito della cittadinanza anche in assenza di un accordo di reciprocità, peraltro esistente nel caso di specie.

Con il quarto motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt.11 lett.e), del d.lgs. c.p.s. n.233/46, in quanto la cancellazione dall’albo non potrebbe essere disposta in presenza della medesima situazione sussistente al momento dell’iscrizione.

Con il quinto motivo, il dott. Kanawati deduce l’eccesso di potere, sotto il profilo della mancata valutazione degli interessi coinvolti e delle disparità di trattamento, poiché l’ordine avrebbe omesso di giudicare sulla concretezza ed attualità dell’interesse pubblico ritenuto prevalente.

L’ente convenuto ha prodotto controdeduzioni al ricorso, chiedendone il rigetto.

Quanto al primo motivo, l’ordine sostiene che, essendo lo scambio di note del 1958 privo di norme di esecuzione, incombeva al dott. Kanawati l’onere di dimostrare l’esistenza di una situazione di effettiva reciprocità tra Italia e Siria.

Quanto al secondo motivo, l’ordine precisa che le norme comunitarie erano state invocate a sostegno delle ragioni di interesse pubblico per l’annullamento dell’iscrizione; inoltre, a giudizio dell’ente, l’applicazione dell’art.9 citato presuppone sempre l’esistenza di un diploma di laurea ottenuto o convalidato in Italia.

Quanto al terzo motivo, l’ordine sostiene che la disposizione di cui alla legge n.39/1990 consentirebbe bensì di superare il requisito della cittadinanza, ma non quello del titolo di studio.

Quanto al quarto e quinto motivo, l’ente convenuto rileva come la delibera impugnata non abbia disposto al cancellazione ex art.11, lett.e), bensì l’annullamento di una precedente delibera, nell’osservanza del principio per cui non deve procedersi al ripristino della legalità violata solo se l’atto illegittimo soddisfa un interesse pubblico.

Nella seduta del 12 dicembre 1997, la Commissione centrale riteneva necessario, ai fini della decisione sul gravame, verificare, tramite i competenti uffici del Ministero della sanità, l’effettiva vigenza in Italia del citato scambio di note, nonché la eventuale sussistenza delle condizioni per ritenere valido il titolo posseduto dal ricorrente (diploma di laurea in medicina con specializzazione in stomatologia, conseguito in Romania e riconosciuto dal Ministero della sanità della Siria).

All’ordinanza istruttoria veniva dato seguito con nota del 19 maggio 1998 del Dipartimento per le professioni sanitarie del Ministero della sanità, nella quale si afferma che l’iscrizione del dott. Kanawati all’albo degli odontoiatri non è conforme alle norme vigenti in materia.

Il ricorso veniva nuovamente esaminato nell’udienza dell’1 ottobre 1998. La commissione centrale rilevava che, in un ricorso analogo a quello ora in esame, la difesa del ricorrente aveva messo in rilievo la posizione assunta dal Ministero degli affari esteri con un parere relativo all’istanza di iscrizione di un cittadino egiziano, in base al quale lo scambio di note italo-egiziano del 9 aprile del 1951 (tutto simile all’analogo accordo italo-siriano del 1958) era da ritenersi estensibile all’esercizio della professione di odontoiatra.

In considerazione della specifica competenza del Ministero degli affari esteri in materia di accertamento delle condizioni di reciprocità nei trattamenti dei cittadini italiani all’estero e dei cittadini stranieri in Italia previsti dagli accordi di reciprocità ex art.9 d.lgs. c.p.s. n.233/46, la commissione centrale riteneva opportuno sospendere ogni pronunzia in merito, al fine di conoscere le valutazioni del Ministero della sanità alla luce dell’orientamento assunto dal predetto dicastero.

Nelle more dell’istruttoria, è pervenuta alla segreteria della commissione la sentenza 19 giugno 2000, n.15078, con la quale la Suprema Corte di cassazione - sez.3 civile ha annullato la decisione della commissione centrale n.229/1997, con cui veniva respinto il ricorso di altro cittadino siriano avverso il diniego di iscrizione all’albo degli odontoiatri. Considerato

In diritto

Preliminarmente, la commissione centrale rileva che, dalla attività istruttoria espletata in relazione al gravame in epigrafe, emerge quanto segue.

Lo scambio di note tra Italia ed Egitto del 9 aprile 1951, nonché tra Italia e Repubblica Araba Unita - R.A.U., stipulato a Damasco il 30 gennaio 1958 per la provincia siriana (ora Repubblica Araba Siriana), costituisce un trattato internazionale in forma semplificata, tuttora riconosciuto valido ed efficace dal Ministero degli affari esteri.

Detto trattato internazionale rientra nel novero degli accordi previsti dall’art.9, co.2, del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n.233, in base al quale è ammessa l’iscrizione all’albo professionale degli stranieri che abbiano conseguito il titolo di abitazione in Italia o all’estero e che siano cittadini di uno Stato con cui il Governo italiano ha stipulato, sulla base della reciprocità, un accordo speciale che consenta loro l’esercizio della professione sul territorio nazionale.

Inoltre, il ripetuto trattato internazionale è da ritenersi applicabile alla professione medica intesa sulla base degli ordinamenti professionali vigenti all’epoca della sua stipulazione, comprensiva quindi sia della professione di medico chirurgo che della professione di odontoiatra. La perdurante applicabilità dell’accordo in parola non è stata posta in discussione dalla sopravvenuta normativa comunitaria, segnatamente dalle direttive del Consiglio CEE n.78/686 e n.78/687, come affermato dalla Corte di giustizia delle Comunità europee con la sentenza del 9 febbraio 1994 - cause C-319/92 e C-154/93, dove si legge che “il riconoscimento di titoli conseguiti negli Stati extracomunitari non è affatto escluso, ma appartiene a sistema diverso da quello comunitario”.

Il diritto comunitario, quindi, prevede che gli Stati membri ben possano concludere accordi con Stati terzi per consentire l’esercizio della professione anche a chi non sia in possesso della formazione professionale definita su base comunitaria.

Quanto al decreto-legge 30 dicembre 1989, n.416, convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1990, n.39 (c.d. “legge Martelli”), recante disposizioni in materia di asilo politico, ingresso e soggiorno di cittadini extracomunitari, esso nulla dispone in ordine a convenzioni internazionali stipulate ex art.9, co.2, del d.lgs. c.p.s. n.233/1946, che restano salve, sicché non è dato trarre da una normativa di favore conseguenze negative per quegli stranieri che già godevano di un trattamento più favorevole in base ad una convenzione internazionale bilaterale fondata sulla condizione di reciprocità.

Le stesse considerazioni, come rilevato dalla Suprema Corte di cassazione con la sentenza n.15078/2000, richiamata in premessa, si attagliano alla sopravvenuta “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, introdotta con la legge n.40 del 1998 e in seguito recepita nel Testo unico approvato con d.lgs. 25 luglio 1998, n.286.

La citata sentenza ha cassato senza rinvio la decisione n.229/1997 di questa commissione centrale, che confermava il diniego di iscrizione all’albo degli odontoiatri di un cittadino siriano, il quale aveva conseguito in Siria il titolo di dottore in odontoiatria presso l’università di Aleppo, nonché l’abilitazione professionale. [].

Premesso quanto sopra esposto, questa commissione centrale ritiene di dover adeguare il proprio orientamento in materia ai principi dinanzi stabiliti, con ampia ed esauriente motivazione, sulla Suprema Corte di cassazione.

P.Q.M.

la commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie accoglie il gravame e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato.